lunedì 10 settembre 2018

Il Fatto 10.9.18
Il livornese che trovò per Gramsci la sede del Congresso nel ’21


Ilio Barontini non era destinato ad andare in Spagna: per lui il Pci aveva disegnato un ben altro percorso. Scriveva infatti Edoardo D’Onofrio nel dicembre 1939 che il partito l’aveva scelto “per fare un lavoro particolare nell’apparato legale… Ma commise l’errore di confidare ad altri compagni che venivano con lui dall’Urss ciò che il Partito voleva fare di lui”. Per cui fu deciso di non impegnarlo in quel ruolo e di “permettergli di andare in Spagna nelle Brigate Internazionali”. Insomma Barontini ebbe la lingua lunga, chiacchierò troppo, forse per la grande soddisfazione di essere tornato in auge, e così andò a combattere in Spagna. Dove il caso dominò su altre sue vicende.
Quando arrivò in Spagna, nel novembre 1936, Barontini aveva 46 anni, era nella piena maturità. Anche politica. Fin da giovane (a Livorno, ndr) aveva aderito alla Fiom e alla Gioventù socialista per poi entrare nella segreteria provinciale del Psi. Eletto in Consiglio comunale fu anche assessore. Nel 1921 aderì al Pci, anzi procurò proprio lui il famoso e decrepito teatro San Marco dove si costituì il nuovo partito. Da allora fu di fatto il capo indiscusso dei comunisti livornesi. Nel 1927 fu arrestato. Passò un anno in carcere ma il Tribunale speciale lo mandò assolto per assenza di prove. Proseguì in perfetta e fortunata clandestinità a guidare il Pci livornese finché nel maggio 1931 riuscì con altri a fuggire in Francia. (…) Aderì fattivamente alla linea stalinista distinguendosi nella lotta contro i compagni accusati di bordighismo e trotskismo. Era insomma un quadro altamente affidabile e fedele, tanto che fu tra i non molti comunisti italiani (poco più di cinquanta) che furono inviati in Francia e poi in Spagna. (…)
Disse Barontini nella prima riunione dei commissari politici della XII Brigata quando la battaglia di Guadalajara volgeva al termine, il 22 marzo 1937: “Prima di marciare verso il fronte di Guadalajara il generale Miaja e Rojo chiesero se il nostro battaglione aveva qualche incertezza al sapere che dall’altro lato c’erano italiani. Lo esclusi in assoluto. Chiesero anche se avessimo preso dei prigionieri se li avremmo uccisi. Non ebbi alcun dubbio. Detti immediatamente raccomandazioni ai commissari perché si rispettassero tutti i prigionieri. I commissari fecero un buon lavoro in questo senso e tutti i prigionieri sono stati rispettati nonostante provocazioni inaudite (un nostro prigioniero torturato e fucilato, ufficiali fascisti che hanno sparato su di noi dopo aver mostrato di arrendersi). Quando i nostri uomini hanno visto che si trattava di povera gente hanno fraternizzato con i prigionieri”. (…)
Barontini fu dentro questa tragedia, vi partecipò con tutte le sue forze (e le sue debolezze). Si misurò con difficoltà inaudite, ebbe fiducia nei suoi compagni di lotta e nelle sue idee quando comandò il Battaglione italiano a Guadalajara. Sia stato un valido o un inadeguato comandante a Guadalajara, un politico buono o insufficiente, fece la sua parte, che fu rilevante, dalla parte giusta. Fu tra quanti scrissero in Spagna e a Guadalajara una pagina di Storia.

Il Fatto 10.9.18
L’Identità inventata degli italiani
Sommersi e salvati – Soccorsi in mare
di Tomaso Montanari


“Identità è una parola pericolosa: non ha alcun uso contemporaneo che sia rispettabile”. L’ammonizione dello storico inglese Tony Judt (2010) era stata avanzata, prima e in termini più espliciti, dall’economista indiano Amartya Sen in Identità e violenza. Recensendo quel libro, Mario Vargas Llosa ha scritto che la domanda che sorge di fronte all’affermazione, violenta, delle identità nazionali e religiose è riassunta in un verso di Pablo Neruda: “E l’uomo dov’era?”
“Prima gli italiani”, “dove metterete quei 100 che vi siete accollati?”, “difendiamo le nostre radici cristiane”: ebbene, l’uomo dov’è? Che ne è della comune identità umana, unica fonte dei diritti fondamentali dell’individuo? È la domanda cruciale, in questa orrenda stagione del discorso pubblico sfigurato dal veleno della retorica identitaria.
Siamo al punto che su uno stesso giornale (il Corriere della sera del 28 agosto) si può trovare, a pagina 5, il resoconto di una ricerca dell’Istituto Cattaneo che dimostra come sia l’ignoranza a far parlare di ‘invasione’ di migranti (che sono il 7 per cento della popolazione, e sono ritenuti invece quasi il 30% da chi ha solo la terza media), e poi leggere, a pagina 28, un editoriale che toglie a Matteo Salvini, per dare a Marco Minniti, il merito “del duro lavoro in Libia con cui pose fine ai flussi che ci stavano seppellendo”.
Una frase che colpisce per il silenzio circa il fatto che quel ‘lavoro’ era duro soprattutto per i migranti: chiusi in campi di concentramento i cui allucinanti video sono arrivati fino al papa. Ma che sconcerta non meno per il lessico irresponsabilmente apocalittico: perché afferma senza remore che, se non avessimo chiuso i migranti in campi di tortura, ne saremmo stati “seppelliti”.
‘Noi’ seppelliti da ‘loro’: è questo il nucleo identitario, dichiarato o meno, su cui si fonda ogni dottrina del respingimento. Un’opposizione, questa tra ‘noi’ e ‘loro’, abbracciata senza riserve anche dal Partito democratico, come dimostra il Matteo Renzi cripto-razzista dell’ormai famoso “aiutiamoli a casa loro”. Da qua discende quel terrore identitario che non ha alcuna giustificazione nei numeri, attuali o futuri: perché l’Africa non vuole venire in Occidente, tantomeno in Italia (l’87 % delle migrazioni è intra-africano), e meno del 10% dei rifugiati medio-orientali è arrivato in Europa. Un terrore tuttavia diffusissimo, e perfettamente intercettato da Matteo Salvini, capace di riassumerlo in un tweet esemplare: “L’immigrazione è invasione, è pulizia etnica al contrario” (7 settembre 2016). Ha scritto Primo Levi: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Ora, dovrebbe apparire con drammatica chiarezza che i campi di concentramento in Libia sono conseguenza diretta del fatto che il dogma dello straniero come nemico è tornato ad essere, in Europa, la premessa del sillogismo su cui poggia il consenso dei partiti ‘sovranisti’. E se il leader xenofobo e razzista di uno di questi partiti e il primo giornale italiano si trovano a usare lo stesso vocabolario, abbiamo un serio problema culturale.
È precisamente su questo che dovrebbero concentrarsi gli intellettuali italiani (non certo sull’improbabile tentativo di prendere il potere dentro il Pd, come singolarmente li esorta a fare un noto filosofo): occuparsi del conflitto tra identità nazionali e diritti umani è il dovere più urgente. Perché “nei libri di storia che non asseconderanno la narrazione egemonica si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi, l’ospite potenziale è stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto dalle frontiere statali, di quelle morti e di quelle vite porterà il peso e la responsabilità”. Questa è la portata della sfida, e Matteo Salvini sa perfettamente che la si vince o la si perde innanzitutto sul piano delle idee: uno dei suoi primi atti da ministro dell’Interno è stata infatti la revoca della scorta all’autrice di queste righe, la filosofa teoretica Donatella Di Cesare, minacciata dai neonazisti per i suoi studi (il cui ultimo frutto è Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri 2017).
Dunque, prendiamo sul serio Matteo Salvini. Perché, è vero: il ‘ministro della paura’ (secondo la lungimirante definizione di Antonello Caporale) è solo un cialtrone superficiale, per comprendere il quale è esagerato scomodare categorie come il fascismo. Ma la paura, i paradigmi culturali, e le credenze che egli abilmente evoca e strumentalizza quelli, invece, sono profondi e pericolosi, e indubbiamente connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista. Salvini non è serio: ma tutto questo lo è, terribilmente.
‘I migranti sono un costo’, ‘portano via il lavoro agli italiani’, ‘delinquono più degli italiani’, ‘aiutarli impedisce di aiutare gli italiani poveri’, ‘i migranti distruggono la nostra cultura e minacciano la nostra identità nazionale’: come tutti gli altri ‘argomenti’ della retorica dell’invasione, anche questi sono falsi, e tutti sono infatti falsificati da imponenti quantità di dati elaborati e discussi in vaste bibliografie scientifiche e divulgative. Quello di cui si parla meno, perché più difficile da decostruire, è proprio l’ultimo: quello identitario.
Eppure non è un argomento secondario. Dal 2008 lo statuto leghista impone alla regione Lombardia di perseguire “sulla base delle sue tradizioni cristiane e civili il riconoscimento e la valorizzazione delle identità”, e in questo agosto 2018 Primato Nazionale, il “quotidiano sovranista” di Casa Pound, ha dedicato molto spazio ad una ‘inchiesta’ in più puntate su “Italia arcana, alle radici della nostra identità nazionale”. Per preparare risposte a chi urla “prima gli italiani” bisogna porre l’interrogativo etico fondamentale: per quale ragione l’essere italiano – “perché qui ti ha partorito una fica”, come canta l’eloquente Caparezza descrivendo una condizione puramente casuale, priva di ogni merito – dovrebbe dare una precedenza nel diritto alla sopravvivenza? Ma non basta: è cruciale contestare la possibilità di usare come una clava la categoria di “italiani”. Davvero esiste un’‘Italia arcana’ con una identità pura, definita una volta per tutte? C’è un ‘dna’ che ci determina italiani? Esiste, è mai esistita, l’Italia cantata da Manzoni: “una d’arme, di lingua, d’altare. Di memorie, di sangue e di cor”?
Ebbene, se “identità” significa – etimologicamente – uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta, bisogna dire con chiarezza: no, questa ‘identità italiana’ non esiste. Quando fu pronto il primo volume del Dizionario biografico degli italiani si constatò l’enorme quantità di voci che si aprivano con il patronimico ‘al’: arabi, dunque, e italiani. Come ha ben spiegato Eric Hobsbawm nell’Invenzione della tradizione (1983) le identità nazionali sono definite a posteriori, spesso inventate di sana pianta.
Restiamo a Manzoni. Il sangue: nessun popolo europeo è meticcio quanto gli italiani, frutto di infinite fusioni che lasciano traccia in ogni manifestazione culturali. E ogni tentativo di costruire, retrospettivamente una purezza anche in ambiti più ristretti è destinato a scadere nel ridicolo: nelle scorse settimane il Consiglio regionale della Toscana ha, per esempio, indetto una Giornata degli Etruschi (!) tracciando una genealogia della “identità toscana” tutta appiattita sulla propaganda cinquecentesca di Cosimo de’ Medici, e affermando che la costituzione del granducato di quest’ultimo “ha di fatto prefigurato l’attuale configurazione della Regione Toscana”.
Un marchiano errore, che dimentica da un lato l’esistenza di stati autonomi toscani come il principato di Piombino, lo Stato dei Presidi, il ducato di Massa, la Repubblica di Lucca e dall’altro il fatto che gli etruschi non vivevano affatto solo in Toscana, proprio come i longobardi non solo in Lombardia. La scala italiana amplifica la portata di simili sciocchezze: e basterebbe pensare alla tormentata storia dell’invenzione della lingua italiana per liquidare ogni idea di un’italianità data a priori e dunque intangibile. Quanto alla cucina, Massimo Montanari ha dimostrato che “non esiste una cucina italiana”: esiste invece una straordinaria varietà locale, la stessa che fa diverse le tradizioni popolari e le stesse arti figurative. Come ha scritto Piero Bevilacqua in Felicità d’Italia (Laterza 2017), “giova ricordare che l’identità della cultura italiana fa tutt’uno con la sua multiforme varietà e in un certo senso con la sua stessa mancanza di una identità unitaria”. Non c’è spazio per analizzare la strumentalizzazione delle cosiddette ‘radici cristiane’: ma basterà ricordare che, finita la troppa lunga stagione dell’alleanza tra trono e altare, il Novecento italiano ha saputo ridare un significato all’etimo della parola ‘cattolico’ (che significa ‘universale’: perché, scrive san Paolo, “non c’è più giudeo o greco …”). Ed è stato don Lorenzo Milani a opporre una volta per tutte le ragioni del Vangelo a quelle degli stati-nazione: “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che … io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi e privilegiati e oppressori. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri” (1965).
Naturalmente, tutto questo serve a dire non che ‘gli italiani non esistono’, ma invece che ‘gli italiani sono multiculturali per storia e cultura’. Non ha senso opporre ‘noi’ a ‘loro’ perché il nostro ‘noi’ si è formato grazie ad una somma di ‘loro’ accolti e fusi in questa terra: una coabitazione senza selezione che dura fin dalla mitica fondazione di Roma da parte della discendenza di Enea, rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano.
L’unico dei principi fondamentali della Costituzione che usi la parola ‘nazione’ è l’articolo 9, che mette in strettissima connessione “lo sviluppo della cultura e la ricerca” e la tutela del “paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”: in altri termini, il riconoscimento costituzionale della nazione avviene in relazione alla conoscenza, e non al sangue o alla stirpe, alla fede religiosa o alla lingua. La Repubblica, cioè, prende atto del ruolo fondativo che la tradizione culturale, il suo sistematico nesso col territorio e il suo incessante rinnovamento attraverso la ricerca hanno nella definizione e nel continuo rinnovamento della nazione italiana. Un rapporto non proprietario: di tutela, e non di consumo insostenibile. Un rapporto in cui tutti siamo provvisori, migranti e stranieri: perché nessuno è padrone assoluto della terra. Chiunque abbia oggi un figlio che frequenti una scuola pubblica (quella scuola che Concetto Marchesi definisce in Costituente il “solo presidio della Nazione”) vede come bambini di ogni provenienza divengano, giorno per giorno, italiani: accettando di prendere parte a un patto, ma anche rinnovandolo con la loro diversità. La nostra è un’identità non solo aperta a tutti coloro che vengono in pace, ma anche aperta ai cambiamenti anche sostanziali che i nuovi italiani porteranno: una nazione per via di cultura è per definizione multiculturale.
In questo senso, la storia d’Italia risponde in modo profetico alle aspettative di chi – come per esempio Habermas nel saggio su Cittadinanza politica e identità nazionale (1992) – indica la necessità di una democrazia che sappia separare il popolo dall’etnia, suggerendo che il nazionalismo possa essere rimpiazzato da un patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione cosmopolitica: come quella che avrebbe potuto darsi l’Unione europea, in una delle grandi occasioni mancate di cui ora paghiamo il conto. In ogni caso, la Costituzione italiana del 1948 ha un’idea di nazione radicalmente diversa da quella, chiusa e guerresca, nutrita dai grandi nazionalismi: tanto che all’articolo 10 progetta un’Italia che accolga “lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio dei diritti derivanti da libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Per questo ogni dottrina del respingimento è incompatibile, da noi, con un vero patriottismo costituzionale.
La spaventosa diseguaglianza, le dimensioni della povertà, il tradimento della sinistra e la rimozione della necessità di un conflitto sociale tra italiani (cioè tra ricchi e poveri) hanno messo in ombra tutto questo, e rendono molti nostri concittadini sensibili alla sirene del neo-nazionalismo di Salvini. Ma è anche vero che la retorica per gli ‘italiani’ appare sempre più strumentale, perché è sempre più chiaro che “c’è differenza tra il senso della propria identità e quello che ne ha il potere che ci domina, il quale … sostituisce la conoscenza effettiva delle differenze, storiche, culturali, ambientali per degenerare in un duplice abuso: quello di concepire la distinzione come barriera da alzare tra un gruppo umano e un altro, e quello di ignorare la dimensione del mutamento, che appartiene alla storia” (Adriano Prosperi, Identità. L’altra faccia della storia, Laterza, 2016). In fondo sappiamo tutti benissimo che l’Italia del 2100 sarà multietnica e dunque multiculturale, o non sarà: si tratta di capire che, in realtà, lo è sempre stata. Chi oggi lo nega sta solo cercando di mettere a reddito la paura dello straniero sventolando le false bandiere di una identità inventata: senza passato, e senza futuro.

