Corriere La Lettura 23.9.18
Contestando s’impara
Istituzioni e teorie devono essere esposte alla critica
Sono i dissidenti che fanno progredire la conoscenza
Sollevare
dubbi suautorità e tradizioni è un esercizio fecondo, mentre l’errore
più grave è pensare di imporre le proprie idee quando i fatti le
smentiscono
di Giulio Giorello
«Quel pensiero
suscitava in Ulrich una forte commozione e un grande disagio: gli
sembrava difficile tracciare la linea di confine fra criteri nuovi e
distorsione di criteri comuni». Così Robert Musil nell’Uomo senza
qualità descrive i dilemmi di chi si trova a cambiare il mondo, magari
controvoglia. Dispone di vari strumenti intellettuali, come un fisico
dispone di materiali strumenti di misura; ma i suoi sono strumenti che
offrono valutazioni non di temperature, pesi, eccetera, bensì di
complesse sezioni del processo storico in cui si trova immerso. Non è
ovvio pensare che teoria e pratica siano indissolubilmente legate? Per
agire non bisogna essersi formati un quadro soddisfacente della nostra
stessa condizione? Viceversa, l’azione non è indispensabile per
penetrare nei segreti di quel che stiamo studiando?
Ma non si
danno sempre esempi di tale accordo; ed è una tipica illusione quella di
poter individuare delle cause, più o meno nascoste, per poter
intervenire su di esse e «pilotare» così il mutamento degli effetti. Non
si rischia, in questo modo, di spaccare il mondo in una «struttura» e
in una «sovrastruttura»?
Per esempio: se un pianeta «si comporta
male» alla luce dei nostri schemi esplicativi, dobbiamo cercare con
pazienza di adattare tali schemi all’anomalia. Ma che dire di una
tecnologia che pretendesse di distruggere (ammesso che ne avesse i
mezzi) il pianeta dal «cattivo» comportamento? Eppure, nella gestione
degli affari politici e sociali vari «ingegneri di anime» hanno
imboccato una via del genere, ricorrendo a interventi drastici e anche
crudeli.
Non sarebbe stato meglio seguire il consiglio di Karl
Popper, «far morire le nostre idee al nostro posto»? La critica che
Popper ha fatto del marxismo è sintomatica: non era la sua una «volgare»
liquidazione, come molti marxisti gli hanno rimproverato, bensì il
riconoscimento della portata di non pochi problemi sollevati da
Friedrich Engels e da Karl Marx, e la loro riconcettualizzazione in un
quadro differente. Siamo esseri finiti e fallibili: dobbiamo tener
presente che possiamo sempre sbagliare, e che è solo la critica che ci
consente di imparare dai nostri errori. E la natura di un errore dipende
dalla tradizione che lo giudica: per la meccanica ottocentesca
l’anomalia riscontrata nell’orbita di Mercurio era un segno del fatto
che non si sapevano prendere in considerazione tutti gli influssi
classici; per la teoria della relatività generale era invece un indizio
dell’inutilizzabilità delle nozioni tradizionali di spazio, tempo e
materia.
Le «piccole difficoltà», diceva Niels Bohr, «spinte alle
conseguenze più estreme» possono divenire ineliminabili «questioni di
principio» (procedere in una trasformazione del genere era una sorta di
«arte», molto sottile, ma anche assai potente).
Ma perché ciò
possa verificarsi occorrono «una larga varietà di caratteri e una
completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni
innumerevoli e contrastanti». Queste non sono parole di Popper o di
Bohr, bensì di John Stuart Mill, nel suo Saggio sulla libertà. Erano i
primi anni della seconda metà dell’Ottocento. Pressoché un secolo dopo
(1951) scriveva Bertrand Russell: «C’è, nel complesso, molta meno
libertà oggi di quanta ce ne fosse cento anni fa; e non c’è ragione di
supporre che le restrizioni alla libertà siano destinate a diminuire in
un futuro prevedibile». E non c’era ancora il conformismo veicolato
dalla Rete.
