Corriere 8.9-18
Lega oltre il 33% E stacca il Movimento di 3,5 punti
La Lega cresce di 2,5 punti attestandosi al 33,5%. E torna a essere il primo partito, superando il M5S (meno 1,5 punti) al 30% di preferenze
di Nando Pagnoncelli
L’ ultimo sondaggio pubblicato in questa rubrica prima della pausa agostana aveva fatto registrare un ragguardevole consenso per il governo, il più elevato degli esecutivi che si sono succeduti negli ultimi 12 anni. Il mese di agosto è stato ricco di avvenimenti — dal crollo del viadotto Morandi, alla questione migranti con la vicenda della nave Diciotti, al futuro dell’Ilva, solo per citare i principali — accompagnati dal crescente profluvio di dichiarazioni e commenti amplificati dai social network e rimbalzati da vecchi e nuovi media come la pallina di un flipper. Con il sondaggio di questa settimana abbiamo voluto verificare la temperatura dell’opinione pubblica nei confronti del governo, del premier e dei suoi vice, oltre alle intenzioni di voto degli italiani.
Iniziamo da queste ultime. La Lega fa registrare una crescita di 2,5 punti rispetto a luglio, attestandosi al 33,5%, il risultato più elevato di sempre, e ritorna ad essere il primo partito, superando il Movimento 5 Stelle, che fa segnare un calo di 1,5 punti con il 30% delle preferenze. Da maggio in poi abbiamo assistito ad una serie di sorpassi e controsorpassi tra le due forze politiche alleate di governo, degni di una gara di Moto Gp. Alle loro spalle si colloca il Pd, stabile al 17%, quindi Forza Italia con l’8,7%, in aumento di un punto; a seguire tre forze sostanzialmente allo stesso livello (tra 2,4 e 2,5%): Fratelli d’Italia, +Europa e Liberi e uguali. Nessun’altra formazione raggiunge l’1% e oltre un elettore su tre manifesta l’intenzione di astenersi o si dichiara fortemente indeciso.
L’«allungo» della Lega sui pentastellati può essere ricondotto inoltre a due aspetti: innanzitutto la maggiore omogeneità e coesione dell’elettorato leghista rispetto a quello degli alleati che viceversa da sempre è molto trasversale e reagisce diversamente alle proposte avanzate da Movimento o sostenute dall’esecutivo. Una parte della componente che si colloca più a sinistra, ad esempio, dissente dalla politica sui migranti, quella che proviene da destra non apprezza le evocate nazionalizzazioni o i possibili stop alle grandi opere. In secondo luogo il diverso modello-partito: la Lega ha una storia più lunga e un’organizzazione tradizionale, può contare su un forte radicamento territoriale nelle regioni centro settentrionali, su attivisti e amministratori locali in grado di consolidare il consenso; il Movimento ha il primato nell’utilizzo della Rete che ha consentito di amplificare il consenso accentuando la componente del voto d’opinione. Ma le opinioni sono volatili, soprattutto negli ultimi tempi.
Quanto al consenso per il governo e per i «triumviri», il sondaggio odierno fa segnare una battuta d’arresto. Intendiamoci, il gradimento si mantiene su livelli molto elevati, ma si registra una flessione di qualche punto: l’esecutivo risulta apprezzato dal 58% degli italiani (-3% rispetto a fine luglio), il premier Conte dal 57% (-4%), Salvini dal 51% (-1%) e Di Maio dal 45% (-5%).
Il calo, oltre ad una sorta di «rimbalzo tecnico» rispetto ai livelli molto elevati registrati nella precedente rilevazione di cui si è detto più sopra, può dipendere da qualche elemento di insoddisfazione su specifici segmenti elettorali. In particolare il governo e il presidente Conte — che sono sostenuti da un consenso molto forte, tra 87% e 96%, e molto stabile tra gli elettori gialloverdi — subiscono una flessione significativa tra quelli di Forza Italia e degli altri partiti di centrodestra (-15%) e tra gli astensionisti (-5%).
Pure Salvini mostra una diminuzione presso gli stessi elettorati, ma compensa parzialmente grazie a un lieve aumento presso gli elettori della maggioranza. Al contrario Di Maio vede ridursi il consenso presso i leghisti (-15%) e gli astensionisti (-11%). A questo proposito è interessante osservare che Salvini è apprezzato da tre pentastellati su quattro (73%), mentre Di Maio da due leghisti su tre (66%). Tra gli elettori di centrosinistra i livelli di gradimento non variano e si mantengono comprensibilmente piuttosto bassi.
Con la presentazione della legge di bilancio nel mese di settembre solitamente gli esecutivi entrano in una fase delicata nel rapporto con l’opinione pubblica. È probabile che il governo Conte non farà eccezione perché si misurerà con quanto contenuto nel contratto di governo. I temi su cui sono concentrate le maggiori aspettative sono la riforma delle pensioni, la flat tax e il reddito di cittadinanza. E non va dimenticato che le priorità degli italiani sono rappresentate dall’occupazione e dai migranti. Si tratta di una sfida importante, anche dal punto di vista comunicativo.
Repubblica 8.9.18
Toronto Film Festival
Michael Moore
“Il fascismo è ormai tra noi E adesso gli Stati Uniti sono come l’Italia”
intervista di Filippo Brunamonti
TORONTO «Il fascismo in Italia non sta tornando. È già tra voi”. Non fa sconti il regista Michael Moore, premio Oscar per “Bowling for Columbine”, cappellino dei Los Angeles Dodgers in testa, quando gli chiediamo un commento sui segnali d’eco trumpiani. «Il fascismo è radicato nel vostro Paese, per noi è una realtà nuova». Il papà del docu-fiction, 64 anni, 6 milioni di followers su Twitter, torna al Toronto Film Festival con il documentario Fahrenheit 11/9 (il rimando è al 9 novembre, giorno in cui Trump è stato eletto presidente). «Nel 2016 sono stato tra i pochi ‘di sinistra’ ad azzeccare la sconfitta di Hillary Clinton, per questo Fahrenheit si apre il 7 novembre 2016 a Philadelphia, alla vigilia dei risultati, tra supporter euforici e Trump sbeffeggiato dai media.
Sappiamo poi com’è andata» sorride. «Se torniamo a fare politica seria, i leader xenofobi e razzisti della Terra non andranno più da nessuna parte. I fascisti perderanno. Il loro punto di forza siamo proprio noi: non li abbiamo mai presi sul serio. Grosso errore!».
Fahrenheit 11/9, in uscita il 21 settembre, lancia una campagna anti-Trump in tutto il mondo, partita da Broadway (lo show The Terms of My Surrender) e chiusa con tiepidi risultati. Il tweet di Trump non si è fatto attendere: “Lo show di Michael-Moore-Lo-Sciatto si è rivelato un fiasco clamoroso ed è stato costretto a chiudere!”. Moore controbatte: «Con Trump alla Casa Bianca dobbiamo comportarci come se fossimo in piena Resistenza francese. Trump è il mostro di Frankenstein, noi siamo i suoi dottori». Nel film, Moore fa doppiare un intero discorso di Hitler a Trump, paragona l’America alla Germania nazista, chiama a raccolta i Flint Whistleblowers, un gruppo di cittadini che ha denunciato l’inquinamento dell’acqua in Michigan, e si confronta con i ragazzi superstiti alla strage di Parkland.«Prevedo uno tsunami di elettori stavolta, soprattutto donne, giovanissimi e afroamericani» dice. «Dove sono Tom Hanks, Oprah, Michelle Obama? Abbiamo bisogno di loro per parlare alle masse».
Non si scaglia contro Vladimir Putin e l’ex direttore dell’Fbi, James Comey, ma ha una convinzione: «Il responsabile della presidenza Trump è una donna dello spettacolo, Gwen Stefani».
Spiega: «Quando Trump ha capito che Stefani, in tv, riscuoteva più successo di lui come coach a The Voice, ha addobbato la Trump Tower di manifesti col suo programma, The Apprentice, convincendo gli americani della sua popolarità su NBC, rete di The Voice e Apprentice. Ecco da dove arrivano i voti». E conclude: «Trump dice di voler correre per la Casa Bianca dagli anni Ottanta.
Non ci ha mai creduto veramente.
La Casa Bianca non ha mica l’attico dorato. E Washington è piena di neri. Sono stati gli spettatori da casa col telecomando, e i social media, a convincerlo che ce l’avrebbe fatta.
Di una cosa ora son certo: per Trump è l’inizio della fine. Con il mio film, vi mostro la via d’uscita».
Corriere 8.9.18
L’incontro a Roma con Bannon per il «Movement» euroscettico
L’incontro a Roma e l’adesione. Matteo Salvini ha aderito a The Movement la fondazione dell’ex chief strategist di Donald Trump, Steve Bannon (nella foto). A renderlo noto — con una foto pubblicata sul suo profilo Twitter — è Mischaël Modrikamen, avvocato, leader del Parti Populaire belga e uno dei fondatori di The Movement. Bannon mercoledì aveva incontrato a Venezia la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
La Stampa 8.9.18
Il populismo va all’assalto dei giudici
di Mattia Feltri
La profezia di Nanni Moretti non s’è avverata: nel finale del Caimano (2006), Silvio Berlusconi lascia il palazzo di giustizia in cui è appena stato condannato e infiamma il Paese: «La casta dei magistrati vuole il potere di decidere al posto degli elettori». È ora di fermarli, dice, e gli uomini liberi hanno il diritto di reagire in ogni modo. Quando escono dal tribunale, i giudici vengono ricacciati indietro dalla folla con pietre e barricate di fuoco. Non è successo niente di tutto questo: Berlusconi se n’è andato dal governo con passo istituzionale nel 2011, per sentenza dei mercati, e quando la sentenza è stata emessa dalla magistratura, con successiva decadenza dal Senato, la vivacità delle proteste sue e dei suoi non è mai evoluta nell’insurrezione, nemmeno lessicale. Ma quel finale non è detto che vada perduto. Alla notizia che il tribunale del riesame ha accolto il ricorso della procura di Genova, concedendole di recuperare i 49 milioni che la Lega è accusata di aver fatto sparire, e dell’avviso di garanzia per sequestro di persona nella gestione della Diciotti, Matteo Salvini non s’è nemmeno tanto scomposto, non s’è fatto prendere dal fermento berlusconiano. S’è abbandonato a toni mistici («temete l’ira dei giusti») ed è ripartito da Nanni Moretti. Vogliono metterci il bastone fra le ruote, ha detto.
