Il Fatto 16.9.18
“La rivoluzione sulla Carta inizia riconoscendo i diritti sociali”
Prima di partecipare alla Costituente, Calamandrei licenziò uno scritto sull’equità, “premessa indispensabile per assicurare a tutti i cittadini le libertà politiche”
di Piero Calamandrei
Tra il 1945 e il 1946, poco prima di partecipare ai lavori della Costituente, Piero Calamandrei scrisse la prefazione a un saggio di Francesco Ruffini (circolato clandestinamente durante il fascismo), in cui si interrogava su libertà, giustizia ed equità sociale. Anticipiamo qui uno stralcio de “L’avvenire dei diritti di libertà”, che torna in libreria da lunedì con l’introduzione di Enzo Di Salvatore.
Mentre i tradizionali diritti di libertà hanno carattere negativo, in quanto a essi corrisponde l’obbligo dello Stato di non ostacolare l’esercizio di certe attività individuali, i diritti sociali hanno carattere positivo, in quanto a essi corrisponde l’obbligo dello Stato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana. Coi primi si mira a salvaguardare la libertà del cittadino dalla oppressione politica; coi secondi si mira a salvaguardarla dalla oppressione economica. Il fine è lo stesso, cioè la difesa della libertà individuale, ma i mezzi sono diversi: mentre per soddisfare i diritti sociali lo Stato deve adoprarsi attivamente per distruggere il privilegio economico e per aiutare il bisognoso a liberarsi dal bisogno, il compito dello Stato a difesa della libertà non si racchiude più nella comoda inerzia del laissez faire, ma implica una presa di posizione nel campo economico ed una serie di prestazioni attive nella lotta contro la miseria e contro l’ignoranza.
Libertà di pensiero o di parola vuol dire diritto del cittadino a che lo Stato non lo perseguiti per le sue opinioni e non lo ostacoli nella pubblica manifestazione di esse; libertà dal bisogno vuol dire diritto del cittadino a che lo Stato concorra a fornirgli i mezzi per lavorare e per assicurargli una vita non bestiale ma umana. Senza l’accompagnamento dei diritti sociali le tradizionali libertà politiche possono diventare in realtà strumento di oppressione di una minoranza a danno della maggioranza: sicché si può dire in conclusione che i diritti sociali costituiscono la premessa indispensabile per assicurare a tutti i cittadini il godimento effettivo delle libertà politiche.
I diritti di libertà nel senso tradizionale costituiscono, per il solo fatto di trovarsi iscritti nella Costituzione, un impegno immediato dello Stato di astenersi dal compiere atti che possano turbare, in modo non consentito dalle leggi, quelle libertà: sono diritti già perfetti ed attuabili che lo Stato, purché voglia, può immediatamente rispettare e soddisfare senza fatica e senza spesa, dato che per rispettarli e soddisfarli le autorità pubbliche non devono far altro che mantenere una posizione di non intervento e di inerzia che non costa nulla. Ma lo stesso non si può dire per i diritti sociali: i quali, poiché ad essi corrisponde da parte dello Stato un obbligo positivo di fare e di dare, pongono allo Stato, per la loro soddisfazione, una serie di esigenze pratiche che non possono essere soddisfatte se non disponendo di mezzi adeguati, conseguibili soltanto a prezzo di profonde trasformazioni dei rapporti sociali basati sull’economia liberale. Quando si pone nelle Costituzioni, fra i diritti sociali, il diritto al lavoro o il diritto all’istruzione gratuita fino alle università per i meritevoli non abbienti, è chiaro che in questo modo si pongono per lo Stato formidabili compiti che non possono essere adempiuti coll’inerzia e coll’astensione. E il vero problema politico, allora, non è quello di riuscire ad inserire nella Costituzione la enunciazione di questi diritti, ma è quello di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli e per evitare che essi rimangano come vuota formula teorica scritta sulla carta, ma non traducibile nella realtà.
Questa è la ragione per la quale i diritti sociali che si leggono in molte delle Costituzioni apparentemente democratiche uscite dalla prima guerra mondiale sono rimasti nella realtà allo stato di vaghi indirizzi programmatici e di promesse affidate all’incerto avvenire. Il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza contro la vecchiaia e contro la malattia, il diritto all’istruzione gratuita sono stati affermati come lontane mete ideali non ancora raggiunte: la miseria se pure attenuata è rimasta, la disoccupazione se pur fronteggiata è rimasta, il privilegio dell’istruzione è rimasto.
La proclamazione dei diritti “sociali” nella Carta costituzionale rimarrà lettera morta se ad essi non corrisponderà una trasformazione effettiva della struttura economica della società, ossia una rivoluzione sociale che fornisca allo Stato i mezzi per soddisfarli. Quando si è affermato nella Costituzione che tutti i cittadini hanno diritto al voto, non c’è altro da fare: il diritto al voto entra senz’altro nel meccanismo costituzionale ed è senz’altro una realtà politica; ma se nella Costituzione si scrive che tutti i cittadini hanno diritto al pane, questa non è ancora una realtà politica, fino a che non si è modificata la struttura economica che finora ha consentito ai privilegiati la libertà di accumulare ricchezze e ai diseredati la libertà di morire di fame.
Per questo l’apparizione dei diritti sociali nelle Costituzioni è, più che il punto d’arrivo di una rivoluzione già compiuta, il punto di partenza di una rivoluzione (o di una evoluzione) che si mette in cammino.
Corriere La Lettura 16.9.18
Ora il pensiero debole è diventato riluttante
Pier
Aldo Rovatti, protagonista con Vattimo della svolta di inizio anni
Ottanta, propone un modello di impegno critico che si colloca nelle
istituzioni e nella storia. E per questo ricorda Croce
di Giancristiano Desiderio
Domanda
delle cento pistole: qual è il compito dell’intellettuale? Riluttare.
Prego? Sì, proprio così: l’intellettuale deve essere riluttante e,
quindi, dubitare, criticare, sfidare, resistere e, per dirla con
Giuseppe Prezzolini, essere anche apota, ossia non bersela, mettere alla
prova anche sé stesso e svolgere un lavoro ai fianchi di un’epoca o di
una cultura che facilmente innescano dispositivi di potere che il
consenso e il conformismo naturalmente non arginano, ma alimentano e
consolidano. A delineare il profilo di chi e come rilutta è Pier Aldo
Rovatti con il libro L’intellettuale riluttante (Elèuthera). Perché, in
fondo, quanti tipi di intellettuale ci sono? Alla buona, possiamo
distinguerne più o meno tre: l’universale, l’organico, il tecnico.
Il
primo parlava a nome dell’umanità ed è morto e sepolto. Il secondo è
colui che, credendo di parlare in nome della verità, la sposò con il
potere e nel segno della sacra unione giustificò disastri. Il terzo non è
organico, ma integrato, ed è una sorta di amministratore delegato nei
vari settori in cui è competente. Quest’ultimo tipo di intellettuale è
l’unico esistente e in buona salute, ma ha un difetto: è competente come
un sociologo o un ingegnere o un cuoco o anche un politico, ma è
inconsapevole dei limiti della sua competenza.
È qui che entra in
scena l’intellettuale riluttante che, appunto, oppone, smussa, limita,
si mette in gioco nel tentativo ironico e serio di indebolire le
strutture di potere, dall’economia alla politica allo stesso sapere, per
recuperare respiro e libertà. Nel «conformismo dilagante — dice Rovatti
— propongo di adottare la parola “riluttante” per caratterizzare il
tipo di intellettuale critico e autocritico che sta venendo a mancare e
di cui avremmo, invece, un gran bisogno». L’intellettuale riluttante è
senza pretese, sa soprattutto che non c’è più, per fortuna, «un’onda
collettiva» sulla quale contare, puntare e in nome della quale parlare e
ha imparato dai suoi stessi errori che il bene più prezioso del suo
lavoro è la critica che dovrà esercitare anche su di sé. Un’opera
preziosa perché a volte l’«onda collettiva» ritorna, anche se non ha più
il suo bugiardo metafisico a darle voce, ma un più modesto capo-popolo.
Non
si può discutere di e con Pier Aldo Rovatti senza ricordare che con
Gianni Vattimo diede vita nel 1983 al «pensiero debole». Ora, il
«pensiero riluttante» viene a rimpiazzare il «pensiero debole»? No,
piuttosto il «pensiero riluttante» è la pratica di quella critica della
ragione metafisica che fu la «ontologia dell’attualità» di Vattimo e
Rovatti. Infatti che cos’è il cosiddetto «pensiero debole»? È
l’esaurimento della metafisica o la presa d’atto che l’essere — cioè la
vita, la storia, ciò che crediamo di essere — non corrisponde in modo
univoco ad una struttura razionale e quando, invece, ciò accade, nasce
o, nel migliore dei casi, la società dell’organizzazione totale come
Tempi moderni di Charlie Chaplin o, nel peggiore, il totalitarismo come
Il grande dittatore, ancora Chaplin. Ma perché questa interpretazione,
che è bella «forte», viene detta «debole»? Perché, appunto, è
un’interpretazione e non una teoria o verità descrittiva assoluta. Il
pensiero debole — finalmente lasciamo cadere le virgolette — altro non è
che un pensiero storico e quella che è passata alla storia come
«sinistra heideggeriana» è una filosofia di Hegel senza sapere assoluto.
Non
diceva, forse, Hans-Georg Gadamer che la dialettica hegeliana andava
ripresa nell’ermeneutica? E allora potremmo dire, senza scandalo per
nessuno, che il pensiero debole è mezzo parente dello storicismo
crociano. In fondo, l’apparente debolezza di Vattimo e Rovatti è tutta
in questo gesto o aneddoto: un giorno a Michel Foucault, che discorreva
della struttura, dissero: «Scusa, ma tu da dove parli?». Ecco, le verità
del pensiero debole possono essere argomentate solo storicamente,
giacché gli enunciati sono parte della storia o della condizione umana e
saltarne fuori è impossibile come distaccarsi dalla propria ombra.
Così
è per l’intellettuale riluttante che non parla da un pulpito, da una
cattedra, da uno scranno, da un piedistallo, non è al di sopra delle
cose, ma dentro le cose e proprio così può pensare e criticare,
resistere e dubitare, scalfire e argomentare e, insomma, riluttare. A
questo punto la battuta è a portata di mano e tocca farla: rilutto,
dunque sono. Sennonché ciò che viene a dire Rovatti è proprio che il
pensiero non è una battuta, ma un esercizio faticoso in cui tocca
resistere alla tentazione della rassegnazione o del congedo o del
convento o della torre d’avorio in cui si sta tranquilli e sicuri ma
perdenti; mentre chi rilutta sente che «la propria battaglia è quella di
stare nelle istituzioni, scomode e perfino orribili che siano, e lì
resistere, opporsi, dire no, “riluttare” anche al suo stesso ruolo e
alle sue eventuali competenze privilegiate».
Questa resistenza
riluttante, che altro non è che la palestra in cui si impara ad
allenarsi il giudizio senza il quale non si è esseri pensanti ossia
giudiziosi, la si può praticare ovunque, tanto in pubblico quanto in
privato, tanto al lavoro quanto in famiglia, la possono esercitare gli
insegnanti a scuola, i medici in ospedale, gli amministratori in
municipio. Tuttavia, la caratterizzazione di «riluttante» non è di
Rovatti bensì — e lui con onestà lo riconosce — dello psichiatra Piero
Cipriano e nasce in ambito sanitario come cura che rilutta, recalcitra,
si oppone o più modestamente e con giudizio mette in gioco i
«trattamenti obbligatori» e tutte le pratiche e le conseguenze che ci
possono essere in un ambiente dalle «porte chiuse».
Rovatti estende
la «riluttanza» dalla cura all’intelletto, dalla medicina alla filosofia
o ad una condizione culturale «che dovremmo impegnarci tutti a
costruire». In gioco vi è nientemeno che il «problema della verità».
Giacché l’ultimo passo dell’intellettuale o, forse, il primo è quello di
sapere che il suo stesso sapere non è del tutto affidabile e il più
delle volte, quando ci si rifugia nel sapere allontanando la lotta che
infuria là fuori nel mondo, ci si sta comodamente difendendo
«immaginando che tra il vero e il falso passi una netta linea divisoria,
mentre risulta patente il contrario, e cioè che questo confine è
fragile, vi avvengono continui movimenti di entrata e di uscita, e noi
siamo proprio lì, completamente esposti».
È la fotografia della
contemporaneità, una condizione come quella del mito di Sisifo, che deve
ricominciare sempre da capo la stessa fatica. Ma se solo abbassiamo la
guardia e tiriamo i remi in barca, o per rassegnazione o per
convinzione, perdiamo il bene dell’intelletto più che il bene
dell’intellettuale: lo spirito critico. Altro da fare non c’è che
riluttare.
Pier Aldo Rovatti, L’intellettuale riluttante Eleuthera, pagine 175, e. 15
Corriere La Lettura 16.9.18
La solitudine è un’epidemia
Neuroscienze.
La mancanzadi relazioni, aggravata e non curata dai social network, è
contagiosa e fa aumentare patologie che vanno dal raffreddore
all’infarto: l’allerta diManfred Spitzer in un libro
Il corpo e la psiche. L’isolamento attiva nel cervello aree nervose che ci fnno provare dolore. Sono le stesse del dolore fisico
di Luigi Ripamonti
Viviamo
perennemente connessi ma ci sentiamo sempre più soli. E la solitudine è
una malattia vera e propria, epidemica, con un portato complessivo che
travalica il non-vissuto individuale per insediarsi a un livello di
decostruzione sociale, culturale ed economica.
La tesi di Manfred
Spitzer in Connessi e isolati (Corbaccio) può apparire estremista ma è
supportata da un robusto corpo di dati scientifici. A partire da quelli
che demoliscono l’illusione che i social network possano essere una
panacea contro la percezione di isolamento: casomai è il contrario.
L’autore argomenta con numerosi, solidi, studi quanto l’uso di Facebook
conduca a un livello più basso di soddisfazione nella vita. «I social
media stanno ai rapporti interpersonali reali come i popcorn stanno alla
sana alimentazione: ci si aspetta di provare gioia tra amici, e ciò che
si ottiene in verità è solo aria fritta», argomenta Spitzer.
Perché
allora così tante persone accedono al loro account e occupano il tempo
con un’attività che loro stesse (se glielo si chiede) descrivono come
inutile? Perché spesso non sanno cosa fa loro bene e cosa li rende
felici, spiega l’autore. «Credono che staranno meglio quando si saranno
loggate in un social network, in verità stanno peggio. In particolare, e
contro ogni aspettativa, i social network ci rendono più soli». Insomma
ci fanno «stare male», proprio perché ci fanno sentire soli. La ragione
e il problema albergano entrambi nell’evoluzione.
L’uomo è un
animale sociale, la nostra specie ha potuto fare quello che ha fatto
grazie soprattutto alla capacità di cooperare. Il gruppo, nelle sue
varie declinazioni, è il cardine per lo sviluppo e il progresso, ma lo è
anche per la sopravvivenza del singolo. Ciascuno di noi lo sa bene,
seppure inconsciamente, tant’è vero che la sensazione di solitudine
attiva nel nostro cervello precise aree nervose (la corteccia cingolata
anteriore e la corteccia prefrontale ventrale destra) che ci fanno
«provare dolore» proprio per indurci a porvi rimedio, e quindi a
sopravvivere.
A questo punto potrà non sorprendere troppo constatare
che le stesse aree cerebrali vengono attivate anche dal dolore fisico, e
il motivo è lo stesso. Il dolore è un meccanismo protettivo,
selezionato dall’evoluzione per proteggerci: se non avvertissimo dolore
non leveremmo la mano dal fuoco e quindi la perderemmo, analogamente se
non provassimo «dolore» nel sentirci soli, isolati, esclusi, non
tenteremmo di stabilire relazioni e quindi metteremmo a rischio la
nostra sopravvivenza e, estendendo il comportamento, anche quella della
specie.
Da qui alle conseguenze collettive di una solitudine diffusa e
in crescita il passo concettuale è breve. Le società si sviluppano
grazie a una patto fondamentale di fiducia, che si nutre di rapporti.
Quando la maggior parte delle nostre attività, dal comprare qualcosa, a
informarci, a orientarsi in una città, si svolgono senza bisogno di
interagire con qualcuno di persona, si verifica una progressiva
depauperazione del patrimonio di fiducia reciproca che è il mattone su
cui è edificato il sociale e anche l’economico.
Le premesse e le
conseguenze si alimentano in un circolo vizioso, in cui a essere inizio e
fine è l’individualismo che sfocia nel narcisismo. L’analisi di Spitzer
in questo senso si concentra soprattutto sulla generazione dei
millennial, che incarnano, inevitabilmente, questa tendenza e per i
quali è stata coniata la definizione «Generation look at me».
Ma il
problema non è l’abbondanza di selfie, quanto il ripiegamento su di sé
che questa simboleggia, sia in termini di salute individuale sia del
tessuto sociale.
A ciò dà il proprio contributo anche la televisione,
fornendo modelli che incoraggiano all’egocentrismo, con una
programmazione che va in una precisa direzione. Talk show e reality show
mettono sempre a fuoco lo stesso punto: distinguersi, essere il
migliore, il più bello, il più pazzo o il più repellente, e diventare
famoso per questo. E talora anche l’educazione dei genitori contribuisce
alla tendenza con uno stile educativo indulgente: qualsiasi cosa
facciano i loro figli, sono sempre «i migliori». Il risultato di tutto
ciò è stato scientificamente studiato: «Giovani adulti narcisisti, poco
interessati al benessere degli altri, che senza alcun impegno
particolare credono di essere destinati a un lavoro di prima classe e a
diventare ricchi per poter vivere nelle migliori condizioni possibili».
Una
società sempre più individualista ed egoista è non soltanto indirizzata
a una maggiore infelicità ma anche a una crescente fragilità
strutturale. In qualche modo estrema espressione e conseguenze dell’Homo
homini lupus di Hobbes.
Che fare allora? La proposta di Spitzer
sarebbe rivoluzionaria se fosse inedita: rivalutare il «dare» a scapito
del prendere. L’autore, però, anche qui, non è ideologico e chiama a
raccolta un numero consistente di studi che corroborano l’ipotesi che
l’uomo sia meno oeconomicus di quanto non si dica di solito. Diversi
esperimenti dimostrano che, se non provocate, le persone non tendono a
prevaricare gli altri ma ad avere comportamenti corretti e che la
felicità sia maggiore, e misurabile, quando si compiono gesti, anche
molto piccoli, di generosità.
