Corriere La Lettura 23.9.18
Il corpo e la mente non hanno confini
Siri Hustved: «Le illusioni della certezza» per Einaudi. Un dilemma del pensiero e della biologia
Ne discutono con lei Antonio Damasio e Vittorio Gallese
Hustved: «La competenza narrativa della specieumana è radicata negli scambi prelinguistici, musicali ed emozionali»
Damasio:
«L’intreccio tra immaginazione e narrazione è un elemento chiave della
struttura della coscienza per come la conosciamo»
Gallese: «Lo sviluppo del cervello e delle competenze psico-affettive è condizionato e plasmato dalle relazioni del bambino»
Hustved: «Anche la politica rivela che le emozioni sono fondamentali per capire come siamo fatti
Gallese: «Il modello della mente come paradigma di perfetta razionalità è insostenibile»
Damasio: «La contiguità e contnuità dei tessuti neuronali è un fatto che si imporrà da sé»
a cura di Vincenzo Santarcangelo
Non
è un libro di filosofia, benché affronti i classici dilemmi sul
rapporto tra mente e corpo che tormentano dalle origini quella
disciplina. Mette in discussione la legittimità stessa di quei dilemmi,
ma non è un trattato di epistemologia. Il punto di vista è quello
rigoroso di una scrittrice che ha visto mutare nella sua stessa penna
«un semplice interesse» per i misteri del suo sistema nervoso (La donna
che trema raccontava la storia di un’emicrania vissuta nel corpo
proprio) in una «passione divorante». Da allora, era il 2011, Siri
Hustvedt si è immersa nel «caos» del dibattito mente-corpo, prima come
avida lettrice, poi come autrice di articoli apparsi su autorevoli
riviste scientifiche.
Un neuroscienziato come Vittorio Gallese ha
definito Le illusioni della certezza (Einaudi) uno dei migliori libri
recenti sul problema mente-corpo, un viaggio al cuore di mille domande, o
forse di una sola: che cosa significa essere umani? E se pure c’è da
mettere in successione una serie di eventi essenziali per determinare le
coordinate del dibattito attuale, a spiccare è l’originalità e
l’eleganza dell’erudizione. Ecco così comparire personaggi solitamente
trascurati o poco ascoltati — la scrittrice e filosofa seicentesca
Margaret Cavendish con il suo ibrido di «panpsichismo» (concezione che
conferisce un’anima all’intera realtà) e «panorganicismo» (concezione
del mondo come un unico organismo), il Diderot de Il sogno di
d’Alembert, il Vico de La scienza nuova — nel tentativo di rendere
cristallino uno degli interrogativi più affascinanti che la filosofia ha
da sempre dovuto fronteggiare: che cosa significa, per la mente umana,
interrogarsi su sé stessa? Hustvedt non rinuncia a nessuna strategia
metodologica per portare a termine la missione: imbastisce per esempio
«un’inchiesta casuale e non scientifica su come le persone definiscono
la mente», chiedendo in maniera schietta e informale al cosiddetto «uomo
della strada» che cosa pensi sia la mente e se creda che sia qualcosa
di distinto rispetto al corpo. Scomoda la psichiatria e la
neuropsicoanalisi, il loro armamentario concettuale, per meglio
inquadrare il problema mente-corpo all’interno di un più generale
orizzonte che tenga conto dell’interazione fra persona e ambiente.
Recupera porzioni importanti del pensiero di Alfred North Whitehead per
far riemergere l’aspetto «immaginativo» che si cela dietro a ogni teoria
filosofica sul mentale, sia pure quella più materialistica.
Quello
che Siri Hustvedt ama è la chiarezza e la profondità della ricerca:
questo libro lo dimostra svelando un orizzonte davvero sterminato e la
trasversalità di uno sguardo curioso, perennemente in movimento e mai
sazio, tormentato da un dubbio che, in fondo, scaturisce da un estremo
desiderio di libertà. E proprio da un dubbio che «comincia come un vago
senso di insoddisfazione, la sensazione che qualcosa non torni, un
presagio ancora senza forma», prende le mosse questa conversazione a
distanza con la quale «la Lettura» ha messo in dialogo l’autrice del
libro e due scienziati di fama mondiale — Antonio Damasio e Vittorio
Gallese — che hanno speso parole importanti riguardo a quel rigore
innervato da una passione divorante che è la cifra dell’opera di
Hustvedt.