Il Fatto 10.9.18
Le 3 pesti all’assalto della democrazia
di Salvatore Settis


Tre pesti infettano la democrazia in Italia, e dunque la nostra libertà e la nostra vita. Sono germi di ceppi diversi, eppure convergono in un unico gioco al massacro. Il massacro della democrazia. La prima patologia è di moda ai nostri giorni: dando per scontato lo svuotamento delle istituzioni rappresentative, se ne sbandiera cinicamente un qualche estemporaneo sostituto.
Indizio recente e solo in apparenza minimo, il preteso referendum sull’ora legale: vi ha partecipato una percentuale infima della popolazione europea, eppure se ne discute come fosse necessario tenerne conto. Noi italiani possiamo stupircene meno di chiunque altro: non è forse da noi che bastano poche centinaia, se non decine, di volenterosi o velleitari votanti per “approvare” un programma (o “contratto”) di governo, la scelta di un leader o di un sindaco, l’alleanza con una forza politica estranea anzi ostile? E non è dalla stessa parte politica (uscita dalle urne del 4 marzo come il primo partito italiano) che vengono voci irresponsabili che proclamano la fine del Parlamento e la sua sostituzione con piattaforme informatiche buone a creare effimere maggioranze senza quorum? Così mentre ci stracciamo le vesti per l’incompetenza di chi fa crollare i ponti non ci avvediamo di propugnare la generalizzata incompetenza di chi dovrebbe governare il Paese. E anzi di indicare nell’inesperienza (meglio se totale) la panacea di tutti i mali.
Accanto a questo, il bacillo dell’astensionismo elettorale. Anzi, della nostra tendenza a rimuoverlo dalla coscienza. Fu evidente già nel 2014, quando un Renzi al suo meglio come imbonitore degli ingenui e dei distratti proclamava la vittoria del Pd alle Europee con il 40,81%: percentuale drogata, giacché non teneva nel minimo conto il 49,63% di italiani che a quelle elezioni non votò, o votò scheda bianca. Se quel 49,63% non sono cittadini di seconda classe, il preteso 40,81% al Pd valeva la metà (20,40%). Eppure la percentuale drogata viene ancora oggi richiamata, anche da chi definisce Renzi un ciarlatano. E mentre l’astensionismo cresce (il 37,71% di votanti alle Regionali dell’Emilia-Romagna non basta come ammonimento?), l’afasia della sinistra e le incertezze sulla tenuta dell’attuale governo allontaneranno altri cittadini dalle urne. È in questo vuoto che cresce un’irresponsabile xenofobia, cavallo di battaglia della Lega da Bossi a Salvini.
Terzo agente patogeno, il diffuso nominalismo, l’uso di mere etichette in luogo di argomenti, di nomi anziché dati. Basta accusare qualcuno di sovranismo, populismo, antipolitica, per condannarne ogni idea senza guardarci dentro; e (simmetricamente) per mettere alla gogna gli avversari basta accusarli di connivenza con la finanza internazionale, con la Banca centrale europea, con il Fondo monetario internazionale. Vengono così screditate e irrise prima ancora di esser formulate ipotesi opposte: per esempio, che una qualche tesi etichettata come liberista possa mai aver qualcosa di buono, o per converso che sia giusto ricordarsi dell’art. 1 della Costituzione secondo cui la sovranità appartiene al popolo. Questo scontro muro contro muro impedisce alla stragrande maggioranza dei cittadini di farsi un’idea propria sui termini dei problemi che il Paese deve comunque affrontare. Ma gli astratti princípi, giusti o sbagliati che siano, non si trasformano da soli in concrete azioni di governo. Perciò, mentre più d’uno elogia l’incompetenza come virtù suprema, un radicalismo fatto non di meditati progetti ma di improvvisate e generiche petizioni di principio può naufragare miseramente alla prova dei fatti (il caos vaccini insegni). E la parola torna fatalmente ai veri o presunti “addetti ai lavori”, quelli che a torto o a ragione dicono di saperla lunga, facendo leva sugli errori degli altri più che sulla propria competenza e fedeltà alle istituzioni.
Un’ultima pennellata è necessaria, mentre già traguardiamo verso le prossime elezioni europee. Delle due forze di governo una (M5S) è, almeno in linea di principio, portatrice di cambiamenti radicali, di una sorta di immaginazione al potere, ma intanto, nonostante qualche buona mossa come l’insistenza sul principio costituzionale della dignità, mostra la corda arroccandosi su slogan post-elettorali e dando spazio alla svalutazione del Parlamento. L’altro partito è la Lega, che non viene dal nulla né è alla prima esperienza di governo. Per essere precisi governò, con Berlusconi presidente e ministri come Bossi o Calderoli in primissima linea, in quattro governi di tre legislature, senza contare più o meno confessabili appoggi esterni e patti dietro le quinte. In questo scenario, e traguardando verso le Europee, la Lega si presenta come il partito che sta dalla parte dei veri “addetti ai lavori”, perché le competenze da spendere dice di averle: sotto la salsa piccante di una rampante xenofobia, è questo il piatto che ci viene quotidianamente servito. Questo (vero o presunto) “realismo” della Lega rispetto al M5S spiega la sua crescita nei sondaggi, una malcerta procedura statistica che nell’opinione pubblica ormai soppianta i meccanismi elettorali voluti dalla Costituzione vigente. L’attivismo di Salvini e le gaffes di Grillo, Casaleggio, Di Maio stanno regalando alla Lega la patente di primo partito d’Italia anche se non fu certo questo il responso delle urne. Eppure in quelle forse astratte petizioni di principio, in quel radicalismo, in quella disordinata ma autentica voglia di cambiamento fermenta un’altra idea d’Italia, un’altra ipotesi progettuale che non ha ancora preso forma (la parola “cambiamento” non basta). Questo è il banco di prova del governo Conte, di cui ancora non sappiamo se servirà da cavallo di Troia per imporre al Paese la Lega di Salvini, o come ponte verso una maggiore autocoscienza del M5S, o almeno di quella sua parte che viene dalla sinistra. Domande come queste interessano ben poco ai Soloni del Pd, occupati come sono a contemplare l’ombelico dei propri insuccessi e ormai soffocati dall’indigestione di pop-corn.

Corriere 10.8.18
L’avanzata dell’ultradestra
Socialdemocratici ancora primo partito in Svezia. Il partito dell’ultradestra sale ma non sfonda. E per il Ppe si presenta il problema dell’ingresso nel gruppo dei populisti. alle pagine 2 e 3
Il partito antimmigrazione al 17,6%. Sinistra in calo ma prima (26%) Parità tra il blocco rosso-verde e il centrodestra. Governo difficile
Svezia, uno su 6 sceglie i sovranisti
di Francesco Battistini


STOCCOLMA Go, Jimmie, go? Bisognerà sfogliare ancora per un po’ la margherita gialloblù, il simbolo dei sovranisti, per sapere se gli svedesi l’amano davvero: il populista antimigranti Jimmie Akesson avanza, sì, ma non stravince. Lo vota quasi uno su sei, che nella sempre meno tollerante Svezia è già molto. E fa il previsto balzo, dal 13 a una percentuale del 17,6. La sua Sd, Svezia Democratica, prende il vento antitutto che spira dal resto d’Europa. Ma non approda alla leadership e forse non sarà neppure secondo partito: gli eterni socialdemocratici calano intorno al 26-28 per cento, quel che si sapeva, ma la loro è in fondo una demolizione controllata. E restano pur sempre il primo simbolo del Paese, anche se i loro alleati verdi rischiano fino a notte fonda l’esclusione dal Parlamento. Ed è possibile che rimangano al governo, nonostante il peggior risultato da un secolo a questa parte.
Come in una sindrome, Stoccolma giura amore ai custodi di sempre, alle coalizioni della stabilità e dell’europeismo. Il blocco del centrosinistra cala di molto, quello di centrodestra sale un po’, e alla fine s’equivalgono: più o meno al 39 per cento ciascuno, divise dal buco nero di Jimmie. Il Riksdag è ingessato, le trattative per una maggioranza sono aperte. Dalle alchimie della politica svedese, abituata ai governi di minoranza, possono uscire una conferma dell’attuale premiership socialdemocratica, o una grande coalizione di salvezza nazionale, oppure un esecutivo di centrodestra basato sul buon risultato dei Moderati (che a tarda ora sembrano sorpassare Akesson)… Varie ed eventuali sono sempre possibili: le trattative durano anche mesi, a Stoccolma, e sul piatto c’è il buon risultato della sinistra ex comunista (favorevole, come l’estrema destra, a una Swexit dall’Ue), dei cristianodemocratici, d’altre sigle che vogliono pesare. «Questo è un voto a favore del nostro welfare. E di un’idea decente della democrazia», è felice Stefan Loefven, 61 anni, il premier uscente e magari rientrante.
«Il nostro risultato è un segnale a tutti», fa il contento Jimmie, arrivando nella sede del partito, aria di festa rovinata e luci soffuse e bottiglie di magnum e colori da discoteca che fanno quasi credere d’essere finiti al Jimmy’z di Montecarlo, anziché al tavolo di chi vuole sbancare la politica svedese. L’aria spavalda della campagna elettorale diventa sguardo di fatica: Jimmie prese in mano Sd a 26 anni, ragazzino che non era mai riuscito a laurearsi ma se la cavava benissimo al videopoker, quando qui comandavano ancora i neonazi e la margherita era una torcia fiammante, i militanti mettevano la camicia bruna e lo spot del partito era una vecchietta svedese travolta da una folla di donne in burka. Come tutti i leader incendiari, per non restare fuori dai giochi, Jimmie ha capito che è l’ora del pompiere. Parla poco di Swexit, perché domani aprono le Borse e questo è pur sempre il Paese dei colossi Volvo ed Electrolux, Spotify e Ikea. Ripete che «siamo conservatori sociali». Legge le congratulazioni di Salvini. E intanto aspetta le mosse degli altri. «Secondo i grandi esportatori di vino — è l’idea della scrittrice Ulrika Kärnborg —, per essere sicuri che una bottiglia funzioni nel mondo, bisogna prima che funzioni in Svezia. È il benchmark, la valutazione del consumatore medio globale. Il Paese che assegna il marchio di conformità, ai prodotti come alle idee politiche e sociali». A mezzanotte si sfoglia la margherita e si brinda lo stesso, nel quartier generale di Jimmie. Ma il giovane vinello del sovranismo sa ancora di tappo. E il vecchio vino del modello svedese non è ancora diventato aceto.

Corriere 10.9.18
Per i popolari europei è l’ora della verità
Daranno riparo al populismo di Orbán?
di Paolo Valentino


Quando il presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, decise di confermare Edgar J. Hoover, il peggior nemico dei democratici, direttore a vita del Fbi invece di licenziarlo come gli chiedevano i suoi, diede una motivazione entrata per sempre nel lessico politico americano: «Better to have him inside the tent pissing out, than outside the tent pissing in», «meglio averlo dentro la tenda che urina fuori, invece di averlo fuori che urina dentro».
Ridotto all’essenziale, mutatis mutandis, è lo stesso rovello che tormenta e lacera in queste ore il Partito popolare europeo alle prese con il premier ungherese Viktor Orbán. Non è più teorica ma reale la questione di quanto sia grande e variopinta la tenda cristiano-democratica in Europa, di fronte al voto di mercoledì, con cui il parlamento di Strasburgo deciderà se avviare contro l’Ungheria la procedura per violazione dello Stato di diritto, prevista dall’articolo 7 del trattato.
Occorrono due terzi dei deputati per approvare il rapporto della Commissione per gli Affari interni, che raccomanda la messa in stato d’accusa del governo di Budapest, individuando «un chiaro rischio di violazione dei valori sui quali si fonda l’Unione». Se innescata, la procedura potrebbe portare alla sospensione dei diritti di voto dell’Ungheria in seno al Consiglio dei ministri. Ma una tale maggioranza può prodursi soltanto con l’adesione di una fetta importante del gruppo più numeroso, il Ppe appunto, di cui è parte anche il Fidesz di Viktor Orbán.
È un test cruciale, una prova di forza decisiva per il futuro del Partito popolare, la sua vocazione europeista e maggioritaria, secondo alcuni perfino la sua stessa esistenza.
Lo è prima di tutto per Manfred Weber, il cristiano-sociale bavarese che presiede il gruppo popolare e si è appena candidato per guidare il Ppe alle elezioni europee del 2019, con l’ambizione di diventare presidente della prossima Commissione Ue. Weber ha bisogno di Orbán, non solo perché senza i deputati del Fidesz difficilmente dopo il voto di maggio sarà ancora il primo partito nell’aula di Strasburgo. Ma anche e soprattutto perché il premier ungherese, vero maître à penser del sovranismo, si vuole pontiere verso le forze populiste, dal polacco Kaczynski a Matteo Salvini, con cui l’esponente bavarese dice di volersi confrontare e fare compromessi.
Costruita nel segno di una svolta conservatrice, difesa dei valori cristiani e linea dura sull’immigrazione, la candidatura di Weber rischia però di trovarsi in difficoltà proprio a causa di Orbán, considerato dai moderati del Ppe, specie quelli dei Paesi nordici, incompatibile con i valori europeisti dei cristiano-democratici: «L’Ungheria si sta chiaramente allontanando dai nostri principi statutari», dice Anna Maria Corazza, deputata popolare svedese. «Nelle nostre file cresce la frustrazione per le azioni di Orbán», ammette la tedesca Sabine Verheyen, europarlamentare della Cdu.
La contraddizione in cui si trova Manfred Weber è stata riassunta non senza malizia dal presidente francese, Emmanuel Macron, la scorsa settimana a Lussemburgo: «Non si può appoggiare allo stesso tempo Merkel e Orbán». Certo Macron ha tutto l’interesse a seminare zizzania nel Ppe, sperando di trarne vantaggi per il suo movimento En Marche. Non è un mistero infatti che il capo dell’Eliseo punti a convincere alcuni partiti nazionali oggi nel Ppe a unirsi a lui. Ma la sostanza non cambia: dopodomani a Strasburgo sarà per Weber l’ora della verità. Probabilmente lascerà libertà di voto ai suoi. Ma se i voti del Ppe consentissero di mettere sotto accusa il governo ungherese, allora la strada per espellere Fidesz dal Ppe sarebbe aperta, un duro colpo per i piani e le ambizioni di Weber.
Che la posta in gioco sia altissima, lo prova la presenza di Viktor Orbán a Strasburgo. Il premier ungherese ha chiesto infatti di intervenire personalmente domani nel dibattito in aula alla vigilia del voto. Fonti popolari suggeriscono che l’accorto tribuno magiaro potrebbe concedere qualcosa, ad esempio promettendo di modificare alcuni dei provvedimenti più controversi, come quelli che di fatto rendono impossibile l’attività delle Ong in Ungheria. «Se non tende la mano lo manderemo a quel Paese», ha detto un anonimo esponente popolare a Politico.
Una cosa è certa. Mercoledì nell’aula di Strasburgo non si vota solo su Orbán e le sue leggi liberticide. Si vota per decidere se la gloriosa tenda cristiano-democratica possa in futuro far da riparo anche all’agenda populista.

