Il Fatto 10.9.18
Il livornese che trovò per Gramsci la sede del Congresso nel ’21
Ilio
Barontini non era destinato ad andare in Spagna: per lui il Pci aveva
disegnato un ben altro percorso. Scriveva infatti Edoardo D’Onofrio nel
dicembre 1939 che il partito l’aveva scelto “per fare un lavoro
particolare nell’apparato legale… Ma commise l’errore di confidare ad
altri compagni che venivano con lui dall’Urss ciò che il Partito voleva
fare di lui”. Per cui fu deciso di non impegnarlo in quel ruolo e di
“permettergli di andare in Spagna nelle Brigate Internazionali”. Insomma
Barontini ebbe la lingua lunga, chiacchierò troppo, forse per la grande
soddisfazione di essere tornato in auge, e così andò a combattere in
Spagna. Dove il caso dominò su altre sue vicende.
Quando arrivò in
Spagna, nel novembre 1936, Barontini aveva 46 anni, era nella piena
maturità. Anche politica. Fin da giovane (a Livorno, ndr) aveva aderito
alla Fiom e alla Gioventù socialista per poi entrare nella segreteria
provinciale del Psi. Eletto in Consiglio comunale fu anche assessore.
Nel 1921 aderì al Pci, anzi procurò proprio lui il famoso e decrepito
teatro San Marco dove si costituì il nuovo partito. Da allora fu di
fatto il capo indiscusso dei comunisti livornesi. Nel 1927 fu arrestato.
Passò un anno in carcere ma il Tribunale speciale lo mandò assolto per
assenza di prove. Proseguì in perfetta e fortunata clandestinità a
guidare il Pci livornese finché nel maggio 1931 riuscì con altri a
fuggire in Francia. (…) Aderì fattivamente alla linea stalinista
distinguendosi nella lotta contro i compagni accusati di bordighismo e
trotskismo. Era insomma un quadro altamente affidabile e fedele, tanto
che fu tra i non molti comunisti italiani (poco più di cinquanta) che
furono inviati in Francia e poi in Spagna. (…)
Disse Barontini
nella prima riunione dei commissari politici della XII Brigata quando la
battaglia di Guadalajara volgeva al termine, il 22 marzo 1937: “Prima
di marciare verso il fronte di Guadalajara il generale Miaja e Rojo
chiesero se il nostro battaglione aveva qualche incertezza al sapere che
dall’altro lato c’erano italiani. Lo esclusi in assoluto. Chiesero
anche se avessimo preso dei prigionieri se li avremmo uccisi. Non ebbi
alcun dubbio. Detti immediatamente raccomandazioni ai commissari perché
si rispettassero tutti i prigionieri. I commissari fecero un buon lavoro
in questo senso e tutti i prigionieri sono stati rispettati nonostante
provocazioni inaudite (un nostro prigioniero torturato e fucilato,
ufficiali fascisti che hanno sparato su di noi dopo aver mostrato di
arrendersi). Quando i nostri uomini hanno visto che si trattava di
povera gente hanno fraternizzato con i prigionieri”. (…)
Barontini
fu dentro questa tragedia, vi partecipò con tutte le sue forze (e le
sue debolezze). Si misurò con difficoltà inaudite, ebbe fiducia nei suoi
compagni di lotta e nelle sue idee quando comandò il Battaglione
italiano a Guadalajara. Sia stato un valido o un inadeguato comandante a
Guadalajara, un politico buono o insufficiente, fece la sua parte, che
fu rilevante, dalla parte giusta. Fu tra quanti scrissero in Spagna e a
Guadalajara una pagina di Storia.