E poi: qualcuno non si rassegna al fatto che Salvini sia al governo (mai un bel segno quando uno parla di sé in terza persona), questo è un processo politico, come in Turchia, sono tranquillo, gli italiani sono con me, qualcuno si oppone alla voglia di cambiamento del popolo. E poi il piccolo capolavoro retorico: voi siete miei complici, perché la differenza fra me e loro (i magistrati) è che io sono stato eletto da voi, loro non sono stati eletti da nessuno e non rispondono a nessuno.
La sostanza della sfida è che lui, Salvini, ha sottratto a Casaleggio la teoria parafilosofica della democrazia diretta e ne ha fatto una pratica, aprendo le notifiche giudiziarie in video su Facebook, con centinaia di migliaia di tifosi a intonare cori da tastiera. È che lui ha con sé la forza popolare, e la forza popolare è più forte delle regole dello Stato liberale di diritto, sesquipedale sciocchezza spiegata nei manuali di educazione civica per le medie (una volta, ora educazione civica non si studia più). Così Salvini si gioca la suggestione sediziosa, e con un vantaggio: Berlusconi ha avuto contro una magistratura forte, idolatrata, che si portava appresso la fama da Zorro degli anni di Mani pulite, quando erano i pm a legittimarsi con la ola da curva. «Il grande processo pubblico è già avvenuto, è già lì, è in gran parte già fatto», diceva venticinque anni fa il capo della procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Eccolo il sentimento della piazza, trascinato di qui e di là, molto sopra le regole. Ecco la nemesi. Adesso però quella piazza esultante per la promessa di salvezza della magistratura sembra esultare per la promessa di salvezza del sire nazionalista. Il vento ha cambiato direzione. E non è una buona notizia, nemmeno per chi in questi decenni s’è ribellato al feticcio catartico degli avvisi di garanzia. In un Paese in cui il potere legislativo (Parlamento) è evaporato, non fa più le leggi, nemmeno discute e modifica quelle del governo, persino scomparso dal dibattito politico, ecco, un Paese così può permettersi anche un potere giudiziario che rischia di finire all’angolo, e non per le sue molte manchevolezze, ma perché così ha deciso il popolo nella palpitazione del giorno? Possiamo permetterci un potere esecutivo che prova a salire allo strapotere?
Ps. Giovedì il più importante leader dell’opposizione, Matteo Renzi, ha proclamato: «E’ ufficiale: la Lega ladrona ha fatto sparire 49 milioni». Lo ha detto a proposito di un sequestro preventivo (e si sottolinea preventivo) in seguito a una sentenza di primo grado, quindi non definitiva. Non c’è nulla di ufficiale, a parte che il Pd ha lasciato Palazzo Chigi e ha anche lasciato il garantismo di una breve stagione. Ed essere garantisti non significa essere radical chic, significa seguire la Costituzione, cioè le regole, quelle che non interessano più a nessuno.
Repubblica 8.9.18
Contro la democrazia
di Massimo Giannini
Io sono stato eletto, i giudici no.
Eccola, dunque, la “dottrina Salvini”. Semplice, cristallina, tecnicamente golpista. A metà strada tra Robespierre e il Marchese del Grillo. La diretta Facebook con la quale il capo della Lega ha lanciato la sua sfida finale ai magistrati segna un punto di non ritorno, nell’autunno della Repubblica che è già cominciato.
Con la consumata arte tribunizia che purtroppo gli va riconosciuta, il vicepremier celebra in Rete il suo “martirio”, davanti e insieme agli italiani. Sovvertendo tutte le regole e invertendo tutti i ruoli.
Aveva già iniziato a farlo da settimane. In questi ultimi giorni ha completato l’opera.
Prima l’affondo durissimo contro il tribunale del Riesame di Genova sui 49 milioni imboscati da Bossi&famiglia. «Temete l’ira dei giusti»: un anatema biblico, che nasconde una minaccia politica.
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Poi l’attacco violento alla Procura di Palermo sulla vicenda della nave Diciotti. «Qui non si molla di un millimetro, finché gli italiani me lo chiedono vado avanti » : una carezza ai suoi elettori, che nasconde uno schiaffo alle istituzioni. Nella sapiente e manipolatoria “ narrazione” salviniana, l’avviso di garanzia non è la notifica di un possibile reato che ha forse commesso (ipotesi tutta da dimostrare ma già di per sé gravissima, visto che riguarda il suo operato da ministro dell’Interno). Diventa invece una “medaglietta” da esibire, il suo j’accuse politico contro i magistrati che hanno osato tanto. E questi pm non sono servitori dello Stato che esercitano l’azione penale, come impone per obbligo la legge. Diventano invece gli aguzzini di una magistratura politicizzata, che questo “ governo del cambiamento” spazzerà via.
Salvini si dimostra ancora una volta abilissimo a trasformare un maleficio giudiziario in un beneficio politico. A neutralizzare le decisioni della magistratura facendole apparire come un “ favore” invece che un inciampo. È possibile che l’accusa di sequestro di persona aggravato a suo carico non sfocerà mai in un processo. È probabile che alla fine anche questa vicenda gli consentirà di volare ancora più in alto nei sondaggi, e di godersi altri e ancora più inquietanti bagni di folla come quello di Viterbo. Ma il suo rimane un “atto sedizioso” e ai limiti dell’eversione, come denuncia l’Anm correttamente, benché purtroppo inutilmente. Nel suo delirio social, il responsabile del Viminale fa a pezzi i principi- cardine della Costituzione con poche ma devastanti parole: «Qui c’è la certificazione che un organo dello Stato indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato, pieno di difetti e di limiti per carità, è stato eletto, mentre altri non sono stati eletti da nessuno».
Tesi aberrante, che diventa destabilizzante perché a enunciarla è il vicepremier e ministro dell’Interno. Il depositario della forza pubblica e dello Stato di diritto, cioè, occupa l’agorà per buttare al macero il costituzionalismo che regge da oltre un secolo le civiltà occidentali. La democrazia come limite, il bilanciamento e il controllo dei poteri, la fisiologica e paritaria dialettica tra esecutivo, legislativo e giudiziario. Si compie così la parabola della destra populista iniziata con Berlusconi, il primo ad auto-proclamarsi legibus solutus grazie al voto degli italiani. Salvini segue e allarga il solco tracciato dal Cavaliere nel suo Ventennio (e farebbero bene a riconoscerlo quei giornali e quei politologi che invece vedono in questa deriva salviniana il frutto avvelenato non del berlusconismo da combattimento, ma del “giustizialismo di sinistra” dilagato da Mani Pulite in poi).
Da perfetto populista, il capo della Lega costruisce i suoi nemici e considera il consenso elettorale come un lascia- passare politico e uno scudo giudiziario. Il voto del popolo lo guida e lo protegge, la maggioranza conquistata nell’urna non è solo fonte di legittimità, ma sottintende una pretesa di impunità passata, presente e futura. La stessa pretesa “rivoluzionaria” che faceva dire a Robespierre, rivolto alle toghe chiamate a condannare Luigi XVI, « voi non siete giudici, siete soltanto uomini che rappresentano la nazione » . E poiché oggi la nazione sono io (è l’implicita chiosa del leader del Carroccio, forte del 32% che gli attribuiscono i sondaggi) voi non potete decidere nulla contro di me.
Questa è già un’enormità, che si aggiunge alle tante nefandezze finora compiute o annunciate da Salvini ( l’asse con Orbán nel nome del nazionalismo anti- europeo, il rancore xenofobo contro i migranti e i marginali, la brodaglia securitaria somministrata ogni giorno agli italiani stanchi e spaventati, che tuttavia l’apprezzano in assenza di un’altra minestra da mangiare). Ma c’è un fatto ancora più enorme, ed è la solidarietà che arriva a un ministro tecnicamente sovversivo dal suo presidente del Consiglio, che invece di censurarlo lo difenderebbe in giudizio, se potesse. Il Conte Silente questa volta parla, e purtroppo lo fa nel modo più vergognoso che si possa immaginare. Di Maio e Bonafede provano almeno ad assestare un buffetto al “collega” di governo. Ma usano il guanto di velluto, e dunque si ripropone il dilemma che pesa fin dall’inizio sulla coalizione gialloverde: fino a quando i pavidi Cinque Stelle sopporteranno di essere umiliati e cannibalizzati da un socio di maggioranza che li sbugiarda persino sui temi della legalità?
Mussolini diceva « io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani » . Oggi, nel declino inesorabile delle vecchie culture politiche del Novecento europeo e nell’ascesa irresistibile delle nuove destre sovraniste, sta accadendo un fenomeno analogo. Per intenderci: non abbiamo “ il fascismo alle porte”, perché la Storia non si ripete mai uguale a se stessa. Ma abbiamo “ il leghismo dentro casa”, che non è la stessa cosa ma un po’ gli somiglia.
E tanto basta, per essere preoccupati. E per ricordare le parole di Norberto Bobbio (se non suonassero blasfeme, nel Paese smemorato e arrabbiato in cui viviamo): serve un’Italia di “democratici sempre in allarme”. Vengano fuori, se esistono ancora.
Repubblica 8.9.18
L’ascesa degli estremisti
Il razzista a occidente
di Ian Buruma
La vista di una folla di tedeschi che rincorrono per strada gli stranieri e levano il braccio a indicare il saluto nazista risulta — per ovvi motivi — oltremodo inquietante. Tuttavia, è proprio questa la scena che si è verificata di recente a Chemnitz, una squallida città industriale della Sassonia che ai tempi della Repubblica democratica tedesca era definita con orgoglio “città socialista modello” (e che tra il 1953 e il 1990 prese il nome di Karl-Marx Stadt). Tuttavia, non si tratta di un problema solo tedesco. Le folle inferocite di Chemnitz hanno molto in comune con i neonazisti, i seguaci del Ku Klux Klan e gli estremisti che un anno fa scatenarono il putiferio a Charlottesville, in Virginia. Le due città hanno entrambe un passato triste — Chemnitz ha conosciuto la dittatura nazista e comunista, Charlottesville la schiavitù — e per entrambe le cause del violento estremismo sono molteplici. Il razzismo è tra queste.
Molti americani bianchi — in particolare nel Sud rurale — conducono una vita grama, caratterizzata da bassa scolarizzazione, lavori mediocri e povertà. Il senso di superiorità nei confronti dei neri era l’unico privilegio a cui potevano attaccarsi. Ecco perché la presidenza di Barack Obama ha sferrato un duro colpo alla loro autostima, minandone il presunto vantaggio sociale. È sul loro risentimento che Donald Trump ha fatto leva. Molti tedeschi dell’Est, abituati all’autoritarismo e incapaci di ( o riluttanti a) mettere a frutto le opportunità lavorative ed educative che la Germania unita offre loro, si stanno avvicinando a demagoghi di estrema destra che fanno risalire tutti i problemi agli immigranti e ai rifugiati dai Paesi musulmani.
