Corriere 9.9.18
STASERA IN TV: Rai Storia ore 21.10
«Kapò», gli orrori della guerra mostrati da Pontecorvo
In
quell’anno magico per il cinema che fu il 1960, quando uscirono
capolavori di Visconti, Fellini, Rossellini, De Sica, Antonioni,
dobbiamo ricordarci anche di un titolo del geniale ma parsimonioso Gillo
Pontecorvo che, prima del trionfo della Battaglia di Algeri, che sarà
Leone d’oro a Venezia, si iscrive così in quell’utile stagione che
ricordò al pubblico, dopo i classici da neorealismo, cosa furono gli
orrori della guerra e della persecuzione, che furono in realtà filmati
da registi soldati come Huston e Hitchcock.
Kapò entra nei campi
di sterminio, in anticipo su molti documenti fra cui rimarrà storico
Shoah del recentemente scomparso Claude Lanzmann. E ci racconta la
storia di Edith, giovane detenuta ebrea che accetta di prostituirsi per i
nazisti facendo la kapò, cioè sorvegliando le altre compagne recluse:
ma è sempre l’amore che muove il destino, l’apparizione di un soldato
russo che ha i connotati infelici di Terzieff. Il film che il regista di
Queimada scrisse con Franco Solinas mixa la cronaca di quella barbarie
(c’è sempre bisogno di un ripasso, il peggio è sempre in agguato) con un
melò che rischia di cadere nel sentimentalismo pur gestito da giovani
attrici di rara intensità, passione ed efficacia come la debuttante
Susan Strasberg, figlia del maestro dell’Actor’s Studio, ed Emmanuelle
Riva, che Resnais aveva scoperto in Hiroshima mon amour; e poi in ruoli
minori, gli apporti di coproduzione nostrani, cioè Didi Perego (che ebbe
il Nastro d’argento), Paola Pitagora, Graziella Galvani, Gianni Garko.
Fu un successo (incassò 557 milioni di lire di allora) ed ebbe il merito
morale (e talvolta poetico) d’iniziare quasi un filone sul tema anche
se un articolo molto intellettuale dei Cahiers du cinèma, firmato da
Jacques Rivette, stigmatizzava un movimento di macchina nella scena
della morte lungo i fili dell’alta tensione, definendolo «abbietto». E
questo lo si ricorda per dimenticarlo.
Kapò, 1960, di Gillo Pontecorvo