Il Fatto 10.9.18
“Noi, come Costa Concordia”. Il terrore del Pd di affondare
di Wanda Marra


“Io non vengo né dal dal Pci, né dalla Dc, né dai Ds, né dalla Margherita. Sono del Pd”. Occhi azzurri di una sfumatura che in Italia non si trova, accento toscano, ma nome straniero: Bernard Dika ha 20 anni e racconta: “I miei genitori sono arrivati in Puglia sui barconi”. Albanese di origine, iscritto al circolo di Lanciano (un paese vicino Pistoia) si conquista gli applausi più spontanei della Festa dell’Unità di Ravenna, mentre interviene all’Assemblea dei circoli. “Dobbiamo avere una linea più chiara sui migranti: noi salviamoli tutti, ma loro rispettino la legge”. Ovazione. Ex presidente del Parlamento degli studenti toscani, fu uno dei Millennials scelti da Renzi per la direzione, tra le contestazioni dei suoi ragazzi. La platea forse non lo sa o non se ne cura: ha un aspetto fresco, sa parlare. Visto il contesto, quasi basta.
“Siamo tutti volontari, siamo tanti e siamo qui, per trascorrere con voi questa festa del Pidì”. Sopra lo stand che vende bibite, lo striscione pare studiato per trasmettere entusiasmo ecumenico. Al Pala De Andrè si entra attraverso i tornelli. Poi c’è un banchetto che vende frutta. Dopodiché lo scenario si fa familiare: prima le auto in mostra, poi i ristoranti. Nello stand dedicato alla “pesca gigante”, ovvero alla possibilità di vincere oggetti di ogni tipo, dalle biciclette ai peluche, c’è Alvaro. “È dal 1987 che lavoro qui. Tutte le sere ci sono circa 20 volontari. Un buon numero, anche se molti non vengono più, per motivi politici”. Notazione per Renzi: “Era già venuto l’estate del referendum. Pioveva, c’era tantissima gente”. Si percepisce un pizzico di nostalgia. Non tanto per lui, quanto per un’epoca in cui la battaglia politica era fiammeggiante. Dopo anni di liti, divisioni, scontri frontali, coltellate alle spalle, a Ravenna il clima che si respira fa venire in mente il titolo di una poesia di Giuseppe Ungaretti, “Allegria di naufragi”. C’è una strana specie di euforia, quella che arriva quando quasi tutto è perduto. Ma anche prudenza. E paura di sparire. “Sembriamo la Costa Concordia”, commenta un dirigente della zona. “Sali a bordo, cazzo!”, è un’esortazione di sottofondo dedicata a tutti.
Rispetto alle ultime feste, è un altro film. 2012, Reggio Emilia: irrompeva Renzi sulla scena, nello sconforto degli ex Ds che si vedevano sfilare il partito; Genova 2013: il Porto Antico si trasformava in un palcoscenico, ancora per Renzi. Bologna 2014: era l’anno dei leader del Pse in camicia bianca sul palco. E poi, Milano 2015, nel disinteresse dell’allora premier, con presenze in calo vertiginoso, Catania 2016, la Festa del Sì, con le forze dell’ordine all’entrata e proteste in tutta la città. Imola 2017, deserto dei Tartari. Quest’anno, l’organizzazione è andata sul sicuro: ha scelto una festa collaudata, quella di Ravenna. La partecipazione – che c’è stata – era garantita e i rischi calcolati: il dibattito con Fico, quello con la Casellati, la presenza di renzianissimi accanto a fuoriusciti. Solo l’arrivo di Pier Luigi Bersani evoca qualcosa della fu battaglia frontale. Uno del pubblico gli urla “fuori”, altri lo applaudono speranzosi. Il “popolo della sinistra” qui dalla scissione non si è ripreso. Eppure sopporta più o meno tutto con pazienza. Accoglie Renzi con l’affetto che si dà a un figlio finito fuori strada, non si infiamma quando Vincenzo De Luca attacca Martina. Ascolta con educato interesse il dibattito dell’ultima sera in cui il terzetto composto da Annalisa Chirico del Foglio con fiocco in testa manco fosse a Venezia, Jacopo Jacoboni de La Stampa che fa una lezione su Steve Bannon e l’ex direttore de l’Espresso, ora senatore dem, Tommaso Cerno, che si infiamma ad arte sui drammi della politica e riesce ad oscurare Maria Elena Boschi. La chiusura di Martina scivola via in sordina: la gente c’è (ma meno di quella arrivata per Renzi), il gruppo dirigente è assente quasi in blocco, i renziani disertano ostentatamente. Copione scritto per un partito in crisi. Più che rabbia si sente saturazione rispetto ai dirigenti. “Non frega niente a nessuno chi ha votato per chi al congresso”, dice tra gli applausi Giulia Bernagozzi, neo segretaria di Navile, il quartiere della Bolognina. Sul congresso futuro confusione massima. “Se si candida Renzi vince lui. La gente lo vuole”, dicono in molti ancora renziani. Ma quale “gente?”, “certo nel paese, la gente lo odia”. Corti circuiti. Alla Festa è arrivato anche Nicola Zingaretti. “Si è fermato a parlare con noi per mezz’ora”, racconta Michelangelo Vignoli, segretario dei Giovani Pd di Ravenna. E Renzi? “Lui no, ma abbiamo imparato a conoscerlo. Non sono mai stato un fan della parola Rottamazione, ora spenderei qualcosa per quella Rinnovamento. Su Zingaretti candidato, però, la cautela è collettiva: uno che fa discorsi condivisibili, ma non scalda i cuori.
“Quest’anno non è andata male”, dicono sollevati tutti alla fine. I riflettori (e l’energia) sono altrove. L’aspettativa è sotto terra, la delusione è impossibile, la paura fa di necessità virtù.

Repubblica 10.9.18
Il futuro dell’Ue
La terra di conquista
di Nadia Urbinati


Se il 2016 sarà rubricato come l’annus horribilis di europeisti e democratici — con il referendum su Brexit e l’elezione di Donald Trump — il 2019 promette di essere ricordato come l’annus nefastus. Negli Usa il cuciniere dell’internazionale populista è Steve Bannon, il Rasputin cattolico della campagna elettorale di Trump, con un odio radicale nei confronti della cultura "liberal" (dei diritti) e del governo della legge, che egli accusa di essere una manipolazione dei socialisti per cospirare contro chi è stato eletto (Salvini come Trump, oppressi da toghe rosse). I limiti alla volontà elettorale sono orpelli utili solo per fermare il corso della storia. Le elezioni sono plebisciti che spazzano le opposizioni e incoronano il leader. Questa è la teoria politica del populismo.
L’autore preferito di Bannon è Julius Evola, l’ideologo della destra squadrista italiana secondo cui la democrazia sarebbe sintomo di un mondo in decomposizione, sdilinquito nell’etica dell’eguaglianza, incapace di comprendere che la gerarchia fa la storia. Alla tradizione della Rivoluzione francese, scriveva Evola, si deve opporre quella pre-moderna del merito dei pochi, superiori per destino, che sanno guidare perché conoscono il senso delle cose, senza bisogno di farlo comprendere. Fidatevi di chi è leader, questo basta a confermare di stare sulla via giusta: l’opposto di democrazia, di eguaglianza politica. Animato da questa religione arcaica della gerarchia, il potente lobbista Bannon cerca adepti in tutto il mondo, poiché, se la cultura democratica ha una vocazione all’espansione internazionale, così è il suo opposto. Questa è l’ideologia che promette di vincere le elezioni europee del 2019. Un sovranismo europeista che, per difendere le radici cristiane e bianche, vuole farsi fortezza. Una ideologia reazionaria, ma capace di usare al meglio i mezzi informatici moderni che sono l’ossatura della sua propaganda. La destra viaggia sul web.
L’Europa che uscì dalle urne nel 2014 era già spostata verso il centrodestra. In Italia si ricorda solo il 40% del Pd di Matteo Renzi. Ma ad avere più voti nel complesso fu il gruppo del Partito popolare (29,43%) non quello dell’Alleanza progressista (25,43%). E ci fu l’avanzata premonitrice di formazioni (oggi al governo in alcuni Paesi, come il nostro) non proprio filoeuropee e democratiche. Bannon si inserisce proprio nel progetto di portare gli euro-nemici al governo di Bruxelles. E sceglie anche l’avversario ideale, il presidente francese Macron, così debole e poco amato a casa e tra gli europeisti.
In questo piano diabolico, l’Italia gioca un ruolo centrale. Perché è stata tra i fondatori dell’Unione europea. E fare dell’Italia il piede di porco per far saltare il coperchio europeo ha molto senso. Per un fatto simbolico, ma anche per il peso politico ed economico che l’Italia ha in Europa. Da Roma comincia insomma l’avanzata della destra, ancora una volta. Oggi, però, il piano non è tenuto in mano dall’interno, per intenderci dalla Lega di Salvini, che con l’ideologo di Trump lancerà la campagna dei populisti europei. Il piano è concertato e pagato dai seguaci di Trump, con il proposito di liberarsi dai lacci che l’Ue impone al mercato. Gli ideali si traducono in cash. L’Europa sarà la nuova Iraq dei nuovi conservatori americani. Scardinare l’Europa significa aprire un mercato ricco agli States, in difficoltà per l’egemonia cinese. L’Europa che serve all’amministrazione americana non è quella unita che faceva da barriera al blocco sovietico, è un’Europa frantumata e facile terra di conquista.

Il Fatto 10.9.18
Svezia sempre più nera: anti-Ue vicini al 20%
Gli exit poll - Peggior risultato di sempre per i socialisti (25%). Testa a testa per il secondo posto
di Giampiero Gramaglia


I socialdemocratici svedesi restano il primo partito, anche se ottengono il peggior risultato dal 1908 a oggi, con poco più del 25% dei suffragi. La destra populista e xenofoba dei Democratici svedesi (Sd) non sfonda: aumenta i suffragi e contende – e forse strappa – il secondo posto ai Moderati di centro, ma resta, però, al di sotto del 20%, che i sondaggi le accreditavano.
Le indicazioni, provvisorie, vengono da due exit-poll diffusi a seggi chiusi: c’è consenso sull’affermazione dei socialdemocratici, mentre Moderati e Sd si contendono la seconda piazza, entrambi sotto al 20%. Sarà la conta dei voti notturna a fornire la composizione del nuovo Riksdag.
Il voto svedese stempera, in parte, le ansie europee per l’avanzata di forze euroscettiche, sovraniste e nazionaliste, ma lascia aperte molte ipotesi sulla formazione del nuovo governo, che dovrà essere necessariamente di coalizione – gli svedesi ci sono abituati – e che potrebbe essere di minoranza – anche questa non sarebbe una novità – L’ipotesi di una Swedix, cioè di un’uscita della Svezia dall’Ue, caldeggiata dagli Sd, sembra comunque scongiurata.
Il voto frammenta la composizione del Parlamento e lascia in equilibrio i due blocchi di centro-sinistra e di centro-destra, accreditati entrambi del 40% circa dei seggi (con prevalenza al centro-sinistra). Bene sono andati alcuni partiti minori, come la Sinistra degli ex comunisti, che raddoppia i suffragi e sfiora il 10%, e il Centro e i cristiano-democratici. Dati che confermano la disaffezione dai maggiori partiti e un quadro politico in evoluzione.
Secondo le indicazioni raccolte dalla tv di Stato svedese, ben il 41% degli elettori, due su cinque, hanno cambiato la loro scelta, rispetto al voto del 2014, e il 38% ha deciso il suo voto nell’urna (anche quattro anni fa erano stati molti, il 33%). Il premier uscente Stefan Lofven ritiene che gli elettori “abbiano scelto di continuare a far evolvere la nostra società basata sul welfare”. nessun commento dal leader degli Sd, Jimmie Akesson.
La giornata elettorale, che ha visto un’affluenza ai seggi elevata com’è tradizione – in Svezia, supera in genere l’80% – è stata segnata dalla presenza – senza precedenti a queste latitudini – d’osservatori dell’Osce, sollecitati, forse, da una campagna aspra, in gran parte incentrata sull’immigrazione e segnata da episodi di violenza, oltre che da minacce di morte ad Akesson “firmate” dall’Isis.
La cronaca segnala aggressioni ad elettori e giornalisti in diversi seggi a Boden, Ludvika e Kungalv, ad opera di neonazisti del Movimento di resistenza nordica: lo riferisce lo Svenska Dagbladet, che parla di panico fra le persone in coda per votare. Un’altra formazione di estrema destra, Alternativa per la Svezia, avrebbe invece infranto il silenzio elettorale. Il tabloid Expressen riferisce, per altro, la denuncia di una candidata degli Sd, che sarebbe stata verbalmente aggredita da due giovani.
A Sjobo, nel sud del Paese, invece, un episodio più in linea con la tradizione democratica svedese: Lars Lundberg, candidato cristiano-democratico, ha offerto salsicce gratis ai primi mille elettori. Intervistato dal Guardian, Lundberg non ha escluso un’eventuale alleanza di governo del centro-destra con gli Sd: “Se loro vorranno sostenere un governo che attui politiche normali, va bene. Meglio averli dentro lo steccato che fuori”.