L’ansia sociale che opprime i bianchi in Occidente è esacerbata dall’ascesa della Cina e dalla sensazione che Europa e Usa stiano perdendo preminenza. Forse a questo si riferiva Trump quando affermava che «la questione è capire se l’Occidente ha la volontà di sopravvivere » . Occorre stabilire cosa intendesse per Occidente e se la difesa dell’Occidente deve basarsi su presupposti razzisti.
Agli inizi del XX secolo ci fu un periodo in cui l’Occidente veniva definito dai suoi nemici ( molti in Germania) come luogo del liberalismo anglo-franco-americano. I nazionalisti di destra (molti in Germania) amavano descrivere Londra o New York come « giudaicizzata » . Secondo questa ottica le società liberali si fondavano sul denaro anziché su rivendicazioni basate sul sangue e sui confini. Tuttavia, così come i populisti olandesi e scandinavi di oggi abbracciano i diritti dei gay e delle donne per farne armi simboliche con cui attaccare l’Islam, i leader della destra usano l’Occidente come qualcosa che va protetto dalle orde musulmane. Spesso fanno riferimento a « Occidente giudaico- cristiano » . Il che, insieme all’entusiasmo per i governi israeliani di destra, li mette al riparo dalle accuse di antisemitismo associate all’estrema destra.
Non è facile, nella xenofobia, separare le motivazioni razziste da quelle culturali o religiose. Sino alla fine del XIX secolo l’antisemitismo si nascondeva dietro a pretesti religiosi. Con l’affermarsi delle teorie razziali pseudo- scientifiche ciò è cambiato: una volta stabilite distinzioni biologiche tra ebrei e “ariani” non c’è stato più modo di sottrarsi alla trappola del razzismo. Un’argomentazione comune tra chi ritiene che i musulmani rappresentino una minaccia per la civiltà occidentale è il rifiuto di riconoscere l’Islam in quanto fede. È una cultura, dicono, incompatibile con i “valori occidentali”. Esattamente ciò che in passato si diceva della “cultura” ebraica. Benché le persone di tradizione musulmana siano ( al pari degli ebrei) diverse tra loro e provengano da Paesi diversi, l’ostilità all’Islam può essere una forma di razzismo. Chi, per religione o nascita, rientra in questa categoria è un forestiero e deve essere emarginato. E raramente questa intolleranza ha come unico bersaglio i musulmani. I neonazisti di Charlottesville celebravano la propria cultura ostentando i simboli dell’antica Confederazione e prendendosela con i neri; la missione della Confederazione era quella di proteggere il suprematismo bianco. Ecco a cosa si ispiravano quelle manifestazioni. Eppure uno degli slogan gridati era: «Non ci faremo sostituire dagli ebrei!».
Sentimenti di questo tipo sono sempre in agguato ai margini delle società occidentali, in particolare negli Usa. Per assicurarsi più voti i politici di destra hanno lasciato intendere di essere pronti a condividere pregiudizi simili. Ma dichiarando che tra la folla di Charlottesville vi erano «persone a posto» e definendo gli immigrati messicani « stupratori » , Trump ha introdotto il razzismo nella politica di tutti i giorni. E quando l’uomo più potente dell’Occidente incita alla violenza è chiaro che l’Occidente, comunque lo si voglia definire, è in grave difficoltà.
(Traduzione di Marzia Porta)
La Stampa 8.9.18
I festival non bastano, l’Italia non sa leggere
di Bruno Ventavoli
La buona notizia è che La ragazza con la Leica ha «stregato» i lettori. Grazie al Premio ha venduto 120 mila copie. Complimenti a Janeczek e Guanda, il suo editore (se li meritano entrambi). La notizia brutta, invece, è che il primo titolo della classifica dei bestseller (vedi pag. XII di Tuttolibri), vale meno di 6 mila copie.
Per la cronaca, si tratta del Metodo Catalonotti, un’indagine di Montalbano, impreziosita da una romantica melanconia amorosa. Camilleri resiste nella top ten da 13 settimane, ha fatto la sua strada. Ci mancherebbe che dopo due mesi le vendite non calassero! Il problema è il mercato. Perché 6 mila copie sono davvero pochine. Sono però lo specchio d’un Paese iperconnesso, trafelato, livoroso che ha espulso il libro dalla quotidianità e riempie ogni vuoto di tempo libero con attività digitali. Durante il weekend, il libro risorgerà a Mantova, dove la gente addirittura paga per sentir parlare di scrittura. La lista degli incontri è intelligente, fitta, raffinata. Code di lettori che si confondono con i passeggiatori dello shopping. Libri e hot dog. Birre e appunti di lettura. Muse e musi. Un parnaso postmoderno.
Ma un festival (come le rondini) non fa primavera. Il libro che negli anni del boom, in un’Italia ben più povera e più analfabeta, era un pezzo indispensabile dell’intimità domestica e della vita pubblica, ora è desaparecido. Ad esempio, in due settimane di vacanze agostane su una spiaggia ho misurato a passi tardi e lenti i più affollati arenili. Ogni giorno tre chilometri ad andare e tre chilometri a venire. Svariati svaghi di palla (divertentissimo il calcio tennis con le apposite reti high tech), smartphone a gogò, giochi di carte, persino le vecchie biglie vintage di plastica con le fotine dei ciclisti. E tre soli libri avvistati: Aramburu (Patria), un Connelly (non ho scorto il titolo e non ho spiato più di tanto la copertina per non passare da provolone), e Bouvard e Pécuchet (il più bel romanzo della modernità). Certo, è una «esperienza» sul campo, soggettiva, casuale, parziale. Ma il problema esiste.
Urge escogitare metodi per rifamiliarizzare gli italiani con i libri. Per renderli di nuovo friendly. Dato che le kermesse culturali non bastano, facciamoli apparire nei reality, sui banchi di Montecitorio, nei video di youporn... Ovunque. Purché si (ri)vedano e l’umanità digitale ricordi che ancora esiste un oggetto di carta, rilegato, comodo, discreto, economico (è importante comprarlo, nell’era del tutto gratis), che si sfoglia, nutre la fantasia, e si gode in affollata solitudine.
Corriere 8.9.18
La Giustizia
A colpi di slogan
di Giovanni Bianconi
Cambiano le maggioranze, cambiano i governi, ma alla fine ci si ingarbuglia sempre intorno allo stesso nodo: la giustizia. Nel giorno in cui la metà grillina dell’esecutivo (vice premier Di Maio e Guardasigilli Bonafede in testa) esulta per una «rivoluzionaria» riforma chiamata «spazza-corruzione» (definirla «anti» non basta più, evidentemente), che affida ai magistrati nuovi strumenti per contrastare mazzette e malaffare, la metà leghista se la prende con i giudici che hanno sequestrato i fondi del Carroccio.
E l’altro vice premier nonché ministro dell’Interno, Matteo Salvini, diserta il Consiglio dei ministri, evoca «processi politici» e irride all’indagine a suo carico per la vicenda dei migranti sulla nave Diciotti; ieri, appena ricevuta la comunicazione dalla Procura di Palermo della trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri, in diretta Facebook s’è fatto beffe dei magistrati e dell’atto giudiziario che gli è stato recapitato, appendendolo al muro del suo ufficio come un encomio. Il conflitto politica-giustizia va avanti da decenni ma finora nessuno, da una sede istituzionale come ancora è il Viminale, s’era spinto a tanto.
A parte le considerazioni sul senso dello Stato mostrato da un rappresentante del governo (e che rappresentante), siamo al cortocircuito della giustizia declinata secondo i canoni della battaglia politica: da un lato continua a essere un terreno di scontro permanente, e dall’altro è diventato materia di propaganda.
Che la corruzione sia uno dei mali della vita pubblica italiana lo sappiamo da tempo. Ma anziché affastellare riforme a ogni mutamento di maggioranza (negli ultimi otto anni gli esecutivi guidati da Berlusconi, Monti e Renzi hanno varato altrettanti «pacchetti», sempre annunciati come cambi di rotta epocali), sarebbe ora di provare ad applicare sul serio le regole che già ci sono; o semplificare quelle procedure della pubblica amministrazione dove spesso si annidano i presupposti di pagamenti e rapporti illeciti. S’è detto tante volte, ma facilitare certi percorsi sembra sia la cosa più difficile da fare. Si preferisce aumentare le pene, ideare nuovi reati, o ricorrere a strumenti sempre più dirompenti, almeno sul piano dell’effetto-annuncio. Stavolta è il turno del Daspo; a vita, ribadisce il ministro della Giustizia, anche se con la via d’uscita della riabilitazione che consente al premier Conte di dire che non è a vita.
Una minaccia sbandierata come deterrente finalmente efficace, per restituire all’Italia una «prospettiva di onestà»; e poi l’agente infiltrato, o altre novità fatte passare per toccasana definitivi prima ancora che se ne possa misurare l’effettiva utilità. Messa in dubbio, prima dell’entrata in vigore, dai tempi biblici attualmente necessari per arrivare a una condanna definitiva. Quando ci si arriva.
C’è un sottofondo di demagogia, in certi proclami, che stride con la prudenza e l’attenzione sempre auspicabili quando si mette mano alle regole sull’amministrazione della giustizia. Venticinque anni di strumentalizzazioni di indagini, processi e sentenze non sono bastati a consigliare misura, e alla prima occasione buona ecco uno dei due soci di maggioranza lanciarsi all’attacco dei giudici.
In attesa che, al prossimo giro, tocchi alla Lega rivendicare modifiche di codici e leggi su extracomunitari e legittima difesa; ognuno ha i suoi spazi da difendere e occupare, quando si parla di giustizia.
