Corriere La Lettura 16.9.18
Ora il pensiero debole è diventato riluttante
Pier
Aldo Rovatti, protagonista con Vattimo della svolta di inizio anni
Ottanta, propone un modello di impegno critico che si colloca nelle
istituzioni e nella storia. E per questo ricorda Croce
di Giancristiano Desiderio
Domanda
delle cento pistole: qual è il compito dell’intellettuale? Riluttare.
Prego? Sì, proprio così: l’intellettuale deve essere riluttante e,
quindi, dubitare, criticare, sfidare, resistere e, per dirla con
Giuseppe Prezzolini, essere anche apota, ossia non bersela, mettere alla
prova anche sé stesso e svolgere un lavoro ai fianchi di un’epoca o di
una cultura che facilmente innescano dispositivi di potere che il
consenso e il conformismo naturalmente non arginano, ma alimentano e
consolidano. A delineare il profilo di chi e come rilutta è Pier Aldo
Rovatti con il libro L’intellettuale riluttante (Elèuthera). Perché, in
fondo, quanti tipi di intellettuale ci sono? Alla buona, possiamo
distinguerne più o meno tre: l’universale, l’organico, il tecnico.
Il
primo parlava a nome dell’umanità ed è morto e sepolto. Il secondo è
colui che, credendo di parlare in nome della verità, la sposò con il
potere e nel segno della sacra unione giustificò disastri. Il terzo non è
organico, ma integrato, ed è una sorta di amministratore delegato nei
vari settori in cui è competente. Quest’ultimo tipo di intellettuale è
l’unico esistente e in buona salute, ma ha un difetto: è competente come
un sociologo o un ingegnere o un cuoco o anche un politico, ma è
inconsapevole dei limiti della sua competenza.
È qui che entra in
scena l’intellettuale riluttante che, appunto, oppone, smussa, limita,
si mette in gioco nel tentativo ironico e serio di indebolire le
strutture di potere, dall’economia alla politica allo stesso sapere, per
recuperare respiro e libertà. Nel «conformismo dilagante — dice Rovatti
— propongo di adottare la parola “riluttante” per caratterizzare il
tipo di intellettuale critico e autocritico che sta venendo a mancare e
di cui avremmo, invece, un gran bisogno». L’intellettuale riluttante è
senza pretese, sa soprattutto che non c’è più, per fortuna, «un’onda
collettiva» sulla quale contare, puntare e in nome della quale parlare e
ha imparato dai suoi stessi errori che il bene più prezioso del suo
lavoro è la critica che dovrà esercitare anche su di sé. Un’opera
preziosa perché a volte l’«onda collettiva» ritorna, anche se non ha più
il suo bugiardo metafisico a darle voce, ma un più modesto capo-popolo.
Non
si può discutere di e con Pier Aldo Rovatti senza ricordare che con
Gianni Vattimo diede vita nel 1983 al «pensiero debole». Ora, il
«pensiero riluttante» viene a rimpiazzare il «pensiero debole»? No,
piuttosto il «pensiero riluttante» è la pratica di quella critica della
ragione metafisica che fu la «ontologia dell’attualità» di Vattimo e
Rovatti. Infatti che cos’è il cosiddetto «pensiero debole»? È
l’esaurimento della metafisica o la presa d’atto che l’essere — cioè la
vita, la storia, ciò che crediamo di essere — non corrisponde in modo
univoco ad una struttura razionale e quando, invece, ciò accade, nasce
o, nel migliore dei casi, la società dell’organizzazione totale come
Tempi moderni di Charlie Chaplin o, nel peggiore, il totalitarismo come
Il grande dittatore, ancora Chaplin. Ma perché questa interpretazione,
che è bella «forte», viene detta «debole»? Perché, appunto, è
un’interpretazione e non una teoria o verità descrittiva assoluta. Il
pensiero debole — finalmente lasciamo cadere le virgolette — altro non è
che un pensiero storico e quella che è passata alla storia come
«sinistra heideggeriana» è una filosofia di Hegel senza sapere assoluto.