Cioè il contrario della direzione
indicata dai social network, e non solo, che promuovono la massima
espressione dell’homo oeconomicus nella sua versione più individualista,
autoreferenziale, selfie: valorizzazione massima del sé, con narcisismo
e inevitabile isolamento sociale (la storia di Narciso insegna).
Diventare
consapevoli del problema e provare a reagire ha come premio immediato
un maggior benessere anche individuale, perché le prove scientifiche che
lo stress cronico sia latore di malattie sono tantissime e le ricerche
dimostrano che la solitudine è un potente motivo di stress cronico, da
cui l’aumento di patologie che porta con sé, dal raffreddore,
all’infarto, all’ictus, fino al cancro, diventando, di fatto, la prima
causa di morte nel mondo occidentale secondo dati che l’autore non
lesina.
E quanto la solitudine, o, per essere più precisi, la sua
percezione, sia fondante per la salute lo provano diverse indagini che
hanno dimostrato come la mancanza di affetto e accudimento nelle prime
fasi della vita abbia conseguenze oggettive sulla capacità della
gestione dello stress nel corso di tutta la vita. Bambini poco
accarezzati, abbracciati, amati nella prima infanzia mostrano
alterazioni recettoriali per gli ormoni legati allo stress a livello
cerebrale. Motivo per cui la solitudine può essere letta come una
condizione con ricadute epigenetiche, perché possiede la capacità di
condizionare l’espressione dei nostri geni.
Corriere La Lettura 16.9.18
La sintesi di Caruana e Viola
Viscerali ma anche culturali Che varietà nelle emozioni
di Antonio Carioti
Per
capire l’uomo bisogna guardare innanzitutto al suo corredo biologico,
oppure la priorità va assegnata ai fattori culturali e sociali (in una
parola storici) tipici della nostra specie? Nel campo delle neuroscienze
la questione è assai dibattuta: lo si evince dalla lettura del libro di
Fausto Caruana e Marco Viola Come funzionano le emozioni (il Mulino,
pagine 215, € 14). Da una parte c’è la scuola «categoriale», che insiste
sul legame tra il corpo e la psiche nella definizione di alcune
«emozioni di base» ben distinte tra loro e comuni all’intero genere
umano (nonché ad altri mammiferi). Dalla parte opposta troviamo
l’approccio «costruzionista», secondo il quale molto dipende dalla
«interazione con l’ambiente sociale nel quale ci formiamo», perché «la
cultura ha plasmato il nostro cervello così a fondo da essere
considerata natura».
I due autori passano in rassegna l’evoluzione
delle diverse teorie, ma non giungono a conclusioni univoche. Rifiutano
infatti l’alternativa secca tra le due correnti di pensiero e sostengono
che è possibile farle coesistere in un quadro complesso: se la visione
categoriale ci aiuta a comprendere meglio le esperienze «più viscerali,
motivazionali e tendenti all’azione», quella costruzionista contribuisce
a spiegare «i fenomeni emozionali più sofisticati».
il manifesto 16.9.18
Una rivoluzione costituzionale per uscire dalla barbarie
Sinistra. Denunciare e opporsi al nuovo non serve a granché, perché sono i nostri valori a essere stati traditi e abbandonati, non quelli degli altri. Le cause della crisi sono in noi. Per chi crede ancora nella democrazia costituzionale come orizzonte del possibile cambiamento è dal suo appannamento che deve ripartire
di Gaetano Azzariti
Ciò che ci fa sentire veramente a disagio non è tanto il comportamento dei nostri avversari, quanto quello dei nostri amici, che non muovono un dito per far mutare la situazione. Mentre si poteva essere preparati per affrontare una difficile fase di opposizione per cercare di ricostruire un diverso orizzonte culturale e politico, ciò che effettivamente ha finito per spiazzarci è l’assoluta incapacità di coloro che ci sono più vicini di contrapporre un proprio giudizio a quello dei governanti, folgorati dal successo dei nuovi vincitori. Né può rappresentare un’attenuante la dimensione della sconfitta.
Certo che è dalla “disfatta” che bisogna partire, ma per rendere esplicita l’urgenza di riesaminare da capo le cose, senza poter invece continuare a limitare i danni, poiché essi si sono già tutti prodotti. L’unica giustificazione possibile, in caso, è che in tempi di crisi la mente dell’uomo vacilla, ma proprio per questo diventa necessario fermarsi per riflettere. La ricerca di capri espiatori ovvero le tecniche di riduzione del danno non possono che prolungare l’agonia. Non è più il tempo dell’opportunismo per la sopravvivenza, è arrivato semmai il momento del coraggio, alla ricerca delle “ragioni profonde” – quelle meno visibili, ma veramente fondamentali – che hanno prodotto le miserie del presente. Certo, sarebbe più comodo dare la colpa al cinico destino, alla malvagità degli altri. Ci si potrebbe rifugiare nella neutralità dell’analisi che si limita a rilevare gli effetti e mai le cause. Ma a che servirebbe? Limitarsi a constatare – per poi maledire – i populismi, le loro disinvolte politiche sociali, la feroce carica antisistema che viene così fomentata e che si traduce in una complessiva delegittimazione delle istituzioni democratiche non riuscirà ad arrestare il declino. Denunciare ed opporsi al nuovo non serve a granché, perché sono i nostri valori ad essere stati traditi e poi abbandonati, non quelli degli altri.
Le cause della crisi sono in noi. I problemi di oggi sono causati dallo stallo in cui versano le istituzioni costruite per dare sostanza alla democrazia costituzionale.
E allora, c’è solo un modo per non tradire le nostre origini e rimanere fedeli ai nostri ideali di solidarietà e fratellanza, di libertà ed eguaglianza, oggi stravolti e raggirati: dobbiamo comprendere le ragioni dalla spaventosa distanza che ci divide ormai dai nostri inizi, chiederci quali siano i motivi che hanno portato gran parte dell’umanità a rivoltarsi contro le istituzioni democratiche. Con coraggio dobbiamo domandarci perché oggi non si voglia più essere liberi ed eguali, scopriremmo così che non basta semplicemente affermare questi valori, ma ormai è necessario risignificarli. Entro un quadro storico mutato e refrattario ad essi.
Potremmo scoprire così che le attuali fragilità della democrazia sono il frutto più delle nostre debolezze che della forza degli altri. Sul piano sociale, solo per fare un esempio, non è il rifiuto del diritto alla salute che ha portato alla privatizzazione della sanità, bensì il collasso del sistema pubblico non più in grado di “tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (così l’articolo 32 cost.). O ancora: nessuno in via di principio nega il diritto allo studio e la libertà della ricerca scientifica (articoli 33 e 34 cost.), di fatto però tanto l’uno quanto l’altra hanno dato pessima prova di sé, con una progressiva e apparentemente inarrestabile dequalificazione tanto dell’istruzione pubblica, quanto delle istituzioni universitarie. Potrei proseguire constatando l’enorme distanza che passa tra molti altri valori, tutti enunciati dalla costituzione, e la realtà in cui siamo precipitati. All’origine della sconfitta non c’è dunque l’improvviso emergere di un mondo che proditoriamente ha imposto i suoi disvalori, bensì al contrario la perdita progressiva del nostro orizzonte. Gli altri, letteralmente “nuovi barbari”, sono apparsi al tramonto e si sono potuti insediare nelle nostre città oramai desertificate. Una vittoria facile, ma che “noi” non abbiamo neppure provato a contrastare (semmai a volte vi abbiamo contribuito). È ora di tornare con i piedi per terra e cercare di riprendere un nuovo cammino, se si vogliono riconquistare le città perdute.
Per chi crede ancora nella democrazia costituzionale come orizzonte del possibile cambiamento è dal suo appannamento che deve ripartire. È lì l’origine della crisi, lì sono depositati tutti gli interrogativi irrisolti dalla storia recente. Deve essere anche chiarito che andare alla ricerca delle ragioni di fondo per comprendere quanto sta accadendo non vuol dire solo “tornare alla costituzione”, ma soprattutto, con maggiore radicalità, provare a realizzare la “rivoluzione promessa” dalla costituzione. Dovremmo poi immediatamente aggiungere con onestà che la soluzione non è a portata di mano. Perché una rivoluzione costituzionale (nel senso appena richiamato) comporta la necessità di tornare a riflettere sui fondamenti della nostra civiltà, abbandonando in tal modo il chiacchiericcio dominante, ma non dando nulla per scontato, neppure le nostre poche residue certezze. Un percorso accidentato che ci porterebbe a “pensare” di nuovo al senso da dare ai diritti fondamentali che si sono via via smaterializzati. Una lunga marcia che potrebbe non avere un riscontro immediato, ma che darebbe una prospettiva a chi oggi non ne vede alcuna. E poi, finalmente, ci permetterebbe di guardare oltre le miserie del presente, lasciando apertamente la responsabilità del governo del regresso alla classe dirigente attualmente egemone e da tempo al potere, candidandoci a costruire un diverso e più degno modello di società civile. In nessun caso vinceremo le prossime elezioni, ma almeno avremmo dato una speranza al futuro.
La Stampa 16.9.18
L’Europa nella morsa delle tribù
di Maurizio Molinari
La rivolta del ceto medio contro diseguaglianze e migranti alimenta un tribalismo politico che indebolisce gli Stati nazionali nell’Ue e si annuncia come il protagonista delle elezioni europee di fine maggio che possono stravolgere la composizione del Parlamento di Strasburgo.
Gli Stati nazionali dell’Ue sono in affanno nell’affrontare questa doppia sfida perché le rispettive leadership politiche ed economiche appaiono largamente impreparate. L’arrivo dei migranti ha subito un’accelerazione dal 2015, su impatto della guerra civile siriana, catapultando una moltitudine di disperati verso l’Ue senza che Bruxelles sia riuscita a darsi una coerente politica di protezione dei confini, accoglienza dei profughi ed integrazione dei nuovi arrivati. Tale carenza di unità nell’azione ha lasciato i singoli Stati soli davanti all’impatto dei migranti e ciò ha portato ad un risveglio dei nazionalismi, alla chiusura verso lo straniero e più in generale ad un ritorno alla dimensione delle piccole patrie.
È un domino di emozioni, linguaggi e identità tribali che attraversa l’intera Unione europea manifestandosi nelle forme più diverse: l’estrema destra polacca o ungherese ripudia i migranti come appestati, la Cdu di Merkel cede terreno alle posizioni sui respingimenti dei conservatori bavaresi, nuove forze populiste si fanno largo in Svezia e Paesi Bassi, il cancelliere austriaco fa comizi in Alto Adige sui doppi passaporti a dispetto dell’opposizione di Roma, lo schieramento della polizia francese fra Ventimiglia e Bardonecchia è oramai massiccio, la Brexit britannica minaccia di paralizzare Dover-Calais e gli assalti dei disperati maghrebini alle reti metalliche di Ceuta si moltiplicano. È lo scenario di un’Europa dove i confini sono tornati prepotentemente protagonisti alle spese del progetto di spazio comune europeo. Le forze anti-migranti crescono a vista d’occhio in più Paesi, Italia compresa, perché l’assenza di capacità - e volontà - degli Stati di trovare politiche comuni spinge le singole opinioni pubbliche a cercare sicurezza nel nazionalismo atavico, ovvero nella negazione dell’idea stessa di Unione europea.
In maniera analoga i Paesi europei stentano ad aggredire le diseguaglianze economiche frutto della globalizzazione perché la lotta alla povertà avviene ancora quasi ovunque con strumenti tradizionali - sussidi, occupazione, sgravi fiscali - e non con investimenti sulla formazione per poter rigenerare una forza lavoro - giovane o meno - indebolita e minacciata dall’innovazione tecnologia. Ciò significa che milioni di famiglie residenti nelle aree più disagiate del Vecchio Continente, dalla Francia rurale alla Germania Est, dalle periferie italiane a quelle di Malmoe si sentono aggredite su due fronti - migranti e diseguaglianze - senza che nessun leader europeo riesca neanche ad elaborare una soluzione concreta, innovativa, coraggiosa per soccorrerli.
I partiti della protesta, populisti o meno, hanno così gioco facile nel presentarsi ai nastri di partenza della campagna per le europee 2019 puntando a imporsi su rivali tradizionali espressione di un establishment che oltre ad essere espressione del Novecento è anche inefficiente. Se la dinamica non cambierà, il vento populista e sovranista investirà Bruxelles precipitando le istituzioni verso un pericoloso ritorno alla stagione della sovranità degli Stati ovvero al periodo pre-Maastricht.
Per frenare tale china c’è bisogno di un nuovo serbatoio di idee capaci di assegnare all’Europa ambiziosi orizzonti. Le diseguaglianze per essere identificate richiedono il superamento dell’attuale formulazione del Pil, per essere contrastate hanno bisogno di imponenti investimenti nella formazione ed il motore di tutto ciò deve essere una nuova dottrina economica il cui obiettivo è riqualificare coloro che sono stati espulsi dal ciclo produttivo a causa delle nuove tecnologie. Così come sul fronte dell’immigrazione serve un approccio capace di coniugare l’inserimento nel mondo del lavoro di lavoratori stranieri qualificati con l’integrazione di culture che non potrebbero essere più distanti perché lo Stato di Diritto nelle democrazie avanzate ha nel multiculturalismo un elemento di forza.
Si tratta insomma di ridisegnare l’Europa, in maniera a tal punto concreta sulle risorse e visionaria nelle ambizioni da esprimere una volontà rivoluzionaria capace di spazzare via ogni tentazione di ritorno al passato più buio. Ma se nessun leader o partito si assumerà tali responsabilità, l’esito di maggio è già segnato: uno tsunami populista investirà le istituzioni europee con conseguenze imprevedibili.
Corriere 16.9.18
L’italia e la sua storia
L’identità esiste (ma a sinistra c’è chi dice di no)
di Ernesto Galli della Loggia
Ogni volta che decide di suicidarsi la Sinistra sa che può sempre contare su chi è pronto ad aiutarla a infilare il colpo in canna: sono gli intellettuali della sua parte. I quali a propria volta sanno che qualunque cosa dicano o facciano possono sempre contare sul masochistico silenzio della loro vittima. È questa la prima riflessione che viene alla mente leggendo il lungo articolo di Tomaso Montanari «L’identità inventata degli italiani» ( Il Fatto , 10 settembre).
E subito dopo non si può non pensare che su certe materie in Italia ogni discussione è impossibile dal momento che invece di sforzarsi di capire le ragioni dell’altro ognuno ripete le proprie come un mantra per il pubblico degli aficionados.
La tesi di Montanari è perfettamente espressa dal titolo dell’articolo: l’identità italiana non esiste. Lo stesso termine identità è a suo avviso un termine maledetto, servendo solo ad alimentare «il veleno della retorica identitaria» e quindi a giustificare il «noi» contro «loro», le dottrine del «respingimento», «i campi di concentramento in Libia», lo «straniero come nemico» nonché ovviamente «i paradigmi culturali (…) connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista», il «prima gli italiani» e via così sermoneggiando. Tutte infamie imputabili per l’appunto al famigerato concetto di identità.
Peccato che per cercare di aver ragione l’autore ricorra a un espediente alquanto indegno del suo rango intellettuale: quello di fabbricarsi un avversario di comodo da poter facilmente stendere al tappeto. Se identità, egli scrive infatti, significa «uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta», ebbene, conclude trionfante, allora «bisogna dire con chiarezza: no, questa identità italiana non esiste». Già: il punto è che a mia conoscenza non vi è mai stato nessuno così idiota (meno che meno qualcuno con un minimo di studi alle spalle) che abbia sostenuto l’esistenza di un’identità italiana nel significato che alla parola identità attribuisce Montanari. Quando si parla d’identità italiana s’intende infatti quel significato della parola per cui ad esempio si parla di «carta d’identità»: e cioè, come attesta qualsiasi buon vocabolario (cito dallo Zingarelli): la «qualificazione di una persona, di un luogo, di una cosa per cui essa è tale e non altra». Identità italiana significa insomma che la nostra Penisola presenta un insieme di caratteri che complessivamente presi sono solo suoi e non di altri luoghi della terra. Non significa affatto che in Italia tutto è monotonamente eguale a se stesso, che tutto è identico.
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Avendo furbescamente stabilito che invece si tratta proprio di ciò il nostro autore ha facile gioco a farsi beffa di una simile castroneria. Non lo sanno forse tutti, infatti, che gli italiani sono il frutto di mille incroci di popoli diversi dalle Alpi alla Sicilia? Che la cultura italiana è sempre stata multiforme e multanime? Che non esiste neppure una cucina italiana? Tutte cose vere che però non dimostrano nulla. Certo, gli italiani — come del resto quasi tutti i popoli d’Europa — sono dei sanguemisto, ma fino a prova contraria solo qui e non altrove, solo in questo spazio geografico, Normanni e Bizantini, Arabi ed Ebrei, Greci e Longobardi, Latini e Franchi, le loro lingue e le loro culture hanno avuto modo di mischiarsi e incrociarsi in una maniera così peculiare. Egualmente solo nella Penisola sono nate una miriade di prestigiosissime produzioni letterarie guarda caso scritte tutte in una sola lingua, l’italiano: anche se naturalmente con prospettive e contenuti tra loro diversissimi (come se poi la cultura di Monaco fosse mai stata la stessa di quella di Berlino o a Marsiglia si parlasse la stessa lingua di Parigi). Sta di fatto che nessuna persona sensata definirebbe mai Primo Levi o Giorgio Bassani come degli scrittori ebrei: sono stati due grandi scrittori italiani e basta. Quanto alla cucina è certo innegabile la straordinaria varietà delle cucine locali di questo Paese, ma conosce Montanari un altro luogo nel mondo dove si mangia dappertutto la pasta come da noi? dove si adoperano tanto le verdure come sui nostri fornelli?
Qui insomma non si tratta di stabilire l’esistenza di un identico bensì di un unicum . Non si tratta di affermare una qualunque purezza — come invece tenta continuamente di insinuare Montanari per poter vestire i comodi panni del Catone antirazzista — bensì di mettere a fuoco una singolare complessità. Non si tratta di biologia, insomma, si tratta di storia. L’identità è un fatto storico, il frutto di una storia. Per questo essa è unica e irripetibile: perché tale è ogni storia. Sicché proprio da un punto di vista storico mi sembra velleitario, ad esempio, il tentativo di Montanari di contestare la centralità che nell’identità italiana hanno le sue «radici cristiane», e di farlo portando come prova decisiva null’altro che una frase contro le patrie di don Milani. Allora è solo una caso, mi chiedo, è solo un caso, che so, lo sterminato numero di chiese presenti nella Penisola? È solo un caso se fino a ieri il nome femminile più diffuso fosse Maria? È solo un accidente insignificante la presenza a Roma della Santa Sede?