A Mill il giudizio di Russell sarebbe apparso come il
presentimento di un disastro, per l’impresa scientifica e per la stessa
politica. «In ogni campo in cui è possibile una differenza di opinioni,
la verità dipende dall’individuazione dell’equilibrio tra due gruppi di
ragioni contrastanti. Anche nella filosofia naturale (cioè nella
scienza) è sempre possibile fornire un’altra spiegazione degli stessi
fatti», aveva dichiarato in quel Saggio. Non contestava che alla fine i
punti di vista più adeguati avrebbero prevalso. Copernico era stato
inizialmente visto come un folle, ma col passare dei decenni (o dei
secoli) persino le diverse Chiese cristiane lo avevano accettato. E
ancora Mill: «Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli
uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono.
Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra
salvaguardia che un invito permanente a dimostrarle infondate». Mezzo
secolo dopo sarebbero venuti scienziati come Max Planck, Albert Einstein
e Niels Bohr. Mill aveva lottato per la possibilità stessa di una
qualunque ribellione come garanzia che quelle idee e quelle pratiche,
che avevano in passato scandito i passi del rinnovamento, non si
tramutassero in una nuova «ortodossia» autoritaria che si limitasse a
sostituire quella di un tempo.
In ciò era stato buon profeta. Per
esempio: «La scienza ha bisogno della libertà». Questo è stato il motto
scelto da Jean-Michel Raimond quando nel 2014 gli è stato conferito a
Como il premio Eps Edison-Volta, istituito per riconoscere l’eccellenza
nella ricerca d’avanguardia. Quella di Raimond aveva violato alcune
premesse date per scontate da uno dei «padri fondatori» della fisica
quantistica, Erwin Schrödinger. Senza andare nei dettagli, aggiungerei
che ho sentito Raimond richiamare anche la battuta complementare: «E la
libertà ha bisogno della scienza», cioè di quel gioco di dissensi da cui
possono emergere idee e pratiche innovative: divergenze non solo
rispetto al «senso comune», ma anche rispetto ai pregiudizi degli stessi
competenti, in ogni aspetto dell’attività umana.
Negli anni che
avevano preceduto l’ideazione del Saggio sulla libertà, Harriet Taylor,
che rappresentava per Mill non solo la compagna della vita, ma anche
l’ispiratrice di quanto di meglio lui stesso avrebbe potuto mai
scrivere, dichiarava: il mondo «si sta liberando solo adesso del
dispotismo monarchico. Si sta liberando solo adesso della nobiltà
feudale ereditaria. Si sta liberando solo adesso delle interdizioni
basate sulla religione. Sta iniziando solo adesso a trattare tutti gli
uomini, e non soltanto i ricchi e una parte privilegiata della classe
media, come cittadini. Possiamo sorprenderci che non abbia fatto ancora
altrettanto con le donne?» La «piena libertà di scelta» che Harriet
esigeva — non diversamente che per gli scienziati — consisteva in un
esercizio del dissenso senza alcun vincolo arbitrario. Solo il diretto
interessato è il giudice del proprio bene, deve rispettare unicamente il
principio dell’assenza di danno ad altri.
Per fare un esempio:
Harriet Taylor aveva lucidamente compreso che il diritto di disporre del
proprio corpo era la premessa dell’emancipazione dello spirito. In un
breve testo Sul matrimonio (1832-1833) aveva proclamato che «il sesso
sembra essere il modo in cui si manifesta tutto ciò che è più elevato,
migliore e più bello nella natura degli esseri umani». E proprio «ciò
significa solo che chi gode maggiormente è massimamente virtuoso».
Allora come oggi questa resta una verità detestata dai bigotti di ogni
risma, che invece può essere fatta propria (parole di Harriet) solo da
quelle «nature poetiche che lottano contro la superstizione».