Non
diceva, forse, Hans-Georg Gadamer che la dialettica hegeliana andava
ripresa nell’ermeneutica? E allora potremmo dire, senza scandalo per
nessuno, che il pensiero debole è mezzo parente dello storicismo
crociano. In fondo, l’apparente debolezza di Vattimo e Rovatti è tutta
in questo gesto o aneddoto: un giorno a Michel Foucault, che discorreva
della struttura, dissero: «Scusa, ma tu da dove parli?». Ecco, le verità
del pensiero debole possono essere argomentate solo storicamente,
giacché gli enunciati sono parte della storia o della condizione umana e
saltarne fuori è impossibile come distaccarsi dalla propria ombra.
Così
è per l’intellettuale riluttante che non parla da un pulpito, da una
cattedra, da uno scranno, da un piedistallo, non è al di sopra delle
cose, ma dentro le cose e proprio così può pensare e criticare,
resistere e dubitare, scalfire e argomentare e, insomma, riluttare. A
questo punto la battuta è a portata di mano e tocca farla: rilutto,
dunque sono. Sennonché ciò che viene a dire Rovatti è proprio che il
pensiero non è una battuta, ma un esercizio faticoso in cui tocca
resistere alla tentazione della rassegnazione o del congedo o del
convento o della torre d’avorio in cui si sta tranquilli e sicuri ma
perdenti; mentre chi rilutta sente che «la propria battaglia è quella di
stare nelle istituzioni, scomode e perfino orribili che siano, e lì
resistere, opporsi, dire no, “riluttare” anche al suo stesso ruolo e
alle sue eventuali competenze privilegiate».
Questa resistenza
riluttante, che altro non è che la palestra in cui si impara ad
allenarsi il giudizio senza il quale non si è esseri pensanti ossia
giudiziosi, la si può praticare ovunque, tanto in pubblico quanto in
privato, tanto al lavoro quanto in famiglia, la possono esercitare gli
insegnanti a scuola, i medici in ospedale, gli amministratori in
municipio. Tuttavia, la caratterizzazione di «riluttante» non è di
Rovatti bensì — e lui con onestà lo riconosce — dello psichiatra Piero
Cipriano e nasce in ambito sanitario come cura che rilutta, recalcitra,
si oppone o più modestamente e con giudizio mette in gioco i
«trattamenti obbligatori» e tutte le pratiche e le conseguenze che ci
possono essere in un ambiente dalle «porte chiuse».
Rovatti estende
la «riluttanza» dalla cura all’intelletto, dalla medicina alla filosofia
o ad una condizione culturale «che dovremmo impegnarci tutti a
costruire». In gioco vi è nientemeno che il «problema della verità».
Giacché l’ultimo passo dell’intellettuale o, forse, il primo è quello di
sapere che il suo stesso sapere non è del tutto affidabile e il più
delle volte, quando ci si rifugia nel sapere allontanando la lotta che
infuria là fuori nel mondo, ci si sta comodamente difendendo
«immaginando che tra il vero e il falso passi una netta linea divisoria,
mentre risulta patente il contrario, e cioè che questo confine è
fragile, vi avvengono continui movimenti di entrata e di uscita, e noi
siamo proprio lì, completamente esposti».
È la fotografia della
contemporaneità, una condizione come quella del mito di Sisifo, che deve
ricominciare sempre da capo la stessa fatica. Ma se solo abbassiamo la
guardia e tiriamo i remi in barca, o per rassegnazione o per
convinzione, perdiamo il bene dell’intelletto più che il bene
dell’intellettuale: lo spirito critico. Altro da fare non c’è che
riluttare.
Pier Aldo Rovatti, L’intellettuale riluttante Eleuthera, pagine 175, e. 15