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La denunciata «mancanza di un’identità unitaria» non vuol dire affatto la mancanza di un’identità (e magari anche di un’identità fortissima). Se ciò fosse vero, del resto, nessun Paese almeno in Europa ne potrebbe allora vantare una, dal momento che né Spagna né Francia né Germania, tanto per citarne qualcuno, possiedono certo un’identità molto meno variegata di quella italiana. Non solo, ma resterebbe inoltre da spiegare un non piccolo mistero storico che mi piace porre in una forma adeguatamente retorica e tale da suscitare, immagino, il sano disgusto di Montanari: che cosa dobbiamo pensare delle migliaia di donne e uomini che negli ultimi due secoli si sono fatti ammazzare sui campi di battaglia, sulle forche e dai plotoni d’esecuzione gridando «Viva l’Italia»? Che cosa sono state? Vittime di un inganno, di un’illusione di «un’idea di nazione chiusa e guerresca», «di un bieco nazionalismo»? Di che cosa?
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In realtà ciò che a Montanari veramente interessa in questa discussione è adoperare la storia, il passato dell’Italia, per un fine esclusivamente e schiettamente politico: e cioè sostenere la necessità della porta aperta nei confronti degli immigrati, dal momento che come scrive «tutti siamo provvisori, migranti e stranieri», che «il nostro noi si è formato grazie ad una somma di “loro” accolti e fusi in questa terra» , e che dunque «l’Italia è sempre stata multietnica e dunque multiculturale». Affermazioni che contengono però una serie di forzature un po’ troppo disinvolte, che specialmente uno studioso dovrebbe avere qualche ritegno a permettersi. I popoli che Montanari descrive ad esempio come «accolti e fusi in questa terra» nel corso dei secoli lo furono sì, ma dopo invasioni, guerre, soprusi e miserie devastanti che spesso durarono molto a lungo: il che non mi sembra un particolare irrilevante. Parlare poi di Enea, per fare un altro esempio, come di «un rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano» significa, a parte la ridicolaggine del lessico, falsare anche la realtà di un mito che, almeno nella versione virgiliana, lungi dal consegnarci una simile immagine idilliaca ci parla invece di guerre feroci che sarebbero state scatenate proprio dall’arrivo di Enea sulle coste del Lazio. A volerlo prendere sul serio un precedente per nulla rassicurante, si dovrà ammettere.
Alla fine comunque, fatta piazza pulita di una parte della storia e manipolatane il resto, la strada è aperta perché il nostro autore possa proclamare quale unica identità italiana possibile quella di un «patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione cosmopolitica come quella che avrebbe potuto darsi l’Unione europea». E così la Sinistra è servita: se lo desidera ha la ricetta perfetta per assaporare il bis della catastrofe elettorale del 4 marzo.
Corriere La Lettura 16.9.18
In che cosa crediamo? Ma soprattutto: crediamo ancora?
Oggi una religione non si eredita e basta, è in qualche misura frutto di un incontro. Ed è vero che si crede senza appartenere e si appartiene senza credere. In altre parole: la fede è in libera uscita
di Marco Ventura
Stracolmo il Madison Square Garden, quella sera di estate del 1957. La New York Crusade ha avuto un grande successo. Si contano a migliaia i convertiti al cristianesimo evangelico. Il leader della crociata, Billy Graham, prende la parola, legge un brano dagli Atti degli Apostoli e annuncia il tema del suo sermone: come vivere la vita cristiana. La predica s’impenna quando il trentottenne della Carolina del Nord pone il problema di chi nasce in un Paese di tradizione cristiana: «Il cristianesimo non si eredita; non si riceve attraverso la carne e il sangue».
In tanti si dicono cristiani, ma non sono davvero rinati nel battesimo; in tanti abbracciano valori cristiani e vivono moralmente, ma un cristiano non è questo. Un cristiano ha avuto un incontro personale con Cristo. Ha accettato il Dio vivente, si è arreso a lui. Ha scelto «di sua propria volontà»; perciò tutto è divenuto nuovo.
La fede evangelica degli anni Cinquanta esprime la mutazione religiosa in corso in Occidente al termine del secondo conflitto mondiale e nella prima fase della guerra fredda. Come ricorda lo stesso Graham quella sera al Garden, il comunismo è una minaccia ben oltre i confini geografici che da pochissimi anni dividono la Corea e il Vietnam. La sfida dei comunisti a metà del Novecento è una sfida di fede. In che cosa credono gli uomini e le donne di fine millennio? In che cosa credono le comunità e i popoli? Quanto conta ciò che crede il singolo, nella sua libertà e volontà, quanto ciò che crede il gruppo, nella condivisione e nella pressione? Ancora, quale fede vince nella storia, e oltre? Vale proprio la pena di averla, una fede, oppure si vive meglio senza? Infine, e soprattutto, chi non crede, in che cosa esattamente non crede? E in che cosa crede, visto che in qualcosa inevitabilmente crederà?
La risposta americana alla sfida sulla fede negli anni Cinquanta è ricca di forme: dalla fede anticomunista di Dwight Eisenhower e dei maccartisti alla fede musulmana di Elijah Muhammad grazie al cui carisma si stanno moltiplicando le moschee in tutto il Paese; dalla fede nella mano invisibile del Dio-mercato di chi fonda in quegli anni la catena Walmart a quella dei cattolici liberali da cui nasceranno il presidente John Fitzgerald Kennedy e la dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II. In un carattere, tuttavia, le tante forme si somigliano: «La fede trasforma», proclama Billy Graham nel 1957; com’è scritto nella Bibbia, «dai loro frutti li riconoscerai». La fede americana è tutta speciale, si pensa intanto dal Vecchio Continente: non vi si distingue il credo nell’America dal credo in Dio, l’individualismo esasperato dal nation first. E poi gli americani non hanno avuto Stati cattolici e Chiese di Stato.
Invece, la sfida della fede degli anni Cinquanta negli Stati Uniti riguarda tutto l’Occidente. Le crociate di Billy Graham hanno successo nel Regno Unito di allora. La giovane regina Elisabetta, governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra, percepisce l’energia del missionario, vuole incontrarlo, lo ascolta predicare. Il rinnovamento della fede provoca un’epocale convergenza tra l’America della separazione tra Stato e Chiesa e l’Inghilterra confessionista, in un processo che nei decenni successivi ridisegna entrambe, la separazione e la religione di Stato. Cambia in quegli anni la fede di tutto il cristianesimo occidentale. Le nuove generazioni non vogliono più fingere di pregare in ginocchio, davanti a un prete «che ama il freddo», come fa il giovane dei Beach Boys che è entrato in chiesa per ripararsi dal freddo e per sognare California; non è diversa l’ansia dei giovani italiani del tempo, anche se nella versione dei Dik Dik scompare il prete e la finta preghiera diventa un prudente «cerco di pregar».
Due anni prima, nella costituzione dogmatica Lumen gentium, il Concilio Vaticano II ha poggiato sulla fede la sua dottrina di una nuova alleanza per un nuovo popolo. Alla fine degli anni Sessanta, il cambiamento della fede è sempre più una questione mondiale. Come i Beatles scoprono in India, da ben prima di Cristo le tradizioni sanscrite dell’Asia hanno sofisticatissimi pensieri sulla fede. In più, l’affidamento alla divinità della Bhagavad Gita e dello Yogasutra, e di tanto altro, è respirazione, postura, unità di materiale e spirituale, tra l’uomo che ha fede nel divino e il divino che invita l’uomo alla fede.
Negli stessi mesi, il Dio degli eserciti di Israele ha condotto a un’altra vittoria il suo popolo, in equilibrio tra la fede laica dei kibbutz, la resilienza degli ultraortodossi e la sapienza talmudica di generazioni di rabbini che hanno contraddetto Dio. Imparano la lezione gli arabi, a partire dal 1967. Hanno perso nella guerra dei Sei giorni perché nazionalisti e modernisti. Non vinceranno finché non ritroveranno la fede dei padri, finché non combatteranno in nome di Dio, finché non impareranno dai cristiani come Graham che la fede è resa, sottomissione al Creatore la cui volontà si impone al mondo.
La forza della fede esplode nel 1979. Un papa polacco, eletto l’anno prima, rompe il letargo della guerra fredda, il potere saudita è aggredito alla Mecca con il sequestro dei pellegrini, viene bruciata l’ambasciata americana di Islamabad, una cristiana liberista anti-Stato diventa primo ministro britannico. È tanto cambiata la fede, e in modo tanto efficace, da spingere alla riscossa chi ne ha gli strumenti. È tempo di chiarire, fissare, ristabilire la dottrina. Ecco il teologo Khomeini e il suo articolato pensiero che si fa rivoluzione. Ecco il teologo Joseph Ratzinger, dal 1981 capo della dottrina della fede.
Tanti gli ostacoli. Anche se i profeti della morte di Dio cominciano a battere in ritirata, anche se la modernità è arrivata senza che scomparisse la religione, la fede è a pezzi.
Tra quei pezzi, sempre più numerosi, multiformi e colorati, i credenti scelgono i più convenienti nel supermarket delle credenze. Il paradiso sì e l’inferno no; la reincarnazione forse. Gli angeli ma certo, il diavolo dipende. Crescono intanto i non credenti; se ne moltiplicano i tipi, atei, agnostici, umanisti. Aumentano le cose in cui essi credono, soprattutto i numeri: della scienza, della tecnica e dell’economia. Cresce anche la frustrazione dei razionalisti, perché i numeri non bastano mai, e se sono infiniti riportano a Dio, magari un Dio risucchiato nell’intelligenza artificiale.
Nel 1984, una sociologa delle religioni inglese, osteggiata dai colleghi scettici sulla sua ricerca fuori moda, pubblica un volume che fa clamore. Per identificare la traiettoria religiosa della società britannica del dopo guerra, Grace Davie conia l’espressione «credere senza appartenere» (believing without belonging).
È in declino l’appartenenza alle Chiese, sostiene la sociologa, ma non è in declino la fede; essa è piuttosto in profonda trasformazione. La formula di Davie, credere senza appartenere, apre una stagione nuova. Nei Paesi cattolici e ortodossi gli studiosi la rovesciano e parlano piuttosto di appartenere senza credere. Ciò che importa, per tutti, è che nel mondo globale secolarizzato, da allora fino ad oggi, la fede è in libera uscita.
Gli sceneggiatori della serie Netflix The Crown hanno dedicato un intero episodio all’incontro tra la giovane regina Elisabetta e il giovane predicatore Billy Graham, al tempo in cui questi scuoteva gli incerti cristiani di New York e Londra. Hanno ragione, gli sceneggiatori. Quel tempo e i suoi dilemmi sono decisivi oggi. I credenti e i non credenti del nostro tempo inseguono la scelta cara a Graham: scelta di una fede che cambia, che non lascia nulla come prima e domanda un’adesione piena. Quella sera dell’estate 1957 al Garden, Billy Graham raccontò di un cowboy. Per anni aveva attaccato il cavallo all’ingresso del saloon. Un giorno lo attaccò all’ingresso della chiesa. Al barista che gli chiedeva perché, il cowboy rispose semplicemente: «Mi sono convertito alla fede metodista».
Oggi ancor più che mezzo secolo fa, questa è la fede più preziosa, la più desiderata e la più rara. Quella che ci fa cambiare il posto dove attacchiamo il cavallo.
Corriere La Lettura 16.9.18
Fede nel sapere
Ammettere sempre le confutazioni è un punto di forza
La scienza può sbagliare Per questo merita fiducia
di Chiara Lalli
Fede nella scienza? Molte discussioni con i credenti si chiudono con una risposta che non lascia spazio a obiezioni: «Ho fede, non posso dimostrarlo». Spesso si crede senza capire il contenuto delle proprie certezze. Non è una caratteristica solo delle religioni. Non è raro che qualcuno abbia lo stesso atteggiamento verso posizioni politiche o di altro genere. Sapreste dimostrare la convinzione che la violenza è aumentata negli ultimi anni o che tornare alla lira salverebbe l’Italia?
La rimozione di alcune ingiustizie comincia rimediando alla fiducia acritica. È sensato attribuire una qualche superiorità all’essere nato in un luogo (patriottismo) o con alcune caratteristiche esteriori (razzismo)? Che cosa c’è di diverso nel credere al Big Bang o all’evoluzione? Dipende dai credenti, ovviamente. E poi dalle condizioni di quella credenza.
Se avere fede nella scienza potrebbe sembrare contraddittorio, avere fiducia è invece inevitabile. Dobbiamo fidarci delle fonti, degli esperti, delle teorie e delle leggi scientifiche. Non possiamo controllare quasi niente direttamente. Non abbiamo né le capacità né il tempo per farlo. Il Big Bang non è replicabile. L’evoluzione non è «osservabile». Una delle scoperte recenti, che ha richiesto una «fede» ostinata, è stata quella del bosone di Higgs — che nessun inesperto è in grado di spiegare in modo soddisfacente, ma che merita una fiducia diversa rispetto alla reincarnazione o all’esistenza dell’anima.
Certo, possiamo vagliare alcuni esperimenti (si pensi al celebre caso di Andrew Wakefield e della falsa teoria circa i vaccini che causerebbero l’autismo), ma non possiamo ogni volta ricontrollare tutte le premesse di quelle verifiche. Dobbiamo fidarci. Ed è per questo che la scelta di che cosa e chi merita fiducia è così importante. Il «New England Journal of Medicine» e «Nature» sono meglio delle Iene, se vogliamo sapere quali trattamenti sono efficaci per curare una neoplasia o se sotto al Gran Sasso si svolgono pericolosi esperimenti. Meglio rivolgersi a un ingegnere, non a un laureato in Scienze della comunicazione, se vogliamo controllare la tenuta di un ponte.
Anche la scienza può sbagliare. Anzi, forse è proprio questa la differenza principale: la fede nella scienza non è acritica e non è immune da errori. La possibilità di sbagliare è una forza rispetto alla ingenua convinzione che è beato chi crede senza bisogno di dimostrazioni. Si può sempre domandare, mettere in dubbio, confutare. Si può avere fede nella scienza? Direi che si deve. Ricordando sempre le condizioni di quella «fede» e la possibilità di rivedere qualsiasi legge e qualsiasi scoperta.
Corriere La Lettura 16.9.18
Parliamo con la Cina, sì Ma forse non siamo pronti
Xi Jinping è il primo leader di Pechino autenticamente globale e l’Occidente pare non rendersi conto appieno delle sfide che questo significa. Anche l’Italia, che pure si è dotata di una «task force» per le relazioni economiche, non sembra essere davvero attrezzata. E gli Istituti Confucio disseminati nelle università condizionano direttamente e indirettamente la nostra capacità di critica
di Maurizio Scarpari
Al Festival della politica che si è svolto a Mestre dal 6 al 9 settembre scorsi, di Cina non si è praticamente parlato. Eppure confrontarsi con la politica estera cinese rappresenta una necessità inderogabile, visto che l’intraprendenza del Paese asiatico sta modificando gli assetti economici e geopolitici del pianeta. La Cina di Xi Jinping non è più solo la «fabbrica del mondo», i suoi progetti rivelano ambizioni nuove, perseguite con concretezza e determinazione. Temo che la sottovalutazione del fenomeno faccia parte di un atteggiamento diffuso. Due sono a mio avviso i periodi destinati a caratterizzare l’inizio del nuovo millennio: il biennio 2012-2013 che ha decretato in Cina l’ascesa di Xi Jinping, e il biennio 2016-2017 che ha visto l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump. Se il primo leader è arrivato ai vertici del potere istituzionale nel segno della continuità, il secondo ha vinto le elezioni come uomo di rottura. I due presidenti sono portatori di visioni contrapposte, che mirano però allo stesso obiettivo: porre o mantenere il proprio Paese al centro del mondo.
Nel novembre 2012, appena nominato segretario del Partito comunista, Xi Jinping ha decretato l’archiviazione del «periodo dell’umiliazione nazionale», affermando con orgoglio l’avvenuta «rinascita della nazione». Sul piano culturale ha pienamente riabilitato gli ideali e i principi che hanno plasmato nei secoli l’identità dei cinesi, rifiutando come inadeguati i cosiddetti «valori occidentali». Sul piano politico ha rivendicato per la Cina un ruolo centrale sullo scacchiere internazionale, in continuità con la grandezza di quell’impero che era stato a lungo la parte più evoluta e ricca del mondo, ben prima che le potenze occidentali imponessero con la forza delle armi la loro egemonia. Il progetto di trasformazione industriale Made in China 2025, e il program-ma di espansione economica e commerciale Belt and Road Initiative, o Nuova Via della Seta, sono destinati a realizzare le ambizioni di Xi e sono molto di più di quello che la dirigenza cinese vorrebbe far credere: il primo mira a far diventare la Cina la nazione tecnologicamente più avanzata al mondo, il secondo a creare una rete infrastrutturale capillare che colleghi la Cina non solo con i Paesi situati lungo le tradizionali rotte commerciali euroasiatiche di terra e di mare, ma con il mondo intero.
Xi Jinping è il primo presidente cinese con una visione autenticamente globale, finalizzata alla «costruzione di un destino comune per l’intera umanità», per realizzare la quale ha messo in campo risorse finanziarie e umane immense. Attrae i suoi interlocutori per le indubbie opportunità economiche offerte, e al tempo stesso li spaventa per la difficoltà di prevedere le implicazioni politiche, finanziarie e ideologiche.
Benché sia ancora notevole la distanza che separa la Cina dagli Stati Uniti, la politica America First nasce anche come risposta alle ambizioni egemoniche cinesi. Gli atteggiamenti di Trump risentono di questa preoccupazione, il confronto con l’emergente potenza del Paese asiatico è per lui una partita a due da giocare su più tavoli. Pur di contrastare l’avanzata della Cina e rafforzare la posizione degli Stati Uniti, Trump impone con arroganza le proprie condizioni ai suoi interlocutori, fossero anche i governi dei Paesi alleati, non esitando a ignorare ogni prassi diplomatica e a rompere alleanze consolidate, rimettendo in discussione gran parte delle convenzioni e degli accordi multilaterali, nonché il prestigio di organismi internazionali in gran parte voluti dai suoi predecessori, sui quali ha poggiato per decenni il dominio dell’Occidente. Le sue strategie mirano a ottenere vantaggi immediati per incrementare la sua base elettorale, ma nel lungo periodo recheranno danno a tutti, Stati Uniti compresi, a detta dei 1.100 economisti, tra cui 14 premi Nobel, che gli hanno chiesto di non ostinarsi a voler imporre i dazi.
