Corriere 9.9.18
Inciviltà italiane
Il Belpaese è diventato Brutto
di Ernesto Galli della Loggia
È
bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un
Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è
approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non
si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre
meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità,
la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una
discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in
pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e
diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a
credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un
ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro
Paese.
La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta
una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della
cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita
collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia
a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra.
Ho parlato
di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al
momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo
contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o
su una vasta acculturazione di tipo democratico.
I nizialmente,
infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella
delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in
vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a
compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere
possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi
tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano
continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una
costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e
per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in
genere.
Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo
di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi
una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta
consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione.
Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di
vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto
l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa
— i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito
comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta
scala di una socialità discorsiva bene o male fondata
sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle
possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di
quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva
militare, la scuola e la televisione pubblica.
N el dopoguerra per
milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso
primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di
acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto
delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non
belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora
sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla,
la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile
centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della
modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e
al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece
l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della
competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla
solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine
vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario
del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un
modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale,
diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per
tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni»
sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo.
Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i
conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari»
chiamandola per l’appunto signora.
Intendiamoci, non è che
l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico:
tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società
strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna
animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e
decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante
— svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal
mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la
Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei
potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto
pensavano di doverlo essere.
Ma proprio perciò esse assolvevano un
compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto,
sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non
obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle
istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né
la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono
aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere
realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati
solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione
di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente
sociale e un’ atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non
l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più
ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e
un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della
demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti)
siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della
politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della
formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione
pubblica informata.
Come invece sono andate le cose si sa.
L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie
ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a
partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme
che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per
essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico»,
dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese
delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi
della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici
di non dispiacere a nessuno.
È così da due-tre decenni il Paese è
rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non
solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della
sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali
su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di
modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta,
al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la
democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della
tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci
siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami,
spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un
individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa
e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.