Repubblica 10.9.18
Onda xenofoba anche in Svezia La crisi dei Socialdemocratici
I nazionalisti di Akesson sfiorano il 18 per cento dei consensi, aumentando di quasi 5 punti Perde consensi ma non capitola la formazione di centrosinistra, al minimo storico dal 1908
di Andrea Tarquini


STOCCOLMA Festa a Kungsgatan 56, nel centro lussuoso della Stoccolma autunnale dove gli SverigeDemokraterna ( Sd, sovranisti) celebrano il loro successo: 17,7 per cento. Mentre il blocco dei 4 partiti di centrodestra ( Nya Moderaterna, democristiani, centristi, liberali) tutti insieme al 40,3 per cento, praticamente alla pari con socialdemocratici, verdi e sinistra, i governanti uscenti. Il modello svedese regge ma vacilla e fa tremare gli equilibri politici nell’intera Europa. Mentre a Stoccolma si apre il rebus governo.
Sulla carta è un testa a testa tra blocco di sinistra e alleanza " borghese", ma Jimmie Akesson, il giovane leader del nuovo partito sovranista antimigranti ed euroscettico, vince meno del previsto. Anche se è il vero vincitore. Nessuno potrà tentare coalizioni ignorando le sue proposte: basta migranti, no all’islamizzazione e ai ghetti autocostruiti, chiusura delle frontiere. E gli animi erano divisi e nervosi ieri sera nei consulti d’emergenza di tutti i partiti storici del centro di Stoccolma. I socialdemocratrici, creatori della perfetta Svezia moderna e primo partito da 101 anni, calano non poco, al 28 per cento, i Moderati sono al 19,8.
Ben altra altmosfera, festosa da party, a Kungsgatan 56. Giovani casual, trentenni e quarantenni impeccabili in giacca e cravatta, tutti con all’occhiello il fiore blu e giallo, simbolo del nuovo partito che scuote l’Europa. Akesson ha vinto con promesse dure e semplici: «Siamo noi l’unico vero partito antimigranti».
«La patria del multiculturalismo ha deciso di cambiare » , ha esultato dall’Italia anche Matteo Salvini. Festa fino a tardi per i sovranisti, molti giovani urbani ma anche anziani e gente venuta dalla campagna, dalla Svezia profonda.
Atmosfera dura a sinistra, invece, dove il diafano premier Stefan Löfvén è accorso convocato a un vertice d ´ emergenza del partito. Caduta nella trappola dell’emergenza dei migranti (nessun altro Paese ne ospita tanti come la Svezia in proporzione ai cittadini) adesso lui rischia tutto. «E poi non è tutto» , dicono amici del vertice socialdemocratico: « Ci sarebbero leader alternativi carismatici, ma non vogliono assumersi il ruolo ». Soprattutto le donne, influenti in politica in Svezia piú che altrove. Dalla popolarissima ministra degli Esteri Margot Wallström, ideatrice della diplomazia femminista, alla titolare degli Affari europei Ann Linde, alla responsabile delle Finanze Magdalena Andersson.
«In Svezia andiamo verso un clima politico piú duro» , dichiara il professor Magnus Brogen. Forse l’incarico di premier cadrà sulle spalle del leader dei Nya Moderaterma ( conservatori) Ulf Kristersson. Ma il suo partito è diviso tra tentazioni inconciliabili: compromessi coi socialdemocratici per isolare i sovranisti, o governo di minoranza con appoggio sovranista. Il terremoto svedese scuote Parigi Bruxelles e Berlino: nulla sarà mai come prima.
I risultati cambiano di ora in ora, nella domenica soleggiata ma piú tesa che Stoccolma abbia mai vissuto da decenni. «È un nuovo avviso di sfratto per i socialisti», dice Matteo Salvini, e la notizia rimbalza subito sugli attenti media svedesi. Il grande interrogativo- incubo senza risposta è come, con quali formule di governabilità tra chi, cambierà il modello svedese, già lo leggi in volti ansiosi di figli integrati della vecchia immigrazione, le belle ragazze figlie di uno svedese e di una somala che ti guardano diffidenti quando vedono che hai una Leica in mano.
E l’incubo viene anche dalle notizie di tensione in molti seggi. Dove squadracce del Movimento di resistenza nordica, i neonazisti, si sono illegalmente presentate in forza chiedendo alla gente per chi avrebbe votato. In piccolo, anche l’ostilità verso i giornalisti al party elettorale degli SverigeDemokraterna è strappo grave con la gentile tradizione del Paese guida del Grande Nord. Cry the beloved country, piangere l’amato Paese, vien voglia di dire.

La Stampa 10.9.18
“Non riconosco più il mio Paese
Hanno vinto gli estremismi”
di Mon. Per.


Håkan Nesser è arrabbiato, e «molto, molto preoccupato». Uno dei maggiori scrittori di gialli scandinavi (è in uscita il 27 settembre per Guanda il suo «Morte di uno scrittore»), è un uomo pacato, ama le lunghe passeggiate sulla costa di Gotland, la mitica isola di Ingmar Bergman, i colori dell’autunno e le parole scelte con cura. «Non riconosco più la mia Svezia», dice.
Cosa è successo alla Svezia?
«Sta cambiando, come sta cambiando il resto dell’Europa. Si sta avvicinando a Paesi come l’Ungheria, la Polonia, e per certi aspetti anche l’Italia. Anche qui le persone sono andate a votare scegliendo in base alle proprie paure, e non ai propri valori. Hanno deciso di votare chi non ha programmi, ma solo anti-programmi. Hanno scelto i Democratici svedesi, ma nessuno sa o ha capito cosa vogliano davvero fare. Sono stati voti rabbiosi, basati sulla manipolazione. Voti buttati. Ma presumo che la democrazia sia anche questo».
Cosa crede cambierà da oggi?
«Sarà da ridere. Lo scenario peggiore si è avverato, i sovranisti xenofobi hanno rischiato di diventare il secondo partito del Paese. Sono andati peggio delle aspettative, non hanno centrato l’obiettivo: questo è un segnale fantastico, importante. Ma il vero problema da oggi sarà fare un governo, un governo che riesca a prendere decisioni e che riesca a evitare di crollare dopo pochi mesi. Le alleanze saranno il vero rebus, visto che a parole nessuno vuole fare alleanze con i Democratici svedesi».
Cosa ne è stato della patria dello stato sociale e del welfare?
«C’è ancora, ma purtroppo di un segno completamente diverso. Olof Palme non ne sarebbe molto contento. La Svezia è ancora la patria del welfare state, ma non quello a cui siamo abituati, un welfare state inclusivo. I socialdemocratici hanno inventato lo stato sociale, quello garantito a tutti, che non fa differenze sociali e razziali. I Democratici svedesi hanno scippato l’icona è l’hanno stravolta. Facendo credere agli svedesi che gli stranieri vogliano rovinarci. Quello dei Democratici svedesi è uno stato sociale esclusivo, xenofobo. Forse la sinistra paga l’immobilità: la Svezia è sempre stata un Paese “nel mezzo”, abbiamo fatto del lagom, la moderazione, la nostra cifra. Né troppo forte, né troppo piano, né bianco né nero. Anche in politica sembrava che tutto l’arco parlamentare fosse d’accordo pressoché su ogni cosa. Ora, con l’arrivo di Jimmie Åkesson, ci siamo divisi e polarizzati. Prova ne è che anche la Sinistra estrema è cresciuta: gli svedesi hanno bisogno di meno moderazione evidentemente. E i socialdemocratici, identici a se stessi negli ultimi 25 anni, pagano questo cambiamento nella società».
Quale dei punti della campagna di Åkesson trova più discutibile?
«Naturalmente l’unico punto della campagna di Åkesson, e cioè la demonizzazione dei migranti. Sento persone che votano per loro che parlano di proteggere la “svedesità”. Ma cos’è la svedesità di persone che vogliono difendere l’identità del proprio Paese mentre mangiano un fantastico piatto di spaghetti alla bolognese?».
Quindi cos’è per lei la svedesità?
«Secondo la teoria di Åkesson è il Natale».
Il Natale?
«Sì, ha presente il Natale svedese, tutte lucine e canti tra la neve. Per Jimmie il Natale bisogna proteggerlo come un baluardo contro l’islamizzazione del Paese».
Cosa vede nel futuro di quelli che non hanno votato Ds?
«Una qualche forma di resistenza, una consapevolezza maggiore e un’indipendenza di pensiero critico che porti a una nuova solidarietà contro l’avanzata dei populismi di destra».

La Stampa 10.9.18
The Movement, così è nata l’internazionale sovranista
di Andrea Palladino


È nata a Boitsfort, quartiere a sud di Bruxelles, tra ville milionarie e parchi silenziosi, la fondazione europea The Movement che punta a riunire i sovranisti. Nello studio dell’avvocato e politico belga Mischaël Modrikamen, il 9 gennaio del 2017 - quando Steve Bannon era ancora consigliere di Donald Trump - un ristrettissimo gruppo firmava l’atto costitutivo. Tutto è rimasto in sonno fino all’estate scorsa, quando lo stratega Usa, definito dal Time «il grande manipolatore», annunciava la nascita del «Movimento». Con un obiettivo in testa: fornire la logistica elettorale, con consulenze di comunicazione, sondaggi e la classica campagna mirata in pieno stile statunitense. In altre parole una sorta di service, pronto all’uso per i partiti sovranisti. Tre giorni fa è arrivata l’adesione di Matteo Salvini, ritenuto il vero protagonista della partita elettorale europea.
The Movement ha una storia ricca di sorprese, in grado di rivelare dettagli ancora inediti della creatura politica di Bannon/Salvini. I soci della fondazione, come risulta dagli atti depositati negli uffici di Bruxelles, sono tre. C’è l’avvocato Modrikamen, che via Twitter ha annunciato l’ingresso del leader leghista nell’organizzazione; c’è la moglie Yasmine Dehaene, segretaria generale del Partito popolare belga, piccola formazione di destra; e c’è la francese Laure Ferrari, già assistente parlamentare del gruppo del Parlamento europeo Efdd (dove siedono anche gli italiani del M5S), finita lo scorso anno sui tabloid inglesi per un presunto legame sentimentale con il leader dello Ukip Nigel Farage. I tre fondatori si conoscevano da anni, con un passato in un altro partito, finito in una brutta storia di accuse di frodi sui fondi del Parlamento europeo.
Il precedente di The Movement si chiamava Adde, acronimo di Alleanza per la democrazia diretta in Europa. Modrikamen era il fondatore e vice presidente, la moglie Dehaene il segretario esecutivo e Ferrari dirigeva la fondazione collegata Institute for Direct Democracy in Europe. Adde, creato con le elezioni del 2014, era iscritto presso il parlamento di Bruxelles come partito europeo, uno status che dava diritto a finanziamenti pubblici. Secondo una nota dell’ufficio di presidenza del Parlamento, Adde ha speso circa 500 mila euro nel 2015 in modo ritenuto «improprio», finanziando iniziative pro Brexit in Gran Bretagna.
L’obiettivo politico di The Movement è dichiarato nello statuto redatto un anno e mezzo fa. Oltre a promuovere «la sovranità delle nazioni, le frontiere nazionali, la lotta contro l’Islam radicale, l’approccio scientifico e non dogmatico dei fenomeni climatici e la difesa di Israele», punta a rappresentare il «legame tra il Movimento iniziato dal presidente Trump in Usa e i cittadini e movimenti politici attivi negli altri Paesi». Mischaël Modrikamen ha chiara la strategia anche verso Est: «La Russia non ha bisogno di nemici, ma di amici. Il tempo del confronto tra Europa e Russia è finito, la divisione non è più tra Est e Ovest, ma con l’Islam radicale».

La Stampa 10.9.18
Dagli Usa all’Italia l’abbraccio tra sovranisti e delusi del Papa
di Federico Capurso Francesca Paci


