Il Fatto 12.9.18
Migranti, giudici e media: tutte le leggi di Orbán sotto accusa
“Minaccia
i valori fondanti della Ue”. Ecco perché il Parlamento è chiamato a
decidere se l’Ungheria va punita o tollerata - Il processo a Bruxelles
di Stefano Feltri
Dice
Matteo Salvini che “non si processano i popoli e i governi liberamente
eletti”. Ma l’Unione europea prevede invece questa possibilità per gli
Stati che minacciano i valori fondanti del progetto comunitario, lo
stabilisce l’articolo 7 del trattato, e la Commissione europea nel 2003
ha stabilito che questo potere d’intervento vale “anche nei campi in cui
gli Stati possono agire in modo autonomo dall’Unione”.
Dopo varie
contestazioni nel 2011 e nel 2013, il Parlamento europeo a marzo del
2017 ha chiesto alla commissione Libertà civili e Giustizia di stilare
un rapporto che, presentato lo scorso aprile, è la base per il voto di
oggi sulle eventuali sanzioni contro l’Ungheria di Viktor Orbán, il
premier tornato al potere nel 2010 che ha impresso una svolta
autoritaria al Paese, dopo che la crisi finanziaria del 2008 aveva fatto
vacillare la fiducia nelle promesse dell’integrazione europea. Le 26
pagine del report firmato dall’eurodeputata verde Judith Sargentini,
raccolgono la sintesi di tutte le contestazioni ricevute dall’Ungheria
da parte dell’Onu, della Corte europea dei diritti dell’uomo, dell’Osce
che vigila sulla correttezza dei processi elettorali. Contestazioni che
Orbán ha di solito ignorato. E non si tratta soltanto di migranti, che
pure sono l’argomento di cui più si discute nel resto d’Europa perché
l’Ungheria rifiuta di accogliere i rifugiati arrivati in altri Paesi
(Italia e Grecia) e prevede “l’obbligo di incarcerazione” per i
richiedenti asilo, bambini inclusi, fino al termine della procedura di
analisi della loro domanda.
L’Ungheria di Orbán mette in
discussione tutti quegli equilibri tra poteri tipici delle democrazie
occidentali. Il report Sargentini parte dalle fondamenta, la
Costituzione: nel 2012 Orbán l’ha riformata con una restrizione dei
poteri della Corte costituzionale, che non può più neppure rifarsi alla
propria giurisprudenza precedente alla riforma. Orbán ha cancellato il
passato e si è assicurato di poter condizionare il futuro, rivedendo
l’età di pensionamento dei giudici così da poterli sostituire. Ha usato
lo stesso sistema per l’intero apparato giudiziario con una riforma del
2012, contestata dalla Corte di Giustizia europea: pensionamento
obbligatorio a 62 anni di giudici, pubblici ministeri e notai, violando
gli obblighi di legge europei di ridurlo gradualmente a 65 con un
periodo transitorio di dieci anni. Ma Orbán voleva decapitare i vertici
del potere giudiziario, già nel 2011 aveva creato un Ufficio nazionale
giudiziario, di nomina politica, che duplicava l’organo di autogoverno
della magistratura sottraendogli poteri.
Il controllo politico
della giustizia può indurre in tentazione: nel 2018 il comitato dell’Onu
per i diritti umani ha denunciato che le leggi attuali in Ungheria
sulla sorveglianza segreta motivata da ragioni di sicurezza nazionale
“consentono intercettazioni di massa e non prevedono tutele sufficienti
contro violazioni arbitrarie della privacy”. E per evitare che la stampa
critichi questo genere di norme, Orbán ha varato anche una riforma dei
media che prevede criteri stringenti e discrezionali di cosa sia un
“contenuto illegale” oltre a obblighi di rivelare le fonti delle
notizie.
Il consenso di Orbán si regge sulla costruzione di nemici
interni ed esterni per difendersi dai quali servono leggi sempre più
dure. Non soltanto i migranti, ma anche le minoranze di ogni genere, una
riforma del 2011 ha tolto il riconoscimento a “centinaia di chiese
prima riconosciute”, i rom sono discriminati in vari modi al punto che –
ha contestato la Commissione Ue nel 2016 – “i bambini rom sono presenti
in percentuali sproporzionate nelle scuole per bambini con disabilità
mentali e sono segregati in quelle normali”.
Dal 2017 Orbán è poi
sotto attacco dalla Ue per le sue leggi contro le università straniere
operanti in Ungheria e contro le organizzazioni non governative nel
Paese. Il bersaglio, che sollecita pulsioni di un antisemitismo ormai
esplicito, è sempre il finanziere George Soros, con la sua Central
European University che doveva diffondere i valori occidentali nei Paesi
ex sovietici. Anche se Soros ha finanziato gli studi a Oxford del
giovane Orbán, a febbraio 2018 il governo ha fatto approvare il
pacchetto di norme “stop Soros” che ha messo fuori legge l’università
del finanziere nato proprio a Budapest nel 1930.
Oggi il
Parlamento deve decidere se tutte queste politiche elencate nel report
Sargentini sono compatibili con i valori Ue o vanno sanzionate. Un voto
che segna uno spartiacque per capire cos’è rimasto dell’Unione europea.