mercoledì 26 settembre 2018

Corriere 26.9.18
L’onore dell’Atac
di Massimo Gramellini


Ero sinceramente convinto che il pasticciaccio brutto degli autobus di linea che a Roma prendono fuoco come carretti flambé fosse opera della famigerata banda di piromani che impazza tra la Garbatella e l’Esquilino con l’appoggio dei forestali dell’Aspromonte in trasferta. L’efficienza e l’affidabilità della municipalizzata capitolina sono infatti note in tutto il mondo. Amazon e Apple hanno scelto di chiamarsi così per condividere la prima lettera del nome con Atac. E i giapponesi vengono a Roma solo per copiare gli autobus: le foto ai monumenti sono un diversivo, il loro vero obiettivo è il 30 (andato a fuoco a Prati due giorni fa).
Poi un giorno la giovane autista Micaela Quintavalle, sindacalista autonoma e grillina delusa, rilascia un’intervista alle Iene in cui testimonia che dietro gli incendi ci sono scarsa manutenzione e pochi ricambi. Apriti autobus! Prima viene sospesa e poi licenziata per avere violato il codice etico e leso l’onorabilità dell’Atac. Sul codice etico, niente da dire. Si sa che a violarlo, in Italia, non è mai chi fa le schifezze, ma chi le denuncia. È sull’onorabilità che vorrei tranquillizzare un po’ tutti. Un’azienda di trasporti specializzata nel produrre più debiti che chilometri e più ritardi che posti a sedere decenti, a cui la politica attinge da sempre per spillare prebende e piazzare congiunti, gode di un tale livello di onorabilità che nessuna intervista, per quanti sforzi faccia, sarà mai in grado di peggiorarlo.

La Stampa 26.9.18
A lezione di rivoluzione
Si parte dalla scintilla che ci ha fatto nascere
di Pierdomenico Baccalario e Federico Taddia


Ti sembrerà strano che un libro sulle rivoluzioni abbia una sua legge. Ma anche le rivoluzioni le hanno, soprattutto quelle che funzionano. La stessa parola, rivoluzione, è davvero particolare, perchè può indicare sia la volontà di cambiare qualcosa che non va bene, anche con una certa violenza (come accadde con la Rivoluzione Francese, che forse ti faranno studiare a scuola), sia un cambiamento importante nel modo di vivere delle persone. (...)
La legge di questo libro comprende un po’ tutti e due questi modi di intendere le rivoluzioni: vogliamo che tu ti accorga delle cose che fai, di quelle che sei obbligato a fare, di quelle che si potrebbero fare meglio e che decida quali vuoi «rivoluzionare». Perciò ecco qua. Queste sono le cose che devi essere disposto a fare.
1) Cambiare
Fare le nostre cinquanta piccole rivoluzioni significa fare cose diverse dagli altri, o in modo diverso. Per sentirsi diversi.
2) Non lamentarti
A nessuno piacciono le persone che si lamentano sempre, figurarsi a qualcuno che vuole fare una rivoluzione! Quindi, via le lagne, i pianti, i non so come fare e fuori il sorriso, o, se proprio non vuoi sorridere, almeno una bella faccia decisa.
3) Lavorare insieme
Nelle rivoluzioni non conta tanto il “tu”, quando il “noi”, l’essere insieme, avere amici che si ribellano insieme a te. Le rivoluzioni possono cominciare da una persona sola, ma le rivoluzioni più efficaci non si fanno da soli. Si fanno insieme a chi c’è, non importa se è un ragazzino o una persona adulta. Vedrai. Una volta che inizierai a pensare in modo diverso da tutti gli altri, scoprirai che altre persone cominceranno a pensare come te. E sarà molto, molto divertente: avrai una banda di amici pronti a rivoluzionare il mondo insieme a te. Comincia a pensare al nome che vi darete!
4) Prepararsi agli ostacoli
Forse all’inizio ti prenderanno in giro o ti metteranno i bastoni tra le ruote. Non farci caso. Chi ti prende in giro, in realtà è spaventato dalle tue idee. E se insisti, con calma, senza reagire mai (come i grandi rivoluzionari della Storia), vedrai che, sotto sotto, prima o poi, i tuoi nemici iniziali vorranno far parte della tua banda.
5) Agire
Al lavoro, quindi! Nessuna rivoluzione si fa da sola. Devi cominciare a sporcarti le mani. E ad armarti, delle tue migliori intenzioni.
La rivoluzione da cui sei nato
E ora, senza tanti giri di paro-le, ecco cosa ci aspettiamo che tu faccia oggi: dovrai vincere l’imbarazzo di parlare di come sei nato, e soprattutto perché con i tuoi genitori. Loro faranno di tutto per non rispondere o risponderanno in modo evasivo. Non mollare la presa. Ricorda che nella storia dell’umanità sono vissuti 107 miliardi di uomini: non sei stato né il primo né l’ultimo a nascere! Chiedi i dettagli. Devi sapere che la nascita di un bambino/a scombussola la vita dei genitori. Erano due persone spensierate e felici che si ritrova- no all’improvviso a essere indaffaratissime e ancora felici, ma in modo diverso. E con un sacco di problemi in più. Quindi domanda, ascolta le parole di mamma o papà,guardali in faccia, e se ci sono tutti e due osserva i loro occhi mentre ti parlano e mentre si cercano.Stai assistendo al ricordo di una grande rivoluzione. Abbraccia i tuoi genitori e fai capire loro che hanno avuto davvero un’ottima, ottima idea.
Le qualità rivoluzionarie
1. Disubbidienza.Alle regole poco intelligenti e alle abitudini sciocche quando diventano una stupida moda.
2. Proteggere il pianeta. Con comportamenti ecologici, sostenibili, che fanno risparmiare soldi ed energia. Si consuma meno e meglio.
3. Fare per aiutare. Si sbaglia, si ricomincia, si ascolta, si impara, si insegna. E si ricomincia.
4. Meno è meglio. Molte delle cose che ci circondano sono comode, belle, e le vogliamo anche solo per questo. Ma tutto sommato non servono a niente. Avere meno per apprezzare di più
5. Conoscere e informare. Si impara quando si ficca il naso in una cosa e si capisce come funziona. Quando si cercano notizie buone e ci si informa. La curiosità è l’antidoto alle bufale.

