Corriere 9.9.18
«Italia e grandi opere, alla Cina piacerebbe investire»
L’ex governatore Xiaochuan: negli anni la presenza nel vostro sistema industriale è salita
di Giuliana Ferraino
CERNOBBIO
Nell’aprile 2017 il fondo sovrano cinese Silk Road è entrato in
Autostrade per l’Italia con circa il 5%. Ma vista la grande expertise
nei mega progetti infrastrutturali, come il nuovo ponte da Hong Kong a
Macao, forse la Cina potrebbe aiutare l’Italia a costruire ponti più
sicuri e in tempi record. «Silk Road Fund è un fondo passivo, non
partecipa molto alla gestione e all’operatività delle società, si tratta
di un piccolo investimento finanziario, ma vediamo una forte domanda
nel miglioramento delle infrastrutture. L’Italia è un’economia matura di
mercato, sfortunatamente abbiamo visto che alcune infrastrutture stanno
diventando vecchie. Per la Cina è una possibilità», sostiene Zhou
Xiaochuan, 70 anni, fino allo scorso marzo (per 15 anni) governatore
della banca centrale cinese, ora vice presidente del Boao Forum for
Asia, a Cernobbio dove ha anche incontrato il premier Giuseppe Conte,
con cui ha scambiato alcune battute.
Immagina un’azienda cinese costruire un ponte in Italia?
«L’industria
della costruzione in Cina è molto competitiva, le nostre aziende hanno
un’ottima competenza in ponti e ferrovie. Se c’è domanda, ci piacerebbe
partecipare, ma credo che esista un problema di normative europee e
regole di concorrenza».
Pechino continua ad avere fiducia nei Btp?
«La
Cina ha un po’ meno del 60% di riserve denominate in dollari e un po’
più del 30% di titoli di Stato in euro, soprattutto tedeschi, francesi e
italiani. Perciò siamo piuttosto esposti verso i Btp, anche se negli
ultimi 3 anni l’investimento in Btp è sceso, ma solo perché le nostre
riserve estere si sono ridotte da 4 a 3 trilioni di dollari, in
proporzione anche la quota di Btp si è leggermente abbassata. Non ci
sono ragioni specifiche per dubitare dell’economia italiana. Certo,
sappiamo che il rapporto tra il debito pubblico e il Pil è piuttosto
alto e che ci sono attriti con l’Europa e dubbi sull’euro. Ma è ancora
troppo presto perché questo influenzi le nostre decisioni di
investimento».
Nel suo recente viaggio, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha sollecitato Pechino a comprare Btp?
«Non
è costume per un ministro chiedere a un altro governo di investire nei
propri titoli di Stato. Invece si parla sempre di altri investimenti.
Negli ultimi anni gli investimenti cinesi di private equity in aziende
italiane, sono gradualmente cresciuti, non solo da parte di aziende e
investitori privati, ma anche di fondi sovrani. Abbiamo l’equivalente di
parecchie migliaia di miliardi di dollari investiti in Made Italy, e
penso che sia un trend molto positivo. Vediamo la possibilità di
investire ancora, e rafforzare il legame con le piccole e medie aziende.
Ma c’è bisogno di più conoscenza reciproca».
Cosa fa Pechino per ridurre il suo debito?
«Il
debito totale cinese è intorno al 260% del Pil, troppo alto rispetto a
molti altri Paesi. Ma il governo ha già cominciato un programma di
deleverage graduale a livello centrale e governo locale, di famiglie e
imprese, sia pubbliche che private, con linee guida specifiche su come
ridurre la leva finanziaria. Ma quando osserviamo turbolenze sul
mercato, per la guerra commerciale o la crisi sui Paesi emergenti,
dobbiamo agire con attenzione».
Qual è il target, scendere al 130% come in Italia?
«La
Cina è una grande economia, con un tasso di risparmio molto alto, pari
al 46% del Pil. Rispetto a un Paese con un tasso di risparmio del 30%,
il nostro debito può essere maggiore. Se una parte del risparmio, che
oggi va a banche e assicurazioni, viene indirizzata sull’azionario,
diventa equity e abbassa il debito totale».