Corriere 8.9.18
La Giustizia
A colpi di slogan
di Giovanni Bianconi
Cambiano
le maggioranze, cambiano i governi, ma alla fine ci si ingarbuglia
sempre intorno allo stesso nodo: la giustizia. Nel giorno in cui la metà
grillina dell’esecutivo (vice premier Di Maio e Guardasigilli Bonafede
in testa) esulta per una «rivoluzionaria» riforma chiamata
«spazza-corruzione» (definirla «anti» non basta più, evidentemente), che
affida ai magistrati nuovi strumenti per contrastare mazzette e
malaffare, la metà leghista se la prende con i giudici che hanno
sequestrato i fondi del Carroccio.
E l’altro vice premier nonché
ministro dell’Interno, Matteo Salvini, diserta il Consiglio dei
ministri, evoca «processi politici» e irride all’indagine a suo carico
per la vicenda dei migranti sulla nave Diciotti; ieri, appena ricevuta
la comunicazione dalla Procura di Palermo della trasmissione degli atti
al Tribunale dei ministri, in diretta Facebook s’è fatto beffe dei
magistrati e dell’atto giudiziario che gli è stato recapitato,
appendendolo al muro del suo ufficio come un encomio. Il conflitto
politica-giustizia va avanti da decenni ma finora nessuno, da una sede
istituzionale come ancora è il Viminale, s’era spinto a tanto.
A
parte le considerazioni sul senso dello Stato mostrato da un
rappresentante del governo (e che rappresentante), siamo al
cortocircuito della giustizia declinata secondo i canoni della battaglia
politica: da un lato continua a essere un terreno di scontro
permanente, e dall’altro è diventato materia di propaganda.
Che la
corruzione sia uno dei mali della vita pubblica italiana lo sappiamo da
tempo. Ma anziché affastellare riforme a ogni mutamento di maggioranza
(negli ultimi otto anni gli esecutivi guidati da Berlusconi, Monti e
Renzi hanno varato altrettanti «pacchetti», sempre annunciati come cambi
di rotta epocali), sarebbe ora di provare ad applicare sul serio le
regole che già ci sono; o semplificare quelle procedure della pubblica
amministrazione dove spesso si annidano i presupposti di pagamenti e
rapporti illeciti. S’è detto tante volte, ma facilitare certi percorsi
sembra sia la cosa più difficile da fare. Si preferisce aumentare le
pene, ideare nuovi reati, o ricorrere a strumenti sempre più dirompenti,
almeno sul piano dell’effetto-annuncio. Stavolta è il turno del Daspo; a
vita, ribadisce il ministro della Giustizia, anche se con la via
d’uscita della riabilitazione che consente al premier Conte di dire che
non è a vita.
Una minaccia sbandierata come deterrente finalmente
efficace, per restituire all’Italia una «prospettiva di onestà»; e poi
l’agente infiltrato, o altre novità fatte passare per toccasana
definitivi prima ancora che se ne possa misurare l’effettiva utilità.
Messa in dubbio, prima dell’entrata in vigore, dai tempi biblici
attualmente necessari per arrivare a una condanna definitiva. Quando ci
si arriva.
C’è un sottofondo di demagogia, in certi proclami, che
stride con la prudenza e l’attenzione sempre auspicabili quando si mette
mano alle regole sull’amministrazione della giustizia. Venticinque anni
di strumentalizzazioni di indagini, processi e sentenze non sono
bastati a consigliare misura, e alla prima occasione buona ecco uno dei
due soci di maggioranza lanciarsi all’attacco dei giudici.
In
attesa che, al prossimo giro, tocchi alla Lega rivendicare modifiche di
codici e leggi su extracomunitari e legittima difesa; ognuno ha i suoi
spazi da difendere e occupare, quando si parla di giustizia.
Nella
sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato
l’Italia per un trattenimento di migranti a bordo di una nave
considerato illegittimo (un caso simile alla vicenda Diciotti, perciò
acquisito agli atti dell’indagine su Salvini) i giudici di Strasburgo
denunciano la confusione e la «ambiguità legislativa» in materia di
stranieri, inevitabile conseguenza della continua rincorsa a cambiamenti
di regole da vendere al mercato degli slogan. Che non si limita alle
leggi sui flussi migratori, e che sulla giustizia ha già provocato
troppi guasti .