Corriere La Lettura 16.9.18
La solitudine è un’epidemia
Neuroscienze.
La mancanzadi relazioni, aggravata e non curata dai social network, è
contagiosa e fa aumentare patologie che vanno dal raffreddore
all’infarto: l’allerta diManfred Spitzer in un libro
Il corpo e la psiche. L’isolamento attiva nel cervello aree nervose che ci fnno provare dolore. Sono le stesse del dolore fisico
di Luigi Ripamonti
Viviamo
perennemente connessi ma ci sentiamo sempre più soli. E la solitudine è
una malattia vera e propria, epidemica, con un portato complessivo che
travalica il non-vissuto individuale per insediarsi a un livello di
decostruzione sociale, culturale ed economica.
La tesi di Manfred
Spitzer in Connessi e isolati (Corbaccio) può apparire estremista ma è
supportata da un robusto corpo di dati scientifici. A partire da quelli
che demoliscono l’illusione che i social network possano essere una
panacea contro la percezione di isolamento: casomai è il contrario.
L’autore argomenta con numerosi, solidi, studi quanto l’uso di Facebook
conduca a un livello più basso di soddisfazione nella vita. «I social
media stanno ai rapporti interpersonali reali come i popcorn stanno alla
sana alimentazione: ci si aspetta di provare gioia tra amici, e ciò che
si ottiene in verità è solo aria fritta», argomenta Spitzer.
Perché
allora così tante persone accedono al loro account e occupano il tempo
con un’attività che loro stesse (se glielo si chiede) descrivono come
inutile? Perché spesso non sanno cosa fa loro bene e cosa li rende
felici, spiega l’autore. «Credono che staranno meglio quando si saranno
loggate in un social network, in verità stanno peggio. In particolare, e
contro ogni aspettativa, i social network ci rendono più soli». Insomma
ci fanno «stare male», proprio perché ci fanno sentire soli. La ragione
e il problema albergano entrambi nell’evoluzione.
L’uomo è un
animale sociale, la nostra specie ha potuto fare quello che ha fatto
grazie soprattutto alla capacità di cooperare. Il gruppo, nelle sue
varie declinazioni, è il cardine per lo sviluppo e il progresso, ma lo è
anche per la sopravvivenza del singolo. Ciascuno di noi lo sa bene,
seppure inconsciamente, tant’è vero che la sensazione di solitudine
attiva nel nostro cervello precise aree nervose (la corteccia cingolata
anteriore e la corteccia prefrontale ventrale destra) che ci fanno
«provare dolore» proprio per indurci a porvi rimedio, e quindi a
sopravvivere.
A questo punto potrà non sorprendere troppo constatare
che le stesse aree cerebrali vengono attivate anche dal dolore fisico, e
il motivo è lo stesso. Il dolore è un meccanismo protettivo,
selezionato dall’evoluzione per proteggerci: se non avvertissimo dolore
non leveremmo la mano dal fuoco e quindi la perderemmo, analogamente se
non provassimo «dolore» nel sentirci soli, isolati, esclusi, non
tenteremmo di stabilire relazioni e quindi metteremmo a rischio la
nostra sopravvivenza e, estendendo il comportamento, anche quella della
specie.
Da qui alle conseguenze collettive di una solitudine diffusa e
in crescita il passo concettuale è breve. Le società si sviluppano
grazie a una patto fondamentale di fiducia, che si nutre di rapporti.
Quando la maggior parte delle nostre attività, dal comprare qualcosa, a
informarci, a orientarsi in una città, si svolgono senza bisogno di
interagire con qualcuno di persona, si verifica una progressiva
depauperazione del patrimonio di fiducia reciproca che è il mattone su
cui è edificato il sociale e anche l’economico.
Le premesse e le
conseguenze si alimentano in un circolo vizioso, in cui a essere inizio e
fine è l’individualismo che sfocia nel narcisismo. L’analisi di Spitzer
in questo senso si concentra soprattutto sulla generazione dei
millennial, che incarnano, inevitabilmente, questa tendenza e per i
quali è stata coniata la definizione «Generation look at me».
Ma il
problema non è l’abbondanza di selfie, quanto il ripiegamento su di sé
che questa simboleggia, sia in termini di salute individuale sia del
tessuto sociale.
A ciò dà il proprio contributo anche la televisione,
fornendo modelli che incoraggiano all’egocentrismo, con una
programmazione che va in una precisa direzione. Talk show e reality show
mettono sempre a fuoco lo stesso punto: distinguersi, essere il
migliore, il più bello, il più pazzo o il più repellente, e diventare
famoso per questo. E talora anche l’educazione dei genitori contribuisce
alla tendenza con uno stile educativo indulgente: qualsiasi cosa
facciano i loro figli, sono sempre «i migliori». Il risultato di tutto
ciò è stato scientificamente studiato: «Giovani adulti narcisisti, poco
interessati al benessere degli altri, che senza alcun impegno
particolare credono di essere destinati a un lavoro di prima classe e a
diventare ricchi per poter vivere nelle migliori condizioni possibili».
Una
società sempre più individualista ed egoista è non soltanto indirizzata
a una maggiore infelicità ma anche a una crescente fragilità
strutturale. In qualche modo estrema espressione e conseguenze dell’Homo
homini lupus di Hobbes.
Che fare allora? La proposta di Spitzer
sarebbe rivoluzionaria se fosse inedita: rivalutare il «dare» a scapito
del prendere. L’autore, però, anche qui, non è ideologico e chiama a
raccolta un numero consistente di studi che corroborano l’ipotesi che
l’uomo sia meno oeconomicus di quanto non si dica di solito. Diversi
esperimenti dimostrano che, se non provocate, le persone non tendono a
prevaricare gli altri ma ad avere comportamenti corretti e che la
felicità sia maggiore, e misurabile, quando si compiono gesti, anche
molto piccoli, di generosità.
Cioè il contrario della direzione
indicata dai social network, e non solo, che promuovono la massima
espressione dell’homo oeconomicus nella sua versione più individualista,
autoreferenziale, selfie: valorizzazione massima del sé, con narcisismo
e inevitabile isolamento sociale (la storia di Narciso insegna).
Diventare
consapevoli del problema e provare a reagire ha come premio immediato
un maggior benessere anche individuale, perché le prove scientifiche che
lo stress cronico sia latore di malattie sono tantissime e le ricerche
dimostrano che la solitudine è un potente motivo di stress cronico, da
cui l’aumento di patologie che porta con sé, dal raffreddore,
all’infarto, all’ictus, fino al cancro, diventando, di fatto, la prima
causa di morte nel mondo occidentale secondo dati che l’autore non
lesina.
E quanto la solitudine, o, per essere più precisi, la sua
percezione, sia fondante per la salute lo provano diverse indagini che
hanno dimostrato come la mancanza di affetto e accudimento nelle prime
fasi della vita abbia conseguenze oggettive sulla capacità della
gestione dello stress nel corso di tutta la vita. Bambini poco
accarezzati, abbracciati, amati nella prima infanzia mostrano
alterazioni recettoriali per gli ormoni legati allo stress a livello
cerebrale. Motivo per cui la solitudine può essere letta come una
condizione con ricadute epigenetiche, perché possiede la capacità di
condizionare l’espressione dei nostri geni.