Nella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per un trattenimento di migranti a bordo di una nave considerato illegittimo (un caso simile alla vicenda Diciotti, perciò acquisito agli atti dell’indagine su Salvini) i giudici di Strasburgo denunciano la confusione e la «ambiguità legislativa» in materia di stranieri, inevitabile conseguenza della continua rincorsa a cambiamenti di regole da vendere al mercato degli slogan. Che non si limita alle leggi sui flussi migratori, e che sulla giustizia ha già provocato troppi guasti .
il manifesto 8.9.18
Germania, l’estrema destra dell’Afd primo partito nei sei Land della ex Ddr con il 27%
Ombre brune. La clamorosa realtà è stata fotografata all’autorevole sondaggio dell’istituto Infratest-Dimap per conto dalla tv pubblica Ard
di Sebastiano Canetta
BERLINO L’incubo nero nell’ex lembo rosso della Germania. Per la prima volta i fascio-populisti di Alternative für Deutschland sono il primo partito nei sei Land della ex Ddr dopo il sorpasso sulla Cdu. La clamorosa realtà è stata fotografata ieri dall’autorevole sondaggio dell’istituto Infratest-Dimap per conto dalla tv pubblica Ard. Un’istantanea più che inquietante che restituisce il trend più temuto dalla maggioranza quanto dall’opposizione. Dal Mecleburgo-Pomerania alla roccaforte Sassonia, il 27% dei tedeschi è già pronto a barrare la croce di Afd sulla prossima scheda elettorale. Sono ben il 4% in più di chi è rimasto fedele al partito di Angela Merkel congelato a quota 23%, mentre la Linke vale il 18% e la Spd appena il 15.
Tradotto, significa che la lieve perdita di consenso dell’ultra-destra negli Stati dell’Ovest è stata ampiamente compensata dal boom nella Germania orientale. Anche che la “caccia allo straniero” a Chemnitz (negata ieri dall’intelligence federale), così come l’allarme dei servizi segreti della Turingia su Afd, hanno sortito l’esatto contrario dell’effetto immaginato.
Così, senza più anticorpi, la Bundesrepublik precipita nella spirale di odio e xenofobia alimentata – prima ancora che dai fascio-populisti – dal ministro dell’interno Horst Seehofer. Convinto che «l’immigrazione è la madre di tutti i problemi politici della Germania» come ha ribadito giovedì nell’intervista al quotidiano Rheinische Post. Una sparata in linea con lo sfascismo che il leader cristiano-sociale persegue dal giorno dopo l’insediamento del quarto governo della cancelliera Merkel, costretta a ribattere in tempo reale all’ennesima provocazione del “ministro della Paura” di Monaco.
«La penso diversamente: l’immigrazione presenta sfide e problemi ma ci sono anche i successi» replica “Mutti”, sempre più alle corde fuori e dentro al ring della Grande coalizione. Solo gli alleati Spd sembrano difendere la sua vecchia “Wilkommenpolitik”, peraltro naufragata nelle pagine del contratto di governo che dà luce verde ai famigerati “centri di ancoraggio”, allo stop ai ricongiungimenti familiari e alle espulsioni rapide.
«Seehofer è il nonno di tutti i problemi politici di Berlino» è la risposta del giovane segretario generale dei socialdemocratici, Lars Klingbeil. Mentre la Linke, per bocca del capogruppo Dietmar Bartsch, riassume l’ennesima baruffa tra democristiani ricordando come l’unica madre delle rogne del Paese rimangano «l’ingiustizia e le guerre nel mondo».
Poco importa al ministro Seehofer, il cui orizzonte politico restano le elezioni in Baviera fissate al 14 ottobre, dove si preannuncia il minimo storico dei consensi per la Csu “padre-padrone” del Land da oltre mezzo secolo. Lì si gioca la battaglia di sopravvivenza del partito cattolico ridotto ormai al 36%, schiacciato a destra da Afd (14% nella rilevazione Insa della scorsa settimana) e a sinistra da Verdi e Spd (rispettivamente 15 e 13%).
Fuori dall’agone della politica, riemerge il problema istituzionale. Da mesi, Afd si muove al limite del dettato costituzionale flirtando pubblicamente con i neonazisti e con i “patrioti” islamofobici di Pegida. «C’è una crescente erosione della linea di demarcazione tra i diversi gruppi dell’ultra-destra» denuncia Stephan Kramer, capo dell’antenna della Turingia del controspionaggio Bfv. Sul suo tavolo spicca il voluminoso dossier con dichiarazioni, post e tweet dei dirigenti di Afd. A partire dal responsabile della Turingia, Björn Höcke, che continua a negare l’Olocausto.
La Stampa 8.9.18
Corbyn, antisemita e illiberale
Ecco perché è un uomo pericoloso
di Bernard-Henry Lévi
Una volta un illustre inglese ammonì così gli europei che, per sfuggire alla guerra, accettarono l’onta del nazismo: alla fine oltre alla guerra vi toccherà il disonore.
Fatte le debite proporzioni, forse oggi spetta agli europei dire ai loro partner britannici: a forza di fare giochetti, scherzare con il fuoco, mentire agli elettori e ai vostri alleati, barare con la storia e con la vostra stessa grandezza, correte il rischio di trovarvi tanto la Brexit come Jeremy Corbyn.
Sulla catastrofe che sarà (sarebbe?) la Brexit, è stato detto tutto o quasi; e ora spetta al Regno Unito correre verso l’abisso, o, come disse, questa volta un illustre francese, «ritirare la mossa».
Non sono invece sicuro che sia chiaro a tutti quale disdoro sarebbe per la patria di Disraeli e Churchill l’arrivo al potere di Jeremy Corbyn, il disastro di nuove elezioni generali dove potrebbe capitalizzare, come indicano i sondaggi, tanto sull’effetto-usura del suo avversario conservatore tanto su ciò che appare la sua «coerenza ideologica».
Jeremy Corbyn – non sarà mai inutile ripeterlo – ha molta dimestichezza con i canali televisivi iraniani, che nel 2012 si sono rallegrati, chiamandoli «fratelli», per la liberazione di centinaia di attivisti palestinesi di Hamas, molti dei quali avevano le mani sporche di sangue.
È quel parlamentare che non perde mai l’occasione per esprimere quale orgoglio sia stato per lui – un militante invecchiato subendo le pastoie di una rappresentanza politica che gli sembra forse imposta, monotona e priva di mordente – ricevere a Westminster i «compagni» di Hezbollah o incontrare e prendere un tè con un personaggio come Raed Salah, il cui principale contributo alla «causa palestinese» è avere definito gli ebrei «batteri», o «scimmie», o criminali che impastano il pane azzimo con il sangue dei «bambini non ebrei».
È un «pellegrino di pace» di cui quest’estate la stampa britannica ha scovato video terribili che lo mostrano a Tunisi, in raccoglimento su delle tombe di cui una almeno è quella di uno degli organizzatori del massacro degli atleti israeliani a Monaco, nel 1972.
È il politico poco attento che ha accettato di annoverare, tra i grandi finanziatori della sua campagna, un uomo, Ibrahim Hamami, che, dopo essere stato editorialista del quotidiano ufficiale di Hamas, si è fatto propagandista dell’assassinio all’arma bianca degli ebrei in Israele.
È il gentile amico delle arti che nel 2012, quando i londinesi scoprirono scandalizzati che su un muro di Hanbury Street, era apparso un murale dell’artista americano Kalen Ockerman che rappresentava dei banchieri dal naso adunco in cerchio attorno a una mappa del mondo a forma di Monopoli, a sua volta appoggiata sulle schiene nude dei dannati della Terra, come prima reazione protestò perché era in pericolo la libertà di espressione.
È il seguace della teoria della cospirazione che non teme, nelle interviste con la stampa iraniana, di attribuire a Israele le operazioni di «destabilizzazione» condotte «in Egitto» da «jihadisti».
Ed è lo schietto antisemita che, nel 2013, durante una conferenza dove si erano uditi appelli a boicottare la Giornata della memoria o subdoli commenti sulla possibile responsabilità degli ebrei nel massacro dell’11 Settembre è stato capace di dichiarare che i «sionisti», anche quando vivevano in Gran Bretagna «da molto tempo» o anche «da una vita», avevano una difficoltà atavica a comprendere l’«ironia inglese».
A questo dovete aggiungere la sua crassa ignoranza dei meccanismi di un’economia moderna e la sensazione che comunica, quando parla di rinazionalizzazioni, tassazione, norme anti-austerità, sistema sanitario, servizi pubblici, di essere rimasto ai tempi dell’archeomarxismo degli Anni Cinquanta.
Aggiungete poi il suo folle odio per un’America accusata di tutti i mali e alla quale, secondo uno dei suoi luogotenenti, Seumas Milne, la buona vecchia Unione Sovietica, al tempo del suo splendore e nonostante una cosa di poco conto come decine di milioni di morti, è stata utile come «contrappeso».
E non voglio nemmeno parlare del tropismo che lo porta ad allinearsi, quasi sempre, alle posizioni russe: la Siria ovviamente; il rifiuto di ritenere credibile l’ipotesi della mano del Cremlino nel tentato avvelenamento a Salisbury, dell’ex spia Skripal e di sua figlia; o ancora, poche settimane prima di assumere la guida del partito, l’affermazione che una fabbrica di notizie false come «Russia Today» era credibile almeno quanto la venerabile «Bbc».
Oggi vi sono in Occidente una manciata di leader illiberali che gioiscono alla prospettiva di un crepuscolo della democrazia e dei valori dell’umanesimo europeo.
Sono Viktor Orban in Ungheria, Matteo Salvini in Italia, Donald Trump negli Stati Uniti e Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon in Francia.
E poco importa, in realtà, che siano «di sinistra» o «di destra» perché sono d’accordo sull’idea che l’Illuminismo sia tramontato e che Putin sia il loro grande uomo.
Jeremy Corbyn è uno di loro. E la prospettiva di vederlo in carica, a rinforzo di questa oscura Internazionale, mi sembra temibile almeno quanto la Brexit.
Traduzione di Carla Reschia
il manifesto 8.9.18
Brasile, ferito Bolsonaro. In testa nei sondaggi. Ma senza Lula
Verso il voto. Il candidato filo-fascista accoltellato in Minas Gerais. Con il 22% andrà quasi certamente al ballottaggio. La destra: «Colpa del Pt». Ma, arrestato, l’aggressore ha detto di aver agito «per ordine di Dio»
Il candidato di estrema destra Jair Bolsonaro ferito durante un comizio nel sud
di Claudia Fanti
Dinanzi all’aggressione a Jair Bolsonaro, accoltellato durante una manifestazione elettorale in Minas Gerais, sarebbe stato fin troppo facile per il Partito dei Lavoratori evidenziare come il candidato di estrema destra abbia raccolto ciò che per tanto tempo ha seminato. E dunque reagire allo stesso modo delle forze golpiste di fronte all’attentato del marzo scorso contro la carovana di Lula in Paraná, quando il sindaco di São Paulo João Doria aveva affermato che il Pt aveva subìto «la stessa violenza» a cui aveva sempre fatto ricorso e lo stesso Bolsonaro scriveva sulle reti sociali: «Fanno le vittime».