All’ombra della foresta di Strandzha, sul confine tra la Bulgaria e la Turchia, il comandante Vladimir Rusev, passamontagna e crocefisso al collo, coordina i volontari del BNOShipka impegnati a respingere gli islamizzatori di Erdogan a suo dire camuffati da «profughi». A Varsavia l’attivista Marta Lempart guida il movimento femminista Strajk Kobiet al grido di «Polonia laica e non cattolica» contro la legge anti-abortista sponsorizzata dalla parlamentare Kaja Godek e sostenuta da una fetta crescente della popolazione, quella che un anno fa, portò in piazza un milione di persone armate di rosario per scongiurare l’invasione musulmana. E poi ci sono i devoti cristiani di Visegrad, il premier spagnolo Sanchez che scopre una rinnovata sensibilità religiosa del Paese sulla strada della rimozione della spoglie di Franco dalla Valle de los Caìdos.
La rivincita della Vandea
Addirittura la patria di Voltaire soffre un po’ il vento che soffia da est e da oltreoceano, se l’ex ministra della famiglia di Sarkozy e cattolica praticante Nadine Morano, in barba alla sua fama borderline, semina con le intemerate sulla Francia «di razza bianca» un terreno già arato dai paladini delle nozze etero di Manif pour tous e dai neo-con di Sens Commun, avanguardie di un fronte reazionario che attraverso la riscoperta di Dio accorcia le distanze da quell’Italia salviniana ufficialmente nemica dei cugini mangia-rane. Uno spettro, stavolta bianco, si aggira per l’Europa. E’ la rivincita della Vandea sulla lunga egemonia culturale dell’illuminismo repubblicano?
«La convergenza, per ora più culturale che politica, tra nazional-populismi e destra cattolica ostile all’ecumenismo di Bergoglio è un fenomeno reale ed è particolarmente evidente in Italia, l’unico Paese dell’Europa occidentale dove i populisti sono al potere» osserva il sociologo delle religioni Stefano Allievi. All’inizio è stato l’Islam, dice, poi il fronte si è allargato: «In Italia questo pezzo di Chiesa c’è sempre stato ma era marginale. L’immigrazione, specie quella musulmana, l’ha saldato alla retorica securitaria e sovranista per alzare il tiro contro gli stranieri tutti, il pontificato aperto di Francesco, i valori liberali e via, di nemico in nemico, fino alla riproposta della razza e all’anti-semitismo». La paura dell’islam è un nodo, tanto che il leader di Sverigedemokraterna Jimmie Akesson si prepara a espugnare le urne svedesi ergendosi ad argine della marea musulmana. In realtà nella laica Stoccolma come nell’Olanda di Wilders la fede pesa poco, ma anche per chi non frequenta la Messa il richiamo del muezzin suona come una sfida identitaria forte, una chiamata alle armi in vista del presunto imminente scontro delle civiltà ribadita l’estate scorsa al G20 di Amburgo dal presidente americano Trump.
Una dinamica globale
«Il paradosso è che in una fase tutt’altro che espansiva come quella del cristianesimo contemporaneo l’islam accenda una reazione identitaria, sia pur in chiave difensiva» ragiona lo storico del cristianesimo Agostino Giovagnoli. Si scorge un po’ ovunque, ammette l’accademico, il riemergere di una frangia cattolica nostalgica del vecchio Papa e dell’asse con i cristiani rinati alla George W. Bush e gli evangelici in chiave anti progressista e anti secolare, quella che gli americani chiamano «l’opzione Benedetto»: «Sono gruppi che tendono a rifiutare le evoluzioni della società contemporanea rivendicando la morale tradizionale e si concepiscono minoritari, il loro avversario è ovviamente Bergoglio perché non è un Pontefice identitario e ridimensiona l’importanza dei valori non negoziabili». Sono passati meno di vent’anni da quando l’Italia berlusconiana, affiancata all’epoca solo da Irlanda e Polonia, perdeva la battaglia per «il riconoscimento delle comuni radici giudaico-cristiane» nella Costituzione europea. Poi sono arrivati gli attentati jihadisti (un crescendo dopo il 2001) e il risveglio dell’est, dove contrariamente all’ovest la devozione non è affatto démodé. Uno studio recente del Pew Research Centre rivela un’inversione di tendenza nella marcia fin qui contagiosa del laicismo, specie in Grecia e nei Paesi ex comunisti, dove il dirsi cristiano (oltre il 70% degli interpellati) si lega sempre più al nazionalismo e a posizioni sociali conservatrici.
È il momento di Orban, il tre volte premier ungherese nemico delle moschee, dei migranti e del finanziere di origine ebraica Soros, che dopo essere stato a lungo un’eccezione nel quadro europeo sembra oggi un precursore. «La differenza è che in Europa la politica e la religione sono state separate una dall’altra mentre nell’islam la religione determina la politica» sosteneva il suo ex ministro delle risorse umane e pastore calvinista Zoltan Balog lasciando intendere che fosse il tempo di serrare le fila.
Il patriottismo bioetico
C’è una consequenzialità con la riforma costituzionale firmata da Orban nel 2012, che pur rispettando le diverse tradizioni religiose del Paese rivendica il ruolo del cristianesimo nella preservazione della nazione, la famiglia, il diritto alla vita e, di fatto un sovranismo a tutto campo che stride parecchio con il mondialismo di Bergoglio, accusato anche di non denunciare con sufficiente forza la persecuzione della Chiesa in terra d’islam anteponendo alla difesa delle minoranze cristiane il dialogo interreligioso e le convenienze geopolitiche. Il vento sta cambiando, scommette Orban, che alcune settimane fa in Romania ha illustrato il suo piano di un’Europa centrale cristiana e non multiculturalista (i 4 di Visegrad più magari la Serbia di Vucic, la Croazia, il Montenegro e l’ Austria) da realizzarsi a breve, con il pensionamento prossimo dei sessantottini liberal e l’avvento della generazione anni ’90, anti comunista, nazionalista e devota. «La richiesta d’identità non è necessariamente legata ad un revival religioso ma di certo ritorna nel momento in cui lo Stato e le ideologie non ci fanno più essere qualcosa» riflette lo studioso di relazioni internazionali Vittorio Emanuele Parsi, poco convinto della durata del neo-comunitarismo cristiano a fronte di un declino costante della pratica religiosa e dell’osservanza della morale cattolica. Eppure, sottolinea la sociologa britannica Grace Davie, c’è un rapporto tra la vecchia definizione di europei occidentali come «believing without belonging» (credere senza appartenere) e il riposizionamento dell’Europa centro-orientale sul «belonging and believing but not necessarily behaving in a religious way» (appartenere e credere ma non per forza comportarsi in maniera religiosa), vale a dire fede patriottica e identità collettiva: vale a dire, in altre parole, la visione del guru dell’alt right statunitense Steve Bannon venuto a investire in Europa il suo sogno di un’internazionale populista.
Il macro-fenomeno dell’abbraccio fra delusi di papa Bergoglio e sovranismo è un vasto mosaico, composto da una molteplicità di tessere, dagli Stati Uniti all’Italia. Una grande eredità è stata portata avanti da Matteo Salvini, in quell’opera di disfacimento e ricostruzione del partito che fu di Umberto Bossi: la «protezione dell’identità». Intorno ad essa è stato riannodato il rapporto tra la Lega e la Chiesa dei «valori non negoziabili», cresciuto nel segno della difesa delle «radici bianche e cristiane dell’Europa», della famiglia tradizionale, del crocifisso. Così, il mondo politico stringe a sé quello religioso, nel nome di una comune crociata per la Patria e contro il mondialismo.
Rosario e Vangelo ai comizi
Difficile poter derubricare il tutto ad una semplice manifestazione di folklore conservatorista. Non lo è il giuramento di Salvini «sul Vangelo e sulla Costituzione» celebrato durante il comizio di chiusura dell’ultima campagna elettorale brandendo un rosario. Gesto poi ripetuto a Pontida e accompagnato dalla promessa di «non mollare fino a che non avremo liberato i popoli di tutta Europa», rendendo così ancor più esplicita l’auto-proclamazione a vate dell’identità cristiana, in antitesi alle critiche di Papa Francesco nei confronti degli «sgranarosari». Non può essere solo folklore la celebre maglietta con il messaggio «Il mio papa è Benedetto», se la nostalgia per il pensiero di Ratzinger viene armata contro l’accoglienza predicata da Francesco: «Io ricordo le parole di Benedetto XVI alla giornata dei migranti 2012 – spiegherà poi Salvini a Radio Padania – quando ha detto che prima del diritto di emigrare va riaffermato il diritto a non emigrare. Poi la storia ci dirà perché Benedetto ha abdicato».
È dunque intorno alla più profonda idea di poter preservare la purezza dei valori cristiani, che i movimenti politici nazionalisti stanno attirando a sé i delusi dalla Chiesa di Bergoglio. Perché in questo nuovo abbraccio tra sovranismo di destra e cattolicesimo tradizionalista (neppure troppo nuovo se si pensa alle Croci Frecciate degli anni Trenta) il guastafeste è Francesco, il Papa mondialista, aperturista, la bestia nera dei vescovi americani di cui Flavio Cuniberto, studioso di René Guenon (l’anello di congiunzione tra la destra esoterica e l’islam), ha scritto che «si comporta come se fosse cattolico, ma non lo è». Il dissenso nel mondo cattolico è un fiume nel quale affluiscono mille rivoli d’acqua. Sotto la stessa bandiera si riuniscono i semplici credenti delusi dal nuovo corso bergogliano e i più duri lefebvriani, che si oppongono all’ecumenismo e al dialogo interreligioso inaugurato dal Concilio Vaticano II, passando per i teo-con statunitensi, fino ai più radicali seguaci del modello di pontificato di Pio V, il papa della Lega Santa che nel 1571 sconfisse l’impero ottomano nella battaglia navale di Lepanto. Eppure, le sfaccettature di questo mondo collimano con il nuovo leghismo salviniano (e più in generale con il nuovo nazionalismo europeo), che si è fatto contenitore ampio di una visione politica e insieme religiosa di difesa dei valori identitari.
Padania bianca e cristiana
L’assonanza delle idee è spesso limpida, come nel discorso da Pontida dell’europarlamentare della Lega Mario Borghezio: «Noi siamo celti e longobardi, non siamo robaccia levantina o mediterranea. Noi, la Padania bianca e cristiana, quelli di Lepanto, con le bandiere del cuore crociato. Noi che non diventeremo mai islamici». I movimenti cattolici che affollano le Marce per la Vita e riempiono il Circo Massimo, a Roma, nel giorno del Family Day, germogliano nello stesso terreno del vice segretario della Lega Lorenzo Fontana, oggi ministro per la Famiglia.
«La famiglia naturale è sotto attacco. Vogliono dominarci e cancellare il nostro popolo - sosteneva già nel 2016 Fontana dal palco del convegno dell’associazione Pro Vita Onlus- Da un lato l’indebolimento della famiglia e la lotta per i matrimoni gay e la teoria del gender nelle scuole, dall’altro l’immigrazione di massa che subiamo e la contestuale emigrazione dei nostri giovani all’estero. Sono tutte questioni legate e interdipendenti, perché questi fattori mirano a cancellare la nostra comunità e le nostre tradizioni». La Fondazione Lepanto, guidata dallo storico Roberto De Mattei, nasce - si legge - per «difendere la tradizione religiosa e morale cristiana, aggredita dalla dittatura del relativismo», i valori della «vita e della famiglia naturale», ma anche per «proteggere la proprietà privata, assalita dal socialismo confiscatorio dello Stato moderno e delle oligarchie ideologico-finanziarie», e per «difendere gli Stati nazionali, espropriati della loro sovranità da potentati che inseguono l’utopia di una Repubblica anticristiana universale». Istanze politiche e religiose si mescolano, talvolta, fino a diventare indistinguibili.
Se il concetto di «patria» (e non più quello di Padania) è centrale nella nuova Lega di Salvini, «anche la Chiesa cattolica ha sempre apprezzato l’idea di Nazione come di un guardiano del popolo», dice a La Stampa il cardinale Raymond Burke, punto di riferimento dell’ala clericale tradizionalista che combatte ferocemente il riformismo di Bergoglio. Non è un caso se Burke entra in contatto, nell’aprile del 2017, proprio con il leader della Lega. Salvini viene invitato nella casa del prelato americano e la sintonia è immediata, nella dichiarata lotta alle «frontiere aperte» della Chiesa di Francesco. D’altronde, l’ala dura del dissenso al Pontefice, da sempre esistita nel mondo cattolico, oggi non è più silenziosa. Si muove alla luce del sole e rimbomba nel web, tra decine di siti, blog, pagine social, in cui spesso si intrecciano attacchi spietati contro Bergoglio e difese accorate di Orban e Salvini.
La fronda nel catto-web
A partire dai social network, come avviene sulle pagine degli scrittori Marco Tosatti e Antonio Socci, seguiti da migliaia di follower. E con maggiore evidenza si manifesta nel caso dei due piccoli siti web di informazione cattolica «Rosso Porpora» e la «Nuova Bussola Quotidiana», fermi sostenitori delle accuse mosse contro Francesco, ed entrambi chiamati a raccogliere il pensiero di Salvini in un’intervista: «Credo che le persone di sensibilità cattolica abbiano potuto apprezzare molte delle nostre lotte, specie negli ultimi anni - dice Salvini a Rossoporpora - a partire dall’affermazione della famiglia come nucleo fondamentale della società, formata da padre e da madre, non da inquietanti e anonimi genitori 1 e 2, fino alla difesa di quei simboli religiosi che appartengono anche al nostro patrimonio culturale e dicono molto delle nostre comuni radici come il Presepe o il Crocifisso negli uffici pubblici. Tutelare questi simboli vuol dire anche tutelare la nostra storia e cultura».

La Stampa 10.9.18
Una statua per la vittoria sui musulmani
La battaglia di tre secoli fa spacca l’Austria
di Francesco Sorti Rita Monaldi


Lo scontro è avvenuto di sabato sera al tramonto, in un bosco collinare, alla luce delle fiaccole, come ai tempi di Braveheart. Da una parte una manifestazione «identitaria» di estrema destra, con tanto di sospetti neonazisti. Dall’altra un corteo «resistente» della sinistra extraparlamentare, trattenuto a fatica dalla polizia. Grida, manganellate, fuggi fuggi nella boscaglia.
La data della discordia
Sembra incredibile, ma in un Paese avanzato e con i piedi per terra come l’Austria questo rito un po’ tribale si va ripetendo ormai ogni anno. In prossimità del fatidico 12 settembre, sulla collina del Leopoldsberg si affrontano a spintoni e sassate due visioni del mondo, divise da un evento vecchio di tre secoli. Il 12 settembre 1683 la Vienna imperiale e asburgica, assediata dai musulmani dilaganti di Kara Mustafà, quando era ormai sul punto di cedere (il Kaiser era scappato a gambe levate) venne liberata da un’armata transnazionale di principi cristiani. Grazie alla mediazione politica e al finanziamento di papa Innocenzo XI e del suo factotum, il predicatore cappuccino Marco d’Aviano (oggi beato), i guerrieri cristiani lanciarono l’attacco vincente da una delle alture che dominano la capitale: il Leopoldsberg, l’estremo picco orientale delle Alpi, che si spengono proprio nel Danubio. Ai cristiani, guidati dal re polacco Jan Sobieski, mancavano all’appello forze importanti: i francesi (che speravano in una sconfitta dei rivali Asburgo e fornirono agli ottomani know how militare) e i veneziani (che tenevano di più ai loro lucrosi commerci con l‘oriente). Ma miracolosamente l’avanzata islamica venne bloccata. Altrimenti oggi tra Praga, Monaco e Firenze avremmo più minareti che campanili.
Oltre tre secoli dopo, questo spartiacque della storia europea ancora divide le coscienze. La Turchia di Erdogan è più che mai in rotta di collisione con l’Austria, che ha vietato il velo nelle scuole, sta chiudendo sette moschee ed espellendo oltre 40 imam radicali. Erdogan da parte sua quando è in campagna elettorale fa scendere in piazza i «suoi» turchi anche nei Paesi di lingua tedesca, dove sono una fetta importante della società. Per tutta risposta, l’Austria minaccia di cacciarli: la grinta non manca al giovin cancelliere democristiano Sebastian Kurz. Grazie al suo navigato mentore Michael Spindelegger (gli insider lo chiamano «il nostro Andreotti») ha resuscitato alla grande la moribonda Övp portandola al governo e in cima ai sondaggi delle prossime europee. E ora, momento magico, la repubblica alpina è di turno alla presidenza del Consiglio Ue. Arriva quindi assai sgradita la grana del 12 settembre.
Il comitato polacco
Sono ormai cinque anni infatti che la destra della Fpö, con cui Kurz ha formato la sua controversa coalizione, insiste per erigere sul Leopoldsberg un monumento alla vittoria del 1683 contro gli ottomani. Si forma un comitato anche in Polonia, il sindaco di Cracovia mette a disposizione uno schizzo su carta del monumento equestre. Nella storica rocca del Leopoldsberg (il nome originale era Kahlenberg) è già pronto il piedistallo, manca solo il via libera del comune di Vienna. Ma la commissione per le Belle Arti della giunta si accorge che la statua disegnata dai polacchi non è politically correct: re Sobieski galoppa allegramente su una distesa di guerrieri islamici con la testa mozza. La scena dev’essere davvero sanguinolenta, perché in ben cinque anni nessun giornalista o blogger è riuscito ad averne una foto. I viennesi sono maestri della censura mediatica: un leggendario e potentissimo capo ufficio stampa del Comune, rimasto in carica per 35 anni, riuscì fino al giorno della pensione a fare circolare solo una sua foto, in cui era giovane e bello.
Progetto top secret
Lo schizzo dei polacchi quindi viene in tutta fretta «schubladiert», cioè sepolto nel proverbiale cassetto. Il capogruppo della Fpö si infuria e accusa: «È un piacere fatto alla comunità turca di Vienna». Anche dalla Polonia arrivano commenti indignati. Il Comune viennese però da mezzo secolo è amministrato dai socialisti della Spö, che adesso sono all’opposizione del governo di centro-destra e rispondono beffardi: «Un monumento si farà, per carità, però forse non questo». Per prendere tempo viene esposta una semplice stele commemorativa in inglese, tedesco e polacco, subito sfregiata da ignoti con lo spray: «No ai nazi». Risultato: in prossimità della fatale ricorrenza, l’anno scorso e quest’anno manifestanti di destra pro-monumento e avversari di estrema sinistra (slogan di quest’ultimi: «Vienna non è Chemnitz!») sul Leopoldsberg se le sono date di santa ragione all’imbrunire con fiaccole, mazze e coltelli. I servizi segreti ovviamente hanno fiutato elementi di cellule neonaziste: proprio come a Chemnitz.
La chiesa contesa
Ironia della sorte, la rocca gloriosa del Leopoldsberg con annessa la chiesa in cui Marco d’Aviano tenne l’ultima predica prima dell’epica battaglia non è statale né comunale, bensì privata: appartiene a un convento di frati domenicani. Forse per smarcarsi dalla Fpö (la Chiesa austriaca lo ha fatto anche in tema di migranti, appoggiando le politiche di accoglienza), i frati hanno affittato per 99 anni l’intero complesso a uno stravagante architetto-imprenditore, Alexander Serda, che è solito tenere a lungo chiusi e cadenti gli edifici storici che gli vengono affidati. Così è accaduto anche al sacrario del Leopoldsberg, riaperto nel giugno scorso dopo ben 11 anni di chiusura.
Intanto Serda ha messo le mani su un altro gioiello dell’«identità viennese», uno dei locali storici del quartiere di Grinzing, il celebre Heurige («mescita di novello») della famiglia Reinprecht. Scopo: lottizzazione in miniappartamenti di lusso. Arredamento e suppellettili dell’antico locale venduti a due soldi (qualche cimelio l’abbiamo comprato anche noi, con le lacrime agli occhi), e ora cantiere lasciato a metà, senza operai. Anche nella orgogliosa Vienna diventa difficile essere «identitari».