La Stampa 26.9.18
Dispositivo “salva-bebè” obbligatorio da luglio 2019
La legge porta la firma della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni
di Andrea Carugati


Le stime indicano che nel mondo, negli ultimi 20 anni, sono morti almeno 600 bambini dimenticati in auto dai genitori. In Italia una decina di vittime nell’ultimo ventennio, l’ultima una bimba di un anno, a maggio, vicino a Pisa. La causa? Gli esperti la chiamano amnesia dissociativa. Un vuoto di memoria, causato il più delle volte dalla stress o dalla fretta. Tragedie che dal prossimo luglio potranno essere evitate, grazie alla legge approvata ieri in via definitiva dal Senato (con una sola astensione). Dal primo luglio del 2019 le auto che trasportano bambini di età inferiore ai 4 anni dovranno essere equipaggiate con un dispositivo elettronico che segnala la presenza dei bimbi sui seggiolini. Il provvedimento modifica l’articolo 172 del Codice della strada.
Prevista campagna informativa
In particolare, inserisce tra le fattispecie sanzionate per il mancato uso delle cinture di sicurezza e dei sistemi di ritenuta per i bambini, anche l’assenza di un congegno di allarme. La violazione sarà punita con una multa da 81 a 326 euro e, in caso di recidiva, è prevista la sospensione della patente da 15 giorni a due mesi.
La legge porta la firma della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, visibilmente soddisfatta: «Di tutte le cose che ho fatto nella mia vita politica è forse la più importante. Se alla fine riusciremo con questa norma a salvare un solo bambino sarà valso tutto l’impegno politico che abbiamo alle spalle. Ne valeva la pena». La legge demanda la definizione delle caratteristiche tecnico-costruttive e funzionali del sistema di allarme a un decreto del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che dovrà essere varato entro sessanta giorni. Prevista anche una campagna informativa (che sarà curata dal Mit) sul nuovo obbligo, sulle corrette modalità di utilizzo dei dispositivi e sui rischi derivanti dall’amnesia dissociativa. Il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli annuncia che nella legge di Bilancio «stanzieremo le risorse necessarie a prevedere un credito d’imposta che aiuti economicamente le famiglie nell’acquisto di questi dispositivi salva-bebé. Perché è giusto che lo Stato tuteli la sicurezza dei propri cittadini».
Dallo scorso maggio è già in commercio un seggiolino dotato di sensori anti-abbandono collegati allo smartphone dei genitori. Esiste anche un tappetino dotato di sensori che può essere appoggiato sui “vecchi” seggiolini già in uso: si collega via bluetooth agli smartphone dopo aver scaricato un’apposita App. Se il bimbo viene dimenticato in auto, il sistema invia notifiche e sms d’emergenza ai genitori.