AL CONTRARIO, forte e unanime è stato il ripudio della violenza da parte di tutti gli esponenti progressisti e immediata la solidarietà da loro espressa nei riguardi del candidato filofascista. Di un atto «inaccettabile» ha parlato per esempio l’attuale candidato alla vicepresidenza del Pt Fernando Haddad, ponendo l’accento sulla necessità «di garantire un processo pacifico e di rafforzare i valori democratici». Una presa di posizione condivisa da tutti gli esponenti del partito ma non sufficiente a evitare la reazione scomposta del vice di Bolsonaro, il generale di riserva Antônio Mourão, lo stesso che aveva evocato la possibilità di un intervento militare «per spazzare via la corruzione dal Paese»: «Io non penso, io ho la certezza che l’autore dell’attentato è del Pt». Ma, ha aggiunto «se vogliono usare la violenza, si ricordino che i professionisti della violenza siamo noi».
QUANTO AL PROBABILE aggressore, il quarantenne Adélio Bispo de Oliveira, subito arrestato, si sa che sul suo profilo Facebook aveva pubblicato messaggi contro Bolsonaro e che aveva partecipato a manifestazioni a favore della scarcerazione di Lula. E che, interrogato dalla polizia, ha detto di aver agito «per ordine di Dio».
Al di là della gravità dell’aggressione, comunque, resta il fatto che Bolsonaro è stato il primo ad avvelenare il clima del Paese. Noto simpatizzante del regime militare – tristemente celebre il suo elogio nei confronti del colonnello torturatore della dittatura Carlos Alberto Brilhante Ustra -, Bolsonaro è famoso per le sue posizioni razziste e omofobe e le sue espressioni di disprezzo verso le donne, nonché per aver sostenuto il diritto di ogni fazendeiro a usare il fucile contro i senza terra. Le sue ultime provocazioni sono state quelle di prendere a calci un «pixuleco», il pupazzo gonfiabile con la faccia di Lula vestito da galeotto, e di simulare una raffica di mitragliatrice contro gli avversari: un gesto, quest’ultimo, che gli è costato una denuncia per istigazione alla violenza.
CIÒ MALGRADO, dal suo letto nel reparto di Terapia Intensiva dell’ospedale Albert Einstein di São Paulo, Bolsonaro, che è stato colpito al fegato ma non è in pericolo di vita, ha voluto mandare, in un video divulgato sulle reti sociali, uno sconcertante messaggio al Paese: «Possibile che l’essere umano sia così cattivo? Io non ho fatto mai male a nessuno».
Di certo, il leader di estrema destra proverà a trarre il massimo vantaggio da quanto accaduto. Già i suoi figli lo hanno descritto come «più forte che mai» e «pronto per essere eletto presidente al primo turno». E da più parti si fa notare come l’obbligata sospensione della campagna elettorale non sia certamente un danno per l’esponente filo-fascista, che già aveva annunciato di non voler più partecipare ai dibattiti elettorali: per un candidato che rischia di perdere voti appena apre bocca, un letto di ospedale potrebbe rivelarsi tutt’altro che svantaggioso per acquistare consensi.
DIFFICILE, IN OGNI CASO che il ballottagio possa sfuggirgli: l’ultimo sondaggio dell’Ibope lo pone al primo posto con il 22%, seguito da Marina Silva e Ciro Gomes con il 12% e da Geraldo Alckmin con il 9%. Ma il sondaggio non solo ha rimosso Lula, arrivato ormai al 40%, bensì ha anche nascosto i dati relativi al trasferimento dei suoi voti verso Haddad, che con ogni probabilità lo sostituirà ufficialmente nei prossimi giorni. Dati che indicano come gli elettori certi di votare per il portavoce dell’ex presidente siano passati, dallo scorso 20 agosto, dal 13% al 22% e quelli che «potrebbero» scegliere lui dal 14% al 17%.
La Stampa 8.9.18
I nostri eroi in Montenegro
Militari italiani, dopo l’8 settembre si unirono ai partigiani di Tito
di Giovanni De Luna
In Tutti a casa Alberto Sordi urla al telefono il suo sconcerto perché i tedeschi si erano alleati con gli angloamericani e sparavano contro gli italiani. Quel film ha fissato per sempre la confusione e l’inconsapevolezza con cui l’Italia fascista sprofondò nel caos istituzionale e militare provocato dall’armistizio dell’8 settembre 1943. Quello che successe in patria si presentò in forme ancora più estreme e parossistiche all’estero, dove erano dislocate le nostre truppe. Soprattutto nei Balcani, la contraddittorietà e la superficialità con cui l’Esercito e la Monarchia gestirono l’armistizio ebbero conseguenze drammatiche.
All’8 settembre erano circa settecentomila i militari italiani presenti nei territori di quella che era allora la Jugoslavia. In Serbia, Croazia, Montenegro, Slovenia, Bosnia, Erzegovina, fino ai confini con l’Albania, le nostre truppe erano arrivate fin dal 1941 e per due anni avevano combattuto duramente contro la resistenza jugoslava, spesso abbandonandosi a sanguinose rappresaglie nei confronti delle popolazioni civili: «La favola del “bono italiano” deve cessare!», scrisse il generale Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, «il soldato italiano è soprattutto un guerriero. Chi non ha voluto comprendere la generosità della mano amica, senta ora il peso del nostro pugno». Palikuci, «brucia case» fu il soprannome dato agli italiani.
Tutti contro tutti
Con l’armistizio, i vari reparti si trovarono ad affrontare - senza ordini plausibili - una situazione anomala: in Italia i fronti di lotta erano nitidi e assumevano la rassicurante configurazione di una guerra simmetrica: gli angloamericani da un lato, i tedeschi dall’altro; il Regno del Sud e la Resistenza a fianco degli Alleati, la Repubblica Sociale con i nazisti. Le scelte di campo erano nette anche per chi andò a fare il partigiano o si arruolò nella Brigate Nere.
In Jugoslavia invece si spalancò il caos di una guerra asimmetrica, un «tutti contro tutti» in un groviglio etnico, religioso, ideologico che proponeva, in quei territori, l’essenza più cruda della violenza novecentesca. Non solo serbi, croati, montenegrini, bosniaci, sloveni e le loro appartenenze nazionali; ma anche cattolici croati contro serbi greco-ortodossi e contro i musulmani bosniaci, ustascia croati e cetnici serbi schierati con gli occupanti tedeschi e italiani contro i partigiani monarchici di Draza Mihailovic e quelli comunisti guidati da Tito che combattevano dalla parte degli angloamericani. Un intreccio perverso che l’8 settembre fece emergere in tutta la sua drammatica e sanguinosa complessità e che costò alla Jugoslavia un milione di morti su una popolazione di circa 15 milioni, una percentuale seconda solo a quella della Polonia.
In questo scenario, in Montenegro, si svolse la vicenda - oggi quasi dimenticata - della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi e di quei militari (furono ventimila, un terzo del totale, presenti in territorio montenegrino) che - in un mare di contraddizioni, incomprensioni, atti di eroismo e gesti di viltà - decisero di impugnare le armi a fianco dei partigiani di Tito contro gli ex alleati nazisti, in un’unità combattente restata integra fino al rimpatrio, avvenuto nel marzo del 1945. Le perdite oscillarono tra i 6.500 e gli 8.500 caduti. La sua storia è ora raccontata da Eric Gobetti con un libro (La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro, 1943-1945, ed. Salerno, pp. 178, € 14) affascinante, maturo sul piano interpretativo, ineccepibile e rigoroso nell’uso delle fonti.
Il lavoro ripropone con grande efficacia la concitazione e le contraddizioni dei giorni immediatamente successivi all’armistizio: circa quattrocentomila uomini furono catturati dai nazisti senza colpo ferire e alcuni reparti addirittura si autodeportarono; il generale d’armata Renzo Dalmazzo ordinò alle sue truppe di trasferirsi con i propri mezzi (a piedi o in camion) «fino alle stazioni di carico», per poi salire sui treni diretti in Germania.
Una memoria mai pacificata
Altri decisero di abbandonare le armi e di consegnarsi inermi ai partigiani come mano d’opera a basso costo; qualcuno aderì alla Repubblica Sociale mussoliniana (in Montenegro furono circa un migliaio su 60 mila); altri tentarono di rientrare in Italia via mare o via terra, altri ancora si arruolarono nelle truppe di Tito.
Ne scaturì una storia aspra e difficile che, nel dopoguerra, diede vita a una memoria mai pacificata, scandita dalle fasi della Guerra fredda, dalla lacerazione del blocco comunista tra l’Urss di Stalin e il regime di Tito, dal «sospetto» che avvelenò i ricordi di quell’esperienza terribile. Gobetti si muove con grande accortezza nei meandri di questa memoria, incalza con cautela i suoi testimoni per spingerli a ricordare, consulta le carte degli archivi, i diari, le lettere, ma senza nascondersi in quelle carte, anzi manifestando con chiarezza la sua empatia per i protagonisti della storia che racconta: «nonostante la sobrietà e l’umiltà della maggior parte dei reduci, nel corso dei lunghi mesi di ricerche e di interviste ho cominciato a considerarli degli eroi. Eroi semplici, senza una motivazione forte, senza un colore politico. Forse proprio per questo mi appaiono ancora più eroici. Sono uomini con una storia comune: carne da macello per la megalomania fascista; poi abbandonati nel nulla e costretti a schierarsi; infine dimenticati nel vortice della politica dei blocchi contrapposti nel dopoguerra».
Alla fine, le vicende dei suoi personaggi (l’operaio Agostino Beccaris, i contadini Tarcisio Pelosin e Fabio Cangi, gli studenti Giulio De Agostini e Francesco Evangelista e gli altri) si dispongono come le tessere di un mosaico che restituisce completezza e chiarezza a una delle storie più dure di un secolo durissimo come il Novecento.
1. Il comandante partigiano montenegrino Peko Dapčević parla a un reparto di truppe alpine italiane dopo la resa dell’8 settembre 1943. 2. Il governatore del Montenegro, generale Pirzio Biroli, durante un giro d’ispezione negli anni dell’occupazione italiana: «La favola del “bono italiano” deve cessare!», scrisse una volta. 3. Un gruppo di capi partigiani del Montenegro
il manifesto 8.9.18
Gli scaffali algerini dove Camus correggeva i suoi manoscritti
Incontri. Al Festivaletteratura di Mantova la scrittrice di Kaouther Adimi con «La libreria della rue Charras» (per L'orma). La storia romanzata di Edmond Charlot, primo editore-libraio d’Algeria, che nel 1936 fondò «Les Vraies Richesses».
di Francesca Del Vecchio
Quanti anni ci vogliono per disegnare la «mappa letteraria» di un paese? Forse troppi, se sfuggono le coordinate da cui partire. Ma se tra quattro mura, al 2 bis di rue Hamani (già rue Charras) ad Algeri, si trovano le fondamenta della letteratura nazionale del Novecento, allora ecco che la libreria «Les Vraies Richesses» non è più – e soltanto – un posto dove acquistare e rivendere libri usati. Al contrario, è il luogo in cui si riunisce la Storia postcoloniale firmata da penne illustri. Albert Camus, André Gide, Jean Giono – che, con un suo testo, ha ispirato il nome della libreria – erano soliti frequentarla. Si sedevano sui gradini e correggevano i propri manoscritti. Lì, dove nascevano decine di volumi, c’era Edmond Charlot, primo editore-libraio d’Algeria, che nel 1936 fondò «Les Vraies Richesses».