Il suo libro si conclude su un tema decisivo, quello del
dubbio metodologico. Non solo virtù dell’intelligenza, il dubbio è una
necessità. Chiede di praticarlo sistematicamente anche al suo lettore?
SIRI
HUSTVEDT — Il dubbio è ciò che rende possibile la scoperta. Se hai
deciso prima del tempo come funzionano le cose, potresti non accorgerti
di scoperte sorprendenti relative a fatti che avvengono proprio sotto il
tuo naso. Alle mie lettrici e ai miei lettori chiedo elasticità
mentale. Devono mettere da parte le loro idee preconcette sul corpo e
sulla mente e chiedersi insieme a me: che cosa intendo quando dico «il
mio corpo»? Che cos’è la mia mente?
VITTORIO GALLESE — Non potrei
essere più d’accordo. Lo sviluppo della scienza e le sue scoperte sono
fortemente condizionate dalla possibilità di adottare uno sguardo nuovo,
non facendosi condizionare troppo dal canone e dai paradigmi
scientifici predominanti. La storia della nostra scoperta dei neuroni
specchio ne è un esempio (la scoperta realizzata nel 1992 dal gruppo
dell’Università di Parma coordinato da Giacomo Rizzolatti che ha messo
in luce l’esistenza di un meccanismo grazie al quale le azioni eseguite
dagli altri, captate dai sistemi sensoriali dell’individuo, sono
trasferite automaticamente al sistema motorio di chi osserva; in questo
modo l’osservatore ottiene una «copia motoria» del comportamento
osservato quasi come fosse lui a eseguirlo, ndr).
ANTONIO DAMASIO —
Siri, lei è una romanziera, una saggista, una pensatrice che non si
limita a chiedere al suo lettore di esercitare l’arte del dubbio. Ma è
anche una donna in grado di utilizzare e di sottoporre a un’analisi
molto sofisticata la sua mente inquisitrice. Questa è già una forma di
dubbio, ed è ciò che le permette di spaziare, grazie a una curiosità
inesausta, tra filosofia, psicologia, neuroscienza, biologia, per non
menzionare le sue sortite nel campo dell’estetica e della psicoanalisi.
Sottoporre
una questione, soprattutto quando riguarda temi controversi, al vaglio
di «modelli multipli», ricorrere a un’epistemologia accogliente, conduce
più che a un’unica risposta, a una di quelle zone che Hustvedt ha
definito, con grande efficacia, di «ambiguità focalizzata».
SIRI
HUSTVEDT — Il realismo ingenuo mi lascia insoddisfatta. La comprensione
umana è condizionata dall’appartenenza a una determinata specie così
come dalla cultura. Epistemologie e metodi variano da disciplina a
disciplina. Il neuroscienziato, il letterato, l’antropologo e l’artista
affronteranno la questione del sé, per esempio, da diverse prospettive e
ricorreranno a modelli, teorie, pensieri e sentimenti diversi. Non
giungeranno a una stessa conclusione ma a una rigorosa comprensione e a
un’attenta disamina sia della cornice teorica sia dei pregiudizi che
caratterizzano i singoli settori disciplinari: arriveranno in questo
modo a una zona di ambiguità focalizzata che renderà migliori le domande
successive.
VITTORIO GALLESE — Questioni complesse, come la
natura della mente umana, esigono risposte complesse. Per affrontarle,
le neuroscienze sono necessarie ma non sufficienti, proprio perché la
natura umana è multidimensionale. Inoltre, nell’era dell’epigenetica,
avendo appreso che l’ambiente influenza l’espressione dei geni e ne
condiziona la trasmissione alle generazioni seguenti, dovremmo lasciarci
definitivamente alle spalle la rigida distinzione tra scienze della
natura e scienze dello spirito.
ANTONIO DAMASIO — Il fatto che
tutto questo vada contro alcuni paradigmi dominanti non dovrebbe affatto
sorprendere. Come potrebbero questioni così complesse adeguarsi a
singoli modelli? Trovo questo approccio molto attraente. Allo stesso
tempo lo ritengo l’unico che possa condurre alla verità. Sono molto
contento di scoprire ne Le illusioni della certezza una forte assonanza
con le mie posizioni.
Che ricadute ha tutto questo sulla pratica clinica e sulla ricerca, per esempio nel campo delle neuroscienze?
VITTORIO
GALLESE — Se vogliamo utilizzare le neuroscienze per comprendere meglio
in che cosa consista la capacità di relazionarsi con l’altro, il ruolo
dell’empatia nell’esperienza estetica, il ruolo di memoria e
immaginazione nel determinare la nostra identità, allora credo che esse
possano incrementare il loro potere euristico se utilizzate in un
contesto multidisciplinare che si avvalga della collaborazione con le
scienze umane.