Corriere 10.9.18
Mille miliardi sulla Via della Seta
di Milena Gabanelli e Danilo Taino


Pechino è pronta a mobilitare almeno 1000 miliardi di dollari nella Belt & Road Infrastructure, progetto più noto come Via della Seta. L’obiettivo è unire attorno alla Cina l’intera Asia e collegarla con l’Europa attraverso strade, ponti, ferrovie, gasdotti e oleodotti, parchi industriali e una poderosa logistica sulle vie d’acqua, con porti e infrastrutture collegate negli oceani Pacifico e Indiano e nel Mediterraneo, sulle rotte delle sue merci e dei suoi interessi politici.
Lo sbarco in Germania
Il punto di arrivo più significativo in Europa al momento è a Duisburg, in Germania, scelta dai cinesi come hub per l’arrivo della ferrovia dall’Est cinese. Arrivano circa 30 treni cinesi la settimana carichi di container: trasportano prodotti che vengono distribuiti in Europa. Duisburg sta costruendo magazzini per 20 mila metri quadrati. Il costo di trasporto dalla Cina a Duisburg per ferrovia è del 90% più alto rispetto alle navi, ma il viaggio dura 12 giorni invece di 45. Collegamenti ferroviari esistono già con Londra e Madrid.
I porti europei
Quest’anno il gruppo di stato cinese Cosco ha preso un terminale a Zeebrugge, il secondo porto del Belgio: è il primo investimento portuale nell’Europa del Nord. Sempre Cosco, ha investito nel 2016 un miliardo di dollari nell’acquisizione dell’uso del porto del Pireo, ad Atene, e nel suo ammodernamento.
Nel 2017 Cosco ha comprato per 203 milioni di euro Noatum Port Holdings che gestisce le operazioni di container nei porti di Valencia e Bilbao, mentre in Italia controlla il 40 per cento del porto di Vado Ligure, terminale per container.
Cosco Shipping è interessata anche alla costruzione di un nuovo molo al porto di Trieste attraverso un’acquisizione diretta, e i viaggi di fine agosto nella capitale cinese del ministro dell’Economia Giovanni Tria e del sottosegretario allo Sviluppo Michele Geraci confermano il desiderio di trovare una collaborazione. Trieste diventerebbe così uno degli hub più importanti sulle rotte che collegano la Cina, via Canale di Suez, all’Europa, soprattutto per rifornire quella dell’Est e balcanica, dove i cinesi sono molto attivi.
L’espansione
Con l’Est europeo, Pechino ha un Forum stabile, chiamato 16+1Cooperation dove 16 sono gli europei e uno è la Cina. E’ un forum tutto orientato a investimenti nell’Europa dell’Est e nei Balcani: paesi più facili da coinvolgere dell’Europa occidentale, perché più bisognosi e con meno remore all’arrivo di capitali. In Polonia i treni cinesi che partono da Chengdu, arrivano a Lodz.
In Serbia sono iniziati i lavori per la ferrovia di 336 chilometri Belgrado-Budapest, sulla linea che unirà il Pireo al Baltico. Per realizzarli, la Serbia ha acceso un prestito di 297,6 milioni di dollari con la Exim Bank cinese.
La Lettonia ha firmato un memorandum di cooperazione economica: ci sono tre porti potenzialmente interessanti: Riga, Ventspils, Liepaja. Inoltre mira a diventare il polo logistico per trasferire verso la Scandinavia i prodotti del parco industriale Cina-Bielorussia di Minsk. La Romania, che si affaccia sul Mar Nero, punta a entrare nella Belt and Road, per smistare verso l’Europa i prodotti che arrivano da Russia e Cina. La Repubblica Ceca ha una partnership strategica con Pechino soprattutto per gli investimenti nell’immobiliare e nei media.
In Ungheria la Cina ha già investito parecchio nella costruzione di nuove aziende e 3 miliardi per la costruzione di una centrale nucleare.
I nuovi poteri
Se il progetto seguirà i desideri del Presidente Xi, si formerà una ragnatela di infrastrutture che unisce l’Asia dell’Est, l’Asia Centrale, la Siberia, la Russia e l’Europa, con Pechino al centro. A seconda di come la guardi sarà un supercontinente di scambi commerciali, o un supercontinente dominato dagli interessi cinesi in economia e in geopolitica. Intanto oggi è più quello che ci vendono di quello che comprano visto che la metà dei container che arrivano a Duisburg dall’Asia tornano indietro vuoti; mentre oltre l’80 per cento dei progetti è realizzato da main contractor cinesi.
Le condizioni cinesi
La strategia è quella di fare prestiti per lo sviluppo dei porti e collegamenti ferroviari, o mettere soldi per entrare nella gestione di aziende di stato, attraverso le loro società di stato. I soldi per fare le opere poi vanno restituiti. Lo Sri Lanka non ci è riuscito e ha dovuto cedere le infrastrutture ai cinesi, a rischio Pakistan e Malaysia. Più un paese è finanziariamente debole e più è propenso a passare sopra ai termini dei contratti. La Germania ha allo studio normative per frenare gli investimenti cinesi in società tedesche, acquisizioni che non fanno parte della BRI ma sono collegati. La reazione nasce a seguito dell’acquisto, nel 2016, di Kuka Robotics, da parte dei cinesi di Midea Group per 4,5 miliardi di euro.
I nodi da sciogliere
Che le loro proposte possano essere opportunità di business è fuori discussione. Ma non si tratta mai di rapporti da pari a pari: i cinesi possono investire ed entrare nella gestione delle nostre infrastrutture, ma a nessuna azienda europea è concesso investire in una azienda di stato cinese. Nel loro piano di espansione non trattano con l’Unione Europea, ma direttamente con ogni singola capitale o in forum da loro controllati. In prospettiva la via della seta sarà un dominus con valori e metodi molto diversi da quelli europei. A Bruxelles lo sanno e qualche mese fa, in una lettera, 27 ambasciatori europei a Pechino (mancava l’ungherese) hanno sottolineato che la Belt and Road Initiative «va contro il programma della Ue» e favorisce esclusivamente le grandi imprese cinesi. Pechino desidera investire in Italia: sarà fondamentale, se accordi si faranno, non solo scrivere contratti in linea con le pratiche europee, non solo stabilire chi realizzerà i lavori, se imprese italiane, cinesi o miste, ma soprattutto, avere chiaro quali sono gli interessi politici che muovono gli investimenti cinesi.

Il Fatto 10.9.18
Monarchia assoluta tra marijuana e Aids
La festa per i cinquant’anni di indipendenza La povertà e un re spendaccione non piegano un Paese comunque più libero dei vicini Sudafrica e Mozambico
Monarchia assoluta tra marijuana e Aids
di Cesare Sangalli


Come rinunciare alla democrazia e vivere felici. Lo Swaziland festeggia mezzo secolo d’indipendenza in questi giorni e ad aprile ha festeggiato i 50 anni del re Mswati III che nel 2006 ha “archiviato” il parlamento tornando alla monarchia assoluta, unico regime del genere in Africa, uno dei pochi del mondo, insieme al Vaticano e alle petromonarchie arabe, con cui però il regno swazi non ha niente a che vedere. Non solo in termini di ricchezza: qui non ci sono risorse minerarie da sfruttare; il prodotto di esportazione più importante, anche se non si può dire ufficialmente, è sicuramente la marijuana, la “swazi gold”: per il resto, agricoltura di sussistenza (per tre quarti delle famiglie), e tanta povertà (quasi metà popolazione vive con un dollaro al giorno).
Ma la libertà che si vive in Swaziland, i ricchi sudditi degli sceicchi, degli emiri, e dei re del Golfo, se la possono solo sognare. A partire dalla libertà di movimento: è facile entrare, è facile uscire, nessuno si sognerebbe di sequestrare i documenti ai poveri immigrati, soprattutto dal vicino Mozambico e dallo Zimbabwe, che per lo più sono in transito verso il Sudafrica, dove magari troveranno lavoro, ma anche tanta emarginazione, ormai degenerata in xenofobia. E quelli che arrivano da Pakistan e Bangladesh, qui si danno al commercio al dettaglio, non sono certo in condizioni di semi schiavitù come nei paesi di cui condividono la religione, islamici di serie B. Lo Swaziland è per metà cristiano (soprattutto protestante, ma con una significativa presenza cattolica) e per metà segue le religioni tradizionali. Fatto sta che a queste latitudini gli scontri di civiltà, le guerre a sfondo religioso o etnico, sono solo ipotesi che verrebbero seppellite da un sorriso.
Vivi e lascia vivere, sembra essere l’atteggiamento degli swazi: qui nessuno si sente straniero; eppure basta attraversare la frontiera con il Sudafrica per avvertire tutte le tensioni del dopo apartheid; e il Mozambico, unico altro paese confinante, ogni tanto vede riaffacciarsi i fantasmi della guerra civile. Non sono neppure le dimensioni lillipuziane (lo Swaziland è grande come il Lazio), o la relativa omogeneità etnica a garantire l’armonia; basta pensare a paesi altrettanto piccoli, come il Burundi, il Gambia, la Guinea Bissau, con le loro situazioni di instabilità e violenza politica. No, il segreto di Eswatini, protettorato inglese fino al 6 settembre 1968, sta innanzi tutto nel sentimento del popolo nei confronti del re. “Il re rappresenta l’unità della nazione”, dice Thabo Magagila, 40 anni, assistente sociale per Save the Children. È la risposta che danno un po’ tutti, una risposta classica, da diritto costituzionale, che qui però è una realtà autentica vissuta da tutta la popolazione, un milione e 250mila persone. Vissuta nel bene e nel male, a quanto pare. Perché, come ogni giorno porta la sua pena, ogni fase storica ha i suoi pro e i suoi contro. Lo Swaziland diventò indipendente con un grande re, Sobhuza II. Nessun altro sovrano ha regnato così a lungo, nel mondo, e, a quanto pare, nella Storia: quasi un secolo, dai primi del Novecento, alla sua morte, nel 1982.
Sobhuza era saggio, lungimirante, carismatico, austero. Un vero capo africano. Era la tradizione che sfidava la modernità, portandosi dietro i problemi storici del continente nero: povertà estrema, arretratezza, analfabetismo. Sobhuza, poligamo, padre di una pletora di figli (“il toro dello Swaziland” era uno dei suoi attributi regali), rappresentava il Patriarcato, nella sua forma “buona”. Il Paese cresceva, piano piano, migliorava lentamente i suoi standard, dava asilo politico ai leader dell’African national congress, tutti occidentalizzati, nella comune lotta contro l’apartheid; e accoglieva, per quello che poteva, i profughi che scappavano dalla guerra civile mozambicana.
Ma il passaggio degli anni Ottanta segna “l’autunno del Patriarca”, perché non era facile sostituire un sovrano del genere, e perché troppi cambiamenti erano in corso: stava per compiersi il “corto circuito” fra tradizione e modernità. L’anno simbolo è il 1986; due avvenimenti, uno celebrato, l’altro tragicamente ignorato: Mswati raggiunge la maggior età e diventa re; e viene registrato il primo caso di Aids.
Il nuovo re non è nemmeno figlio legittimo di Sobhuza; la versione agiografica vuole che sia il figlio della donna che il vecchio re ha amato di più, che si dice fosse entrata a corte come serva, ma poi divenne una delle sue 125 mogli, una delle più giovani. La versione più prosaica parla di un intrigo di corte, che vede una regina (Dzeliwe), defilarsi rapidamente, e un’altra (Ntfombi) prendere il suo posto, entrambe manipolate dagli anziani. Niente trapela dai palazzi reali: la stampa, che risulta credibile e molta sciolta un po’ su tutti i temi, sul re attua un’autocensura totale; e se qualche voce esce dal coro, allora ci pensa il regime ad intervenire, con i mezzi classici della repressione (licenziamenti, carcere, torture, espulsioni). Qualcosa è cambiato, nel regno chiamato Swaziland.
Il nuovo re si rivelerà spendaccione fino al capriccio, lussurioso, assolutamente incapace di mettere un freno alla sua smodatezza, nemmeno di fronte ai drammi del paese. E il flagello dell’Aids esploderà negli anni Novanta con una forza terrificante: i primi contagi avvengono probabilmente fra gli swazi emigrati, che sono andati a lavorare nelle miniere del Sudafrica, lasciando le loro famiglie, “consolandosi” con le prostitute. Insomma, nello Swaziland post-moderno suo malgrado, si assiste al suicidio del Patriarcato: uomini sempre più assenti, come capifamiglia; sempre meno poligami (anche perché la dote ora costa troppo, soprattutto per quelli che cercano fortuna in città) e sempre più donnaioli.
I codici di condotta saltano; le donne non sono più mogli, ma compagne, amanti, divertimenti di una notte. Nel caos dei costumi sessuali, nella promiscuità maschilista, che non si cura di proteggersi, rifiuta gli esami dell’Hiv, e quando conosce i risultati, li tiene nascosti per evitare lo stigma sociale, l’Aids trova praterie, e nel giro di un decennio si arriva al primato mondiale: oltre il 30 per cento della popolazione è contaminata (!); ma tutti sanno che la stima ufficiale è abbassata, si può dire che metà della nazione è sieropositiva.
Il Duemila arriva con proiezioni di ecatombe: le statistiche mediche dicono che gli swazi potrebbero estinguersi o quasi, nel giro di alcuni decenni. E invece oggi nella piccola capitale del regno, 80 mila abitanti di una cittadina dignitosa e pulita, poco trafficata, poco inquinata, con la Chiesa cattolica di Mater Addolorata che veglia sui suoi figli da una delle tante colline divise da un fiume, si celebrano i cinquanta anni di indipendenza con un ottimismo ritrovato: per quanto i dati restino drammatici, tutte le statistiche volgono al meglio: non si muore quasi più, grazie all’impiego massiccio degli antiretrovirali; e le nuove generazioni, le ultime arrivate fra i “millennials”, nascono sane, libere dal terribile virus che stava falcidiando un intero Paese.
“Sono le nonne che hanno salvato lo Swaziland”: non ha dubbi suor Beni Michielin, che questo regno l’ha visto nascere, essendo arrivata qui pochi mesi prima dell’indipendenza. Unici capifamiglia per migliaia di famiglie, con nipoti orfani o rispediti indietro da padri che non pagavano la lobola, la dote; con figlie ragazze madri, spesso malate a loro volta, queste donne, anziane, povere, spesso con salute malferma, hanno fatto miracoli. Eroine sconosciute, hanno traghettato il passato nel futuro; anche perché le loro figlie, le loro nipoti, sempre di più vanno a scuola, acquistano sapere e consapevolezza. “La maggior parte di loro sa già tutto, di anticoncezionali; ma noi puntiamo sul valore della persona, che si afferma con difficoltà, perché le ragazze sono spesso alla mercé di maschi più ricchi, più adulti, più forti”: le suore non si fanno certo problemi ad affrontare i temi della sessualità, stanno in trincea da troppo tempo; e sanno benissimo che non c’è niente più forte dell’istruzione; per cui spingono le ragazze a studiare, studiare, studiare; o comunque a saper fare, a saper gestire.
Lo fanno da sempre (la prima scuola dello Swaziland è stata fondata dai missionari Servi di Maria), lo fanno meglio, adesso, perché da un po’ di anni lo Stato ha aumentato gli investimenti in istruzione, e cerca, saggiamente, di portare gli avanzamenti tecnologici verso le zone rurali, cioè di invertire la tendenza alla fuga verso le città. Questo processo va avanti, si potrebbe dire, “nonostante” il re (che possiede il 60 per cento della ricchezza intesa come immobili e terre, e contribuisca a fare dello Swaziland un Paese assai diseguale, comunque migliore del vicino Sudafrica, che, incredibile ma vero, era più equo ai tempi dell’apartheid); anche se tutti qui direbbero “grazie a lui”. Le donne, fra enormi problemi (fra cui la violenza, molto diffusa), avanzano in silenzio. “Ben scavato, vecchia talpa”, commenterebbe Marx. La plateale fallocrazia di Eswatini, simboleggiata dalle due cerimonie fondamentali, la “Danza delle canne” (quando il re sceglie la nuova moglie fra migliaia di vergini) e la cerimonia dell’Incwala (in cui un toro viene brutalmente ucciso a mani nude, e i suoi testicoli offerti al re), viene erosa, anno dopo anno. Qui nessuno sembra avere fretta. E forse questa lentezza, aiutata probabilmente da un po’ di cannabis, è il vero segreto di un Paese che riesce a resistere a tutto.