FIN DAGLI INIZI degli anni Trenta, elaborava l’idea di produrre e commercializzare libri. Per lui, il significato di quello spazio fisico era strettamente legato alle mostre d’arte da ospitare, a quel genere di incontri che oggi definiremmo ‘eventi’ culturali. Al prestito librario, come in una comune biblioteca. Kaouther Adimi, classe ‘86, algerina come Charlot, si è fatta ispirare dalla sua vita e ne ha ripercorso le tappe. Aiutata dagli appunti del vecchio editore, ha inventato un diario che racchiude oltre trent’anni di storia: La libreria della rue Charras (L’orma editore, pp. 200, euro 16, traduzione di Francesca Bononi), suo terzo e più impegnativo romanzo, che sarà presentato al Festival della Letteratura di Mantova, domani 9 settembre. Dopo Pierres dans ma poche (Seuil, 2015) e Le ballerine di Papicha (Il Sirente 2017), Adimi ha intrecciato la biografia di Edmond Charlot con quella (immaginaria) di Ryad, ventenne del 2017, che viene richiamato ad Algeri, da Parigi, per smantellare la libreria del vecchio editore. «Les Vraies Richesses è sempre lì, continua a prestare libri ai suoi pochi frequentatori. Ho lavorato un po’ di fantasia, immaginandone la chiusura. Fortunatamente, alla parete c’è ancora il grande ritratto del vecchio Edmond e, sugli scaffali in mezzo agli altri, alcuni volumi rari delle edizioni Charlot. Bisogna assolutamente andarci, almeno una volta nella vita».
Kaouther Adimi
L’AFFERMAZIONE DI ADIMI, oltre a rassicurare sulle sorti della libreria, suona come un invito. In perfetta continuità con l’ultima frase del suo romanzo, «un giorno ci verrai, al 2 bis della rue Hamani, vero?». Indurre a raggiungere quello strano luogo è il messaggio subliminale fin dalla prima pagina, quando il personaggio dell’acerbo e acneico Ryad non è ancora comparso e i vicoli intorno a rue Charras sembrano deserti ma frementi. C’è tutta Algeri e l’Algeria nel suo prologo: le statue dei grandi del passato, le baruffe tra gatti randagi, il complottismo popolare, l’inedia dei giovani e il ricordo delle bombe sulla città. Poi, ci sono i tomi, militarmente disposti sugli scaffali della libreria. Ryad può farne ciò che vuole, regalarli, portarli con sé a Parigi – dove l’aspetta la ragazza che ama -, persino buttarli. Ma ha in mente solo di sbarazzarsene, «fare le valigie e tornare da Claire, sperando che si metta ancora lo smalto azzurro».
NON VA D’ACCORDO con i libri, ma, tra uno e l’altro, scopre storie di persone che hanno affollato quella stanza dall’odore stantio. «Ho immaginato Ryad come un ragazzo innamorato e poco aperto agli altri – dice Adimi – Figuriamoci se gli interessa di una vecchia libreria e del libraio». Il suo, secondo l’autrice, non è però un ritratto stereotipato dei giovani. «Purtroppo, l’Algeria è ancora un Paese in cui la politica non dà molta importanza alla cultura. E Ryad, pur vivendo a Parigi, è figlio di quella società così disinteressata all’istruzione».
ACCANTO A LUI, il vecchio e scorbutico Abdallah, custode fedele che ha imparato a leggere al cospetto di quegli scaffali. Non si rassegna all’idea che al posto della libreria verrà aperta una ciambelleria. Non ci può credere che Ryad abbia gettato in strada decenni di letteratura, che un acquazzone porti via tutto. Anche i libri. «Ci ho messo più di un anno – spiega la scrittrice – a raccogliere il materiale necessario per il romanzo. Gli archivi sono sparpagliati qua e là e i testimoni sono quasi tutti morti. È grazie all’opera della famiglia di Charlot che tutto questo è stato possibile. I suoi parenti, gli amici hanno conservato ciò che hanno potuto e mi emoziona sapere di aver ridato lustro a un uomo dimenticato, in patria e nel mondo».
il manifesto 8.9.18
Francia 1789, tempo di rivoluzione con sovraccarico di retorica
Venezia 75. Presentato fuori concorso il film del regista francese Pierre Schoeller dal titolo «Un peuple et son roi»
Una scena dal film di Pierre Schoeller «Un peuple et son roi»
di Antonello Catacchio
VENEZIA In un altro film francese presentato qui, quello di Jacques Audiard, ambientato nel 1851, i Sisters Brothers vanno due volte a casa del perfido Commodoro. E Audiard anticipa la scena con un primo piano dello stemma marinaro del Commodoro su cui troneggia la scritta In cauda venenum. Forse una prefigurazione per un altro film francese della selezione ufficiale, fuori concorso, Un peuple et son roi di Pierre Schoeller. Eccoci quindi ancora più in là nel tempo, il passato è stata una delle caratteristiche dominanti di questa edizione. L’anno è proprio il fatidico 1789, re Luigi XVI il giovedì santo lava i piedi a una dozzina di bimbi poveri come fece Cristo. E uno di questi ragazzini in tunica rossa rivolto al re dice che presto avrà degli zoccoli. Sottintendendo che non dovrà più camminare a piedi nudi. Subito dopo vediamo lo stesso bimbo tra i popolani che hanno conquistato la Bastiglia e hanno liberato i detenuti. Inizia così lo smantellamento del regime e della stessa fortezza, mentre metaforicamente e realisticamente il sole comincia a baciare gli esponenti del popolo. Che cantano, indossano coccarde, marciano, protestano, minacciano, cantano di nuovo, sono incuriositi da quel «Robert Pierre» che parla all’Assemblea nazionale, insomma, sono popolo ma fanno quella rivoluzione che li ha resi famosi in tutto il mondo. Infatti se lo dicono anche nel film che dopo quel che stanno realizzando essere francesi sarà qualcosa di cui essere orgogliosi.
Dice il regista: «Volevo filmare un popolo attivo (si intende che lavora, che produce reddito, ndr). Questo popolo ha costruito la propria sovranità, ha stabilito nuove relazioni di uguaglianza, decretato nuovi diritti. Ha fondato una repubblica. Non è un’invenzione dei nostri tempi: queste persone sono esistite. Questo popolo, nato nel 1789, nell’estate di quell’anno ha iniziato una rivoluzione. Ascoltiamolo». Tutto molto bello e condivisibile, solo che il film non riesce a evitare alcuna trappola sottesa a un progetto del genere. Così anziché un inno alla rivoluzione e a quegli individui che si sono affacciati dal nulla per avere un posto nella storia come popolo, il racconto sembra essere sovraccarico di retorica, con tanto di antenati che tormentano il «povero» Luigi XVI. E alla fine per quanto uno tenda le orecchie non si riesce a sentire molto di quel che avrebbero da dirci. Peccato.
La Stampa TuttoLibri 8.9.18
Cara Russia, sei grande e ti amo perché sui filobus puoi essere triste
Dagli stagni di Bulgakov alla sala fumatori della Biblioteca Lenin di Mosca lo slavista Paolo Nori “viaggia” in un mondo di letture, pessimi odori, eroi bislacchi
di Cesare Martinetti
Si fa presto a dire Russia, poi uno ci va davvero e finisce in un appartamento al tredicesimo piano (su 17) di un condomino alla sprofondo della periferia di Mosca (metrò Babushinskaja) e la sera si trova da solo sul pianerottolo a fumare una sigaretta (bulgara) perché in casa non glielo permettono. Domina la puzza di pattumiera (e altro…), lo squallore è totale e la desolazione asfissiante, quando dall’ascensore esce un omino. È grigio, il suo cappotto è grigio, il suo cappello è grigio, la sua faccia è grigia e anche quel po’ di neve che gli è rimasta attaccata è grigia. Apre la porta del suo appartamento e dall’interno si sente una vocina tenera, squillante, amorevole, felice che esclama: «Pàpa!» (attenti: l’accento va sulla prima «a»). E tutto quel grigio si trasforma di colpo in qualcos’altro: la porta di quell’appartamento è il diaframma tra due mondi, quasi la divisione simbolica tra spirito e materia. È questo, forse, il mistero della Russia?
Perlomeno così è sembrato a Paolo Nori quando c’è andato la prima volta. Era l’aprile del 1991, l’Urss stava tirando gli ultimi affannosi respiri, pochi mesi dopo la bandiera rossa sarebbe stata ammainata definitivamente dal cupolone del Cremlino. E il posto gli è apparso «stupefacente». Era la scoperta della materia russa, dopo averne respirato il soffio letterario, anche grazie a Giorgio Manganelli che in un pezzo intitolato Leggere i russi aveva confessato la sua dipendenza da Dostoevskij, Gogol, Tolstoj, Cechov: «Di nuovo sono stato risucchiato… mi è arrivato alle narici un odore aspro di campagna, di bettole, di sobborghi torvi e tristi, di tenerissimi fiori appena sbocciati…»
È con questo soffio nel cuore e nella testa che Paolo Nori si accinge a compiere la missione che così aveva preannunciato: «Vorrei scrivere un libro sulla Russia, e la prima cosa che vorrei dire è che la Russia, nella mia testa, era la Russia prima ancora che fosse la Russia… Non era il paradiso terreste, e mi sarebbe piaciuto proprio per via che non era il paradiso terrestre, era la Russia, e quando avevo letto una cosa di Turgenev, che i russi gli piacevano soprattutto per la pessima opinione che avevano di se stessi, io mi ricordo che avevo pensato: Anche a me».
Questo libro ora è qui, si intitola La Grande Russia portatile ed è dunque innanzitutto una ricognizione dentro se stessi con la scusa della Russia o attraverso di essa: «È il posto dove sono diventato grande». Ha cominciato a studiare il russo che aveva 25 anni e non l’ha più lasciato, ha tradotto anche dei classici, ha scoperto che «leggere i russi vuol dire entrare in uno spazio diverso, attraversare un campo che lascia dei segni che uno si può fare solo lì».