In questa situazione, la Russia cerca di mantenere un suo spazio autonomo e di reagire per contrastare l’isolamento in cui la si vuole relegare, rivendicando il ruolo di superpotenza; l’Unione Europea stenta a trovare la collocazione politica che le spetterebbe, sempre più divisa com’è al suo interno ed esposta a rischi d’implosione tutt’altro che trascurabili; il Sudamerica sembra abbandonato al suo destino; il Medio Oriente e buona parte dell’Africa continuano a essere terreno di conquista sul quale si misurano diversi modelli di governance.
E l’Italia? Nonostante i rapporti commerciali con la Cina siano in crescita, l’Italia resta ai margini, basti pensare che la Svizzera esporta nel Paese asiatico più del doppio di noi e la Germania cinque volte di più. In cerca di un difficile equilibrio tra l’America di Trump, che ha accolto il premier Giuseppe Conte con paternalistico entusiasmo, e la Cina di Xi Jinping, visitata quasi contemporaneamente da due missioni governative, la prima più istituzionale guidata dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria, la seconda con a capo il sottosegretario Michele Geraci, l’Italia ha un ruolo marginale e la sua capacità di attrarre investimenti stranieri rimane modesta.
La creazione al dicastero dello Sviluppo economico (Mise) di una Task Force Cina, voluta dal ministro Luigi Di Maio e guidata da Geraci, appare come la condizione essenziale per impostare le relazioni economiche, commerciali e culturali tra i due Paesi. Più che una task force, «unità operativa», sarebbe stato però opportuno creare un think tank, «serbatoio di pensiero», chiamando a raccolta i maggiori esperti e non, com’è stato fatto, invitando chiunque a farsi avanti. Saranno centinaia le persone che si sono proposte: qual è la loro preparazione e competenza? Come verranno selezionate? Secondo un comunicato del Mise la task force avrebbe già ottenuto importanti risultati in Cina, ancor prima di diventare operativa, a riprova di «come l’approccio sistemico porti a risultati concreti»!
È difficile capire quanto di concreto e sostanziale ci sia dietro tali dichiarazioni. Destano perplessità le tesi proposte da Geraci in alcuni suoi scritti: il governo viene esortato a trarre ispirazione da una Cina descritta come una realtà idealizzata, priva di contraddizioni, non tenendo conto delle profonde diversità che rendono inapplicabili nel nostro Paese i modelli culturali e di governance cinesi. Queste tesi hanno provocato la reazione di un gruppo di giovani studiosi della società e della politica cinese contemporanea operanti in 23 università, 18 delle quali estere, che hanno criticato le posizioni del sottosegretario ritenendole pericolose «perché prendono a modello un sistema autoritario, ma soprattutto per il sistema di valori che sottendono».
Ciò che sembra mancare è una riflessione a monte, approfondita e condivisa, che metta a fuoco il tipo di sviluppo auspicabile per il nostro Paese e che valuti lo spazio da riservare agli interlocutori cinesi, nella consapevolezza che essi sono negoziatori abili ed esigenti, che non regalano niente a nessuno e che, mossi da valori e obiettivi non sempre condivisibili, hanno grande capacità di penetrazione e tendono a influenzare ideologicamente e politicamente i propri partner. Prova ne sono gli Istituti Confucio disseminati nelle università di mezzo mondo, presenti anche in Italia, che condizionano, direttamente e indirettamente, le libertà di opinione e di azione all’interno degli atenei ospitanti. Fa riflettere anche la posizione della Grecia, aiutata da consistenti investimenti cinesi in un momento di particolare debolezza economica, che nel giugno 2017 ha posto il veto a una dichiarazione dell’Unione Europea all’Onu che muoveva critiche alla Cina sul delicato tema del rispetto dei diritti umani.
Corriere La Lettura 16.9.18
Distopie. Un centro tropicale, giovanissimi visitatori semptre più aggressvu: è l’incubo di Anfré Barba
Apparizione. Sono 32 fra gli 0tt0 e i tredici anni, non sono indios, ma non si sa da dove vengano, parlano una lingua incimprensibile...
Fanno spavento i bambini usciti dalla giungla
di Giorgio Montefoschi
«Ci affascina ciò che ci esclude», scrive Andrés Barba verso la metà della Repubblica luminosa, il romanzo, pubblicato da La nave di Teseo, luminoso e oscuro come lo sono tutti i romanzi che sprofondano nei territori delle verità più nascoste e più segrete, difficilmente riconducibili alle forme del linguaggio di superfice. «Ma la fascinazione non è garanzia di un pensiero logico». È la frase centrale di questo libro insolito, per certi versi straordinario — apparentabile, con il suo autore, ad altri libri e ad altri scrittori, e invece diverso intimamente da tutti quelli — con la quale, all’improvviso, il lettore che fino a quel momento ha seguito con una naturale diffidenza, e un ancor più naturale stupore, le vicende narrate da Barba, si libera di ogni costrizione mentale e, insieme al narratore, precipita in un percorso di «dislocazione» e di eventi che, di pagina in pagina, lo cattura lasciandolo senza fiato.
Siamo, ai primi anni Novanta del secolo scorso, nella cittadina tropicale di San Cristóbal, una cittadina immaginaria e nello stesso tempo assolutamente reale, come potrebbe essere quella di un romanzo di García Márquez. Il narratore, funzionario di fresca nomina agli Affari sociali, vi ritorna, insieme alla moglie Maia, insegnante di violino, e alla bambina che lei ha avuto da un altro uomo, dopo un breve periodo di assenza.
Non ha particolari sorprese; piuttosto la conferma che la coltivazione del tè e degli agrumi favorita dai lavori dell’impresa idroelettrica, insieme ai commerci favoriti dal grande fiume limaccioso, largo in alcuni tratti come il mare, sul quale una volta affacciavano i magazzini rudimentali e le abitazioni, hanno ulteriormente trasformato la vita dei suoi abitanti, tant’è che sul lungo fiume si possono veder correre lussuose automobili, le case sono solide, e, al posto dei negozietti, è sorto — come in Occidente — addirittura un supermercato: il Dakota.
Certo, tutto intorno, San Cristóbal è circondata dalla selva, e la selva è un muro verde intricato, minaccioso, popolato di insetti velenosi e di serpenti, ma è sufficiente ignorarla, tenersene lontani, perché l’esistenza proceda senza scosse. Senonché, un bel giorno, a turbare questa placida esistenza, succede un fatto del tutto inaspettato: prima uno, poi un altro, poi tre o quattro in gruppo, maschi e femmine, sbucano dal nulla 32 bambini sconosciuti che nessuno ha mai visto. Non sono figli degli indigeni, infatti, né tanto meno appartengono alla discendenza spagnola: hanno fra gli 8 e i 13 anni, la pelle scura non si capisce se per la sporcizia o il sole, sguardi impertinenti.
Da dove vengono? Certo non dal cielo, come i ragazzini superstiti dell’incidente aereo del Signore delle mosche, il romanzo famoso di William Golding. Quelli, si capisce presto, sono ragazzini-adulti già avvelenati da ogni possibile seduzione del male; questi, con quelle zazzere scomposte, quegli occhi neri a spillo, quella lingua sconosciuta che parlano fra di loro e nessuno capisce, hanno una carica selvaggia che adombra l’innocenza: non si mischiano ai locali, non cercano amicizie, chiedono l’elemosina, scompaiono. Dove vanno? Tornano nella selva? Hanno qualche nascondiglio?
Gli abitanti di San Cristóbal sono confusi, interdetti. Tanto più lo diventano quando l’accattonaggio di queste creature misteriose si trasforma in aggressione e violenza: furti, scippi, rapine, per finire con un vero e proprio assalto all’arma bianca, e due morti, niente meno che al supermercato Dakota, distrutto — senza furti — per la primitiva gioia della distruzione, in una nuvola di farina e zucchero sparsa al vento. Ma questo è troppo. I ragazzini scompaiono nella selva e a tratti fanno solitarie apparizioni notturne; la città vive un’ossessione.
Chi sono questi 32 componenti, strettamente uniti uno all’altro, di questo corpo estraneo che si nasconde, forse, nella selva? È possibile che in quel luogo di terrore e di morte una comunità infantile proveniente chissà da dove sia stata abbandonata al proprio destino? È possibile che dei bambini siano riusciti a organizzarsi un mondo sotto cupole di fogliame che permettono a stento il passaggio della luce: in quel verde «che tutto divora, la grande massa assetata, intricata, soffocante e poderosa dove i deboli sostengono i forti, i grandi tolgono la luce ai piccoli e soltanto ciò che è minuto o addirittura microscopico riesce a far vacillare i giganti»? Infine, non è possibile che i componenti di questo nucleo primordiale — sprezzante del buio e della morte — abbiano poteri magici, sovrannaturali e riescano a far sentire i propri battiti appena sotto la terra rossa delle strade, sotto le mattonelle del pavimento?
Gli abitanti di San Cristóbal che, fino a questo momento, hanno formulato le più improbabili congetture su di loro, hanno riempito il vuoto che hanno lasciato con tutti gli incubi che possono devastare il vuoto, hanno creduto come ebeti alle fandonie che si sono inventati dei piccoli mascalzoni e, spesso, come i rispettivi figli, hanno accostato l’orecchio al pavimento per ascoltare il battito di quel cuore estraneo e animale, non ne possono più. Vogliono farla finita, con questi ragazzini. Vogliono annientarli.
Si attrezzano. Parte una spedizione. Anche il narratore, il funzionario degli Affari sociali, partecipa alla spedizione, lugubre e comica al medesimo tempo, che inizia dalla selva e si concluderà con una sorpresa che, per ovvi motivi, non possiamo rivelare al lettore. Ma lui — questo, invece, il lettore lo ha capito da un pezzo — non teme quei ragazzini. Li ama. Li ha amati fin da quando li ha visti, silenziosi, presidiare i crocicchi di San Cristóbal. Li ama e partecipa alla spedizione con profonda trepidazione. Perché sa che la loro salvezza coincide con la sua salvezza, e quella degli altri.
il manifesto 16.9.18
Col ddl «concretezza» controllo impronte anche per gli insegnanti
Demagogia di Governo. Nel testo del disegno di legge varato da Bongiorno e Salvini prevista la introduzione di sistemi di identificazione biometrica e videosorveglianza. Protestano Flc e Fp Cgil: i lavoratori non possono essere trattati così
di Massimo Franchi
Nella moda lanciata dal governo Renzi e aumentata con la maggioranza giallo-verde di affibbiare slogan ai provvedimenti legislativi, la scelta della parola «concretezza» appariva fra i meno peggio. Analizzando il testo del disegno di legge approvato dal consiglio dei ministri di giovedì invece ci si convince che il nome più adatto sarebbe «terrore al lavoro». I due mentori del ddl sono il ministro (senza portafoglio) per la pubblica amministrazione Giulia Bongiorno e il ministro dell’Interno Matteo Salvini. A parte l’annuncio dello sblocco – invocato da anni dai sindacati – del turn over al 100 per cento nelle funzioni centrali della Pa ed enti di ricerca e l’intervento sui fondi del salario
, i primi due articoli del testo sono tutti incentrati sui controlli dei lavoratori. Viene istituito un «Nucleo della concretezza» di 53 dirigenti scelti ad hoc che terrà «sopralluoghi e visite» negli uffici inviando «i verbali» al «prefetto» per il rispetto del «piano triennale delle azioni per l’efficienza della pa». L’articolo 2 invece nelle «misure per il constrasto dell’assenteismo» introduce «sistemi di identificazione biometrica e di videosorveglianza» estesi anche «al personale docente ed educativo» di scuole ed università.
Proprio quest’ultimo allargamento viene denunciato dalla Flc Cgil. Che parla di «aspetto “poliziesco” del piano» e bolla come «preoccupante l’interesse al controllo biometrico»: «simili interferenze sono lesive dell’autonomia organizzativa delle scuole oltre che funzionali ad una propaganda politica che istituisce un altro inutile e costoso organismo nella linea consueta contro i fannulloni, da controllare finanche facendo ricorso alle impronte digitali, una costante permeata da una rappresentazione demagogica insopportabile». «Il tema in discussione non è il contrasto all’assenteismo, ma la modalità. Il Dpcm che prevederà rilevazione biometrica e videosorveglianza sarà emanato su proposta del ministro sentita la Conferenza unificata e il Garante della privacy. E i lavoratori? Lo Statuo dei lavoratori è tutt’ora in vigore: inamissibile escluderli», commentano Serena Sorrentito (Fp Cgil) e Franco Martini (Cgil).
Il Fatto 16.9.18
Da Gratteri a Karl Marx, a Lecce alla Festa Cgil Landini punta al vertice
Tre giorni di incontri - In Puglia il raduno animato dalla successione alla Camusso. Di Maio dà forfait
di Salvatore Cannavò
Benvenuti al Sud. A Lecce, dove potrebbe resistere in futuro l’unica festa della sinistra, quella della Cgil. Domenica si chiude la quinta edizione, con il doppio della partecipazione, sintomo di un “bisogno di trovare uno spazio in cui discutere” spiegano gli organizzatori.
Il programma è vasto e, se non avesse dato forfait all’ultimo momento, l’elenco dei dibattiti avrebbe visto anche il leader del Movimento 5 Stelle, invitato naturalmente come ministro del Lavoro.
Di Maio, chiamato a discutere con Maurizio Landini e il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, non è potuto venire e la numerosa platea, che si era sistemata nel bel cortile di palazzo Celestini, sede della Prefettura, già un’ora prima dell’inizio del dibattito, ha accolto la notizia con dei fischi di delusione, segno di un’attesa “che il capo dei 5Stelle ha forse sottovalutato”, dicono in Cgil.
La partecipazione in politica è tutto, soprattutto se fatta a sinistra, e la Cgil in questa festa si sente viva. La giovane segretaria della Camera del Lavoro, Valentina Fragassi, è molto colpita dalla presenza alle lectio magistralis del mattino, una sorta di “scuola quadri” con intellettuali come Luciano Canfora che parla dello “stato di salute della democrazia”, Gian Luigi Gessa sulle tossicodipendenze, Marco Revelli, Carlo Galli o la professoressa Donatella Di Cesare sul sovranismo.
Temi “alti”, ma tanta gente accorre anche a sentire il capo della polizia, Franco Gabrielli e il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, discutere di giustizia e sicurezza. Gratteri, molto applaudito, fa il suo intervento “scostumato”, insistendo sull’importanza del senso dello Stato che “io vedo anche nello spegnere la lampadina dell’ufficio”. Da Gratteri si passa a Karl Marx, che occupa la serata del venerdì prima in “Bibliomarx”, mostra virtuale degli scritti pubblicati in italiano, e poi con la proiezione di tre cortometraggi, un documentario fino al film Il giovane Karl Marx. Dalla sicurezza dei magistrati a quella delle proprie radici.
Oggi si chiude con un’intervista in piazza alla segretaria generale Susanna Camusso. A dicembre il suo mandato scade e lei si è candidata alla presidenza dell’Ituc, la Confederazione internazionale dei sindacati, contendendo la carica all’australiana Burrow appoggiata da inglesi e americani. Camusso ha dalla sua i sindacati dell’Europa continentale più il Giappone e se la giocherà al congresso di dicembre, a Copenaghen. Lascerà la Cgil italiana che si appresta a svolgere il suo congresso e a scegliere il successore.
E a Lecce, nel corpo centrale dell’organizzazione, il dibattito scorre sotto traccia. A pochi mesi dallo svolgimento dell’assise ufficiale e a pochi giorni dall’apertura dei congressi locali, il segretario uscente non ha avanzato la proposta di una nuova leadership. Camusso all’inizio pensava a un cambio generazionale con l’idea di candidare l’attuale leader della Funzione pubblica, Serena Sorrentino, quarantenne, in continuità con l’attuale leader. Ma il progetto è saltato per una rottura nella maggioranza dovuta all’autocandidatura di una figura pesante all’interno della Cgil, Vincenzo Colla, già segretario dell’Emilia Romagna, rapporti solidi con i pensionati dello Spi, cioè metà degli iscritti, fautore di una linea di unità sindacale e soprattutto di ricostruzione di un qualche rapporto con il Pd. Sorrentino si è tirata fuori bollando come fake news le notizie relative alla sua candidatura.
In questa difficoltà si è inserito allora Maurizio Landini, che dopo i rapporti burrascosi avuti con Camusso da segretario della Fiom, è passato alla segreteria della Confederazione ricostruendo l’unità interna. A sentire i rumors di Lecce, le sue quotazioni sono in netto rialzo, mentre la candidatura Sorrentino potrebbe non esserci mai stata anche se non c’è una discussione aperta, men che meno una votazione diretta degli iscritti. A scegliere il segretario sarà l’Assemblea nazionale che sarà formata dopo il congresso di gennaio. L’attesa, a questo punto, è per l’indicazione che darà Camusso.
In ballo c’è il futuro e l’identità del sindacato. Chi sostiene Landini sottolinea che se si vuole recuperare un rapporto con la società, avere una presenza anche mediatica e rapporti con le varie forze politiche, quella dell’ex segretario Fiom è una grande opportunità. Colla, invece, è il sindacato tradizionale, nel dibattito che lo vede protagonista insieme alla pd Teresa Bellanova si dichiara d’accordo col ministro Tria, sostiene il Tap e chiede una politica industriale vera. Lo scontro sta per entrare nel vivo e se fosse un dibattito aperto e pubblico darebbe forse una scossa all’intera sinistra.
La Stampa 16.9.18
Padre assassino era affetto da malattia psichiatrica
di Maria Vittoria Giannotti
Un raptus di rabbia cieca, assoluta. Non il primo che gli capitava negli ultimi tempi, stando al racconto di chi lo conosce bene. Niccolò Patriarchi, il tecnico informatico 34enne arrestato venerdì notte per aver ucciso il figlio con una coltellata al termine di una lite familiare scoppiata all’ora di cena, si scontrava spesso con la compagna. E gli scoppi d’ira, sempre meno controllabili, erano diventati troppo frequenti tanto che l’uomo sarebbe ricorso anche all’aiuto di uno specialista, che aveva ipotizzato la presenza di un disturbo psichiatrico.