Repubblica 26.9.18
"Ecco perché il nostro cervello è una macchina del tempo"
Dean Buonomano, neuroscienziato a Los Angeles, ha scoperto l’orologio che si nasconde nelle cellule cerebrali
di Elena Dusi


Per i suoi primi esperimenti su come funziona il cervello, Dean Buonomano " sfruttò" la sorellina, più piccola di 9 anni, mentre cresceva e scopriva il mondo. Oggi, a 53 anni, diventato professore di Neurobiologia e Psicologia all’Università della California a Los Angeles, ha scelto di concentrarsi sulla parola più usata nella sua lingua: time. Il tempo. Fisica, filosofia, tecnologia: il concetto ha moltissime declinazioni. E Buonomano non sfugge a nessuna di esse nel libro Il tuo cervello è una macchina del tempo ( Bollati Boringhieri, 332 pagine, 24 euro). Come prisma per scomporre l’idea prende una frase di Santiago Ramón y Cajal, spagnolo, Nobel per la medicina nel 1906: « Fino a quando il cervello resterà un mistero, anche l’universo – che ne riflette la struttura – resterà un mistero».
Perché ha scelto queste parole come motto del suo laboratorio?
« Amo questa citazione. Fa capire quanto sia importante studiare il cervello, che poi vuol dire studiare noi stessi. Tutto quel che conosciamo ( o pensiamo di conoscere) viene filtrato da questo organo. Le neuroscienze, se ci pensiamo, sono l’unico settore in cui l’oggetto dello studio è anche ciò che compie l’atto di studiare».
Lei ha scoperto che il cervello è un magnifico orologio. Cosa ha osservato esattamente?
« Abbiamo coltivato dei neuroni in laboratorio e abbiamo osservato che anche in quelle condizioni, in coltura, sono capaci in un certo senso di misurare il tempo. L’ipotesi di partenza era che contare i secondi e i millisecondi è talmente importante che alcuni circuiti cerebrali si sono specializzati per compiere l’operazione».
Perché dobbiamo per forza tenere il tempo?
« Pensiamo a un gatto che spicchi un salto per catturare un uccello in volo. Tutti i predatori devono essere capaci di calcolare il tempo al millisecondo».
Ci sono poi i ritmi circadiani.
« Un esperimento illustra benissimo la loro importanza. Alcuni scienziati hanno preso due ceppi di batteri, uno con un orologio interno tarato sulle 23 ore e un altro sulle 30 ore. Quando li hanno messi nello stesso vetrino, si sono accorti che solo il primo ceppo era sopravvissuto. Allora hanno provato a regolare le lampade del laboratorio in modo che luce e buio si alternassero ogni 30 ore. In questo caso solo il secondo ceppo riusciva a sopravvivere ».
Perché?
« Pensiamo a un batterio che viva grazie alla fotosintesi. Ha bisogno di sapere che ora del giorno sia per preparare in anticipo il suo apparato biochimico ed essere efficiente al massimo già al sorgere del Sole. Lo stesso vale per le cellule del nostro corpo. Devono anticipare tutti i cambiamenti fisiologici che avvengono durante il giorno, inclusi il dormire e il mangiare».
Come si fa a immaginare un orologio dentro al cervello?
«In effetti è molto diverso dagli orologi che usiamo nel mondo esterno. Possono essere più o meno precisi, ma tutti si basano su uno stesso principio: qualcosa oscilla e qualcos’altro conta il numero di oscillazioni. Il cervello sa se è giorno o notte, ma non sa contare quante volte il ciclo si è ripetuto. Non sa quanti giorni sono passati. Non capiamo esattamente come il suo meccanismo funzioni, ma immaginiamo che abbia a che fare con una variazione dello stato di attività dei neuroni. Il domino può aiutarci a capire, anche se è un esempio molto semplificato. Se ogni tessera del domino cade dopo un secondo, quando cade la decima tessera sappiamo che sono passati dieci secondi. Anche i neuroni formano delle catene e si attivano in sequenza. Sempre semplificando molto, il cervello sa quanto tempo è passato in base a quale neurone è attivo in quel momento».
Tutti gli esseri viventi hanno un orologio interno, ma solo gli uomini sembrano dotati di un concetto di futuro. È una fortuna o uno svantaggio, dal punto di vista evolutivo?
« Entrambe le cose. Immaginare il futuro ha dato agli umani poteri impensabili. Li ha resi capaci di costruire strumenti e piantare semi. Agire oggi per avere risultati fra settimane, mesi o anni è una capacità che non si riscontra negli animali. D’altra parte, se ci spingiamo lontano nel futuro con la nostra immaginazione non possiamo che vedere la nostra morte. La preveggenza ha i suoi svantaggi. Detto ciò, è giusto preoccuparsi per il futuro, ma non dobbiamo dimenticare di godere anche il presente. Molti di noi forse si preoccupano troppo per quel che sarà».
Perché ha scritto un libro sul tempo quando alcuni fisici sostengono che il tempo non esista nemmeno?
« Alcuni fisici sostengono che il tempo non sia una proprietà fondamentale, nella loro disciplina. Ma spesso si fa molta confusione, perché la parola tempo viene usata per indicare concetti diversi. Gli esperimenti sulla Relatività ci hanno portato a ipotizzare che viviamo in un universo a quattro dimensioni, in cui il passato, il presente e il futuro sono ugualmente reali. Ma non esiste un’evidenza scientifica a questo proposito. In fondo, non siamo sicuri che l’"adesso" sia davvero speciale come lo è il "qui"».

