Corriere La Lettura 23.9.18
La guerra perpetua
Il futuro è
già cominciato: i droni sono sempre più capaci di scegliersi gli
obiettivi da soli e con i compter quantistici la cosiddetta quantum war
Una strabiliante capacità di calcolo cambierà per sempre le cose
di Stefano Montefiori
L’aeroporto
di Copenaghen accoglie il viaggiatore con bancarelle intere dedicate al
grande momento di soft power vissuto oggi dalla Danimarca, «il Paese
più felice del mondo» secondo varie classifiche. Ci sono le pile dei
libri di Meik Wiking sui concetti ormai globali di hygge (un avvolgente
benessere scandinavo fatto di caffè, calzettoni, candele, torte
casalinghe e amici) e di lykke (parola danese per felicità), manuali su
«Come essere danese» e altri bestseller in inglese come «Il popolo quasi
perfetto» e «Un anno vissuto danimarcamente».
Bastano dieci
minuti di treno e si arriva nel centro della capitale, dove al Museo
danese della guerra le cose si fanno un po’ più tetre. L’Università
della Danimarca del Sud ha invitato da Australia, Stati Uniti, Gran
Bretagna e Svezia cinque importanti pensatori nel campo delle scienze
sociali e li ha accolti in due grandi sale, tra centinaia di cannoni,
lance ed elmi dei soldati danesi dalle guerre nordiche del Seicento fino
all’Iraq e all’Afghanistan, per dare vita a un seminario sul «Futuro
delle guerre». L’hygge c’è anche qui, frequenti pause permettono a
relatori e pubblico di scambiare qualche parola tra dolci, frutta e vino
californiano. Gli interventi però inducono a un minore ottimismo sulle
relazioni umane; raccontano di una futura guerra perpetua,
decentralizzata, ubiqua, ultraviolenta, rivoluzionata dalle macchine
intelligenti e dai computer quantistici ormai di prossima realizzazione
grazie a un laboratorio a pochi chilometri da questa sala, sempre a
Copenaghen, insospettabile centro del mondo.
La «quantum war»
James
Der Derian immagina la prossima era della quantum war, definita come
una serie di «osservazioni di immagini di grande impatto che permettono e
delimitano nuove condizioni di violenza». «Per lanciare queste guerre
servono due clic: uno per prendere un’immagine e un altro per inviarla
con il telefono cellulare. Uno scatto che coinvolge reti neurali esterne
in un parossismo collettivo di dolore e piacere, che localizza in modo
efficace (e perverso) il piacere nel dolore dell’altro». L’immagine
della guerra viene sostituita da una guerra di immagini, ed è facile
individuare il punto di rottura nell’11 Settembre e negli altri orrori
che ne sono seguiti, fino alla violenza estetizzante dei video dello
Stato islamico. Quantum war significa che «i nostri modi di osservazione
hanno un impatto diretto sui fenomeni osservati», come prevede
l’«interpretazione di Copenaghen» (di nuovo) della meccanica quantistica
proposta negli anni Venti da Niels Bohr, che per questo litigò con
Albert Einstein. Le immagini di violenza e di conflitti trasmesse in
Rete e condivise sui social media possono concretamente produrre nuove
guerre globali, combattute da un’infinità di attori: individui, milizie,
gruppi terroristici, eserciti. L’era della guerra classica tra Stati
descritta da Clausewitz lascia il posto all’era della quantum war, «la
cui natura viene costantemente ridefinita da nuovi protagonisti, nuove
tecnologie e nuove configurazioni di potere, collegate dall’ubiquità,
dalla simultaneità e dalla interconnessione di più media».
I nuovi computer
Quantum
war significherà anche l’applicazione alla guerra delle immense
capacità di calcolo dei computer quantistici, che porteranno l’uso dei
droni senza pilota a straordinari livelli di efficacia, automazione e
intelligenza (artificiale), al servizio di attacchi sempre più
preventivi. Der Derian, 63 anni, direttore del Centro per gli studi
sulla sicurezza internazionale dell’Università di Sydney, è figlio di un
veterano della Seconda guerra mondiale e studente dell’università del
Michigan che fondò il «Progetto Phoenix» per sostenere gli usi pacifici
dell’energia atomica, tragicamente sperimentata pochi anni prima a
Hiroshima e Nagasaki. Ad Arthur il figlio James ha dedicato il «Progetto
Q» per la «pace e sicurezza nell’era del Quantum».