Un litigio finito in tragedia
I carabinieri stanno ancora cercando di capire cosa abbia innescato l’ennesimo diverbio finito in tragedia. Ma dopo una notte di lavoro gli inquirenti sembrano avere le idee piuttosto chiare su cosa sia accaduto in questa casa colonica sulle colline vicino a Scarperia, un paese nel cuore del Mugello.
Durante il litigio, il 34enne, tecnico informatico con qualche precedente alle spalle per frode telematica, ha minacciato sia la compagna, Annalisa, che i due figlioletti: la più grande di sette anni e il piccolo Michele, che aveva compiuto un anno il 3 settembre scorso. La mamma ha cercato rifugio in terrazza, lui ha afferrato un coltello e l’ha raggiunta, colpendola più volte, come in trance. La bimba più grande è riuscita a salvarsi grazie anche al corpo della mamma che le ha fatto da scudo, il piccolo invece è stato raggiunto da un colpo che non gli ha lasciato scampo: è morto in ospedale dopo i disperati tentativi dei medici di rianimarlo. La bambina, che adorava il fratellino, è comprensibilmente sotto choc ed ha passato la notte all’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze. Anche la madre è stata ricoverata con ferite alla testa e agli arti: al momento è sedata per aiutarla a superare questi momenti terribili. La sua testimonianza sarà fondamentale per fare luce sulla tragedia. Il padre, al momento, non sembra in grado di farlo: i carabinieri lo hanno trovato in stato confusionale, si è fatto portare via senza opporre resistenza e una volta portato in caserma si è addormentato. A dare l’allarme ai carabinieri è stata la nonna, chiamata dalla figlia, terrorizzata. A convincere la piccola a lasciare il suo rifugio invece è stato lo zio. Nel giardino della casa, a notte fonda, i carabinieri hanno trovato il coltello gettato dal padre dopo l’omicidio.
La Stampa 16.9.18
Traffico di neonati, venduti per 120 euro
di Giuseppe Agliastro
Neonati venduti come se fossero merce. In Kirghizistan il commercio illegale di bambini continua a essere una fonte di guadagno per trafficanti senza scrupoli o per persone disperate che vivono nella più completa povertà.
L’ultimo scandalo risale a pochi giorni fa, quando alcuni medici del reparto maternità di un ospedale della capitale Bishkek sono finiti in manette con l’accusa di aver ceduto dei neonati in cambio di denaro. Secondo gli investigatori, subito dopo il parto i sanitari facevano credere ai genitori che i piccoli fossero morti o ormai in fin di vita. Poi li vendevano ai loro clienti. Il reato che viene contestato è «traffico di esseri umani», fa sapere un alto ufficiale della polizia criminale kirghisa, Marlis Dzhumabayev. «Alla puerpera - spiega - dicevano che il bimbo stava morendo, ma in realtà lo vendevano dopo aver compilato dei documenti falsi» sulla nascita.
Una pratica diffusa
Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Da inizio anno, i tentativi scoperti di vendere bambini in Kirghizistan sono stati almeno cinque. Ma in questa repubblica ex sovietica nel cuore dell’Asia si sono registrati diversi episodi singolari anche negli anni passati e il timore è che a emergere sia solo la punta di un iceberg. Nel 2015, un uomo di 26 anni della regione di Naryn, nel nord-ovest del Paese, è stato arrestato per aver cercato di dare via la figlia di cinque mesi in cambio di una capra. L’anno scorso sono finite dietro le sbarre tre donne che tentavano di vendere un bimbo di tre mesi a Bishkek per 10.000 som, ovvero 120 euro.
Qualche mese fa una madre è stata invece arrestata nella regione di Chui per aver cercato di vendere i suoi tre figli per 80.000 som, poco meno di mille euro. «Le donne non sposate o che rimangono incinte in seguito a una violenza sessuale cercano spesso di vendere i loro bambini», spiega a Radio Liberty l’attivista per la difesa dei diritti umani Avazkhan Ormnova, precisando che a volte fanno lo stesso coloro che «partoriscono e che hanno già molti figli», e quindi troppe bocche da sfamare.
Secondo Ormnova, per stroncare questo vergognoso traffico di esseri umani, «è necessario migliorare le leggi e inasprire le pene per questi reati». Anche la miseria però è una delle cause del commercio illegale di bambini. In Kirghizistan, dove vivono 5,7 milioni di persone, la retribuzione media è di 14.000 som al mese. Circa 170 euro.
La Stampa 16.8.18
“Restituire i tesori razziati”
La sfida che divide i musei
di Maurizio Assalto
Il sasso l’aveva lanciato il presidente francese Emmanuel Macron il 28 novembre di un anno fa, durante una visita a Ouagadougou, nel Burkina Faso: «Non posso accettare che una larga parte del patrimonio culturale di diversi Paesi africani si trovi in Francia […]. Io voglio da qui a cinque anni siano poste le condizioni per una serie di restituzioni temporanee o definitive del patrimonio africano all’Africa». Un’inversione di 180 gradi rispetto al suo predecessore François Hollande, che appena sei mesi prima aveva risposto di no a una precisa richiesta di restituzione da parte del Benin.
Poteva sembrare una semplice captatio benevolentiae verso l’ospite africano, e infatti sul momento lo stagno restò tranquillo. Invece - dalle parole ai fatti - lo scorso marzo il capo dell’Eliseo ha affidato l’incarico a una coppia formata dalla francese Bénédicte Savoy, specialista del patrimonio artistico, docente alla Technische Universität di Berlino e al Collège de France, e dall’economista Felwine Sarr, professore all’Università Gaston-Berger de Saint-Louis, in Senegal, autore nel 2016 di un saggio che ha fatto molto discutere, Afrotopia. Il loro compito, riflettere sulle condizioni e le modalità della restituzione, e presentare proposte concrete entro il novembre 2018. Cioè tra poco più di due mesi. E questa volta, tra i direttori delle maggiori istituzioni museali europee, le acque si stanno agitando.
«La nostra anima dispersa»
Perché, sebbene Macron si riferisca ai manufatti frutto dei saccheggi perpetrati durante il periodo coloniale, o comunque acquisiti attraverso transazioni sospette, bisogna considerare che nelle collezioni francesi sono circa 70.000 gli oggetti di origine africana. E, di questi, 53.000 nel museo parigino del Quai Branly: cinque volte quelli posseduti dal Théodor Monod d’Arte africana di Dakar, uno dei maggiori del continente. Tra i vanti del museo in riva alla Senna sono le statue del regno di Dahomey, razziate con altri tesori dal generale Alfred-Amédée Dodds nel sacco dell’allora capitale dell’attuale Benin, 1892-94: oggi il Paese rivendica dalla Francia dai 4500 ai 6500 oggetti, fra troni, porte di legno scolpito, scettri reali. Circa 3000 sono invece i pezzi senegalesi, che salgono a oltre 5000 se si conteggia anche il materiale iconografico. Ma il primato spetta al Camerun, che tutto compreso contribuisce con ben 15.169 reperti. E il problema, sia pure in termini più contenuti, può valere per il British di Londra come per l’Africa Museum di Tervuren, in Belgio, per il futuro Humboldt Forum di Berlino e tanti altri. Il 90% del patrimonio storico-artistico dell’Africa sub-sahariana (quello della parte settentrionale ha patito gli effetti dell’iconoclastia islamica) si trova attualmente fuori dell’Africa.
«Perché abbiamo lasciato portare via la nostra anima ai quattro angoli del mondo?», è la domanda (retorica) dello scrittore kenyota Ngugi Wa Thiongo. Una risposta terribilmente ironica l’aveva fornita fin dal 1934 l’etnologo francese Michel Leiris, nel suo libro-denuncia L’Africa fantasma: «Si saccheggiano i negri, con il pretesto di insegnare al mondo a conoscerli e amarli, in fin dei conti a formare altri etnografi che andranno a loro volta a amarli e a saccheggiarli». Ora il duo Savoy-Sarr è deciso a rimettere le cose a posto. Intorno a loro si è riunito un vasto comitato di conservatori e direttori di musei europei e africani, giuristi, storici dell’arte, galleristi, e il 1° giugno si sono ritrovati tutti a Dakar in una conferenza internazionale sotto l’egida dell’Unesco, dal titolo «Circolazione dei beni culturali e patrimonio condiviso».
«Questi beni hanno un’anima», ha ribadito al consesso Patrice Talon, il presidente del Benin, spiegando che devono tornare «nelle terre dove sono stati creati, là dove tutto è in accordo con la loro essenza, e la loro storia rivela la loro grandezza piuttosto che il loro asservimento». Non solo, «la restituzione costituisce una giusta riparazione del pregiudizio storico e un mezzo di lotta contro la povertà, un fattore capace di creare impiego e ricchezza, uno strumento di sviluppo socio-economico». A chi obietta che l’Africa non è pronta per accogliere e esporre tanti tesori, gli interessati ribattono che Paesi come il Sudafrica, il Kenya, il Mali, lo Zimbabwe ospitano già importanti musei, mentre altri tre, progettati secondo gli standard internazionali, si stanno costruendo in Benin.
L’Italia ha già ridato
Così, anche se Savoy e Sarr spiegano che torneranno in Africa soprattutto gli oggetti dotati della maggiore carica simbolica, i direttori dei grandi musei internazionali si agitano. Perché si sa come le cose cominciano, ma quando si apre la breccia… Tanto più che, almeno in Inghilterra e in Germania, le opinioni pubbliche paiono favorevoli all’atto riparatorio, per lavare i sensi di colpa legati al passato coloniale. In Italia se ne è parlato poco, perché il tema è meno sentito, essendo stato il nostro colonialismo più limitato nello spazio e nel tempo (il bottino più rilevante, l’obelisco di Axum, è tornato in Etiopia, tra le polemiche, nel 2005), ma altrove il dibattito si infiamma: restituire o non restituire?
C’è da aggiungere che da noi prevalgono i musei legati al territorio, essendo il nostro un Paese «fonte», piuttosto che «ricettore». Con l’eccezione dell’Egizio di Torino, che però non corre rischi avendo acquisito tutto legalmente, al di fuori di avventure coloniali. Ma il problema, se non altro su un piano teorico museologico, investe anche il suo direttore Christian Greco: davvero la restituzione è la risposta unica e sufficiente per i danni commessi nel passato? Non ci può essere una forma di compensazione più utile per tutti, più conforme a un’idea di cultura come patrimonio universale e, soprattutto, non riducibile al solo elemento materiale? Sono alcuni dei temi sollevati nell’intervento che ospitiamo in questa pagina.
(GERARD JULIEN/AFP) - Le grandi statue reali del Regno di Dahomey (attuale Benin), datate tra il 1890 e il 1892 e razziate a fine ’800 dal generale francese Alfred-Amédée Dodds: tra i tesori del parigino Musée du Quai Branly, sono ora rivendicate dallo Stato africano
La Stampa 16.8.18
Più visibilità alla biografia dei pezzi
Dando conto del colonialismo
di Christian Greco
L’attualissimo dibattito sulle restituzioni mi induce non tanto, e non solo, a riflettere sulla possibilità e l’opportunità di questi - tanto auspicati quanto avversati - rimpatri, ma soprattutto sul ruolo dei musei inevitabilmente coinvolti in questo dibattito che vede fronteggiarsi due diverse posizioni. Da una parte, i detrattori della politica delle restituzioni sottolineano il fatto che i musei internazionali siano portatori di un universalismo positivo che intende le opere d’arte appartenenti al patrimonio culturale dell’umanità. Dal loro punto di vista il Museo universale resta il miglior contesto in cui avere a che fare con l’arte: le opere, seguendo quest’ottica, non obbediscono ai moderni confini politici e hanno sempre avuto collegamenti con l’altrove, e geografico e culturale. Su posizioni opposte si colloca chi crede, invece, che le opere debbano essere restituite al loro contesto originario, al luogo in cui sono stati prodotti.
Sono riflessioni a cui un museo come l’Egizio non può non guardare: la collezione torinese è infatti ambasciatrice di una cultura che ha le sue radici altrove ed è dunque lecito chiedersi come comportarsi con i reperti che custodiamo. Ed è proprio su questo che vorrei richiamare l’attenzione, tentando di inserire all’interno del dibattito un elemento di complessità, come del resto è complesso l’oggetto del dibattito.
Si è infatti troppo abituati a pensare il museo come un mero contenitore di oggetti che arrivano da luoghi più o meno lontani che ci si limita a esporre. Una visione del genere rischia di peccare di ingenuità: il museo non è solo la somma degli oggetti e della cultura materiale che custodisce. Non è insomma un non luogo, o per meglio dire un luogo neutro impermeabile all’azione di fattori quali il tempo o la temperie politica e culturale.
L’oggetto che entra in un museo non è solo decontestualizzato - sottratto al suo luogo di origine - ma è nello stesso momento ricontestualizzato, in un preciso momento storico e seguendo precise logiche allestitive figlie del tempo. Trova insomma un nuovo contesto. E la storia di questa musealizzazione - che ha spesso origini lontanissime - non può essere ignorata, né può essere derubricata a un semplice «errore» o a un insopportabile residuo del senso di colpa che alcuni Paesi provano per il loro passato coloniale.
Quella parte della storia, la afterlife dell’oggetto, ha una sua dignità e ha prodotto effetti nel corso degli anni. Come ha mirabilmente fatto notare Ian Hodder, nel suo libro Entangled: An Archaeology of the Relationships Between Humans and Things (2012), il reperto archeologico dà vita a discorsi diversi a seconda degli interlocutori con cui si interfaccia nel tempo. Così, per fare un esempio a tutti noto, la Nike di Samotracia è ormai strettamente connessa al suo contesto museale, al Louvre, a quella scalinata in cima alla quale generazioni di visitatori l’hanno ammirata. È diventata un oggetto identitario legato alle sale museali. Per moltissime persone, ora, è quello il suo contesto.
C’è un elemento in più, che mi preme aggiungere: durante la sua seconda vita, la vita museale per intenderci, l’oggetto non è solo esposto ma diventa anche (o, almeno, dovrebbe diventare) oggetto di studio. Quando, ipoteticamente, si restituisce un oggetto, dunque, che ne è del patrimonio immateriale prodotto nel corso degli anni? Gli studi, le indagini condotte su di esso non sono a pieno titolo considerabili patrimonio culturale? Esporre solo cultura materiale, infatti, non esaurisce la funzione di un museo che deve, in primo luogo, fare ricerca sulla collezione che custodisce. Mi chiedo allora se questo patrimonio intangibile nel disegno di alcuni debba essere parte integrante della restituzione o se invece si intenda una restituzione solo della parte materica dell’oggetto, il che vorrebbe dire privare il reperto della sua parte biografica, della capacità di narrare - grazie alla ricerca - la sua storia. Sarebbe insomma una restituzione muta.
Ma vorrei porre ancora qualche domanda: preso atto che il patrimonio intangibile e immateriale abbia una sua dignità pari a quella dell’elemento materico all’interno di un discorso postcoloniale, non si dovrebbe, forse, pensare a rendere accessibile quel patrimonio? Mi spiego meglio: continuare a organizzare convegni che hanno come oggetto di studio questi reperti nel mondo occidentale, in lingua inglese, non prestando attenzione alla diffusione e disseminazione dei risultati ottenuti in queste sedi, non è forse un atteggiamento neocoloniale?
Una strada che mi sembra possibile percorrere, dunque, è quella dell’accessibilità dei risultati della ricerca sui reperti, un maggiore impegno verso la circolazione degli studiosi - e certo non solo degli studiosi - e un ripensamento dei nostri allestimenti che sottolinei il momento coloniale. Si tratta di dare visibilità non solo al reperto ma alla sua biografia, alle sue molte vite, compresa, naturalmente, quella museale.
Repubblica 16.9.18
Prato
Le mamme cinesi " I nostri figli a scuola parlino solo italiano"
di Valeria Strambi
FIRENZE Inostri bambini devono parlare italiano». In classe, nei corridoi e anche a mensa sarà questa l’unica lingua ammessa. Ad avanzare la curiosa richiesta le famiglie cinesi di Prato, in Toscana, che hanno proposto un cambio di marcia alla preside del Conservatorio San Niccolò, storica scuola cattolica aperta nel 1785 da un gruppo di monache che accettarono il regime di semi clausura per insegnare l’educazione alle fanciulle.
La dirigente scolastica, Mariella Carlotti, come raccontato dal Tirreno, ha subito raccolto la sfida inserendo una modifica nel regolamento d’istituto. Dei 490 alunni che frequentano la scuola (una delle più prestigiose della città, la cui retta va dai 2.200 euro all’anno per le materne ai 3.800 per le superiori), molti sono di origine straniera, anche se ormai di seconda o terza generazione. La tentazione, quindi, è spesso quella di scambiare un ni hao invece che un "ciao" con il compagno di banco, o di isolarsi durante l’intervallo.
«È una scelta fatta per favorire l’integrazione — tiene a precisare la preside — Una regola che punta ad abbattere le barriere, non ad innalzarle. La lingua è lo strumento fondamentale per innescare il confronto, l’amicizia e la condivisione delle esperienze». Lingua che, stando a quanto sostenuto dalle famiglie, non può limitarsi a essere insegnata durante le lezioni: «È come se mandassi mio figlio a studiare l’inglese nel più rinomato college di Londra ma poi lui, fuori dall’aula, si mettesse a frequentare solo ragazzi italiani. Sarebbe uno sforzo inutile — spiega Carlotti — La richiesta avanzata dai papà e dalle mamme di questi studenti, che di mestiere fanno per lo più gli imprenditori, i commercianti, i ristoratori o gli avvocati, è quella di fare in modo che i loro figli parlino cinese il meno possibile».
Un invito che la preside ha raccolto e che metterà in pratica già a partire da domani, con il suono della prima campanella. E a chi dovesse sfuggire uno Xie xie al posto di un "grazie", che cosa accadrà? «Lascio la decisione al buon senso degli insegnanti — afferma la preside — Nessuno vuole introdurre misure punitive.
Gli studenti che ancora non conoscono bene l’italiano e sono più indietro potranno adeguarsi piano piano. Per tutti gli altri ci sarà prima un richiamo verbale e, solo se insisteranno, si passerà a un rapporto sul registro e a informare i genitori».
Repubblica 16.9.18
I piani per la manovra
I giovani dimenticati
di Chiara Saraceno
Nella spartizione del potere di spesa nella contrattazione sulla legge di stabilità, i protagonisti del "governo del cambiamento" confermano la tradizionale propensione per i trasferimenti monetari rispetto all’investimento in servizi, che pure avrebbe effetti sulla domanda di lavoro e, nel caso dei servizi educativi e di cura, favorirebbe la conciliazione tra partecipazione al lavoro remunerato delle donne con carichi famigliari.
