Corriere 4.9.18
Nella mente di Van Gogh
Venezia 2018 In gara «At Eternity’s Gate» con Willem Dafoe nel ruolo dell’artista
Schnabel, regista-pittore «Nessuna biografia. Ho dato vita ai suoi quadri
Nego la tesi del suicidio: non c’erano testimoni»
di Valerio Cappelli
VENEZIA
Van Gogh ha le tele e il treppiedi sulle spalle a mo’ di zainetto,
cammina svelto attraversando i campi di grano, e lo spettatore in quei
primi piani ossessivi cammina con lui, accecato dal sole della Provenza
che penetra nello schermo. Si siede, allarga le braccia come Cristo in
croce, mentre il vento sferza il grano giallo, e pensi che Willem Dafoe
(è lui a ridargli vita) aveva portato la passione di Gesù al cinema,
prendendosi una pausa dai suoi ruoli di carnefice. Qui torna borderline,
col suo volto lavorato dal tempo, la fronte solcata dalle rughe.
L’attore americano ha 63 anni, Van Gogh 37 quando morì, eppure la
differenza d’età, sotto il cappello di paglia che portava come una
divisa, non si nota proprio.
Accolto da un grande applauso, At
Eternity’s Gate è un viaggio nella mente di Vincent Van Gogh: è il
ritratto personale di Julian Schnabel (lo ha scritto con Carrière) che
non è solo regista ma pittore, l’omaggio di un artista a un altro
artista: «Mi piaceva dare la sensazione di camminare con le scarpe di
Van Gogh. Non è un biopic, sarebbe stato assurdo, ne hanno fatti tanti
su Van Gogh».
Non c’è una cronologia da seguire ma come una serie
di tele in successione: «Volevo creare l’equivalente del senso di
accumulazione che si ha quando usciamo da una mostra». Un genio che in
vita riuscì a vendere un solo quadro, un genio nato in un’epoca
sbagliata, troppo presto per essere compreso.
«È Dio che mi fa
dipingere per individui che non sono ancora nati, anche Gesù era
completamente sconosciuto da vivo», recita Dafoe nella scena in cui il
prete (Nads Mikkelsen) deve decidere se può lasciare l’ospedale
psichiatrico, dove almeno continua a dar corpo a forme e colori, luci e
ombre, lontano da ogni arte tradizionale, parlando ai sensi, la
sofferenza umana che si trasfigura e eleva. «Voleva in maniera feroce
toccare Dio attraverso i colori», ragiona Dafoe.
Smentita la tesi
del suicidio: la morte di Van Gogh qui è una bravata di adolescenti.
«Non c’era nessun testimone, non era né cupo né depresso, è difficile
suicidarsi e non trovare l’arma, in ogni caso non mi importava troppo
legittimare una verità o l’altra». Il rapporto del pittore con la natura
è al centro di immagini viscerali, molto «fisiche»: «Dio è natura e la
natura è bellezza». C’è l’amicizia con Gauguin (Oscar Isaac), ma
Schnabel non indulge «sul loro rapporto tormentato, ero più intrigato
dai discorsi su tecnica pittorica e filosofia». Gauguin e il suo istinto
selvaggio «contro ogni teoria e accademia” che lo porterà verso isole
lontane; Gauguin e «un’arte rivoluzionaria, non mi aspetto nulla dai
giardini e dai bambini di Monet e Renoir»; Gauguin e la sua libertà,
«siamo incompatibili», dice a Van Gogh, che si recide l’orecchio per
tentare di fargli cambiare idea; lo rinchiudono in ospedale
psichiatrico. Van Gogh al medico dice: «Io sono i miei dipinti». Gli
confida le sue visioni, «vedo fiori e angeli che mi confondono, mi
parlano. Il dolore è più potente della risata. La malattia può guarire».
La tavolozza di Schnabel: «È un film sul significato dell’essere
artista e il suo ruolo nel mondo. Non potrei fare un film più personale
di questo».
Ecco Vincent che beve troppo e dà di matto; povero,
mantenuto dall’adorato fratello Theo, mercante d’arte; ecco la gente di
Arles, «meschina e ignorante”, che non lo vuole. Dipinge radici di
albero nel disprezzo generale: «E l’albero dov’è, questo sarebbe un
quadro?». Muove i suoi colpi di pennello veloci, nervosi, «il gesto deve
essere netto», ed entriamo nei suoi pensieri, nell’atto della
creazione. «Ho dovuto imparare a dipingere — dice Dafoe —. Ciò che mi ha
colpito, leggendo le sue lettere, è la lucidità del pensiero». Oggi la
gente lo venera come una rockstar. I fiori appassiscono e muoiono:
quelli di Van Gogh no.