L’idea è che
il mondo si stia avvicinando a una rivoluzione superiore a quella
vissuta con la fissione dell’atomo. La teoria del quantum proposta negli
anni Venti a Copenaghen da Bohr e da Werner Heisenberg sostiene che i
sistemi fisici sono costituiti da probabilità, più che da specifiche
proprietà, fino a quando queste non vengano misurate. Alla conferenza di
Solvay a Bruxelles, nel 1927, i ventinove più brillanti scienziati del
tempo si riunirono per discutere della teoria quantistica e un indignato
Einstein si fece capofila dei «realisti» contro i «probabilisti» Bohr e
Heisenberg proclamando che «Dio non gioca a dadi». Nei decenni
successivi la teoria di Copenaghen ha ricevuto consensi e dimostrazioni
scientifiche e oggi l’impostazione quantistica è comunemente accettata,
tanto che nel mondo si è scatenata la corsa alla creazione del primo
computer quantistico che — a differenza dei bit attuali basati
sull’alternativa on/off — funziona sul qubit dove on e off possono
coesistere nello stesso istante. Per chi non ha studiato fisica in modo
approfondito, avvicinarsi alla teoria dei quanti richiede una buona dose
di accettazione fideistica. Un paio d’anni fa il premier canadese
Justin Trudeau venne sfidato a spiegare in pubblico che cosa fosse il
quantum computing e lui se la cavò dicendo che «i computer convenzionali
si basano su 1/0, on/off, mentre lo stato quantico può essere molto più
complesso perché le cose possono essere particelle e onde allo stesso
tempo. Il quantum ci permette quindi di incastonare molta più
informazione in un singolo bit». Quella risposta venne definita un
successo, tutto sommato capace di trasmettere il messaggio fondamentale,
ovvero che i computer basati sul quantum saranno infinitamente più
potenti di quelli che conosciamo oggi. Capaci, per esempio, di violare
in pochi secondi qualsiasi sistema conosciuto di crittografia e
sicurezza dei dati.
I computer quantistici potrebbero diffondersi
nell’arco di cinque anni e «qualsiasi strumento può essere trasformato
in un’arma», dice Charles Marcus, uno scienziato di Harvard che a
Copenaghen guida la squadra composta da ricercatori dell’Istituto Niels
Bohr e di Microsoft impegnata nella realizzazione del primo quantum
computer. Altri laboratori per il momento sono in posizione migliore,
per esempio Google, Ibm e la startup californiana Rigetti. Ma a
Copenaghen, Marcus e i suoi stanno creando qubit usando le particelle
teorizzate negli anni Trenta dall’italiano Ettore Majorana, uno dei
«ragazzi di via Panisperna». Il loro modo di procedere potrebbe
rivelarsi più stabile e meno soggetto a errori, permettendo forse un
grande balzo in avanti.
Il «Project Q»
Quando a Copenaghen o
altrove il computer quantistico vedrà la luce, gli impieghi militari
saranno immediati. Ecco perché Der Derian ha fondato il «Project Q»,
cercando di sensibilizzare la comunità scientifica sulla necessità di
mettere in guardia i leader politici sull’uso potenzialmente
catastrofico del quantum computing. Einstein fece lo stesso nel 1939
scrivendo al presidente americano Roosevelt per avvisarlo dei progressi
nazisti nell’arricchimento dell’uranio. Il risultato fu che l’America
lanciò il programma Manhattan per dotarsi della bomba atomica e usarla
per prima.
Der Derian è un professore sorridente e dotato di una
certa autoironia, e ricorda quando nel 1991 partecipò alla seconda
conferenza annuale sul cyber-spazio a Santa Cruz, in California: «C’era
John Perry Barlow che spiegava come internet sarebbe stata una cosa
fantastica per tutti, e io invece usai per la prima volta il termine di
cyber-war. Ero scettico di fronte a tanti tecno-utopisti, e in base a
questo stesso atteggiamento oggi potrei dire che siamo tutti spacciati
di fronte al quantum computing. Invece cerco di fare previsioni
catastrofiche ma non troppo». Dai computer quantistici ci si aspettano
applicazioni stupefacenti contro il cambiamento climatico o le malattie.
Quanto
alla guerra, sembrano fatti apposta per assecondare e approfondire le
tendenze che sono già all’opera da alcuni anni. I droni, per esempio,
stanno cambiando modo di funzionamento. «Stiamo passando dalla kill list
alla kill chain, non si procede più a partire da una lista di persone
da colpire ma gli stessi droni raccolgono l’informazione sul terreno e
sono pronti a uccidere obiettivi non fissati in precedenza», dice Mark
Hansen della Duke University, che parla di «sovranità diffusa». Per
uccidere Osama Bin Laden è stato necessario l’ordine esecutivo del
presidente Barack Obama. Per gli altri obiettivi meno importanti dei
droni americani, nello Yemen, in Pakistan o in Somalia per esempio, la
sovranità — la decisione se colpire o meno — viene esercitata a livello
sempre più basso. Si scende la gerarchia verso i soldati, e in
prospettiva verso le macchine.
Due minuti per uccidere
«I
primi droni — aggiunge Hansen — avevano la possibilità di sorvegliare ed
eventualmente colpire un solo obiettivo. Adesso possono raccogliere
dati e immagini su più obiettivi contemporaneamente e questo riduce
molto il tempo a disposizione per prendere una decisione: stiamo
passando da 30-35 minuti a due minuti. Il vero problema ormai non è
identificare la minaccia ma scegliere in modo quasi istantaneo la
risposta».
Hansen cita spesso il filosofo Brian Massumi e la sua
nozione di ontopower, «potenza ontologica», cioè gli Stati Uniti.
