Il Fatto 10.9.18
L’Identità inventata degli italiani
Sommersi e salvati – Soccorsi in mare
di Tomaso Montanari
“Identità
è una parola pericolosa: non ha alcun uso contemporaneo che sia
rispettabile”. L’ammonizione dello storico inglese Tony Judt (2010) era
stata avanzata, prima e in termini più espliciti, dall’economista
indiano Amartya Sen in Identità e violenza. Recensendo quel libro, Mario
Vargas Llosa ha scritto che la domanda che sorge di fronte
all’affermazione, violenta, delle identità nazionali e religiose è
riassunta in un verso di Pablo Neruda: “E l’uomo dov’era?”
“Prima
gli italiani”, “dove metterete quei 100 che vi siete accollati?”,
“difendiamo le nostre radici cristiane”: ebbene, l’uomo dov’è? Che ne è
della comune identità umana, unica fonte dei diritti fondamentali
dell’individuo? È la domanda cruciale, in questa orrenda stagione del
discorso pubblico sfigurato dal veleno della retorica identitaria.
Siamo
al punto che su uno stesso giornale (il Corriere della sera del 28
agosto) si può trovare, a pagina 5, il resoconto di una ricerca
dell’Istituto Cattaneo che dimostra come sia l’ignoranza a far parlare
di ‘invasione’ di migranti (che sono il 7 per cento della popolazione, e
sono ritenuti invece quasi il 30% da chi ha solo la terza media), e poi
leggere, a pagina 28, un editoriale che toglie a Matteo Salvini, per
dare a Marco Minniti, il merito “del duro lavoro in Libia con cui pose
fine ai flussi che ci stavano seppellendo”.
Una frase che colpisce
per il silenzio circa il fatto che quel ‘lavoro’ era duro soprattutto
per i migranti: chiusi in campi di concentramento i cui allucinanti
video sono arrivati fino al papa. Ma che sconcerta non meno per il
lessico irresponsabilmente apocalittico: perché afferma senza remore
che, se non avessimo chiuso i migranti in campi di tortura, ne saremmo
stati “seppelliti”.
‘Noi’ seppelliti da ‘loro’: è questo il nucleo
identitario, dichiarato o meno, su cui si fonda ogni dottrina del
respingimento. Un’opposizione, questa tra ‘noi’ e ‘loro’, abbracciata
senza riserve anche dal Partito democratico, come dimostra il Matteo
Renzi cripto-razzista dell’ormai famoso “aiutiamoli a casa loro”. Da qua
discende quel terrore identitario che non ha alcuna giustificazione nei
numeri, attuali o futuri: perché l’Africa non vuole venire in
Occidente, tantomeno in Italia (l’87 % delle migrazioni è
intra-africano), e meno del 10% dei rifugiati medio-orientali è arrivato
in Europa. Un terrore tuttavia diffusissimo, e perfettamente
intercettato da Matteo Salvini, capace di riassumerlo in un tweet
esemplare: “L’immigrazione è invasione, è pulizia etnica al contrario”
(7 settembre 2016). Ha scritto Primo Levi: “A molti, individui o popoli,
può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che ‘ogni
straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli
animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e
incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando
questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di
un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. La storia
dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un
sinistro segnale di pericolo”. Ora, dovrebbe apparire con drammatica
chiarezza che i campi di concentramento in Libia sono conseguenza
diretta del fatto che il dogma dello straniero come nemico è tornato ad
essere, in Europa, la premessa del sillogismo su cui poggia il consenso
dei partiti ‘sovranisti’. E se il leader xenofobo e razzista di uno di
questi partiti e il primo giornale italiano si trovano a usare lo stesso
vocabolario, abbiamo un serio problema culturale.
È precisamente
su questo che dovrebbero concentrarsi gli intellettuali italiani (non
certo sull’improbabile tentativo di prendere il potere dentro il Pd,
come singolarmente li esorta a fare un noto filosofo): occuparsi del
conflitto tra identità nazionali e diritti umani è il dovere più
urgente. Perché “nei libri di storia che non asseconderanno la
narrazione egemonica si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei
diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre,
persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi, l’ospite potenziale è
stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto
dalle frontiere statali, di quelle morti e di quelle vite porterà il
peso e la responsabilità”. Questa è la portata della sfida, e Matteo
Salvini sa perfettamente che la si vince o la si perde innanzitutto sul
piano delle idee: uno dei suoi primi atti da ministro dell’Interno è
stata infatti la revoca della scorta all’autrice di queste righe, la
filosofa teoretica Donatella Di Cesare, minacciata dai neonazisti per i
suoi studi (il cui ultimo frutto è Stranieri residenti. Una filosofia
della migrazione, Bollati Boringhieri 2017).