Il Fatto 10.9.18
Scuola, martedì sciopero e sit-in davanti alla Camera


L’Anief ha organizzato per martedì prossimo, 11 settembre, uno sciopero nazionale con contestuale sit-in a Roma, davanti alla Camera dei deputati, dove in quelle stesse ore inizierà l’esame in Aula, a partire dalle 11, del decreto Milleproroghe contenente nuovi emendamenti salva-precari. La protesta proclamata dal giovane sindacato della scuola, fa sapere Anief, intende anche sensibilizzare i deputati ad opporsi alla nuova proposta del ministro Bussetti “sul vincolo quinquennale legato alla residenza lavorativa per gli insegnanti neo-assunti: servono, invece, regole più semplici e favorevoli al ricongiungimento familiare nel nuovo contratto triennale sulla mobilità. A partire dal riavvicinamento immediato di migliaia di docenti costretti dal governo Renzi ad accettare l’immissione in ruolo a centinaia di chilometri da casa. L’inizio dell’anno scolastico – scrive il sindacato – si preannuncia incerto e denso di problemi: nei giorni di ripresa delle lezioni, il Parlamento potrebbe risolverne diverse – chiede Anief – perché sarà chiamato ad esprimersi sul futuro di 150mila docenti abilitati che, ad un passo dalla stabilizzazione, per colpa delle scelte del governo, si apprestano ad essere ricacciati nelle graduatorie d’istituto”.

Corriere 10.9.18
Ideologie Un saggio del 1978, ora riproposto da Aragno, aprì la fase dell’aspro duello a sinistra tra Psi e Pci
E Craxi mise in scacco i comunisti giocando Proudhon contro Lenin
di Sergio Romano


Nel marzo del 1919, meno di due anni dopo la rivoluzione d’Ottobre, Lenin creò una nuova Internazionale (la Terza) e invitò i partiti socialisti a diventarne membri. Ma dettò 21 condizioni che facevano dei bolscevichi i padroni della associazione e pose perentoriamente due condizioni: che i candidati cambiassero nome, divenendo «sezioni nazionali della Terza Internazionale», e si sbarazzassero di alcuni fra i maggiori esponenti della socialdemocrazia europea fra i quali, per l’Italia, Filippo Turati e Giuseppe Emanuele Modigliani. Questo diktat ebbe l’effetto di provocare la scissione del Partito socialista francese a Tours nel 1920 e del Partito socialista italiano a Livorno nel 1921.
Comincia da allora la storia delle relazioni fra il socialismo e il comunismo: un lungo duello fatto di bisticci, dispetti, polemiche ideologiche e accuse reciproche, ma anche di tregue e alleanze elettorali, come i Fronti popolari di Spagna e Francia nel 1936, e il patto dei due partiti italiani per le elezioni del 18 aprile 1948. L’alleanza italiana provocò nella famiglia socialista un’altra rottura: quella fra i socialisti di Pietro Nenni e i socialdemocratici di Giuseppe Saragat, che i due leader cercarono inutilmente di ricucire dopo la elezione del secondo alla presidenza della Repubblica nel 1964.
Quando prese il posto di Francesco De Martino alla guida del Psi, Bettino Craxi ereditò un partito che si era legato le mani impegnandosi a non entrare in un governo di cui non facessero parte anche i comunisti. Questo accadeva in una fase in cui alcuni partiti comunisti dell’Europa occidentale cominciavano a prendere prudentemente le distanze dal Partito comunista della Unione Sovietica, e in cui il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, proponeva alla Democrazia cristiana un «compromesso storico». Craxi capì che la prima vittima di questa combinazione (eurocomunismo e compromesso storico) sarebbe stata il Psi, e ne ebbe una drammatica conferma quando, nelle elezioni politiche del 1976, i comunisti conquistarono il 34,4% dei voti contro il 38,7% alla Democrazia cristiana e un magro 9,6% al Psi.
La storia del modo in cui Craxi, divenuto segretario dopo quella sconfitta, reagì alla crisi del suo partito è ricordata ora da Giovanni Scirocco, con esemplare chiarezza e la necessaria documentazione, in un libro pubblicato da Aragno. Il titolo Il Vangelo socialista è quello dell’articolo che Craxi pubblicò su «L’Espresso» il 28 agosto 1978. Occorreva dimostrare, anche sulla scorta di riflessioni e sollecitazioni provenienti da Norberto Bobbio, che il Partito socialista non era né un rottame della storia né l’umile scudiero del Pci. Ma per riuscirvi era necessario demolire l’edificio costruito dai bolscevichi intorno alla rivoluzione d’Ottobre, dimostrare che la dittatura del proletariato era stata, in realtà la dittatura di una grande macchina burocratica, che la collettivizzazione aveva soppresso la libertà e che il socialismo, invece, era «un liberalismo organizzato e organizzatore». Per sviluppare queste idee Craxi si affidò a un brillante sociologo, Luciano Pellicani, che sarebbe poi divenuto direttore di «Mondoperaio». Si devono soprattutto a lui i frequenti riferimenti a Pierre-Joseph Proudhon, critico di Marx, teorico della una proprietà diffusa, e agli intellettuali che avevano sfidato Lenin (fra cui Bertrand Russell, Carlo Rosselli, Rosa Luxemburg). Con questi nomi Craxi dette al socialismo i suoi quarti di nobiltà e un albero genealogico.
Scirocco ha completato il libro pubblicando le numerose lettere (una cinquantina) che Luciano Pellicani scambiò fra il 1975 e il 1985 con un altro studioso, Virgilio Dagnino, sui temi che formano la sostanza dell’articolo di Craxi. Non è necessario condividere tutte le loro tesi per rimpiangere un’epoca in cui la politica si nutriva di questo pane. Il confronto con i nostri giorni è drammaticamente penoso.

Corriere 10.9.18
Sergio Tau su Salò (Marsilio)
Ragazzi dalla parte sbagliata
di Dino Messina


Fa bene Pietrangelo Buttafuoco nella scoppiettante prefazione a La repubblica dei vinti. Storie di italiani a Salò di Sergio Tau (Marsilio, pagine 348, e 18) a sottolineare quanto siano lontani i tempi di Palmiro Togliatti (appello ai fratelli in camicia nera, 1936) e anche quelli di Luciano Violante, che nel 1996, nel memorabile discorso di insediamento da presidente alla Camera, invitò a capire le ragioni di ragazze e ragazzi che avevano combattuto dalla parte sbagliata. Interpretazioni troppo politiche, in quest’epoca post ideologica che dell’antifascismo ha conservato non l’acume delle menti illuminate, ma la facciata di un perbenismo spento.
In un’epoca distratta non resta che il dovere della testimonianza. Una regola tanto più valida se il racconto lo fanno i maledetti, i ragazzi di ieri che si schierarono dalla parte sbagliata della barricata, contro la democrazia, per il fascismo.
Che cosa hanno da insegnare queste testimonianze? È la domanda, la sfida che si pose Sergio Tau quando nel 1997 per Radio Due realizzò non senza scandalo una serie di trasmissioni in cui dava la parola a chi fino a ieri, prima del discorso di Violante, era considerato un «non uomo», un reietto della storia, a meno che non avesse rinnegato il suo passato e non fosse passato, come spesso accadde, nelle file del Partito comunista.
Per quanti invece non volevano rinnegare la loro scelta in buona fede restava solo il silenzio. E il risentimento. Sergio Tau ha il merito in questo libro, che ripercorre dal basso e dall’interno le tappe della tragica repubblica di Salò, di dar voce, senza intenti revisionistici, a uomini e donne (circa 250 mila) che combatterono a fianco dei nazisti. Molti lo fecero perché risposero di malavoglia ai bandi di arruolamento del maresciallo Rodolfo Graziani, altri perché erano fanatici sanguinari. Per tanti il caso scelse in loro vece, come la crocerossina Antonia Setti Carraro, che l’8 settembre si trovava in nave per soccorrere i feriti in Grecia e fu portata a servire nei campi di addestramento in Germania. La maggior parte dei volontari erano ragazzi di 18 e 19 anni (classi 1924 e 1925), nati, cresciuti ed educati sotto il fascismo, traumatizzati dal crollo del regime (25 luglio 1943) e soprattutto dalla fuga ignominiosa del governo e del re, che chiuse il Quirinale come una casa privata e partì alla volta di Pescara per mettersi in salvo. I giovani che si arruolarono nella Rsi credettero di risollevare l’onore caduto dell’Italia continuando a combattere con l’alleato di ieri, che in realtà li disprezzava, come raccontano molti testimoni intervistati da Tau.
Carlo Mazzantini, uno dei ragazzi di Salò, che su quella tragedia ha scritto il romanzo più bello, A cercar la bella morte (Mondadori, 1986; Marsilio 1995), li chiamava i «capri espiatori». Su di loro caddero infatti tutte (o quasi) le colpe dei disastri compiuti dal regime in un Paese fino a ieri fascista che all’improvviso si era scoperto antifascista. Erano i più giovani e si assunsero una insostenibile responsabilità storica. Partirono con la convinzione di andare a combattere gli Alleati e si ritrovarono invece il più delle volte in prima linea nel dramma della guerra civile. Italiani contro altri italiani.
Molti finirono nei campi di prigionia come San Rossore e Coltano, vennero processati, condannati. Rimasero in un rancoroso silenzio, finché qualcuno non restituì loro il diritto di parola.

Il Fatto 10.9.18
L’amor perduto di Maiorca per la ferocia di Franco
Ottant’anni dopo - Tra la fine di luglio e il novembre del 1938 un operaio torinese smarrì moglie e figlia nella Guerra di Spagna
L’amor perduto di Maiorca per la ferocia di Franco
di Massimo Novelli


