domenica 16 settembre 2018

Corriere La Lettura 16.9.18
In che cosa crediamo? Ma soprattutto: crediamo ancora?
Oggi una religione non si eredita e basta, è in qualche misura frutto di un incontro. Ed è vero che si crede senza appartenere e si appartiene senza credere. In altre parole: la fede è in libera uscita
di Marco Ventura


Stracolmo il Madison Square Garden, quella sera di estate del 1957. La New York Crusade ha avuto un grande successo. Si contano a migliaia i convertiti al cristianesimo evangelico. Il leader della crociata, Billy Graham, prende la parola, legge un brano dagli Atti degli Apostoli e annuncia il tema del suo sermone: come vivere la vita cristiana. La predica s’impenna quando il trentottenne della Carolina del Nord pone il problema di chi nasce in un Paese di tradizione cristiana: «Il cristianesimo non si eredita; non si riceve attraverso la carne e il sangue».
In tanti si dicono cristiani, ma non sono davvero rinati nel battesimo; in tanti abbracciano valori cristiani e vivono moralmente, ma un cristiano non è questo. Un cristiano ha avuto un incontro personale con Cristo. Ha accettato il Dio vivente, si è arreso a lui. Ha scelto «di sua propria volontà»; perciò tutto è divenuto nuovo.
La fede evangelica degli anni Cinquanta esprime la mutazione religiosa in corso in Occidente al termine del secondo conflitto mondiale e nella prima fase della guerra fredda. Come ricorda lo stesso Graham quella sera al Garden, il comunismo è una minaccia ben oltre i confini geografici che da pochissimi anni dividono la Corea e il Vietnam. La sfida dei comunisti a metà del Novecento è una sfida di fede. In che cosa credono gli uomini e le donne di fine millennio? In che cosa credono le comunità e i popoli? Quanto conta ciò che crede il singolo, nella sua libertà e volontà, quanto ciò che crede il gruppo, nella condivisione e nella pressione? Ancora, quale fede vince nella storia, e oltre? Vale proprio la pena di averla, una fede, oppure si vive meglio senza? Infine, e soprattutto, chi non crede, in che cosa esattamente non crede? E in che cosa crede, visto che in qualcosa inevitabilmente crederà?
La risposta americana alla sfida sulla fede negli anni Cinquanta è ricca di forme: dalla fede anticomunista di Dwight Eisenhower e dei maccartisti alla fede musulmana di Elijah Muhammad grazie al cui carisma si stanno moltiplicando le moschee in tutto il Paese; dalla fede nella mano invisibile del Dio-mercato di chi fonda in quegli anni la catena Walmart a quella dei cattolici liberali da cui nasceranno il presidente John Fitzgerald Kennedy e la dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II. In un carattere, tuttavia, le tante forme si somigliano: «La fede trasforma», proclama Billy Graham nel 1957; com’è scritto nella Bibbia, «dai loro frutti li riconoscerai». La fede americana è tutta speciale, si pensa intanto dal Vecchio Continente: non vi si distingue il credo nell’America dal credo in Dio, l’individualismo esasperato dal nation first. E poi gli americani non hanno avuto Stati cattolici e Chiese di Stato.
Invece, la sfida della fede degli anni Cinquanta negli Stati Uniti riguarda tutto l’Occidente. Le crociate di Billy Graham hanno successo nel Regno Unito di allora. La giovane regina Elisabetta, governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra, percepisce l’energia del missionario, vuole incontrarlo, lo ascolta predicare. Il rinnovamento della fede provoca un’epocale convergenza tra l’America della separazione tra Stato e Chiesa e l’Inghilterra confessionista, in un processo che nei decenni successivi ridisegna entrambe, la separazione e la religione di Stato. Cambia in quegli anni la fede di tutto il cristianesimo occidentale. Le nuove generazioni non vogliono più fingere di pregare in ginocchio, davanti a un prete «che ama il freddo», come fa il giovane dei Beach Boys che è entrato in chiesa per ripararsi dal freddo e per sognare California; non è diversa l’ansia dei giovani italiani del tempo, anche se nella versione dei Dik Dik scompare il prete e la finta preghiera diventa un prudente «cerco di pregar».