Confermano anche il tradizionale sbilanciamento a favore della popolazione anziana. Nell’impossibilità di mantenere la promessa del reddito di cittadinanza, i pentastellati, infatti, puntano sulla pensione di cittadinanza, di fatto un innalzamento delle pensioni minime. Come se l’urgenza di offrire un sostegno reddituale a chi si trova in povertà non riguardasse principalmente adulti non anziani e minori. Poco meno della metà di chi si trova in povertà assoluta è composta da minori e giovani fino ai 34 anni, mentre gli anziani ne costituiscono un ottavo. E a livello famigliare la povertà assoluta è concentrata tra le famiglie con figli, con persona di riferimento giovane o nelle età centrali, molto meno tra quelle con persona di riferimento anziana.
Pur senza sottovalutare la gravità dell’esperienza di povertà in età anziana, sarebbe più sensato ed equo spendere i fondi a disposizione per allargare il Reddito di inclusione in modo da coprire tutta la platea dei poveri assoluti (con lo stanziamento attuale è coperto circa un terzo), aumentando anche l’importo, per avvicinarlo a quello attualmente garantito ai pensionati sociali. Se si persegue invece la strada di privilegiare chi ha una pensione bassa, pur di non utilizzare uno strumento faticosamente messo a punto dal governo precedente, si allargherà ulteriormente il divario tra poveri e tra generazioni. Mentre si continua ad aspettare un riordino dei trasferimenti alle famiglie con figli.
Anche la Lega, per mostrare che realizza la promessa di smantellare la riforma Fornero, punta a favorire i suoi elettori più anziani, i lavoratori vicini alla pensione, giocando sull’incastro tra età e numero minimo di anni contributivi per andare in pensione. Peccato che scaricherà un enorme peso sulle generazioni più giovani, che dovranno finanziare per anni le pensioni dei genitori, mentre loro stessi probabilmente non riusciranno mai a raggiungere i requisiti. Rafforzerà anche le disuguaglianze tra lavoratori, come succedeva con le pensioni di anzianità. Solo chi avrà accumulato una buona ricchezza contributiva, perché avrà avuto una carriera lavorativa regolare e con buoni compensi, potrà permettersi di andare in pensione a quota 100. Si tratta di maschi del Nord. Tutti gli altri — donne e lavoratori del Sud — non potranno permettersi di farlo, a meno di avere anche altri redditi. C’è pure il rischio che per finanziare questa contro- riforma venga tolta l’Ape sociale, che riguarda proprio i lavoratori e le lavoratrici più vulnerabili o con pesanti carichi di cura.
I 60 milioni di italiani evocati da Salvini a ogni piè sospinto non sono tutti uguali, nelle stesse condizioni. Le scelte che i due contraenti del governo stanno per fare allargheranno le forti disuguaglianze già esistenti. Potranno nascondere le proprie responsabilità evocando il nemico — immigrati, banche, Ue o pensionati d’oro. Ma fino a quando?
Chiara Saraceno sociologa si occupa di famiglia disuguaglianze povertà e welfare Tra i suoi ultimi libri "Mamme e papà" (il Mulino, 2016) e "L’equivoco della famiglia" (Laterza, 2017)
Il Sole Domenica 16.9.18
In attesa della fine. Calendari e lancette mentono: il tempo si oppone ai tentativi di imprigionarlo in un preciso sistema di misura. Un saggio esplora contraddizioni e fallimenti del sogno umano di domare l’attimo che fugge
Il grande imbroglio del tempo
di Carlo Ossola
Tutte le società si sono ingegnate a misurare il tempo, eppure sappiamo – da sant’Agostino a Erasmo – che il tempo è, al più, un punto e noi, in esso, un nulla: «Nelle matematiche il punto è come una parte indivisibile della linea retta e, come dice Euclide, non comporta parte alcuna. E Plutarco, nell’Educazione dell’infanzia: «Tutta la vita non è che un punto del tempo» (Erasmo, Temporis punctum, in Adagia, 1170). Scienza e memoria si alleano a rendere incommensurabile il tempo: «Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» (Agostino, Confessioni, lib. XI, 14, 17). In un certo senso, non c’è nulla di più evidente del tempo: «Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente» (ibid.); ma, per lo stesso principio, esso fluisce: al punto che, per percepirlo, dobbiamo darlo per conchiuso, e dunque volto al non mai esistente: «Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere» (ibid.).
Di tante e folte aporie del tempo dà conto il libro, rapido, informato, brillante di Olivier Marchon ; il “30 febbraio”, che dà titolo al volumetto, è esistito in Svezia: il 30 febbraio 1712. Tutto ruota infatti, e così gran parte del libro, intorno alla riforma del calendario giuliano, voluta da papa Gregorio XIII, nel 1582, con la bolla Inter gravissimas; poiché – per il calcolo della Pasqua – la data dell’equinozio di primavera, sancito dal Concilio di Nicea del 325 d.C., non coincideva più con il 21 marzo. Si stabilì dunque che il giorno successivo al 4 ottobre 1582 fosse il 15 ottobre; il salto di quei dieci giorni che mancarono all’umanità non fu accettato da tutti i Paesi: gli Inglesi si allinearono soltanto nel XVIII secolo, i paesi ortodossi e la Russia ancora più tardi (senza contare i “calendari rivoluzionari” francese e sovietico nel XVIII e XX secolo), il Giappone nel 1873; l’Egitto nel 1875; la Cina nel 1912; la Turchia nel 1924. Per quasi quattro secoli si visse, per così dire, in sequenze difformi di tempo: accade così che Cervantes e Shakespeare siano morti nella stessa data, ma non nello stesso giorno (23 aprile 1616, con dieci giorni di differenza) e che santa Teresa d’Avila sia spirata - come chiosa argutamente l’autore - «nella notte tra il 4 e il 15 ottobre 1582». Il problema del calcolo del tempo tormenta e ispira ancora Jules Verne e gli detta la splendida parabola del Giro del mondo in 80 giorni, 1873.
Il Novecento ha solo apparentemente “uniformato” il calcolo del tempo, poiché nello spaziotempo che nasce dalla teoria della relatività (e dalle ulteriori variazioni che sono seguite) si installa un “principio di indeterminazione” (Heisenberg), a suo modo raffigurato da Salvador Dalí (1904-1989) come un continuo modificarsi di «montres molles», cedevoli, forme insomma di un «tempo invertebrato», dirà Enrico Castelli Gattinara. È uno scorrere, l’uno sull’altro, di tempi, misure, convenzioni, quali rappresenta - in una delle sue più acute meditazioni - Eugenio Montale: «Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri / che paralleli slittano / spesso in senso contrario e raramente / s’intersecano. È quando si palesa / la sola verità che, disvelata, / viene subito espunta da chi sorveglia / i congegni e gli scambi. E si ripiomba / poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo / solo i pochi viventi si sono riconosciuti / per dirsi addio, non arrivederci» (Tempo e tempi, da Satura, II, 1968).
Il tempo – conclude Marchon – attende la propria fine, e arde di poterla anticipare, ad ogni generazione inventando Apocalissi: la prossima è attesa per il «19 gennaio 2038 alle ore 3, 14 minuti e 7 secondi»; in effetti, come ha scritto Murakami in 1Q84: «Ciascuno, nel più profondo del suo cuore, attende la fine del mondo». Così si chiude il volume e offrirebbe certo una “freccia” acuminata al XXI secolo; ma mi viene irresistibilmente alla mente la voce lucida e ironica di un testimone di quella sincope, dal 4 al 15 ottobre 1582, Michel de Montaigne: «Sono due o tre anni che in Francia l’anno è stato accorciato di 10 giorni. Quanti cambiamenti dovevano seguire questa riforma! Fu davvero sconvolgere il cielo e la terra ad un tempo. Nondimeno, non c’è nulla che si muova dal suo posto; i miei vicini trovano il momento della semina, del raccolto, l’opportunità per i loro negozi, i giorni infausti e propizi proprio nel punto stesso in cui li avevano fissati da sempre. Non si avvertiva l’errore nel nostro uso, né si avverte l’emendamento. Tanta incertezza regna dappertutto! Tanto la nostra percezione è grossolana, oscura e ottusa!».
E annotava infine, rassegnato e impassibile: «Non abbiamo altro computo del tempo che gli anni. Sono tanti secoli che il mondo lo usa; e tuttavia è una misura che non abbiamo ancora finito di stabilire, e tale che dubitiamo ogni giorno quale diversa forma le abbiano dato gli altri popoli e quale ne fosse l’uso» (Essais, lib. III, 11: Degli zoppi [trad. di Fausta Garavini]). Sì, i nostri anni!: «Eheu fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni…» (Orazio, Carmina, II, 14).
Il 30 febbraio e altre curiosità sulla misurazione del tempo
di Olivier Marchon, Traduzione di Daniela Marchetti,
Archinto, Milano, pagg. 184, € 20
Il Sole Domenica 16.9.18
La biografia di Eugenio Montale
Cose rare e segrete nella vita di un grande poeta
di Stefano Crespi
Eugenio Montale rappresenta certamente un’esemplarità acutamente paradigmatica e testimoniale nel movimento infinito tra poesia e prosa. Riprendo dagli scaffali il libro Bibliografia montaliana di Laura Barile pubblicato nel 1977 nelle edizioni Mondadori: subito si coglie l’immensità dell’orizzonte espressivo in Montale.
Motivo di stimolo, di suggestione può essere il libro di Giulio Nascimbeni Montale. Biografia di un poeta (nella riedizione ora nel 2018 presso il Leggio Libreria Editrice di Chioggia). C’è una prefazione documentata di Franco Contorbia e una postfazione di Enrico Nascimbeni nel ricordo di Montale, nella memoria del padre.
Giulio Nascimbeni, giornalista al «Corriere della Sera» e responsabile della sezione cultura, ebbe una vicinanza con Montale. La sua prima edizione per Montale esce da Longanesi nel 1969, poi aggiornata.
Siamo immersi in un’accelerazione mediatica, formalizzata. Nello specchio di una biografia, la vita si innalza e ricade, seducente e insostanziale, incantata e peritura. Conta in una biografia la traccia, la segretezza, anche quel tratto originario che è ciò che è stato amato e non è accaduto.
Nel percorso di Montale emergono quelli che appaiono i luoghi significativi della sua esistenza: la Liguria e, soprattutto nei periodi estivi, Monterosso nello sfondo mitico e meraviglioso del mare; Firenze, per gli anni in cui è stato direttore del Vieusseux, nella tradizione della cultura, delle idee, dell’umanesimo; Milano, per gli anni al «Corriere della Sera», nella trama di inedite aperture, consapevolezze.
Montale avverte la cronaca caduca delle giornate, del quotidiano: una renitenza verso strumenti tecnici; gli stessi pensieri poetici vengono a volte a cadere su buste, fogli occasionali; la sua figura in una solitaria ritualità davanti alla macchina per scrivere.
Il punto caratterizzante della sua percezione è l’ironia. Al riguardo c'è un suggerimento di Alberto Savinio nel suo volume Ascolto il tuo cuore, città. Scrive Savinio che ironia è «ricerca e maniera sottile di insinuarsi nel segreto delle cose». Montale, fuori dalla dimensione appariscente, intuisce l’assenza, l’atonia, la corrosione (appunto l’ironia).
Nelle pagine biografiche ritroviamo riscontri esplicativi sul tema della figura femminile, del dialogo d’amore. Le figure femminili (che si sovrappongono, si confondono, divaricano, ritornano in evento) segnano quella moderna odissea senza approdo che è l'inquietudine stessa dell’esistenza.
Per Montale queste figure femminili sono la temporalità, la sua “voce”: l’accento, l’intensità, la fascinazione, lo sfondo di silenzio, il vuoto, la pagina bianca.
In qualche semplice richiamo, Esterina Rossi è la prima figura femminile che appare nella poesia Falsetto: «Come spiccata da un vento / t’abbatti fra le braccia / del tuo divino amico che t’afferra. / Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra». Sempre in Ossi di seppia misteriosa ispiratrice è la figura di Casa sul mare (Paola Nicoli nell’indicazione di Giulio Nascimbeni).
Per la poesia struggente La casa dei doganieri, nelle Occasioni, Montale dice: «L’ho scritta per una giovane villeggiante morta molto giovane. Per quel poco che visse, forse lei non s’accorse nemmeno che io esistevo».
Accanto alla passione, all’assiduità, alla collaborazione negli scritti per la musica, troviamo nella biografia il suggerimento per la diretta esperienza umana e creativa nella pittura. Così leggiamo in una pagina: «Due amici, Raffaele De Grada e Ernesto Treccani, lo avevano iniziato ai piaceri della pittura, prestandogli qualche pennello e qualche fondo di tavolozza».
Si mette in moto a volte una coniugazione tra spazio e tempo, immagine e scrittura.
Esemplare la figura di Alberto Giacometti. Tanto era sapiente negli strumenti espressivi (dal disegno, alla pittura, alla scultura) quanto tendeva nei suoi scritti alla pura traccia di un disarmante stupore.
Rispetto al complesso, vario registro della scrittura, l’esperienza in Montale della pittura tende a custodire la vibrazione, una luce, la “frase” interiore che si stacca dal linguaggio. Sono piccoli paesaggi, marine, spiagge, fiori e giardini. La parola è giunta alla fine. Sul margine della scrittura, la piccola immagine diventa la grazia perduta di abbandono, di anonima evocazione.
Le pagine di questa biografia possono essere un’apertura a riaccostare, oltre alla poesia, qualche tratto della prosa, della vita di Montale. Vorrei richiamare Farfalla di Dinard che è la prosa che dà il titolo a un volume.
Al caffè in una piazzetta ventosa di Dinard, l'autore lascia alla cameriera una lauta mancia. Si presenta come un “entomologo dilettante” chiedendogli di scrivergli «un sì o un no» se quella farfalletta si fosse rifatta viva. La figura femminile ha un moto di stupore, di incredulità, nella grazia candida di una pittura di Greuze. La farfalla intanto è scomparsa: oggetto, simbolo, illusione, anonima tenerezza, inganno della vita che appare e svanisce.
In un pensiero finale, valga il suggerimento di un’espressione di Ernesto Treccani il quale aveva un incontro a Parigi con Alberto Giacometti senza averlo mai conosciuto di persona. Scrive Treccani: «Ognuno di noi somiglia alle cose che fa». La figura di Giacometti era la figura stessa di una sua scultura.
L’opera di Montale è il riflesso della sua figura. La casa a Milano in via Bigli al numero 15 con l’attenzione della governante. Alle pareti quadri di pittori amati. Davanti a un tavolino con libri, Montale in poltrona con una piccola coperta sulle ginocchia. Nel gesto della mano una sigaretta: il fumo di quella sigaretta nello scorrere del tempo.
Montale. Biografia di un poeta, Giulio Nascimbeni Il Leggio Libreria Editrice, Chioggia, pagg. 166, € 18
Il Sole Domenica 16.9.18
Walter Benjamin
Pessimista prigioniero del suo ingegno
di Armando Torno
La figura di Gaspar de Guzmán, conte di Olivares e duca di Sanlúcar, oggi potrebbe evocare la celebre domanda: chi era costui? Eppure, un giudizio che riguarda questo politico e “privato” di Filippo IV si legge nel V capitolo dei Promessi Sposi, dove al pranzo di don Rodrigo il podestà garantisce che di una simile testa «ce n’è una sola al mondo». È possibile rivederlo al museo del Prado, a Madrid, nella magnifica tela di Diego Velázquez del 1634, che lo ritrae a cavallo: quadro adulatorio che rivela ironia e qualche “agudeza” solo all’osservatore paziente. Aggiungiamo che John H. Elliott, Regius Professor Emeritus di Storia Moderna a Oxford, gli ha dedicato saggi fondamentali, ricordando tra l’altro che per raggiungere il suo studio a palazzo si doveva passare in una galleria alle cui pareti erano stati posti ritratti di pazzi e buffoni. Uno schema decorativo che il conte duca avrebbe ordinato per rammentare ai visitatori, pronti a chiedere e a implorare, il disagio recato dai seccatori, le vanità dell’intelletto, le follie dell’orgoglio.
Immagini che ci sono venute alla mente rileggendo la premessa critico-conoscitiva dell’opera di Walter Benjamin Origine del dramma barocco tedesco, nella parte dedicata al nominalismo dello storico Konrad Burdach, noto per la sua tesi che sosteneva una continuità tra Medioevo e Rinascimento, contrariamente a Jacob Burckhardt. Benjamin prende atto, con precisazioni e distanze, che il tanto amato “uomo del Rinascimento” è solo una maschera, così come crea confusione l’ottocentesco ”uomo gotico”, mentre l’”uomo barocco” necessita la chiamata in causa di Shakespeare. Fantasmi, insomma, a cui Benjamin fa seguire un quesito: «Come sono andate davvero le cose?»; e a tale interrogativo aggiunge le parole: «Scientificamente non può trovare soluzione, ma soltanto essere posto».
L’Origine del dramma barocco tedesco è un libro denso, che non recò sperate fortune accademiche al suo autore, ma non si ferma al mondo barocco, giacché questioni e considerazioni coinvolgono il pensiero del Novecento, con richiami a Benedetto Croce e, tra gli altri, a Carl Schmitt. Ne è appena uscita una nuova traduzione presso Carocci; o forse è meglio chiamarla, per gli apparati e le attenzioni poste, l’edizione italiana che si attendeva, anche se tale opera si legge nella nostra lingua dal 1971, dopo la pubblicazione nella prima serie della Pbe Einaudi realizzata da Enrico Filippini con introduzione di Cesare Cases. Questa di Carocci è stata tradotta da Alice Barale, la prefazione si deve a Fabrizio Desideri, che è anche il supervisore dell’intero lavoro. Va notato che del titolo originale tedesco, Ursprung des deutschen Trauerspiel, si rende l’ultimo termine (non facilmente traducibile), seguendo una consuetudine, con “dramma barocco”; a volte con “dramma”.
In margine al libro, ormai un classico del ‘900, notiamo che Alice Barale ha lavorato sul testo della prima edizione del 1928 (una nota informa sulle differenti versioni) e che Benjamin è riproposto e studiato continuamente. Per esempio, oltre le Opere complete in catalogo da Einaudi, Castelvecchi ha appena editato Esperienza e povertà, dove sono raccolti quattro saggi; Morcelliana, invece, dello stesso Fabrizio Desideri ha pubblicato il saggio Walter Benjamin e la percezione dell’arte, il cui primo capitolo si intitola Teoria del nome, Trauerspiel, Passage.