Ottant’anni fa, tra la fine di luglio e il novembre del 1938, sul fiume Ebro le forze repubblicane spagnole e i nazionalisti di Francisco Franco si affrontarono nella battaglia più lunga e tremenda della guerra civile scoppiata nel luglio del 1936. Nello scontro, che si concluse con la sconfitta delle truppe antifasciste, si batterono per l’ultima volta i volontari delle Brigate Internazionali. Organizzati dai comunisti, dal 1936 erano accorsi in Spagna in circa 40 mila, da oltre 50 nazioni, per difendere la repubblica. Più della metà di loro venne uccisa, dispersa o ferita nel corso del conflitto. Nell’ottobre del 1938, su pressione delle democrazie occidentali, che propugnavano il “non intervento”, il governo spagnolo ordinò il ritiro delle Brigate Internazionali.
Tra coloro che furono feriti sull’Ebro e che raggiunsero la Francia, per essere rinchiusi in uno dei vari campi di internamento, tra Argeles, Gurs e Vernet, c’era l’operaio torinese Pierino Bosco, detto “Maiorca”. Classe 1906, comunista, nel 1941 fu tradotto in Italia e confinato a Ventotene. Liberato dopo il 25 luglio ’43, e ritornato a Torino, nel settembre salì in montagna e fece il partigiano nelle formazioni garibaldine in Valle di Susa, Valli di Lanzo e nelle Langhe. Non aveva mai dimenticato la Spagna, sempre viva e lacerante nel cuore e nella memoria. Ricordava la guerra contro Franco con la Brigata Garibaldi e, prima, nell’agosto del ’36, nella Centuria “Gastone Sozzi”, con cui aveva preso parte allo sfortunato sbarco alle Baleari: da qui il nome di battaglia di “Maiorca”. E rammentava le ferite riportate: al polmone destro (a Palahustan), a una gamba (a Pozoblanco), alla regione glutea (il 22 agosto ’38, sull’Ebro). Ma Pierino, soprattutto, pensando alla Spagna, rivedeva una donna, la sua compagna, e una bambina, sua figlia, che era stato costretto ad abbandonare ad Albacete. Non aveva più saputo niente di loro. E voleva sapere. Così Pierino Bosco, operaio alla Fiat, discriminato perché militante del Pci, un giorno decise di ritornare in Spagna. Un amico che allora lo accompagnò, Renzo Solfaroli, oggi rammenta che partirono quando Franco era ancora vivo e al potere. Ci andarono probabilmente negli anni Sessanta, forse quando in Italia Fred Bongusto aveva lanciato una canzone che si chiamava Il mio amore è nato a Malaga. Albacete è distante cinquecento chilometri da Malaga, però quella canzone doveva averla ascoltata più volte anche Pierino. E su quelle note aveva fantasticato, cambiando il nome di Malaga con Albacete.
La guerra era finita, la dittatura franchista era sempre al suo posto. La Spagna, tuttavia, aveva mutato volto. Pierino Bosco e i suoi amici, Solfaroli e un ex comandante partigiano, giunsero dunque ad Albacete. Chiamata la Guernica della Mancha per i tanti bombardamenti subiti, come quello effettuato nel febbraio del 1937 dai nazisti della Legione Condor, la città non era più quella che ricordava “Maiorca”. Le bombe e poi la ricostruzione avevano cancellato larga parte della vecchia Albacete, dove si erano radunati ed erano stati addestrati i volontari delle Brigate Internazionali. Pierino, comunque, non si scoraggiò. Percorse le strade di ciò che restava del borgo antico; girò per osterie e botteghe, interrogò i vecchi, chiese alle donne. Alla fine riuscì a strappare qualche brandello di notizia dall’oblio del tempo e della gente: i fascisti avevano ucciso la sua compagna; la sua bambina, ormai una donna matura, all’epoca era stata data in adozione, e nessuno l’aveva più vista ad Albacete. “Per Pierino – dice adesso Solfaroli – fu un colpo molto duro, da cui non si riprese più”.
Pierino Bosco, che dopo la guerra di Spagna non si era più risposato, morì nel tardo novembre del 1988. Negli ultimi anni aveva gestito un circolo del Pci, e si vedeva con gli amici della vecchia Trattoria del Ponte Barra, nel borgo torinese di Sassi, ai piedi della collina. Ebbe funerali rigorosamente civili. Su l’Unità furono pubblicati alcuni necrologi, in cui venne rievocato il suo passato di antifascista emigrato nel 1931 in Francia e in Corsica, il volontario di Spagna dell’estate del ’36, il partigiano e il commissario politico delle “Garibaldi”, l’attivista del Pci alla Fiat e il militante della sezione comunista di Mongreno-Sassi. Nessuno, in ogni caso, accennò a quel suo viaggio di ritorno in Spagna, nella “rossa terra di Spagna”, come aveva scritto un poeta. Furono dimenticati anche il nome della compagna e della figlia di “Maiorca”. Se li è portati Pierino nella tomba, sono rimasti per sempre con lui come i versi di quella canzone della guerra, in quell’estate del 1938: “El Ejército del Ebro/ rumba la rumba ba/ una noche el río pasó/ ay Carmela, ay Carmela”.

Repubblica 10.9.18
Così Dante Alighieri entrò nel Pantheon di Mao Zedong
La fortuna della "Divina Commedia" a Pechino: parla l’italianista Wen Zheng
Nato a Pechino nel 1974, Wen Zheng è docente di lingua e letteratura italiana all’Università di Studi Internazionali di Pechino (BFSU) e ha tradotto in cinese, fra gli altri, Boccaccio, Calvino ed Eco. A Ravenna interverrà mercoledì 12 settembre
Intervista di Leonetta Bentivoglio


Per la neonata Cina comunista, Dante Alighieri rappresentò un vessillo ideologico e culturale. Formula quest’affermazione, che ai non-esperti richiede un salto acrobatico di prospettive geografiche e temporali, il grande italianista cinese Wen Zheng, il quale esporrà la tesi nel corso di un intervento su «Dante e le sue opere in Cina» dopodomani a Ravenna, in apertura della manifestazione "Dante2021". Nato a Pechino nel 1974, Wen Zheng è docente di lingua e letteratura italiana all’Università di Studi Internazionali di Pechino e ha tradotto in cinese Boccaccio, Calvino ed Eco. In un libro su Lu Xun (1881-1936), fondatore della lingua cinese moderna, Wen Zheng dimostra come, anche attraverso la diffusione che ne fece Lu Xun, Dante sia entrato nel pensiero cinese d’inizio Novecento. Wen Zheng accetta di anticipare da Pechino i punti-chiave della sua conferenza.
Può spiegare il ruolo di Lu Xun nella letteratura cinese moderna e il suo nesso con Dante?
«Lu Xun è stato un sommo scrittore. Dalla fine dell’Impero al conflitto cino-giapponese e alle guerre civili che portarono alla Repubblica popolare, visse momenti cruciali della nostra storia e seppe trasformarli in vicende allegoriche. Ma soprattutto nel Diario di un pazzo, 1918, usò il cinese volgare detto
baihua rigettando per la prima volta la lingua classica, così come a suo tempo Dante abbandonò il latino per la lingua volgare».
Si nutre di quest’analogia la relazione di Lu Xun con l’autore della "Commedia"?
«Sì. Nel saggio Sulla forza della poesia di Mára, Lu Xun esalta i poeti del romanticismo europeo e indica la centralità di Dante nella cultura italiana. Proprio mentre la Cina stava cercando una nuova identità, Lu Xun esprimeva l’idea che la creazione della lingua italiana da parte di Dante avesse costruito l’anima stessa del suo popolo».
È in quest’ottica che Dante condiziona la Cina del primo Novecento?
«Esatto. All’alba del secolo gli intellettuali cinesi cominciano a occuparsi del pensiero politico di Dante e del suo vigoroso spirito riformatore. Oltre a Lu Xun, coglie spunti da Dante lo scrittore Hu Shi (1891-1962), di posizione politica opposta rispetto a Lu Xun (Hu Shi emigrò negli Usa). In Proposte per la riforma della letteratura, del 1917, Hu Shi sostiene che la Cina, imitando l’Italia del quattordicesimo secolo, dovrebbe adottare la lingua volgare e generare un corpus di opere vive contro la letteratura classica ormai morta. Il suo riferimento è l’opera di Dante De vulgari eloquentia ».
Lu Xun fu il solo scrittore
legittimo durante la Rivoluzione culturale. Perché?
«Era in linea con le concezioni di Mao Zedong, che in Discorsi su Lu Xun, del 1937, manifestava un pieno apprezzamento nei suoi confronti. La stima di Mao lo rese il grande letterato del proletariato cinese e si diceva che le sue opere fossero "un giavellotto e un pugnale lanciati verso i nemici".
Oggi è stato ridimensionato il giudizio su di lui. Un tempo Lu Xun era un antidoto necessario contro le resistenze verso il sistema, ma nella società contemporanea il clima è cambiato e non ce n’è più bisogno».
Dante è conosciuto in Cina?
«Da fine Ottocento si è parlato di lui in libri cinesi ed è entrato nei nostri orizzonti. Sia la rivoluzione borghese del 1898, che portò al crollo della monarchia feudale, sia il "Movimento della nuova cultura del 4 Maggio del 1919", hanno tratto da Dante un supporto fondamentale. Sembra incredibile che un poeta occidentale abbia influito su un remoto Paese orientale cinque o sei secoli dopo essere morto, ma è successo.
Tuttavia nel primo quarantennio del Novecento nessun cinese aveva letto La Divina Commedia per intero».
Non circolavano traduzioni complete?
«No. Nel 1921 Qian Daosun (1887-1966) tradusse i primi tre canti dell’Inferno per il Mensile di narrativa e in seguito propose in cinese altri due canti, apparsi nel ’29 insieme ai primi tre sulla rivista Rassegna critica. Usò lo schema metrico dei Canti di Chu di oltre 2200 anni fa, e sebbene la sua traduzione si sia applicata solo su cinque canti è considerata a tutt’oggi la migliore. Due versioni intere uscirono negli anni Quaranta, una in prosa e l’altra in poesia moderna, senza rime. Con la nascita della Cina comunista (1949), la fama di Dante s’intensificò grazie a Friedrich Engels, che nella prefazione italiana al Manifesto del Partito Comunista lo aveva definito l’ultimo poeta medioevale e il primo della modernità, e questa valutazione è riportata nel manuale di Storia dei nostri licei. In Cina La Divina Commedia è stata vista come simbolo di abbattimento del feudalesimo ed esaltazione di unità nazionale: Dante riflette gli interessi del popolo e svela i crimini della vecchia macchina statale. Alla fine della Rivoluzione culturale sono riprese le traduzioni e una delle più notevoli è stata quella che della Commedia fece Tian Dewang (1909-2000), che all’impresa votò gli ultimi diciott’anni della sua vita».

Repubblica 10.9.18
Massimo Giannini " La mia radio Capital sarà la voce di Repubblica"
Ancora musica di qualità, ma puntando a un profilo più definito da news e analisi, in sinergia con il quotidiano
Cambio della guardia alla guida dell’emittente. Dopo vent’anni lascia Vittorio Zucconi. Il neodirettore: "Avrà un’identità marcata dal punto di vista dell’informazione". Partenza in tre fasi a cominciare da oggi
L’aspetto social sarà potenziato da subito nel programma di Concita De Gregorio e nel Tg Zero
Neo direttore Massimo Giannini, 56 anni, romano
Intervista di Ernesto Assante


ROMA Radio Capital rinasce ancora una volta, come è giusto per un’emittente che negli anni non è mai rimasta uguale a se stessa e ha sempre rinnovato i propri contenuti e il proprio suono. E questa volta lo fa affidando la direzione a Massimo Giannini, che arriva a sostituire Vittorio Zucconi che ha guidato la nave tra i flutti della radiofonia italiana per vent’anni: «Vittorio ha fatto un lavoro splendido», dice Giannini «sostituirlo alla guida di Radio Capital non sarà facile».
Che radio sarà la Capital di Giannini?
«Avrà un’identità più marcata dal punto di vista dell’informazione, senza trascurare o umiliare la parte musicale che è alla base della sua storia. Quindi ancora musica di qualità, puntando però a un profilo più definito dalle news e dalle analisi sui fatti che accadono, utilizzando ovviamente anche la sinergia naturale, oggettiva che c’è con Repubblica ».
Radio Repubblica, dunque?
«No, ma qualcosa che gli assomigli. Di certo useremo maggiormente il vasto e prezioso bacino d’informazione che transita per il quotidiano, per il sito, sull’Espresso ».
Come si riconoscerà, cambiando i canali sulla radio, la nuova Capital?
«M’interessa definire la radio attraverso la voce e l’immagine dei conduttori, sia dei programmi d’informazione, vecchi e nuovi, sia di quelli musicali. Vogliamo prendere spunto dal buon esito di Circo Massimo e estenderne il modello al resto della programmazione, caratterizzando quindi non solo il suono, la musica, ma anche le voci e i temi. Ci muoveremo su due piani, quello del flusso quotidiano e quello dei programmi. L’informazione sarà presente ogni quarto d’ora nei programmi non giornalistici, con le "breaking news" prodotte dalla redazione e altri interventi. Abbiamo una redazione, che ringrazio fin da ora, ricca di colleghi molto bravi, che cominceranno il loro lavoro fin dalle 6 del mattino, poi alle 9 il punto sull’apertura della Borsa e sui mercati con Ettore Livini che analizzerà la giornata e le prospettive. Quindi, sempre con l’impegno della nostra redazione, un altro intervento nell’ultimo quarto di ogni ora con l’ultima notizia appena arrivata. Potenzieremo i giornali radio nelle ore cruciali: quello delle 7, delle 8, delle 13 e delle 20. Saranno più lunghi e più ricchi.
Ma dalla prossima settimana partiranno anche altri appuntamenti, come quello delle 12.20, ogni giorno, il punto sull’alimentazione con il nutrizionista Marcello Ticca; al pomeriggio tra le 14 e le 16, ci sarà Fuso Orario, dove oltre alle breaking news, ci saranno una serie di interventi con i corrispondenti dall’estero, che ci aggiorneranno su quello che accade nel mondo. E ancora, nell’arco della giornata, alle 10.20, alle 13.20 e alle 17.20, sarò in onda con Punto Massimo, ovvero un minuto e mezzo di commento sui fatti del giorno. E alle 18 la chiusura delle Borse».
E i programmi?
«Abbiamo detto che i conduttori contano, quindi non ci sarà solo il flusso della musica e dell’informazione ma anche trasmissioni vere e proprie.
Intanto continuerò a condurre Circo Massimo, ma, cosa molto importante, il TgZero, dove ci sarà sempre Vittorio Zucconi affiancato da un’altra delle voci fondamentali di Capital, quella di Edoardo Buffoni, raddoppierà la durata, e andrà in onda dalle 18 alle 20. E dal 24 settembre partirà Cactus con Concita De Gregorio. Le ho chiesto di raccontare storie e farle vivere nel programma, storie che mettano in luce i punti di resilienza in questa Italia scoraggiata e confusa, che dimostrino che da una cosa piccola può germogliare qualcosa di buono, vita vera, reale. La parte musicale sarà curata da Daniela Amenta e andrà in onda tutti i giorni dalle 11 alle 12. Ma non finisce qui, perché la nostra sarà una partenza a tre stadi, il primo sarà lunedì, poi il 17 partiranno le novità di flusso e quindi, nel " terzo stadio" altri programmi nuovi. Compresi quelli del weekend, dove la radio non si fermerà, con spazi dedicati a sport, cultura, spettacolo. E avremo un programma sulle parole chiave della settimana che affideremo a una grande firma della cultura italiana».
In tutto questo avrà un ruolo anche il pubblico? La radio è sempre più "social".
«Capital già lo è, basta guardare alla mia trasmissione, ma l’aspetto social va certamente potenziato e avverrà da subito nei programmi di Concita De Gregorio e in Tg Zero. Non ci sarà, però, solo la partecipazione degli ascoltatori alle trasmissioni, sto pensando a qualcosa in cui il pubblico non interagisca solo in maniera simbolica, qualcosa di più "estremo"…».
Insomma, grandi aspettative, grande impegno, considerando che la radio è un media che gode di ottima salute.
«Certamente. Vorremmo che la radio diventasse la terza bocca di fuoco dell’informazione del gruppo, oltre la carta e il web. La radio è uno straordinario strumento contro il flusso indistinto di notizie vere, verosimili e false che ci travolge e che per il pubblico, per 35 milioni di ascoltatori radiofonici quotidiani, è un punto di riferimento fondamentale. Mi affascina l’idea che la parola sia ancora l’utensile migliore che l’uomo ha a disposizione e il modo in cui la radio la valorizza è ineguagliabile. Possiamo fare di questa radio un’isola di qualità nell’oceano delle fake news, della bassa attenzione e della solitudine interconnessa in cui oggi viviamo».