Repubblica 26.9.18
Maestri. Noam Chomsky
Trump e il populismo. Le politiche neoliberiste e le insufficienze della sinistra. Il ruolo degli intellettuali. Mentre esce il suo nuovo libro e alla vigilia dei novant’anni, Noam Chomsky parla a tutto campo
"La xenofobia non è un affare linguistico"
"Non siamo tornati all’epoca pre-fascista ma quel che sta accadendo è terribile"
intervista di Antonello Guerrera


Professor Chomsky, lei compirà 90 anni il 7 dicembre prossimo. Alla luce della sua lunga e straordinaria carriera, c’è qualcosa di cui va particolarmente fiero? O di cui si rammarica? «Non perdo tempo a pensare a queste cose».
Sarà anche per questo che la sua bibliografia ormai ha sfondato quota 150 pubblicazioni e lei continua a girare il mondo per conferenze e dibattiti.
«E questo la stupisce così tanto? C’è sempre tanto lavoro appassionante da fare nei campi intellettuali che più mi interessano. Non si può indugiare sui problemi urgenti che l’umanità deve fronteggiare in questi tempi inquietanti, ma anche promettenti».
Noam Chomsky non cambia e soprattutto non molla mai. Il "padre della linguistica moderna", sociologo, scienziato cognitivista, storico, filosofo, attivista-guru di vecchi e giovani, risponde dal Sudamerica, dove è stato in questi giorni per un tour di conferenze. In Italia, nel frattempo, è arrivata la sua ultima opera Il mistero del linguaggio. Nuove prospettive
(Raffaello Cortina), che raccoglie suoi scritti e discorsi inediti, tenuti anche nel nostro Paese.
Chomsky, quali sono le prospettive del linguaggio politico oggi, tra social media, populisti e nuove forme di propaganda?
«C’è stata una volgarizzazione da parte dei demagoghi che sperano di ottenere consenso agitando paure, risentimento, rabbia. Da queste torsioni del linguaggio nascono il rifiuto dei fatti, della verità, della conoscenza e della scienza. È il turno della "falsa realtà", per dirla alla Jared Kushner, il genero di Donald Trump. Il concetto di verità è sempre stato messo in pericolo, soprattutto dai regimi totalitari, le cui pratiche a volte vengono ripetute in quest’epoca dove le istituzioni politiche tradizionali paiono sull’orlo del collasso».
Sul demagogo Trump si è detto di tutto: da "stupido e distratto" a essenziale campione della comunicazione.
«Trump è un politico molto efficace, che gioca su due tavoli di elettorato: da una parte le grandi aziende e i super ricchi, dall’altra il "popolo" che lui dice di difendere.
Le sue buffonate sono perfette per tenersi stretto il secondo elettorato (vedi i proclami contro le élite), ma le sue politiche economiche favoriscono evidentemente i paperoni. Finora, da questo punto di vista, la sua propaganda ha raggiunto risultati di cui ogni demagogo dovrebbe essere fiero».
Tra un po’ nel suo Paese si vota per le elezioni di medio termine.
«Saranno decisive per gli Stati Uniti. I repubblicani vogliono imporre sempre più il loro capitalismo selvaggio, maciullare il poco welfare rimasto e lanciare l’assalto finale all’ambiente. E poi c’è il pericolo della guerra nucleare. Se i repubblicani riescono a conservare la maggioranza al Congresso, subiremo tutti catastrofiche conseguenze».
Intanto le destre populiste e xenofobe avanzano ovunque.
«Non siamo tornati all’epoca pre-fascista degli anni Trenta, ma quel che sta accadendo è terribile.
Bisogna riformare l’ordine sociale con equità e giustizia, sulla base dell’analisi razionale , tutte cose minacciate da queste pericolose entità politiche».