Già, Benjamin: è bene leggerlo per capire il nostro tempo. Di lui disse l’amico Gershom Scholem: «Essenzialmente un puro e semplice metafisico, attirato da soggetti che con la metafisica avevano poco o nulla da spartire».
Origine del dramma barocco tedesco Walter Benjamin Carocci Editore, Roma, pagg. 460, € 43
Il Sole Domenica 16.9.18
Altro che neutrale: desolato
T.S. Eliot. Una nuova traduzione di «Terra desolata» è l’occasione per parlare dei riferimenti alla guerra e del coinvolgimento del suo autore, a lungo sottovalutato
di Renzo S. Crivelli
Una delle scene centrali della Terra desolata, il poemetto di T.S. Eliot uscito nel 1922 a testimoniare la devastazione morale dell’Europa appena uscita dalla prima guerra mondiale, mostra il London Bridge attraversato dalla folla degli impiegati che si recano al lavoro alla City. In un’atmosfera dantesca vediamo sfilare una massa di individui simili a robot che si muovono verso il tempio della finanza e della ricchezza. «Città irreale,/ nella nebbia bruna di un’alba invernale/ fluiva una folla sul London Bridge, sì lunga/ ch’i’ non avrei creduto, che morte tanta n’avesse disfatta»: così intona Eliot, uno dei massimi scrittori del Modernismo (sperimentatore alla pari di Virginia Woolf e di James Joyce). E quel fluire di anime in pena in cui sono incastonati, con un’operazione di collage intertestuale innovativa, i versi supremi di Dante nel III canto dell’Inferno relativi agli ignavi, ci appare come l’epitome della generazione perduta che si dibatte nell’incertezza.
In quel contesto, infatti, compare una brevissima scena in cui due personaggi, usciti, come accade nella Commedia, dal gruppo delle anime oscillanti, si riferiscono alla tragedia appena terminata. Sono ex soldat i, e uno chiama l’altro Stetson, ricordandogli che erano insieme alla battaglia navale di Capo Milazzo. Presente e passato, come in tutta la Terra desolata, si mescolano qui sovrapponendo, in una prospettiva mitica, la battaglia avvenuta nel 260 a.C. tra romani e cartaginesi a quella dei Dardanelli del 1914-15.
La Terra desolata incarna l’assenza di valori dell’uomo del XX secolo, incapace di saldare la tradizione alla modernità, inconsapevole di quanto il mito alberghi nella cultura occidentale sorda ormai agli insegnamenti della Storia. Eliot, infatti, attraverso una miriade di riferimenti ai rituali e agli archetipi della nostra civiltà ci narra il passaggio dall’ordine fasullo dell’Europa delle nazioni al caos della guerra, fino alla percezione di una rinascita fondata sulla forza del mito rigeneratore. Il mito classico contro il mito della guerra. A quasi cent’anni dall’uscita di questo testo composito, che ingloba un vastissimo panorama di fonti culturali (dalla Bibbia all’English Book of Common Prayer alla Leggenda del Graal al Brihadaranyaka Upanishad, il grande testo induista, passando attraverso Dante, Ovidio, Petronio, Spenser, Shakespeare), ci interroghiamo ancora sulla sua struttura, sulle sue implicazioni filosofiche e storiche, specie alla luce del percorso spirituale dell’autore, che, nato a Saint Louis, abbracciò nel 1927 l’anglo-cattolicesimo naturalizzandosi cittadino britannico. E tutti concordano sulla sua attualità, specie alla luce del centenario della Grande Guerra.
Ben venga dunque una nuova traduzione della Terra desolata, come quella di Aimara Garlaschelli per le Edizioni ETS, che si assomma alle precedenti finendo in buona compagnia, anche se quelle “classiche” di Roberto Sanesi (Bompiani 1961) e di Alessandro Serpieri (Rizzoli 1982) resistono ancora gloriosamente. Garlaschelli, questo va detto, trova ottime soluzioni, più sintetiche e coincise, rendendo bene il ritmo originale. L’unica obiezione, marginalissima, riguarda nel finale la traduzione di «con questi resti ho alzato argini/ alle mie rovine», che tralascia l’originale «fragments» («con questi frammenti…»), eludendo un termine-chiave per capire il poemetto che, nell’intenzione dell’autore, è proprio una ricostruzione di «frammenti» psicologici e culturali.
Tornando ai contenuti, le più recenti letture della Terra desolata evidenziano un aspetto che in passato è stato sottovalutato: il reale coinvolgimento di Eliot nella tragedia della guerra. Si diceva che il poeta fosse troppo neutrale (forsanche perché all’epoca era ancora cittadino americano) e più interessato a una visione culturale del mondo (da qui anche l’accusa di eccessiva erudizione). Ma troppe sono le allusioni trasversali ai campi di battaglia nel poemetto, campi in cui — come si domanda un personaggio — non si rigenera più nulla dopo la devastazione. Ne fa fede la speranza che quei morti, caduti e sepolti sulla Somme, non restino esclusi dal rinnovarsi simbolico delle stagioni (aprile, infatti, è divenuto «il più crudele dei mesi»). Ormai sappiamo che Eliot fu attraversato dalla guerra per via della testimonianza diretta di Maurice Haigh-Wood, fratello della moglie Vivien, che subì uno shock vivendo la degradazione umana di quelle trincee. Non solo ma, come sottolinea Anthony Johnson nell’ampia introduzione, il poeta paga nella Terra desolata un tributo affettivo ad un amico dei tempi parigini, Jean Verdenal, poi arruolatosi nel XVIII Reggimento francese di fanteria immolandosi nei Dardanelli per salvare la vita a un commilitone. E non vi sono dubbi che Eliot, come si è visto, si riferisca proprio a quei Dardanelli nella frase di Stetson, l’ombra dantesca fuoriuscita dalla schiera delle anime perdute sul London Bridge.
La terra desolata, T.S. Eliot, trad. e cura di Aimara Garlaschelli, Edizioni ETS, Pisa, pagg. 146, € 14
Il Sole Domenica 16.9.18
George L. Mosse, 1918-2018. Resta attuale la lezione dello storico che ha visto nel razzismo, nel nazionalismo, nell’antisemitismo movimenti di attrazione per le masse nei periodi di crisi
L’empatia con i malvagi
di Emilio Gentile
A Berlino, nel 1932. Un ragazzo di quattordici anni uscì da casa all’insaputa dei genitori per andare vedere un’adunata del partito nazionalsocialista. Si trovò subito immerso nello spettacolo multicolore di bandiere agitate da una folla di giovani militi in camicia bruna, che cantavano inni esaltanti la grande Germania. Poi apparve Hitler. Sessanta anni dopo, diventato storico famoso, il ragazzo di allora ricordava in una intervista: «Ancora oggi devo ammetterlo: fu un’esperienza trascinante. C’era la massa che ti coinvolgeva. Ma c’era Hitler. Il suo carisma esercitava un effetto straordinario sulla gente, che lo volesse o no. Hitler era una vera attrazione».
Nella Germania del 1932, non era evento eccezionale un ragazzo affascinato da Hitler in una adunata nazista. Ma lo rendeva eccezionale il fatto che il ragazzo, Gerhard Lachmann Mosse, nato a Berlino il 20 settembre 1918, era il rampollo più giovane di una ricchissima e molto influente famiglia di ebrei tedeschi. Il nonno materno Rudolf Mosse era fondatore e proprietario di un’agenzia pubblicitaria internazionale e di un impero editoriale, che pubblicava i più importanti giornali liberali tedeschi. Dopo la Grande Guerra, la gestione dell’impero Mosse passò al padre di Gerhard, Hans Lachmann, marito della figlia di Rudolf. I Lachmann-Mosse erano ebrei integrati nella nazione tedesca. Come molte famiglie dell’alta borghesia ebrea, i Lachmann-Mosse erano illuministi e liberali. I giornali dell’impero editoriale Mosse osteggiarono il nazismo, pur sottovalutandolo. Nel marzo 1933, la famiglia Mosse fuggì dalla Germania, dopo essere stata costretta a cedere tutti i suoi immensi beni, riuscendo a salvare soltanto le sedi estere dell’agenzia pubblicitaria.
Diventato apolide e profugo, Gerhard continuò gli studi in Inghilterra; poi, dal 1939, li proseguì negli Stati Uniti, dove si laureò e cambiò il nome in George L. Mosse. Sul suo passaporto tedesco, era impressa la “J” e il nome Gerhard era seguito dal nome Israel, come imponeva la legge nazista, ma lui viaggiava con un passaporto del Lussemburgo. Negli Stati Uniti, George scoprì quasi per caso l’amore per la storia, specializzandosi sul periodo medioevale e moderno. Dal 1944 al 1955, fu docente di storia moderna nell’Università di Iowa, e nel frattempo divenne cittadino americano. Dal 1956, insegnò storia della cultura europea nell’Università del Wisconsin; dall’inizio degli anni 60, svolse anche corsi regolari nell’Università di Gerusalemme.
Quando morì, il 22 gennaio 1999, Mosse era diventato da qualche decennio uno storico di fama internazionale per la rivoluzione storiografica compiuta con i suoi studi sulla cultura e la politica di massa del nazismo, sulla interpretazione del fascismo come fenomeno rivoluzionario, sulla storia del nazionalismo, dell’antisemitismo e del razzismo, da lui considerati potenti movimenti di attrazione per le masse nei periodi di grave crisi. L’originalità del suo metodo e delle sue ricerche consisteva principalmente nella capacità di indagare storicamente «il fascino del persecutore», come lo abbiamo definito, cioè le passioni, le idee e i miti del nazismo e del nazionalismo rivoluzionario razzista e antisemita, che produssero il genocidio degli ebrei. Da storico, Mosse asseriva «la necessità dell’empatia anche con coloro che giudichiamo malvagi e pericolosi», perché solo così è possibile comprendere, con l’esercizio della mente critica, l’origine e i motivi della loro malvagità. In epoca di sconvolgimenti, è concetto fondamentale della sua analisi, la maggior parte delle persone cerca «riparo in un saldo sistema di credenze o in una concreta identità, malgrado tutta la violenza e lo spargimento di sangue che rischiano di seguirne». Fino all’Olocausto.
Nell’autobiografia Di fronte alla storia (Laterza 2004), Mosse ha scritto di aver sempre avuto la «vivida sensazione di essere un sopravvissuto»; per questo motivo ha «costantemente cercato di capire un evento troppo mostruoso da contemplare», di «trovare la risposta al problema di come sia potuto avvenire». La catastrofe dell’Olocausto è una presenza latente in tutti gli studi di Mosse sulla cultura occidentale, campo principale delle sue ricerche, perché «in una catastrofe del genere si riflettono le tendenze principali della cultura contemporanea; essa è come un prisma, o meglio, come uno specchio deformante che restituisce, malvagiamente manipolate, molte delle molle che animano gli esseri umani»; alla fine, «ho avuto la sensazione di essermi avvicinato a una comprensione dell’Olocausto come fenomeno storico». A tale comprensione Mosse era giunto studiando anche fenomeni non collegati direttamente all’Olocausto, come le relazioni fra sessualità e nazionalismo, gli stereotipi della mascolinità, gli stereotipi contro gli outsiders, i diversi e gli estranei, capri espiatori di masse in cerca di sicurezza in una comunità chiusa nella presunta identità immutabile della nazione e della razza. Mosse aveva vissuto personalmente l’esperienza dell’outsider, costretto per anni a mascherare o a celare la condizione di ebreo e di omosessuale. La conoscenza della storia e l’esperienza personale lo resero particolarmente acuto nell’osservazione dei movimenti nazionalisti che conquistano le masse alimentando pregiudizi contro i diversi, gli estranei, gli stranieri.
Nell’esordio del suo libro più noto e influente, La nazionalizzazione delle masse (il Mulino 1975), Mosse ha definito la sua opera «il frutto di lunghe meditazioni sulla dignità dell’individuo e su coloro che hanno attentato contro di essa riportando per lunghi periodi del nostro secolo un grande successo nel privare l’uomo di ogni controllo sul proprio destino». Se fosse vivo, a cento anni, constaterebbe che siamo già entrati in un nuovo periodo, non sappiamo se lungo o breve, di movimenti che attentano alla dignità dell’individuo, sottraendogli il controllo sul proprio destino. L’attuale tendenza era stata prevista da Mosse già negli anni 80 (Emilio Gentile, Fanatismi incombenti, «Domenica. Il Sole 24 ore»,18 febbraio 2018). La sua preveggenza non era dono profetico, ma capacità di analizzare con realismo la fragilità della democrazia liberale in epoche di sconvolgimenti, che provocano insicurezza e paura nelle masse.
La fragilità della democrazia liberale è stato l’altro tema della meditazione di Mosse, latente nella storiografia ma spesso presente nella sua attività di conferenziere, come mostrano le migliaia di pagine inedite di lezioni e conferenze, che comporrebbero una decina di volumi. Negli anni 50, i temi delle sue conferenze erano: «Libertà individuale e sicurezza nazionale», «Persecuzione e libertà», «Libertà di coscienza». Nel 1954 l’agnostico Mosse dichiarò a un auditorio protestante: «Tutte le nostre libertà sono legate insieme. Spesso noi siamo stati sul punto di sacrificare alcune libertà politiche così faticosamente conquistate alle fluttuazioni di un’opinione pubblica eccitata o agli allettamenti dell’opportunità politica. Stiamo in guardia contro un conformismo imposto; è la strada che conduce alla perdita della nostra libertà di fronte a Dio. Per essere un uomo libero bisogna accettare le differenze: la coscienza di ogni uomo è uguale all’occhio del Signore».
Il Sole Domenica 16.9.18
Isaac Newton e la religione. Fu matematico, fisico, alchimista e straordinario studioso di testi sacri. Ma l’aspetto dominante della vita fu la fede
La luce di Dio sulle leggi della natura
di Arnaldo Benini
«La natura e le sue leggi erano nascoste nella notte. Dio disse: Newton sia! e ovunque fu luce». Il distico del poeta Alexander Pope, quasi coetaneo di Newton, testimonia il prestigio di cui godeva lo scienziato. Per il poeta William Wordsworth, Newton era stato una mente eterna, solitario viaggiatore per mari sconosciuti. La mente che ha portato luce con esplosioni creative straordinarie in fisica, ottica, astronomia e matematica, antesignano dell’illuminismo per il rigore razionalistico della sua ricerca, per trent’anni ha viaggiato per la maggior parte del tempo e dell’impegno nei mari sconosciuti degli studi del paganesimo, di cronologia della Bibbia, di teologia, di storia delle religioni, di testi di padri della Chiesa, di Cabbala e di riti ebraici. Soprattutto a partire dalla fine degli anni ’70 del XVII secolo egli sentiva spesso la scienza, o filosofia naturale, così allora si chiamava, come fastidiosa intrusione nelle ben più importanti ricerche e riflessioni teologiche. John Locke era sbalordito delle sue conoscenze bibliche.
Altro campo di studi cui si dedicò con intensità fu l’alchimia, di cui possedeva la maggior raccolta di testi e manoscritti in Europa. John Maynard Keynes, studiando manoscritti alchemici inediti di Newton acquistati in un’asta nel 1936 e poi lasciati al King’s College di Cambridge, avrebbe esclamato che Newton non era il primo degli scienziati ma l’ultimo dei maghi, dei Babilonesi e dei Sumeri. Sorpresa che si prova ancor oggi leggendo i suoi testi alchemici. Anni di esperimenti inutili con il mercurio ed altri veleni ne minarono verosimilmente la salute fisica e mentale. In Clavis, ad esempio, egli insegna come produrre un amalgama d’antimonio, mercurio, argento e oro capace di sciogliere tutti i metalli.
Il poderoso, dettagliatissimo e meraviglioso libro di Rob Iliffe, storico dell’Università di Oxford che più d’ogni altro conosce i manoscritti inediti in inglese e in latino di Newton, documenta, con un’informazione sterminata, come la sua vita sia stata «pervasa da un predominante intento religioso». La spinta alla ricerca, alchemica, astronomica, matematica e fisica, allo studio storico-religioso e alla teologia, era la volontà di capire come Dio agisse nel mondo. Già le monografie su Newton di F.E. Manuel (The religion of Isaac Newton del 1974) e di Richard S. Westfall (Never at Rest A Biography of Isaac Newton del 1980) avevano trattato l’argomento, ma non con la profondità di Iliffe, anche perché la maggior parte dei manoscritti d’argomento religioso sono accessibili da una quindicina d’anni. La fede cristiana fu l’aspetto fondamentale della sua vita.
A partire dai tardi anni ’70 era conscio d’essere arch-heretic. I testi religiosi, tranne poche eccezioni, non furono dati alle stampe dall’autore perché l’eresia, nell’Inghilterra protestante, era quasi altrettanto pericolosa che nei paesi dell’Inquisizione. Più tardi gli scritti furono considerati frutto di ossessioni, e forse della mente indebolita. Su di loro si stese un imbarazzato silenzio, per secoli. Essi contribuiscono alla comprensione di meandri poco conosciuti di una delle menti più straordinarie e del fondamento culturale e morale di tutto il suo immenso lavoro.
Ricercando la natura di Dio, Newton visse nell’antinomia, spesso atroce, fra la fedeltà alla Chiesa d’Inghilterra e ciò che gli studi gli rivelavano oltre ogni dubbio: che la Trinità, indiscutibile per cattolici e protestanti, era in realtà una diabolica frode che aveva introdotto il politeismo e l’idolatria nella fede cristiana. Centrale era la seconda persona della Trinità, Cristo. Tardo seguace del padre della chiesa Arius, considerava Cristo figlio di Dio, ma non uguale a Dio. L’originale purezza del Vangelo era stata contaminata dall’elevazione di una creatura di Dio, Cristo, all’altezza di Dio. Dobbiamo adorare Cristo, diceva Newton, come Signore, ma non violare il primo comandamento («Non avrai altri dèi davanti a me»). L’idolatria pervase la vita della Chiesa portando alla venerazione dei santi e del pane nell’Eucarestia. Colpevole massimo era Atanasio, che nel concilio di Nicea del 325 d.C. aveva corrotto la Chiesa facendole accettare l’unità della sostanza di Dio e di Cristo, per Newton il massimo dell’apostasia. Essa aveva indotto, con una consequenzialità quasi ossessiva non facile da capire, perversioni come il voto di celibato, la vita monastica, i privilegi del clero e la crescita a dismisura dell’autorità papale.