SIRI HUSTVEDT — Faccio un esempio. A gennaio ho
tenuto i Neurology Grand Rounds al Massachusetts General Hospital di
Boston. Dopo la conferenza, ho incontrato un gruppo di scienziati che
lavoravano sulla demenza. Uno di loro, molto giovane, mi ha chiesto
perché avessi raccomandato di leggere tanta letteratura, filosofia e
storia, oltre a fare ricerca nel proprio campo. Gli ho detto: «Ti
aiuterà nel tuo lavoro. Ti donerà la flessibilità mentale per
individuare passi falsi, errori e modelli inadeguati».
ANTONIO
DAMASIO — L’intreccio tra immaginazione e narrazione è uno degli
elementi fondamentali della struttura della coscienza per come la
conosciamo. Le ricadute riguardano dunque lo studio dell’integrazione di
immagini sensoriali, che – come scrivo nel mio ultimo libro – può
«produrre quelle sequenze dotate di senso che chiamiamo narrazioni».
Cito ancora: «Siamo narratori instancabili di storie su quasi ogni
aspetto della nostra vita, specialmente quelli importanti, ma non solo, e
coloriamo con piacere le narrazioni con tutte le deformazioni delle
nostre esperienze passate e delle cose che ci piacciono, o non ci
piacciono».
L’origine biologica della facoltà immaginativa e delle
competenze narrative sarebbe da rintracciare già nei movimenti fetali:
ne «Le illusioni della certezza» si fa riferimento ai comportamenti
imitativi del neonato, considerati «proto-conversazioni», già vere forme
di narrazione.
SIRI HUSTVEDT — Sono convinta che la competenza
narrativa tipica della specie umana sia radicata negli scambi
prelinguistici di carattere musicale ed emozionale tra infante e
genitore e che alcuni ritmi dinamici e sensoriali forgiati dalla madre e
dal feto inizino ben prima della nascita, nella fase finale della
gestazione. Non credo che i soli movimenti fetali costituiscano le
fondamenta della capacità di narrare. Non credo che il comportamento
fetale possa essere scisso dall’ambiente fetale, tagliato fuori dal
corpo della madre, come se il feto fosse un omuncolo autonomo, un
microscopico precursore dell’uomo razionale, come pure alcuni
ricercatori ritengono.
VITTORIO GALLESE — La psicologia dello
sviluppo e le neuroscienze hanno rivoluzionato le nostre idee sullo
sviluppo psico-cognitivo del bambino, mettendo in luce la natura sociale
della mente e il ruolo cruciale svolto dalle relazioni interpersonali.
Relazioni che, come dice Siri, iniziano già durante la fase fetale, in
cui il rapporto feto-madre condiziona lo sviluppo del cervello e le sue
memorie implicite.
Feto e madre come un sistema strettamente interconnesso, dunque, ma c’è bisogno anche di fattori esterni…
SIRI
HUSTVEDT — Esatto: il feto è nell’utero della madre ed è collegato
anche alla placenta e al cordone placentare. Sebbene le
proto-conversazioni cruciali per la competenza narrativa abbiano luogo
solo dopo la nascita e si sviluppino nel tempo attraverso le forme
simboliche di una certa lingua e le norme culturali, non esiste un «io
narrativo» in assenza di un’intimità preriflessiva del corpo con altri
corpi. La capacità di parlare, ed eventualmente di raccontare, emerge
proprio da questo fondamento.
VITTORIO GALLESE — Un aspetto su cui
non si riflette abbastanza è la natura «neotenica» (la neotenia è il
fenomeno evolutivo per cui una specie animale mantiene caratteristiche
fisiche tipicamente giovanili, ndr) della nostra specie. Nasciamo
prematuri: il nostro cervello raggiunge, infatti, la piena maturazione
al termine dell’adolescenza. Lo sviluppo del nostro cervello e delle
competenze psico-affettive da esso sostenute è condizionato e plasmato
dalla quantità e qualità di relazioni intersoggettive che il bambino
intrattiene con i genitori e gli altri esseri umani con cui entra in
contatto. Io e Tu, come scrisse Martin Buber, sono due facce della
stessa medaglia.
Questo porta all’ipotesi del «sistema multiplo di condivisione»?