I movimenti di destra radicale hanno lanciato da anni una crociata contro il "politicamente corretto", da loro considerato un ostacolo alla libertà di espressione.
«Non cadiamo in questa truffa! Non nego che a volte il politically correct sia esagerato, ma chi lo accusa molto spesso lo fa perché deve coprire i suoi istinti razzisti, sessisti e patologie simili».
In ogni caso, i linguaggi xenofobi e offensivi di alcuni politici sembrano sdoganare e legittimare atteggiamenti sempre più apertamente razzisti che, in alcuni casi, possono sfociare anche in aggressioni fisiche, come contro i migranti.
«Il fenomeno è reale, ma non lo confinerei su un piano linguistico. I programmi neoliberali della generazione precedente hanno aumentato le disuguaglianze a favore dei più ricchi. Lo ha scritto anche l’economista francese Thomas Piketty: "Una società che non riesce a generare crescita per più della metà della sua popolazione, e per un’intera generazione, è destinata a provocare insoddisfazione verso lo status quo e il rifiuto dell’establishment politico. Questo ha comportato un declino nel funzionamento della democrazia.
In più c’è stato un sostanziale aumento di tutte quelle entità rapaci e improduttive legate alla finanza globale. I demagoghi hanno avuto vita facile a prendere le parti degli "esclusi", dei "dimenticati", individuando allo stesso tempo capri espiatori come i migranti. Ma le armi per combattere questa deriva non possono essere linguistiche.
Bisogna cambiare le politiche socioeconomiche neoliberiste del secolo scorso, che sono alla base di questa rabbia».
La sinistra, sempre più in affanno in Occidente, che ruolo può avere in tutto questo?
«L’establishment politico centrista spesso chiamato "sinistra" (come i democratici Usa, i Labour in Regno Unito, i socialdemocratici in Europa) si è piegato all’ordine neoliberale voluto dalla destra e delle elite del secolo scorso. Quello di cui ha bisogno adesso la sinistra sono nuove forze politiche e sociali per combattere questo status quo ingiusto. Bisogna ripartire dai Sanders, dai Corbyn e gli altri: adesso sono molto più organizzati che in passato».
Lei si è spesso definito anarchico. Lo è ancora a quasi 90 anni?
«Credo che la gerarchia e il dominio non si giustifichino da soli. E quando non riescono ad avere una giustificazione dovrebbero essere smantellati in favore di una società più equa e giusta: è il principio fondamentale del pensiero anarchico».
Una delle sue opere più famose è la "The Responsibility of intellectuals". Oggi spesso gli intellettuali sono considerati indifferenti verso questa attuale metamorfosi sociale e politica dell’Occidente. È d’accordo?
«Non credo che in passato le cose fossero molto diverse da oggi. Gli intellettuali scrivono la storia, perciò spesso sembrano avere un ruolo nobile. Ma la realtà è diversa.
Il termine intellettuale come lo conosciamo oggi cominciò a diffondersi durante il processo Dreyfus. Oggi i difensori di Dreyfus contro nazionalisti, clericali e antisemiti sono considerati uomini d’onore ma all’epoca vennero messi all’indice dall’establishment intellettuale perché rappresentavano una minaccia per " la grande istituzione Francia". Difatti Émile Zola venne costretto a lasciare il Paese. Questo è uno schema che da allora si è spesso ripetuto, anche durante la Guerra del Vietnam nei confronti di quei pochi dissidenti che chiedevano conto alle autorità. Un modello che persiste ancora oggi. E le eccezioni sono rare».

