venerdì 28 settembre 2018

Corriere 28.8.18
Confesso che ho odiato
Le sue frasi sull’Aquarius diventarono un caso. Ora Edoardo Albinati replica
Polemiche In «Cronistoria di un pensiero infame» (Baldini+Castoldi) la genesi di una vicenda controversa
di Luigi Manconi


Una meditazione sull’odio: così potrebbe definirsi quella sviluppata da Edoardo Albinati nella sua Cronistoria di un pensiero infame (Baldini+Castoldi). Una «confessione» — parole dello stesso autore — talmente spietata e priva di consolazione che, per un verso, esclude qualsiasi forma di compiacimento narcisistico e qualunque futilità scandalistica e, per l’altro, talmente autentica e ridotta all’essenziale da non comportare, come si vedrà, la perdita dell’innocenza. In quanto dettata da una assoluta e ineludibile necessità. Tutto nasce a ridosso della vicenda della nave Aquarius, che lo scorso giugno non trovò approdo in alcun porto italiano e stette alla deriva nel Mediterraneo, col suo carico umano, per 10 giorni. Davanti al piccolo pubblico di una libreria milanese, Albinati si trovò a dire: «Ho desiderato che su quella nave morisse qualcuno, morisse un bambino», così che la responsabilità cadesse sul governo italiano che aveva disposto la chiusura dei porti. La polemica ebbe dimensioni vaste e le reazioni furono aggressive.
La risposta di Albinati, che allora decise di non replicare, arriva con questo libretto di 106 pagine. Dicevo, il sentimento di odio che Albinati qui esprime è innocente, in quanto non è strumentale ad alcunché. Non è cioè il mezzo per uno scopo ulteriore, e tantomeno l’arma per un obiettivo generale, come è proprio del ricorso alle emozioni nell’arena politica. La sua è una pulsione primaria, che tale resta. È la risposta che si fa e che si sa ingiusta, e che appare come l’unica possibile all’ingiustizia patita, per conto proprio o per conto di altri.
Nel pensare quella enormità — augurarsi la morte di un innocente — per colpire con un’infamia l’infamia, Albinati restituisce all’odio tutta la sua potenza distruttiva e lo sottrae alla mondanità dell’attuale discorso pubblico, separandolo radicalmente dal suo uso politico congiunturale. Infatti, come la gran parte dei vizi e delle virtù, anche questo sentimento oggi si è banalizzato, diventando consumo di massa. Siamo ormai lontani dallo scenario della politica classica, quando l’odio era componente costitutiva del conflitto per il potere e l’assassinio e la guerra ne rappresentavano le manifestazioni primarie. I processi di civilizzazione hanno mediato, senza annullarlo, quell’elemento di violenza che pure — quando si manifestava come antagonismo etnico o di classe — era più agevolmente riconoscibile da parte degli schieramenti avversi. La politica via via ha ridotto la propria dimensione bellica e cruenta rendendola metaforica, e ha neutralizzato e controllato quell’elemento di violenza, assumendo i nemici come avversari e ricorrendo a un repertorio di lotta in prevalenza pacifico. Ma l’odio ha continuato a covare nei sotterranei della politica e nel corpo sociale. Oggi per decifrarlo occorre avere coraggio e stomaco per guardare all’esibizione svergognata delle purulenze che il discorso pubblico sulla Rete — o comunque dalla Rete eccitato — autorizza a ostentare. Un flusso incontinente e sordido indirizzato contro chiunque, il primo che passa, il bersaglio mobile. L’odio in Rete come logorrea nevrotica e lutulenta, sopraffattrice e nichilista. Il linguaggio della politica (non tutta, va da sé) ne è una copia. Sia gli odiatori della Rete che quelli della politica politicante sono consapevoli di quale sia la sostanza che si agita nel fondo e la materia pericolosa che sollecitano.
Albinati è incondizionatamente fuori da tutto questo, le sue sono le «considerazioni di un impolitico» che si ispirano alla concezione tragica di un pensiero forte. A quella psicopatologia della parola propria del web selvatico e della Politica dell’Ira, l’autore contrappone i corpi veri, gli organismi che vivono e che soffrono. La vita umana. O, con Primo Levi, la «materia umana». Se la politica scherza (meglio: crede di scherzare) col fuoco e con l’odio, tanto — si sa — è politica, ovvero messa in scena, allora tocca all’impolitico dire: l’odio è cosa troppo seria per lasciarla maneggiare ai politicanti.
Se si vuole davvero indagare nel profondo, dove nascono le emozioni primarie, bisogna «rimestare nel torbido». In quello degli altri e di sé stessi. Bisogna andare «alla pancia dell’intellettuale», al suo lato oscuro. A scoprire che «al punto in cui siamo» anch’egli prende le sembianze di una bestia. Che si lancia in un feroce corpo a corpo: cinismo contro cinismo. Sullo stesso campo si affrontano due forze uguali e opposte, eppure così sbilanciate. Da una parte il cinismo di governo, che dispone della vita e della morte dei naufraghi. Dall’altra quello immateriale di Albinati: il suo cinismo è un pensiero che assume necessariamente la forma astratta della proiezione di quei corpi veri e sofferenti in un bambino «ipotetico» del quale non sappiamo nulla (quanti anni ha? come si chiama? ha la maglietta rossa?), se non il destino di morte. Un piccolo grumo di ingiusta sofferenza e salsedine. Attenzione: l’immaterialità del cinismo di Albinati e la sproporzione della lotta contro il cinismo di governo non è richiamata nemmeno dallo stesso come un’attenuante o una giustificazione. È, al contrario, la rivendicazione di una sorta di diritto di rappresaglia, con l’unica arma di cui si dispone: la parola. Ovvero la parola come tentativo estremo di avvicinarsi a sfiorare la verità. Che poi vuol dire trovare un senso. La parola scorticata che si batte e che può resistere solo se il luogo dello scontro resta irrimediabilmente altro rispetto a quello della politica. Il campo di Albinati è quello dei principi fondamentali. Ed egli non può fare altro che metterlo crudelmente sotto i nostri occhi: «Ci viene di soccorrere l’altro perché intuiamo in modo assolutamente pre-logico che la prossima volta potrebbe toccare a noi di aver bisogno di chiedere aiuto».
È così: la società organizzata nasce proprio per rispondere in maniera efficace, attraverso un’attività di reciproca tutela, alla rivelazione della vulnerabilità di chi si trovi solo e in stato di pericolo. È il mutuo soccorso. Per questa ragione negare o indebolire il diritto/dovere al salvataggio corrisponde a erodere la stessa identità umana che risiede in quel passaggio essenziale da individuo isolato a comunità associata. A venire insidiata è un’obbligazione morale che precede ogni ordinamento e ogni norma.