SIRI
HUSTVEDT — Un’ipotesi, quella formulata da lei, professor Gallese, che
condivido appieno. Tutte le azioni umane hanno un profondo carattere
relazionale (betweenness) in parte influenzato dalla neurobiologia dei
sistemi specchio. Siamo costituiti, voglio sottolineare questo punto,
delle interazioni che abbiamo con gli altri, sia da un punto di vista
genetico che epigenetico. Il genoma non è un codice, un modello per i
tratti caratteristici di un organismo: partecipa piuttosto a processi di
sviluppo altamente sensibili all’ambiente. Il sé è costruito da una
moltitudine di storie: siamo sangue e ossa e cervello, movimento e
abitudine. Non siamo esseri statici, ma esseri situati in un processo di
continuo divenire.
Il suo è stato un salto nel «caos» della
letteratura scientifica sulla coscienza. Damasio ha insistito sul fatto
che il dibattito è deficitario rispetto al ruolo incarnato dalle
emozioni. «Embodiment» (la teoria della mente incarnata nel corpo) ed
emozione sembrano essere le parole-chiave del programma di ricerca della
mente e del cervello per il futuro.
ANTONIO DAMASIO — Prima
facevo riferimento all’interazione tra immaginazione e narrazione come a
uno degli elementi fondamentali per lo studio della coscienza. Un altro
elemento è sicuramente il tema delle emozioni.
SIRI HUSTVEDT — Ho
trascorso molti anni immersa nel caos della letteratura sulla
coscienza, che riecheggia dibattiti molto più antichi: quello greco sul
rapporto psyché-soma o quello, particolarmente vivace, del XVII secolo.
Nel mio libro, mi rifaccio a Damasio per sottolineare i limiti
dell’impianto teorico della scienza cognitiva di prima generazione, che
trattava la mente come un dispositivo computazionale separato dagli
affetti e dal corpo. Credo che questa mossa rientri in una forma di
resistenza tutta occidentale al tema del corpo.
Ci spieghi meglio…
SIRI
HUSTVEDT — Il corporeo è associato al basso, al naturale, all’emotivo,
al femminile; la mente è alta, spirituale, priva di passioni, maschile. È
il motore del dualismo occulto mente-corpo che anima ancora gran parte
delle scienze. Senza una profonda comprensione del ruolo degli affetti
nella storia evolutiva saremmo persi. Basta osservare l’attuale
situazione politica: come si può affermare che le emozioni non siano
fondamentali per capire come siano fatti gli esseri umani?
VITTORIO
GALLESE — Il modello della mente umana come paradigma di perfetta
razionalità oggi è divenuto insostenibile. Le ricerche pionieristiche di
neuroscienziati come lei, professor Damasio, e Jaak Panksepp,
ampiamente discusse nel libro di Hustvedt, hanno fornito a questo
proposito contributi fondamentali. Lo dimostra il caso clinico di
Phineas Gage, con cui inizia L’errore di Cartesio (Gage era un operaio
che nel 1848 rimase vittima di un incidente: un’asta metallica gli si
conficcò nel cranio, trapassandolo; dopo pochi minuti era comunque in
grado di parlare e muoversi benché il lobo frontale sinistro del
cervello fosse stato distrutto; in seguito manifestò disturbi della
sfera affettiva e della personalità, suggerendo, per la prima volta, una
relazione tra quella parte del cervello e le emozioni, ndr): se viene a
mancare la dimensione emozionale/affettiva, le nostre decisioni
divengono irrazionali e inadeguate al contesto. Ciò conduce a un
progressivo deragliamento della personalità, con l’impossibilità di
vivere una vita sociale competente e integrata.
Una delle
conseguenze di ciò che Damasio chiama nel suo ultimo libro «imperativo
omeostatico» è che «strutture e processi neurali e non neurali non si
accontentano di essere contigui, ma formano una partnership continua e
interattiva. Cervello e corpo sono sulla stessa barca»: una metafora che
molti, ancora, non sono disposti ad accettare…
ANTONIO DAMASIO —
La continuità e la contiguità dei tessuti neurali e non neurali è un
fatto che si imporrà da sé, presto o tardi. Difficile sapere in anticipo
chi, e quando, sarà disposto a farsi carico di una evidenza così densa
di implicazioni.