Dunque, prendiamo sul
serio Matteo Salvini. Perché, è vero: il ‘ministro della paura’
(secondo la lungimirante definizione di Antonello Caporale) è solo un
cialtrone superficiale, per comprendere il quale è esagerato scomodare
categorie come il fascismo. Ma la paura, i paradigmi culturali, e le
credenze che egli abilmente evoca e strumentalizza quelli, invece, sono
profondi e pericolosi, e indubbiamente connessi ai fantasmi del
nazionalismo nazifascista. Salvini non è serio: ma tutto questo lo è,
terribilmente.
‘I migranti sono un costo’, ‘portano via il lavoro
agli italiani’, ‘delinquono più degli italiani’, ‘aiutarli impedisce di
aiutare gli italiani poveri’, ‘i migranti distruggono la nostra cultura e
minacciano la nostra identità nazionale’: come tutti gli altri
‘argomenti’ della retorica dell’invasione, anche questi sono falsi, e
tutti sono infatti falsificati da imponenti quantità di dati elaborati e
discussi in vaste bibliografie scientifiche e divulgative. Quello di
cui si parla meno, perché più difficile da decostruire, è proprio
l’ultimo: quello identitario.
Eppure non è un argomento
secondario. Dal 2008 lo statuto leghista impone alla regione Lombardia
di perseguire “sulla base delle sue tradizioni cristiane e civili il
riconoscimento e la valorizzazione delle identità”, e in questo agosto
2018 Primato Nazionale, il “quotidiano sovranista” di Casa Pound, ha
dedicato molto spazio ad una ‘inchiesta’ in più puntate su “Italia
arcana, alle radici della nostra identità nazionale”. Per preparare
risposte a chi urla “prima gli italiani” bisogna porre l’interrogativo
etico fondamentale: per quale ragione l’essere italiano – “perché qui ti
ha partorito una fica”, come canta l’eloquente Caparezza descrivendo
una condizione puramente casuale, priva di ogni merito – dovrebbe dare
una precedenza nel diritto alla sopravvivenza? Ma non basta: è cruciale
contestare la possibilità di usare come una clava la categoria di
“italiani”. Davvero esiste un’‘Italia arcana’ con una identità pura,
definita una volta per tutte? C’è un ‘dna’ che ci determina italiani?
Esiste, è mai esistita, l’Italia cantata da Manzoni: “una d’arme, di
lingua, d’altare. Di memorie, di sangue e di cor”?
Ebbene, se
“identità” significa – etimologicamente – uguaglianza assoluta,
corrispondenza esatta e perfetta, bisogna dire con chiarezza: no, questa
‘identità italiana’ non esiste. Quando fu pronto il primo volume del
Dizionario biografico degli italiani si constatò l’enorme quantità di
voci che si aprivano con il patronimico ‘al’: arabi, dunque, e italiani.
Come ha ben spiegato Eric Hobsbawm nell’Invenzione della tradizione
(1983) le identità nazionali sono definite a posteriori, spesso
inventate di sana pianta.
Restiamo a Manzoni. Il sangue: nessun
popolo europeo è meticcio quanto gli italiani, frutto di infinite
fusioni che lasciano traccia in ogni manifestazione culturali. E ogni
tentativo di costruire, retrospettivamente una purezza anche in ambiti
più ristretti è destinato a scadere nel ridicolo: nelle scorse settimane
il Consiglio regionale della Toscana ha, per esempio, indetto una
Giornata degli Etruschi (!) tracciando una genealogia della “identità
toscana” tutta appiattita sulla propaganda cinquecentesca di Cosimo de’
Medici, e affermando che la costituzione del granducato di quest’ultimo
“ha di fatto prefigurato l’attuale configurazione della Regione
Toscana”.
Un marchiano errore, che dimentica da un lato
l’esistenza di stati autonomi toscani come il principato di Piombino, lo
Stato dei Presidi, il ducato di Massa, la Repubblica di Lucca e
dall’altro il fatto che gli etruschi non vivevano affatto solo in
Toscana, proprio come i longobardi non solo in Lombardia. La scala
italiana amplifica la portata di simili sciocchezze: e basterebbe
pensare alla tormentata storia dell’invenzione della lingua italiana per
liquidare ogni idea di un’italianità data a priori e dunque
intangibile. Quanto alla cucina, Massimo Montanari ha dimostrato che
“non esiste una cucina italiana”: esiste invece una straordinaria
varietà locale, la stessa che fa diverse le tradizioni popolari e le
stesse arti figurative. Come ha scritto Piero Bevilacqua in Felicità
d’Italia (Laterza 2017), “giova ricordare che l’identità della cultura
italiana fa tutt’uno con la sua multiforme varietà e in un certo senso
con la sua stessa mancanza di una identità unitaria”. Non c’è spazio per
analizzare la strumentalizzazione delle cosiddette ‘radici cristiane’:
ma basterà ricordare che, finita la troppa lunga stagione dell’alleanza
tra trono e altare, il Novecento italiano ha saputo ridare un
significato all’etimo della parola ‘cattolico’ (che significa
‘universale’: perché, scrive san Paolo, “non c’è più giudeo o greco …”).