Certo, per chi è come Nori nato e cresciuto a Parma, nell’Emilia rossa tra gli anni 60-70, quel posto aveva una famigliarità innata, era una specie di rumore di fondo («…e noi faremo come la Russia…»), un mito che resisteva alle verifiche e che anche quando uno poi ci andava davvero - come fu il caso dello chansonnier Dino Sarti - che messo alle strette al ritorno su com’era davvero la Russia, riuscì soltanto a rispondere: «È grande, è grande…»
Così grande da contenere tutto, l’orrore e il sublime. Nori ne dà conto con sapienza e ironia, la ricchezza di una perlustrazione profonda, la vivezza di incontri mai scontati, con Viktor Erofeev per esempio che gli chiede stupito di questa sua strana «nostalgia» al passato. L’ostinazione amorevole nel rivivere sul luogo le emozioni letterarie. Gli inevitabili stagni del Patriarca di Bulgakov e la sala fumatori della biblioteca Lenin di Mosca, la Piazza del Fieno di Dostoevskij, in quella che oggi è la stupefacente Sanpietroburgo: «Su dei filobus di Leningrado ho cullato la mia solitudine con una tenerezza alla quale solo in Russia, ho avuto accesso, e gli incubi che ho fatto in Russia son stati più incubi che in qualsiasi altra parte del mondo in cui io abbia dormito, e bere, in Russia, per me è stato più bere di quel che è stato bere in Italia».
Memoir, reportage, guida letteraria, persino turistica, a patto di saper resistere ai cattivi odori, avere almeno un po’ di predisposizione per quel mito, aver letto qualche pagina di Oblomov e almeno una poesia di Chlebnikov: «Poco, mi serve. Una crosta di pane, un ditale di latte, e questo cielo, e queste nuvole». Si finisce inevitabilmente con Stalin, la telefonata con Pasternak e le sue improbabili ricostruzioni. Ma - va da sè - non è la verità storica, quella che conta, piuttosto il dipanarsi del grottesco, russo, dove vince lo scrittore sul traduttore, affetto da inguaribile dipendenza per Gogol & C.
Repubblica 8.9.18
Anna e Andrea separati solo dallo stradario
di Maurizio Maggiani
Nella periferia di Imola c’è una via intitolata alla Kuliscioff, che, nella toponomastica, è tenuta rigorosamente lontana da Costa, padre del socialismo e amore tormentato per tutta la vita
Via Anna Kuliscioff l’hanno voluta mettere ben distante da viale Andrea Costa, anche a non credere alle anime nell’aldilà e a tutti quei discorsi della pretaglia sulla vita eterna, chi ci avrebbe messo la mano sul fuoco che a tenerli vicini quei due non avrebbero continuato a fare casino e a tenere la gente sveglia la notte fino alla fine dei giorni. Ma comunque alla Anna le hanno trovato proprio una bella via, una via un po’ di periferia, ma Imola è una città così ben tenuta che la periferia è anche meglio del centro; e poi è una via complicata, mica una roba dritta da qui a lì, non si capisce nemmeno bene dove comincia e dove finisce, e così sembra proprio fatta apposta per lei, che era così particolare che nessuno poteva dire di aver capito dove cominciava e se finiva da qualche parte, nemmeno Andreino se è per questo, e non alzasse la cresta quella gattamorta di Turati, che nemmeno lui la capiva da cima a fondo. Ma quanto si sono amati lei e Andreino, ma quanto, ma quanto. E si sono amati alla romagnola che è amarsi tre volte tanto; forse si sono amati anche un po’ alla russa, si sa che anche i russi non scherzano quando c’è in ballo di amarsi, ma qui siamo a Imola mica a Stalingrado, e è alla romagnola che si fanno le cose, con i soviet o senza i soviet. Qui siamo a Imola, e Imola è più rosso fuoco che rosso bandiera, e se date un’occhiata a una fotografia di Andreino, con quei capelli ritti in testa, gli occhi come saette e i baffoni come sciabole, capite cosa vuol dire essere di Imola e fatti di fuoco, ardere di socialismo e ardere di amore, che poi, a pensarci, è un po’ la stessa cosa. E infatti il socialismo d’Italia sono venuti a fondarlo qui Andreino e la Anna quando proprio si amavano a più non posso, il socialismo rivoluzionario, s’intende, il socialismo di Romagna.
Sì, hanno fatto bene a tenerli distanti corso Costa e via Kuliscioff, c’era troppo fuoco tra loro, e troppo ardore e troppo socialismo, troppo amore per tutto, e avrebbero continuato così anche da morti, anche oggi come oggi che non arde più niente a essere onesti, e qui a Imola abbiamo appena avuto la vergogna che il sindaco se lo sono preso i grillini; i grillini a Imola, che da quando Andreino ha proclamato il socialismo romagnolo, il sindaco lo ha sempre nominato lui dalla tomba, a parte la parentesi di quello di Predappio, s’intende, che poi era nato figlio di Andreino anche lui.
Sì, compagni imolesi, avete fatto bene a tenerli distanti, ma guardate che siete stati illuminati dalla Anna, perché è lei che ha voluto così; a un certo punto la Anna si è anche un po’ stufata di tutta ‘sta furia romagnola, va bene ardere, ma poi bisogna sapersi anche trattenere, e riflettere, e comprendere. E questa non era proprio la specialità di Andreino, che la rivoluzione piuttosto che tenerlo concentrato su ogni cosa lo distraeva da tutto il resto; o magari no, era concentrato su tutto, ma su certe cose un lo era po’ troppo. Anna aveva la misura di ogni cosa, Anna era più grande del suo stesso amore.
Tu cerchi in me il riposo, io in te la vita. Io sono per te poco donna, tu per me sei un’astrazione. Tu non mi dai l’umano del contatto fra i sessi diversi. Tu non vuoi o non puoi capire che l’abbandono e la pienezza non sono che la conseguenza d’una vita reciproca piena di comprensione dei pensieri, dei sentimenti, delle aspirazioni. Tanto più che tu sai quanto in una donna un poco non volgare è forte il lato morale nell’amore; Gretehen perfino s’informa al Faust se crede alla religione, e perciò capirai che svanita questa armonia morale, questo legame non esistendo più, quanto doloroso è di conservare il convivere per semplice abitudine, per semplice memoria del passato.
Anna lo sentiva e lo sapeva, a tenerli vicini Andreino avrebbe continuato a provarci in eterno, era il suo ardente amore, e a lui gli si rizzavano i capelli a pennacchio solo a pensarla.
Io non credo più alle tenerezze che tornano, in queste tenerezze scorgo qualche cosa di offensivo, vi sento il desiderio della specie e non sento l’unione umana. Il tuo volere accarezzare la mia testa non mi riscalda la testa e questo si può fare a ogni donna non brutta e non cretina del tutto, ed io sono effettivamente orgogliosa, non posso soddisfarmi del solo ricevere e dare dei baci e delle carezze. E l’ultima tua visita, se non fosse stata accompagnata da un’insistenza continua del desiderio del possesso materiale della mia avvizzita carne, avrei creduto che mi sbaglio, ma, purtroppo, ho sentito, ed il sentimento fu la base della convinzione, che senza avvertirtene, tu cerchi in me la femmina, ma non la donna.
Vuol pur dire qualcosa se il Labriola delucida Friederich Engels, quell’Engels di Karl Marx, del singolare fatto che il socialismo italiano ha un solo uomo e nello specifico quell’uomo è una donna che ha per nome Anna Kuliscioff. Già, la zarina pugno di ferro in guanto di velluto, la solita sciocca sufficienza dei maschi che si tengono stretto il loro monopolio e si guardano bene da spartire con le donne, troppo prematuro, sempre troppo prematuro, il privilegio del voto e l’equità di un salario, i maschi che con tutto il loro saldo monopolio non sono capaci di essere gli uomini del socialismo italiano.
Anna ha amato di fervido amore Andrea, dello stesso fervore con cui ha amato il socialismo e la rivoluzione, e la loro figlia Andreina, e le puerpere avvelenate dalle mani zozze delle levatrici, e le lavoratrici divorate dal capitale; ma Anna è un medico e sa che il medico pietoso ammazza l’ammalato, così che non ha mai esercitato la pietà come cura, non lo ha fatto con Andreino, non lo ha fatto con la rivoluzione, non lo ha fatto nemmeno con il suo nuovo amore Filippo, il Turati tutto genio e cuore ma pur sempre esponente del monopolio maschile, e nemmeno ne ha avuto con le sue compagne di lotta e di sesso. Ma impietosa com’era era pur colma di pietà, la pietà che non cura ma si prende cura, e così Anna non ha solo amato Andreino, ma gli ha voluto anche bene, gli ha voluto bene per tutta la vita. E quando il padre del socialismo scopre di esserlo padre anche di una Ninetta così poco socialista che ha varcato la soglia di una chiesa per convolare a nozze con un borghese e coprirlo doppiamente di vergogna agli occhi dei miscredenti proletari di tutto il mondo, prende e con santa pazienza cerca di placarlo, di farlo riflettere e ragionare, gli spiega, gli insegna.
Mio caro Andreino, Sì, hai ragione è una gran malinconia. Di dover convincersi che noi non siamo i nostri figli, e che essi vogliono far la loro vita, astrazione fatta dai genitori, come l’abbiamo fatta noi ai nostri tempi. La malinconia non proviene da quel piccolo incidente di matrimonio religioso, ma dal fatto che la nostra figlia non ha né l’animo ribelle, né il temperamento di combattività. È una povera bambina buona, gentile, abbastanza intelligente, affettuosa, creata per la famiglia e per avere figli propri. Essa non fu mai socialista, né miscredente: nel ’ 98 fece voto alla Madonna perché io non fossi condannata, la Madonna non l’ascoltò, allora pregava un Dio astratto.
D’altronde come buoni e convinti socialisti dobbiamo rispettare anche la volontà e l’individualità dei nostri figli. È stato un fallimento, come dici tu, ma un fallimento non doloso; poiché se la Ninetta non è l’immagine nostra, è pur una brava ragazza. Io sono stata angosciata per molti anni, io capiva che la povera Ninetta scontava gli slanci generosi della sua madre, io sapeva che un giovane di famiglia borghese, dati i pregiudizi sociali, famigliari e religiosi, difficilmente, se non molto innamorato, la sposerebbe per le presunte colpe della madre, che schiaffeggiava la società sotto tutti i rapporti...