SIRI HUSTVEDT — Da outsider posso immergermi in
metafore così vischiose: non rischio di perdere il mio laboratorio o i
finanziamenti per la mia ricerca; non sarò bollata come eretica ed
espulsa dalla comunità scientifica. Sono invitata a conferenze da
neurologi, psichiatri e filosofi e a pubblicare su riviste specializzate
perché chi mi invita si aspetta di ascoltare o leggere qualcosa che
potrebbe non aver sentito o letto prima. Le parole «vischiose» spesso
arrivano proprio da coloro che si appellano alla certezza epistemologica
e non riescono a mettere in questione i loro modelli barcollanti,
giusto per usare un’altra metafora, che danno per scontati. Il grande
fisico Erwin Schrödinger una volta ebbe a lamentarsi del «grottesco
fenomeno di menti allenate scientificamente, di gran competenza, che
hanno vedute filosofiche incredibilmente infantili, non sviluppate o
atrofizzate».
Questo che cosa comporta?
SIRI HUSTVEDT — Se
si studia con attenzione la storia della scienza, si ricavano molte
lezioni sui pericoli della presunzione e del riduzionismo. Alcuni
scienziati tendono a esaminare processi biologici discreti o «sistemi»
come se esistessero nel vuoto. L’espressione di Damasio, «partnership
continua», da questo punto di vista è molto appropriata. Il cervello è
un organo tra gli altri, in continua interazione con i processi neurali e
non neurali, all’interno di un corpo, che esiste in un mondo popolato
da altri corpi. Ignorare queste interazioni, per quanto complesse e
nebulose possano apparire, conduce inevitabilmente a vicoli ciechi.
VITTORIO
GALLESE — Uno dei grandi meriti del libro di Siri Hustvedt è in effetti
quello di sottolineare la stretta relazione tra cervello e corpo, sia
dal punto di vista della esterocezione, cioè la percezione di ciò che
accade fuori di noi, che da quello dell’enterocezione, cioè la
percezione di quanto accade dentro il nostro corpo.
Qualche esempio?
SIRI
HUSTVEDT — Si pensi agli ormoni, a lungo considerati fondamentali nel
determinare i comportamenti degli animali. Anche gli ambienti e i
comportamenti, però, alterano le concentrazioni ormonali. In alcune
specie, il pesce pagliaccio per esempio, le relazioni sociali possono
dar luogo a drammatiche fluttuazioni ormonali che causano cambiamenti di
sesso. Se la femmina dominante muore e il gruppo rimane senza un capo,
un maschio subordinato si trasforma in una femmina. Gli esseri umani non
sono pesci pagliaccio: siamo vertebrati più evoluti e creature sociali
più complesse, e la nostra realtà socio-biologica è così sofisticata che
una certa dose di vischiosità è inevitabile.
Non crede che si tratti di una posizione minoritaria nel dibattito scientifico?
SIRI
HUSTVEDT — Citerò solo due eccellenti filosofi della scienza che
sarebbero d’accordo con me: Evelyn Fox Keller e John Dupré. I concetti
non sono fissati nel marmo. Sono entità temporali, soggette al dubbio,
alla trasformazione, alla riconfigurazione e al gioco. Proprio questo è
il bello.
VITTORIO GALLESE — Il riduzionismo delle neuroscienze
deve fare i conti con la realtà di ciò che significa essere umani.
Questo libro enfatizza i temi della relazione e del ruolo costitutivo
della socialità nel farci divenire chi siamo e mette l’accento sulla
centralità della nozione di esperienza. Le macchine eseguono
computazioni, gli esseri viventi fanno costantemente esperienza del
proprio incontro col mondo fisico e con il mondo degli altri. Lo studio
della dimensione esperienziale della cognizione sta fortunatamente
divenendo uno degli snodi centrali nello studio del cervello-corpo. Le
illusioni della certezza rappresenta un riuscitissimo esempio di come le
neuroscienze non possano fare a meno di un costante dialogo con le
scienze umane, se ambiscono a comprendere la nostra natura senza
sacrificare nulla della sua meravigliosa ed enigmatica complessità.
ANTONIO
DAMASIO — A partire da un’esplosiva miscela di conoscenze e capacità
critiche, seguendo esclusivamente un’agenda di ricerca che è sua e di
nessun altro, e che nessuno, dall’esterno, può forzare verso forme di
deferenza dovute al fatto di appartenere a un gruppo dell’establishment
culturale piuttosto che a un altro, credo che lei, Siri, abbia dato
forma a un commentario accuratissimo, uno strumento per muoversi tra le
diverse teorie contemporanee sulla natura della mente umana. Ripeto: non
mi sorprende affatto che spesso si trovi a navigare controcorrente.