Per Newton il cattolicesimo romano era la maggior minaccia religiosa e politica del suo tempo. Da un millennio e mezzo la Cristianità, compresa la Chiesa d’Inghilterra, era nella morsa di un inganno idolatrico e fatale propagandato da preti e monaci fraudolenti. I molti scritti su Cristo ribadiscono che Cristo non è Dio, ma un profeta, il Messia e il più importante dei messaggeri di Dio, nella scia dei profeti da Mosè in poi.
C’è chi sospetta che Newton si considerasse uno di loro, intento alla lotta contro l’idolatria, le superstizioni, l’irrazionalità e la corruzione religiosa. Difficile crederlo, dato che delle sue radicali convinzioni arcieretiche non fece parola con nessuno, anche perché, come minimo, sarebbe stato cacciato dalla cattedra di matematica del Trinity College di Cambridge, come accadde al suo successore William Whiston, quando si professò antitrinitario. Newton non aveva la vocazione e l’abnegazione del profeta e del propagatore di verità scomode e pericolose. Si professò sempre devoto alla Chiesa d’Inghilterra. Quando non c’era più nulla da temere, rifiutò l’estrema unzione.
Se Dio ha creato il mondo, esso è il suo tempio e coloro che lo studiano, per Newton, sono sacerdoti della natura. Egli si riteneva un accademico cristiano. Profonda convinzione, che legò la ricerca naturale, anche nella versione alchemica, alla riflessione teologica. A quest’aspetto fondamentale della cultura newtoniana Iliffe dedica molte delle pagine fra le migliori. L’infinita estensione dello spazio della concezione astronomica newtoniana è congruente con l’esistenza immateriale e infinita di Dio. Gli uomini sono creati a sua immagine, e nella mente umana sono presenti in modo attenuato le caratteristiche divine.
La riflessione su come la mente immateriale possa muovere il corpo potrebbe aiutarci a capire, per Newton, come Dio, puro spirito, agisca sul mondo fisico. E qui si mise nei guai, pizzicato anche dall’eterno rivale Leibniz. L’universo infinito, scrisse nella prima versione del De Gravitatione, è il Sensorium grazie al quale Dio, incorporeo, è onnipresente nella sua creazione. Di un analogo, ma ben più modesto Sensorium, disporrebbero le anime umane per comunicare con i corpi. Una convinzione che Newton, accusato d’eresia materialistica spinoziana, attenuò, sostenendo che Dio era presente nella creazione come se l’universo fosse il suo Sensorium, revisione assai ambigua alla quale Leibniz non credette.
In uno dei manoscritti acquistati da Keynes, Newton aveva scritto, poco prima di morire, che gli sembrava «di essere stato solo un fanciullo che gioca sulla riva del mare [dove lui, si tramanda, non era mai stato] e si diverte a trovare, ogni tanto, un sassolino un po’ più levigato o una conchiglia un po’ più graziosa del solito, mentre il grande oceano della verità si estende inesplorato dinanzi a me»: meravigliosa parafrasi di una mente che, avendo cercato per tante strade la verità, aveva compreso che essa è irraggiungibile.
ajb@bluewin.ch
Priest of Nature. The Religious Worlds of Isaac Newton, Rob Iliffe
Oxford University Press, Oxford, UK, pagg. 522, € 29,19
Il Sole Domenica 16.9.18
Le non ragioni degli atei
La grande domanda metafisica
di Dario Antiseri
«La scelta fra l’esistenza e l’inesistenza di Dio» – ha scritto Luigi Pareyson – «è un atto esistenziale di accettazione o ripudio, in cui il singolo uomo decide a suo rischio se per lui la vita ha un senso oppure è assurda, giacché a questa opzione si riduce in fondo e senza residuo quel dilemma. Tale opzione è eminentemente religiosa, anche quando si risolva in senso negativo, perché il ripudio di Dio è così strettamente legato all’accoglimento che in alternativa si può farne, che ne conserva sempre un’inconsapevole nostalgia. La filosofia, poi, in quanto sopravviene a scelta già fatta, non ha più voce in capitolo, non certo per affermare l’esistenza di Dio, ma nemmeno per negarla, perché anche il ripudio di Dio non è frutto d’un ragionamento, ma atto profondo e originario della persona.
D’altra parte la filosofia non ha il compito di dimostrare l’esistenza di Dio, perché essa non estende la conoscenza a nuovi ambiti di realtà, ma riflette su esperienze esistenziali: il suo compito non è dimostrativo, ma ermeneutico». E va da sé che il credente che non ha dubbi non ha fede. Hanno dubitato gli Apostoli. La «notte dell’anima» è esperienza di grandi anime mistiche. «L’uomo religioso» – è ancora Pareyson a parlare – «può capire il dubbio, che non è se non il risvolto della sua fede, un aspetto essenziale di essa o un suo momento interno, giacché la fede è ben lungi dall’essere un possesso tranquillo, sicuro e incontrastato, favorito dalla tradizione e ribadito dall’abitudine, ché anzi spesso è lotta durissima e tensione lancinante, appena lenita dalla consapevolezza ch’essa è cosa vivente e vivifi catrice, bastevole a ispirare e riempire una vita intera».
Dunque, se non hai dubbi non hai fede. Ma l’ateo troppo sicuro di sé usa o abusa della ragione? Quale prova è disponibile per poter sostenere che il tutto-della-realtà è rigorosamente e convincentemente riducibile a quella realtà di cui parla e può parlare la scienza? L’ateismo non è una teoria scientifica. E non è certamente la scienza, fi nché la ricerca rimane nel suo legittimo ambito di azione, a negare la possibilità di una realtà trascendente. E c’è di più. Difatti, se la fede conduce al mistero di un Dio creatore, l’ateo non si trova pure lui di fronte al fatto misterioso di un grumo di materia originario da cui si è sviluppata e si sviluppa la storia dell’universo?
Questo grumo di materia si è autocreato? Come sostiene Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-philosophicus, l’esistenza dell’universo è un fatto misterioso, suscita uno stupore abissale. La fisica sposta la «grande domanda» – la domanda metafisica –, non la elimina. Così come non la elimina, anzi la genera, la teoria dell’evoluzione della vita. Nessuno può negare che la scienza – con le sue domande e le sue risposte e la sua storia – non abbia alcun valore perché costruita da un essere che avrebbe per antenato una «scimmia». Ma questa «scimmia» rimessa a nuovo, oltre che porsi problemi scientifi ci, si è posta e seguita a porsi il problema del «senso», del «senso del tutto», un problema eminentemente religioso. E, allora, con quali argomenti lo scientista evoluzionista potrà affermare insensatezza, illusorietà della «richiesta di senso», cioè della domanda religiosa? La realtà è che la teoria evolutiva della vita non solo non cancella il problema religioso, ma lo fa emergere.
Scrive Darwin: «Il sentimento di devozione religiosa è sommamente complesso perché consta di amore, di compiuta sommissione a un essere superiore elevato e misterioso, di un forte sentimento di dipendenza, di timore, di riverenza, di gratitudine, di speranza nell’avvenire, e forse di altri elementi. Nessuna creatura potrebbe provare un’emozione tanto complessa, senza che le sue facoltà morali e intellettuali abbiano raggiunto un certo grado di elevatezza».
Il Sole Domenica 16.9.18
Emozioni e reazioni
I nuovi meccanismi di difesa dalle paure
di Simona Argentieri
La paura è una reazione difensiva elementare, universale, potenzialmente utile per scongiurare il pericolo, comune a tutte le specie viventi. Alcuni -forse un po’ fantasiosi- esperti del mondo vegetale sostengono che perfino le piante possono provare spavento. Lasciando da parte alberi e cespugli, in noi umani è ricchissimo il catalogo di angosce e fobie individuali e collettive, private e pubbliche, reali e fantastiche, normali e patologiche. Seppure, nella maggior parte dei casi, le paure manifeste di adulti e bambini hanno ormai perduto la loro connotazione di concreta utilità e si radicano in motivazioni inconsce irrazionali difficili da decifrare. Il paradosso è che spesso ci si angoscia per una minaccia immaginaria e si chiudono gli occhi a fronte di quelle reali; come accade ad esempio negli ipocondriaci, ai nostri giorni decisamente in aumento.
La questione più frequentemente dibattuta è quella delle nuove paure; ma bisogna chiedersi se davvero ci siano paure vecchie e nuove; o se piuttosto le antiche, eterne angosce della separazione, della morte, della perdita, della violenza propria e altrui … abbiano solo assunto nuove vesti. Ad esempio è di difficile interpretazione il dato rilevato da alcune inchieste svolte in scuole elementari secondo il quale attualmente le bambine sarebbero più coraggiose dei bambini. Davvero le femmine stanno diventando più intrepide o finalmente i maschi non si vergognano delle loro debolezze?
Ciò che muta, in correlazione con le circostanze storiche e culturali, sono semmai i meccanismi psicologici di difesa con i quali si tenta di far fronte alla paura: operazioni mentali inconsce, prive di efficacia reale nei confronti delle minacce esterne o interne, che possono solo tenere a bada la sensazione soggettiva penosa. Così continuiamo a ricorrere al classico espediente della proiezione («non sono io ad essere aggressivo, ma è l’altro che è ostile nei miei confronti») mentre sembra che la classica rimozione -ricacciare nell’inconscio la rappresentazione intollerabile- ceda il passo al diniego: «Non è niente», «Non può succedere …» che si tratti del degrado del pianeta o del rifiuto delle vaccinazioni. Quanto più ci sentiamo impotenti, tanto più facciamo ricorso a tali meccanismi.
Sempre più frequente anche l’operazione «contro fobica», di coloro che infliggono a se stessi la continua sfida di sport estremi, di prove fisiche da superare, come fanno ad esempio molti adolescenti correndo sul bordo di un precipizio o in autostrada.
Un tipo di paura falsamente nuova è invece il cosiddetto attacco di panico. Tale diagnosi, che sembra soddisfare le aspettative di oggettiva scientificità di medici e pazienti, viene assegnata con larghezza a persone apparentemente ben funzionanti e integrate, che però episodicamente vengono assalite da una sensazione improvvisa e devastante di paura, accompagnata da un imponente corredo di disturbi fisici (pallore, tremore, palpitazioni, spasmi respiratori, sensazione di morte imminente...) che insorgono al momento di affrontare banali esperienze quotidiane, come uscire da soli o guidare l’automobile. Talora il panico si configura come paura anticipatoria di non poter essere soccorsi nel momento di un eventuale futuro pericolo (paura della paura). In realtà, il cosiddetto attacco di panico è un concetto descrittivo generico e superficiale, una crisi acuta di angoscia dietro la quale ci può essere di tutto: dalla nevrosi lieve e occasionale, ai più seri disturbi della personalità. Così si tenta di cristallizzare il malessere ad un livello «biologico» che non può essere né discusso, né elaborato, che si pretende di curare con uno specifico psicofarmaco senza affrontare la fatica di guardarsi dentro e cercare di capire il senso delle proprie insicurezze o delle proprie infelicità.
Infine, vale la pena di considerare che le paure sono materia ad alto contenuto emotivo, ed è quindi consueto che in ambito socio-politico vengano evocate, sfruttate, alimentate al servizio dei pregiudizi di parte. Individuare il nemico e il pericolo per poi proporsi come coloro che offriranno rimedio e protezione contro la minaccia nucleare, lo straniero alle porte, il malato di mente, la miseria, il degrado dei valori… è da sempre uno strumento cinico ed efficace di propaganda da parte di chi si presenta come garante della «sicurezza» contro l’incertezza, il disordine e la criminalità.
In tal senso, continuo a credere nell’utilità degli strumenti psicoanalitici per tentare di svelare le motivazioni inconsce delle nostre angosce e rompere il rinforzo reciproco che sempre si stabilisce tra odio e paura.
Il Sole Domenica 16.9.18
Bussole filosofiche. Come navigare nello spazio e tempo dell’agire umano
Lezioni d’etica applicata alla vita quotidiana
di Gilberto Corbellini
Si dice che in occidente ci sia bisogno di etica. Vero o meno che sia, l’appello all’etica è diventato da decenni un mantra per chiedere onestà e rispetto (delle persone o delle regole) in qualunque sfera dell’attività umana. La prova? Scegliamo un qualsiasi motore di ricerca su internet e digitiamo le stringhe (virgolettate): «bisogno di etica», «need of ethics», «besoin d’ethique», «necesita ética», «precisa de ética», «braucht Ethik» e così via in una lingua occidentale. In pochi istanti, migliaia o centinaia di migliaia pagine, ma in inglese milioni, si riverseranno sullo schermo, nelle quali è presente esattamente la locuzione. Così scopriamo che ovunque c’è «bisogno di etica»: dalla politica all’istruzione, dalla medicina alla tecnologia, dalla magistratura all’economia, dalla sessualità a internet, dall’agricoltura alla pesca, dall’ambiente allo sport (ogni singolo sport, cioè calcio, ciclismo, atletica, basket, etc.), dall’alimentazione al giornalismo, dall’arredamento all’ingegneria edile, dalla ricerca scientifica alle arte visive o alla cinematografia, dall’immigrazione alla moda, dalla sperimentazione con animali alla lotta contro il terrorismo islamico, etc.
Ecco perché tante etiche applicate. Le più conosciute sono la bioetica e l’etica degli affari, che hanno colonizzato il mondo medico, accademico e istituzionale statunitense negli stessi anni Settanta. Il filosofo morale Peter Singer sembra sia stato il primo a usare l’espressione «etica applicata» nel libro pubblicato in prima edizione nel 1979, Practical Ethics (Cambridge University Press - la terza edizione è del 2011). Egli riteneva tale sviluppo dell’etica «il più rilevante degli ultimi venti anni», ma anche il ritorno di una tradizione risalente a Platone. I filosofi non più al governo della società, ma che la prendono per mano e la guidano nelle scelte morali controverse, stante che ogni decisione umana ricadrebbe nella sfera della tematizzazione etica. Per Singer, l’etica applicata emergeva dai movimenti statunitensi per i diritti civili, dalla lotta contro la guerra del Vietnam e dall’attivismo studentesco. Tali novità politiche avevano chiamato in causa i filosofi, che si erano trovati a intervenire in discussioni pubbliche per chiarire le implicazioni pratiche di valori morali come eguaglianza, giustizia, disobbedienza civile, etc. In sostanza, i filosofi dovevano spiegare, applicando le dottrine etiche a specifici problemi, cosa le persone avrebbero o non avrebbero dovuto fare in particolari circostante, cioè «applicare la filosofia a questioni pubbliche».
Il libro curato da Fabris, passa in rassegna un ampio spettro di temi per servire così da guida nel mondo delle etiche applicate. Si tratta di un’utile una bussola filosofica per navigare uno spazio e un tempo dell’agire umano irriducibilmente frammentato, dove tutti sembra si aspettino dall’etica risposte e consigli sulle direzioni da prendere o le scelte da fare. Personalmente, penso che se si va a fondo alla domanda di etica si scopre che si tratta di un bisogno di rassicurazioni psicologiche. Niente più di questo. Che è poi un altro modo di dar ragione a Ian Mackie e a una parte dell’etica evoluzionistica, per cui il discorso etico è una forma di autoinganno funzionale, a volte più a volte meno, alle navigazioni sociali.
I capitoli dei diversi autori sono stati organizzati in “questioni di bioetica”, “etica e comunicazione”, “etica ed economia”, “etica e ambiente” e “questioni di etica pubblica”. Non sono omogenei. Qualcuno prova a disegnare una mappa dei problemi e illustrare strategie filosofiche per spiegare come le diverse teorie etiche e gli argomenti discussi portino a consigli in un dato settore dell’attività umana, che possono essere diversi. Altri autori difendono una specifica teoria etica, come fosse quella canonica o migliore, illustrando i giudizi e le scelte che sarebbero eticamente valide. In alcuni casi, come quando sono in gioco conoscenze scientifiche o dati tecnici l’etica applicata può portare a prender seriamente posizioni pseudoscientifiche, che incarnano pregiudizi filosofici o ideologici personali, ovvero a dissertazioni snobistiche intorno a questioni tragicamente ingestibili proprio per il fatto che la natura umana è come è; cioè come l’ha fatta la selezione naturale, e non come i filosofi (morali) vorrebbero che fosse o si illudono che sia.
Leggere in queste settimane un libro che illustra l’irriducibile diversità morale delle società liberali, dove tutto sommato viviamo più che decentemente, richiama il ricordo del filosofo e bioeticista Hugo Tristam Engelhardt, morto il 21 giugno scorso, e della sua battaglia onesta e intelligente in difesa di un’etica minima e procedurale per stranieri morali. Il volume appare carente almeno sotto due aspetti. Sarebbe stato utile un capitolo sui codici etici, di condotta e di pratica o responsabilità morale, che sono il precipitato delle discussioni di etica pubblica applicata. Quasi ogni ente, pubblico o privato, e ordine professionale oggi è dotato di questo genere di strumento e sarebbe opportuno riflettere in che modo sono costruiti i codici etici, cioè la scelta o la negoziazione dei principi e valori delle diverse dottrine etiche da usare per costruire la cornice morale, nonché se effettivamente questi dispositivi hanno un impatto nel ridurre i comportamenti morali e illegali negli specifici ambiti professionali.
Il libro potrebbe indurre a credere che la professione dei ricercatori e dei professori universitari, ovvero che università e ricerca non richiedano l’applicazione e il richiamo a principi e valori etici, nel senso che la categoria di attori sociali che fa ricerca e insegna non meriti un’etica applicata. Purtroppo, e tragicamente, non è così. I professori universitari usano spesso la loro posizione di potere per fini personali, ovvero non rispettano valori come onestà, trasparenza, affidabilità, rispetto della dignità etc. Inclusi i professori di filosofia morale, che sono la prova provata che si può conoscere filosoficamente l’etica e preferire le regole del familismo amorale all’onestà e oggettività quando si tratta di valutare candidati nei concorsi. Mentre una delle emergenze che stanno preoccupando gli enti di ricerca e le agenzie internazionali che finanziano e valutano la ricerca è la crescita dei casi di frode, falsificazione e plagio. Infatti, in tutto il mondo proliferano codici e corsi di etica applicata alla ricerca.
Etiche applicate. Una guida, Adriano Fabris (a cura di), Carocci Editore, Roma, pagg. 411,, € 35, 00