Spinoza evocava una natura naturans, il continuo lavoro divino di
generare una realtà pronta infine a presentarsi ai nostri sensi come
natura naturata. Con la teoria dell’attacco preventivo, con i droni che
spesso attaccano non chi ha commesso un atto ostile ma chi in teoria
potrebbe commetterlo, secondo Massumi gli Stati Uniti diventano e
diventeranno sempre di più una natura naturans che crea la realtà.
Hansen cita il caso di Anwar al-Awlaki, predicatore islamista
americano-yemenita eliminato da un drone nel 2011, co-responsabile
comunque della strage di «Charlie Hebdo» perché prima di morire aveva
messo a punto una lista di «miscredenti» occidentali da uccidere tra i
quali figurava Charb, il direttore del giornale. Due settimane dopo
l’eliminazione di Anwar al-Awlaki, un drone uccise anche suo figlio
sedicenne. «Il figlio minore di al-Awlaki non fu un danno collaterale —
dice Hansen — ma rappresenta la vittima perfetta. Eliminato perché un
giorno avrebbe potuto cercare vendetta, cosa possibile ma non
verificabile. Possiamo supporlo, e questo è sufficiente».
Sorveglianza di massa
Nella
guerra futura, perpetua e «quantistica» come direbbe James Der Derian,
saranno probabilmente le macchine ad avere la sovranità, la facoltà di
decidere della morte dei bersagli. I quantum computer potranno allora
aiutare a svolgere in modo efficace e spietato il compito di
identificare gli obiettivi, in base ad algoritmi che saranno la versione
raffinata ed evoluta di quelli oggi in uso per studiare i comportamenti
e le preferenze di acquisto dei consumatori. Le guerre dei droni e la
sorveglianza di massa andranno mano nella mano. Louise Amoore, studiosa
britannica dell’Università di Durham, ricorda che «nel 2016, a
Baltimora, la polizia ha fermato decine di persone per impedire loro di
manifestare dopo l’uccisione di Freddie Gray», uno dei primi casi di
neri colpiti dagli agenti in circostanze controverse. «La compagnia
Geofeedia ha usato i dati di Facebook, Twitter e Instagram per elaborare
con un algoritmo una lista di persone che avrebbero potuto partecipare
alle proteste, e la polizia ha usato la segnalazione per fermare quelle
persone in modo preventivo».
Droni e cellulari
Gli algoritmi
influenzano le vite degli umani nella pace e lo faranno sempre di più
nella guerra, tecnologica e sofisticata per alcuni e rudimentale per
altri. Mark Danner, docente a Berkeley e al Bard College dopo una
carriera di reporter per il «New Yorker», il «New York Times Magazine» e
la «New York Review of Books», sottolinea che, dopo l’11 Settembre, «le
guerre non finiscono». Lo ha scritto nel saggio Spiral: Trapped in the
Forever War (Simon & Schuster) e nel suo intervento al museo di
Copenaghen sottolinea la paradossale importanza dei garage opener (i
telecomandi a infrarossi che servono ad aprire i garage) nelle guerre
super-tecnologiche di oggi e probabilmente del futuro, proprio alla
vigilia del passaggio all’era quantistica.
Perché una schiacciante
superiorità tecnologica, evidente nei droni usati da Bush ma
soprattutto da Obama e Trump, non è decisiva? «Gli insorti iracheni
hanno affrontato l’esercito più potente del mondo portandolo a una
posizione di stallo grazie a ordigni rudimentali azionati da telecomandi
per garage o da cellulari. E anche quando gli Usa hanno ottenuto
successi militari, come dopo il Surge del 2006, non sono riusciti a
trasferirli in una vera stabilizzazione politica. La Forever War, la
guerra eterna, significa che Stati Uniti, Al Qaeda, Isis e le altre
formazioni jihadiste hanno creato un equilibro che continuerà. Chi non
ha un esercito a disposizione usa l’esercito dell’altro attraverso il
sistema della provocazione. Gli uomini di Al Qaeda e poi dello Stato
islamico in Iraq, sunniti, ricorrono alla violenza contro gli sciiti per
provocare la vendetta e reclutare più sunniti di prima».
Il sangue dietro ai chip
I
droni permettono di non mettere in pericolo i propri soldati, il costo
politico è minimo, in questo modo le guerre possono durare all’infinito.
Le guerre perpetue non riguardano solo gli Stati Uniti e il Medio
Oriente, l’Ucraina è un altro esempio di conflitto che resiste per anni
in posizione di stallo. La guerra perpetua, ubiqua, quantistica,
burocratizzata e affidata — almeno in parte — ai computer sarà
sanguinosa e orribile come e più che in passato, per Caroline Holmqvist,
ricercatrice dello Swedish Institute of International Affairs. Uccidere
non basta, bisogna annientare la vittima. Un attentatore suicida non si
limita a uccidere ma massacra e sfigura i corpi. Il missile sparato da
un drone crea un vuoto tale da estrarre l’aria dai polmoni, squassare
gli organi interni e frantumare il corpo. La contraddizione dell’umano
sempre più civilizzato che uccide membri della propria specie verrà
risolta con l’ultra-violenza e il metodo più radicale, cancellando
l’umanità del nemico.