Sì, la Anna ha schiaffeggiato impietosa la società sotto tutti i rapporti, ma non ha mai alzato un dito sull’umanità, ha molto amato l’umanità e gli ha voluto molto bene, Andreino e la Ninetta compresi; e tutto sommato a Imola almeno avrebbero potuto tenerli vicini corso Andrea Costa e via Anna Kuliscioff, se anche Andreino avesse preso a smaniare e far casino, Anna avrebbe saputo ancora tenerlo buono, e ancora insegnargli.
– 4. Continua
Corriere 8.9.18
Lucetta Scaraffia La scrittrice: «Le donne per il Vaticano non esistono La pedofilia? La Chiesa non ha mai affrontato la rivoluzione sessuale»
di Stefano Lorenzetto
Al cancello della casa di vacanza, a Todi, è murata una piastrella che le ha regalato il regista Pupi Avati: «Vocatus atque non vocatus Deus aderit». Sono le parole dell’oracolo di Delfi — «Chiamato o non chiamato Dio verrà» — che Carl Gustav Jung fece scolpire sull’architrave della sua dimora di Küsnacht, leggibili anche sulla tomba dello psichiatra svizzero.
Nella vita di Lucetta Scaraffia, storica e scrittrice, Dio venne una domenica di marzo. «Vidi una folla radunata davanti a Santa Maria in Trastevere per il ritorno di un’icona della Madonna. Entrai. All’udire l’Akathistos bizantino, l’antico inno dedicato alla Madre dell’Altissimo, fui invasa dalla luce. Capii che Lui c’era». Benché non credente dal 1965 al 1985, non si può dire che quello sia stato il primo incontro con Dio: a 12 anni Scaraffia recitava dieci avemarie al giorno per non diventare suora e pregava Gesù per la conversione della zia Angela, una comunista che era stata l’amante di Gaetano Salvemini.
Ex atea, ex marxista, ex sessantottina, oggi è l’editorialista di punta dell’Osservatore Romano e ne dirige il mensile Donne Chiesa Mondo. Si sussurra che papa Francesco presti molta attenzione alle opinioni della studiosa, spesso riprese da New York Times, Monde, Figaro, Libération. Elizabeth Barber, inviata del New Yorker, ha trascorso una settimana a casa sua per dedicarle un ritratto.
«La Croix» l’ha definita «la “féministe” du Vatican». Si riconosce?
«Non mi risulta che ce ne siano altre».
È ancora femminista?
«Certo, specie frequentando la Chiesa».
Luci e ombre del femminismo?
«Ha fatto sentire forti le donne. Ha sottovalutato la maternità».
Chi l’ha introdotta in Vaticano?
«Il direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian. Ci conosciamo da quasi trent’anni. Eravamo fra i pochi docenti cattolici dell’allora facoltà di Lettere della Sapienza».
Vian la assunse di testa sua?
«Seguì un’indicazione datagli da Benedetto XVI nel 2007, all’atto di nominarlo: “Vorrei più firme femminili”».
Chi vigila sull’ortodossia del mensile «Donne Chiesa Mondo»?
«Eeeh!». (Sospiro). «Tutti e nessuno. In Vaticano ci sono persino alcuni che fingono di non leggerlo. Non figuro nell’Annuario pontificio. Il mio confessore, un gesuita, mi ha rincuorato: “Meglio così. Se fosse una carica istituzionale, brigherebbero per fregartela”».
La pagano, almeno?
«Solo per gli articoli che scrivo».
Ma le donne come sono viste al di là delle Mura leonine?
«Non sono viste. Non esistono».
Con le suore ridotte a colf per i preti?
«Già. Devono persino difendere le loro case generalizie dai vescovi, che vorrebbero portargliele via. Spesso si fanno aiutare dalle consorelle al servizio di alti prelati. La Chiesa funziona per protettorati. Vale anche per i sacerdoti».
È favorevole al sacerdozio femminile?
«No. L’uguaglianza si rivela nella differenza. E l’unica istituzione che può testimoniarlo è la Chiesa, perché siamo tutti figli di Dio e per questo tutti uguali».
Si sente una Giovanna d’Arco, come la dipinse «Il Foglio»?
«Preferisco Caterina da Siena. A Roma prego sulla sua tomba, in Santa Maria della Minerva. Aiutami tu, la supplico».
Ha avuto occasione di confrontarsi con papa Bergoglio, qualche volta?
«Non mi pare corretto parlarne».
Mi sa che le tocca farlo, invece.
«Gli avevo mandato l’edizione spagnola del saggio Dall’ultimo banco, che ho scritto per Marsilio. Un giorno sono a un convegno della Congregazione per la dottrina della fede. Squilla il cellulare. Mi ordinano di spegnerlo, ma io rispondo lo stesso. “Sono papa Francesco. Volevo ringraziarla per il libro. Mi è piaciuto molto”. Balbetto: Santità, sono troppo emozionata... “Stia tranquilla. Dov’è in questo momento?”. Gli spiego dove mi trovo. E lui: “Porti a tutti i miei auguri di buon lavoro e dica loro di comprare e leggere il suo libro”».
Ma davvero al sinodo sulla famiglia l’hanno confinata nell’ultimo banco?
«Altroché. L’ultimo di una trentina di file. Accanto a me, alcuni coniugi invitati dal Vaticano. Poveri, con 12 figli, felici. Ma quando mai? Nella vita reale non è così! Alzano gli occhi al cielo... Buoni e finti. Coppie ammaestrate, con il marito a comandare. Non le sopporto».
Perché l’«Amoris laetitia» di papa Francesco scaturita da due sinodi sulla famiglia ha suscitato i dubbi di quattro cardinali e 45 studiosi cattolici?
«Perché applica la misericordia alla realtà. Brandire la morale come una legge inflessibile significa non tenere conto di quanta sofferenza c’è dietro i divorzi e le separazioni. Al sinodo tutti parlavano esclusivamente di padri, madri e figli. Non sanno che milioni di donne sono costrette ad allevarsi da sole la prole».
Nell’esortazione apostolica Francesco denuncia il «rifiuto ideologico delle differenze tra i sessi». Lei che cosa pensa delle teorie gender?
«Penso che sia arrivato il tempo profetizzato da Gilbert Keith Chesterton: “Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”. La Chiesa è costretta a difendere verità lapalissiane».
Amore coniugale e amore omosessuale a suo avviso sono equiparabili?
«No. Il secondo non prevede la procreazione, se non trafficando con uteri e gameti, e spezza la catena fra generazioni».
Ma la Chiesa non avrà un problema irrisolto con la corporeità?
«Io la vedo soffocata dalla teologia, che le impedisce di conoscere la vita. Come può parlare del corpo se ignora l’altra metà del genere umano?».
Nel clero allignano molti pedofili?
«Purtroppo. La Chiesa non ha mai affrontato la rivoluzione sessuale infiltratasi al suo interno. Tanti preti si sono convinti che la castità sia una repressione apportatrice di nevrosi, per guarire le quali tutto è ammesso».
Contro questa deriva, Francesco propone preghiera e digiuno. Non è poco?
«Legga bene la sua “Lettera al popolo di Dio”. Invoca anche “tolleranza zero” contro chi compie o copre questi delitti».
Lei ha scritto che le denunce dei mass media aiutano a far luce sugli abusi.
«Siamo arrivati a questo punto. Mi spiace moltissimo dirlo, ma per vie interne non si riesce a stroncare il fenomeno».
Le gerarchie coprono gli scandali.
«Ma anche i laici, intimiditi, spesso tacciono anziché rivolgersi alla polizia».
L’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico a Washington, ha invitato Francesco a dimettersi per aver coperto dal 2013 gli abusi sessuali su seminaristi compiuti dal cardinale Theodore McCarrick, che a luglio il Papa ha privato della porpora.
«Provo un dolore profondo di fronte a simili vicende e mi chiedo perché monsignor Viganò si sia rivolto alla stampa soltanto dopo cinque anni».
Non ha la sensazione che il numero dei sacerdoti omosessuali sia elevato?
«Nettissima. Troppi diventano preti per paura di confrontarsi con le donne».
Ai gay che diritti riconosce?
«Accetto le unioni civili, ma non i matrimoni, le maternità surrogate e le adozioni».
Mi risulta che un cardinale volesse stilare un documento vaticano sui vestiti discinti delle ragazze di oggi.
«È vero. Parliamo di un fine giurista. Pensava che l’abito dovesse connotare la donna cattolica».
Anche lei vede in giro troppe nudità?
«Più che altro siamo stati anestetizzati dalla pornografia soft della pubblicità».
A 50 anni di distanza ha ancora un senso l’«Humanae vitae» di Paolo VI?
«Eccome. La pillola rovina la salute. Tant’è che oggi le ragazze usano più volentieri i metodi naturali, senza sapere che obbediscono a un’enciclica papale».
Vi ricorrono anche prima di sposarsi.
«Le coppie arrivano ai corsi prematrimoniali già con figli, c’è poco da fare. La Chiesa non riesce a convincere i giovani delle sue buone ragioni. Infatti la migliore l’ho letta in un libro di Erri De Luca».
E quale sarebbe?
«La fedeltà coniugale richiede allenamento. Un po’ sportiva però efficace».
Il ministro Lorenzo Fontana vuole ridiscutere la legge 194. Ha torto?
«Penso che dopo 40 anni una revisione occorra. Ma l’equazione peccato uguale reato è antistorica. L’aborto entrò nei codici penali con Napoleone. E non per ragioni morali: per la coscrizione obbligatoria. Alla Francia servivano soldati».
In Italia si arriverà all’eutanasia?
«Temo di sì. È la conseguenza dell’accanimento terapeutico dettato dalla medicina difensiva per evitare le denunce presentate dai parenti dei malati».
E la Chiesa a quel punto si adeguerà?
«Mai! Però l’alimentazione artificiale è sbagliata, perché può prolungare vite senza speranza. Al contrario l’idratazione va garantita per evitare la sofferenza».
Come mai sull’«Osservatore» criticò i trapianti di organo a cuore battente?
«Non accetto i criteri di morte cerebrale introdotti mezzo secolo fa dall’Harvard Medical School, una convenzione medica bisognosa di verifica, che ha a che fare con i soldi. Esiste un mercato clandestino degli organi, lo sanno tutti. È giusta una pratica che lo incentiva?».
Lei accetterebbe di morire piuttosto che subire un trapianto?
«Sì. Ma per vigliaccheria: la vita dei trapiantati, imbottiti di farmaci immunosoppressori antirigetto, è un inferno».
E se l’organo servisse a un suo caro?
(Lungo silenzio). «Non so rispondere».