Ed è stato don Lorenzo Milani a opporre una volta per tutte le ragioni
del Vangelo a quelle degli stati-nazione: “Se voi avete diritto di
dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che … io non ho
Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e
oppressi e privilegiati e oppressori. Gli uni son la mia Patria, gli
altri i miei stranieri” (1965).
Naturalmente, tutto questo serve a
dire non che ‘gli italiani non esistono’, ma invece che ‘gli italiani
sono multiculturali per storia e cultura’. Non ha senso opporre ‘noi’ a
‘loro’ perché il nostro ‘noi’ si è formato grazie ad una somma di ‘loro’
accolti e fusi in questa terra: una coabitazione senza selezione che
dura fin dalla mitica fondazione di Roma da parte della discendenza di
Enea, rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano.
L’unico dei
principi fondamentali della Costituzione che usi la parola ‘nazione’ è
l’articolo 9, che mette in strettissima connessione “lo sviluppo della
cultura e la ricerca” e la tutela del “paesaggio e il patrimonio storico
e artistico della nazione”: in altri termini, il riconoscimento
costituzionale della nazione avviene in relazione alla conoscenza, e non
al sangue o alla stirpe, alla fede religiosa o alla lingua. La
Repubblica, cioè, prende atto del ruolo fondativo che la tradizione
culturale, il suo sistematico nesso col territorio e il suo incessante
rinnovamento attraverso la ricerca hanno nella definizione e nel
continuo rinnovamento della nazione italiana. Un rapporto non
proprietario: di tutela, e non di consumo insostenibile. Un rapporto in
cui tutti siamo provvisori, migranti e stranieri: perché nessuno è
padrone assoluto della terra. Chiunque abbia oggi un figlio che
frequenti una scuola pubblica (quella scuola che Concetto Marchesi
definisce in Costituente il “solo presidio della Nazione”) vede come
bambini di ogni provenienza divengano, giorno per giorno, italiani:
accettando di prendere parte a un patto, ma anche rinnovandolo con la
loro diversità. La nostra è un’identità non solo aperta a tutti coloro
che vengono in pace, ma anche aperta ai cambiamenti anche sostanziali
che i nuovi italiani porteranno: una nazione per via di cultura è per
definizione multiculturale.
In questo senso, la storia d’Italia
risponde in modo profetico alle aspettative di chi – come per esempio
Habermas nel saggio su Cittadinanza politica e identità nazionale (1992)
– indica la necessità di una democrazia che sappia separare il popolo
dall’etnia, suggerendo che il nazionalismo possa essere rimpiazzato da
un patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione
cosmopolitica: come quella che avrebbe potuto darsi l’Unione europea, in
una delle grandi occasioni mancate di cui ora paghiamo il conto. In
ogni caso, la Costituzione italiana del 1948 ha un’idea di nazione
radicalmente diversa da quella, chiusa e guerresca, nutrita dai grandi
nazionalismi: tanto che all’articolo 10 progetta un’Italia che accolga
“lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio dei diritti
derivanti da libertà democratiche garantite dalla Costituzione
italiana”. Per questo ogni dottrina del respingimento è incompatibile,
da noi, con un vero patriottismo costituzionale.
La spaventosa
diseguaglianza, le dimensioni della povertà, il tradimento della
sinistra e la rimozione della necessità di un conflitto sociale tra
italiani (cioè tra ricchi e poveri) hanno messo in ombra tutto questo, e
rendono molti nostri concittadini sensibili alla sirene del
neo-nazionalismo di Salvini. Ma è anche vero che la retorica per gli
‘italiani’ appare sempre più strumentale, perché è sempre più chiaro che
“c’è differenza tra il senso della propria identità e quello che ne ha
il potere che ci domina, il quale … sostituisce la conoscenza effettiva
delle differenze, storiche, culturali, ambientali per degenerare in un
duplice abuso: quello di concepire la distinzione come barriera da
alzare tra un gruppo umano e un altro, e quello di ignorare la
dimensione del mutamento, che appartiene alla storia” (Adriano Prosperi,
Identità. L’altra faccia della storia, Laterza, 2016). In fondo
sappiamo tutti benissimo che l’Italia del 2100 sarà multietnica e dunque
multiculturale, o non sarà: si tratta di capire che, in realtà, lo è
sempre stata. Chi oggi lo nega sta solo cercando di mettere a reddito la
paura dello straniero sventolando le false bandiere di una identità
inventata: senza passato, e senza futuro.