Due anni prima, nella costituzione dogmatica Lumen gentium, il Concilio Vaticano II ha poggiato sulla fede la sua dottrina di una nuova alleanza per un nuovo popolo. Alla fine degli anni Sessanta, il cambiamento della fede è sempre più una questione mondiale. Come i Beatles scoprono in India, da ben prima di Cristo le tradizioni sanscrite dell’Asia hanno sofisticatissimi pensieri sulla fede. In più, l’affidamento alla divinità della Bhagavad Gita e dello Yogasutra, e di tanto altro, è respirazione, postura, unità di materiale e spirituale, tra l’uomo che ha fede nel divino e il divino che invita l’uomo alla fede.
Negli stessi mesi, il Dio degli eserciti di Israele ha condotto a un’altra vittoria il suo popolo, in equilibrio tra la fede laica dei kibbutz, la resilienza degli ultraortodossi e la sapienza talmudica di generazioni di rabbini che hanno contraddetto Dio. Imparano la lezione gli arabi, a partire dal 1967. Hanno perso nella guerra dei Sei giorni perché nazionalisti e modernisti. Non vinceranno finché non ritroveranno la fede dei padri, finché non combatteranno in nome di Dio, finché non impareranno dai cristiani come Graham che la fede è resa, sottomissione al Creatore la cui volontà si impone al mondo.
La forza della fede esplode nel 1979. Un papa polacco, eletto l’anno prima, rompe il letargo della guerra fredda, il potere saudita è aggredito alla Mecca con il sequestro dei pellegrini, viene bruciata l’ambasciata americana di Islamabad, una cristiana liberista anti-Stato diventa primo ministro britannico. È tanto cambiata la fede, e in modo tanto efficace, da spingere alla riscossa chi ne ha gli strumenti. È tempo di chiarire, fissare, ristabilire la dottrina. Ecco il teologo Khomeini e il suo articolato pensiero che si fa rivoluzione. Ecco il teologo Joseph Ratzinger, dal 1981 capo della dottrina della fede.
Tanti gli ostacoli. Anche se i profeti della morte di Dio cominciano a battere in ritirata, anche se la modernità è arrivata senza che scomparisse la religione, la fede è a pezzi.
Tra quei pezzi, sempre più numerosi, multiformi e colorati, i credenti scelgono i più convenienti nel supermarket delle credenze. Il paradiso sì e l’inferno no; la reincarnazione forse. Gli angeli ma certo, il diavolo dipende. Crescono intanto i non credenti; se ne moltiplicano i tipi, atei, agnostici, umanisti. Aumentano le cose in cui essi credono, soprattutto i numeri: della scienza, della tecnica e dell’economia. Cresce anche la frustrazione dei razionalisti, perché i numeri non bastano mai, e se sono infiniti riportano a Dio, magari un Dio risucchiato nell’intelligenza artificiale.
Nel 1984, una sociologa delle religioni inglese, osteggiata dai colleghi scettici sulla sua ricerca fuori moda, pubblica un volume che fa clamore. Per identificare la traiettoria religiosa della società britannica del dopo guerra, Grace Davie conia l’espressione «credere senza appartenere» (believing without belonging).
È in declino l’appartenenza alle Chiese, sostiene la sociologa, ma non è in declino la fede; essa è piuttosto in profonda trasformazione. La formula di Davie, credere senza appartenere, apre una stagione nuova. Nei Paesi cattolici e ortodossi gli studiosi la rovesciano e parlano piuttosto di appartenere senza credere. Ciò che importa, per tutti, è che nel mondo globale secolarizzato, da allora fino ad oggi, la fede è in libera uscita.
Gli sceneggiatori della serie Netflix The Crown hanno dedicato un intero episodio all’incontro tra la giovane regina Elisabetta e il giovane predicatore Billy Graham, al tempo in cui questi scuoteva gli incerti cristiani di New York e Londra. Hanno ragione, gli sceneggiatori. Quel tempo e i suoi dilemmi sono decisivi oggi. I credenti e i non credenti del nostro tempo inseguono la scelta cara a Graham: scelta di una fede che cambia, che non lascia nulla come prima e domanda un’adesione piena. Quella sera dell’estate 1957 al Garden, Billy Graham raccontò di un cowboy. Per anni aveva attaccato il cavallo all’ingresso del saloon. Un giorno lo attaccò all’ingresso della chiesa. Al barista che gli chiedeva perché, il cowboy rispose semplicemente: «Mi sono convertito alla fede metodista».
Oggi ancor più che mezzo secolo fa, questa è la fede più preziosa, la più desiderata e la più rara. Quella che ci fa cambiare il posto dove attacchiamo il cavallo.