Repubblica 26.9.18
"L’origine del mondo"? Adesso ha anche un volto
Claude Schopp ha ricostruito l’identità della modella che posò per l’opera scandalosa di Courbet
di Anais Ginori


Constance Quéniaux: sarebbe lei la modella di Courbet. La cita Alexandre Dumas figlio in una lettera a George Sand; in basso, L’origine del mondo (1866); un ritratto di Joanna Hiffernan, finora considerata la modella di Courbet; la copertina di Paris Match, che al tema aveva dedicato un’inchiesta nel 2013

PARIGI Tutti la conoscono ma nessuno la conosce veramente. Il favoloso destino di Constance Quéniaux era nascosto dentro a uno dei quadri più famosi del mondo. La ballerina dell’Opéra, si scopre adesso, è la donna che ha ispirato L’origine del mondo.
A rivelarlo è il ricercatore francese Claude Schopp, specialista dei Dumas, che, conducendo gli studi sulla corrispondenza tra il figlio dell’autore de I tre moschettieri e George Sand, ha trovato per caso un’allusione al dipinto di Courbet accompagnata dal nome della modella ritratta.
Incuriosito dalla citazione, Schopp ha cominciato una lunga indagine alla Bibliothèque Nationale, incrociando documenti storici, archivi dell’epoca e ha ricevuto la conferma della direttrice del dipartimento stampe e fotografie della Bnf.
«Al 99 per cento», sostiene lo studioso, quel corpo scandaloso, che tutti oggi possono ammirare al Museo d’Orsay, è quello della ballerina.
Finora si era ipotizzato che ad aver posato per il dipinto del 1866 fosse stata la modella bohémienne irlandese Joanna Hiffernan, detta anche Jo l’Irlandese, amante di Courbet che la elesse a sua musa ispiratrice per diversi suoi dipinti. C’era chi aveva disquisito sulla folta capigliatura rossa di Hiffernan che non era in tono con i peli castani sul pube della donna raffigurata.
Nel caso di Quéniaux, la folta capigliatura mora visibile sulle fotografie dell’epoca – tra cui alcuni ritratti sublimi di Nadar – non lascia dubbi.
Il mistero di quel corpo appassiona da 152 anni. In L’origine du monde, vie du modèle, saggio in uscita il 4 ottobre, Schopp ritiene che la soluzione dell’enigma sia contenuta in una lettera che Dumas figlio inviò a Sand nel giugno del 1871, nella quale si parlava proprio di Courbet e di un non precisato "interno" di "Mlle Quéniaux de l’Opéra". Dumas aveva rapporti difficili con Courbet e probabilmente ha voluto vendicarsi.
Nel 1866, la ballerina aveva 34 anni e non danzava più da sei.
Figlia di analfabeti, era riuscita a entrare nel corpo dell’Opéra senza però ottenere il successo che sperava. Quéniaux conduceva una vita "galante", come si diceva all’epoca. Era una delle prostitute del demi- monde di Parigi. Ed è così che divenne l’amante dell’ambasciatore ottomano Halil Sherif Pasha (1831-1879), noto anche come Khalil Bey. Il diplomatico turco-egiziano è stato il committente de L’origine del mondo.
La storia della ballerina, però, non finisce con quel quadro.
Anzi, Quéniaux riesce ad emanciparsi dalla sua condizione di mantenuta. Con i soldi che ha guadagnato, finanzia opere di bene come l’Orphelinat des arts dove vengono accolti i bambini abbandonati da artisti.
Sfidando i tabù dell’epoca, da prostituta si trasforma in filantropa. Frequenta musicisti, attrici, organizza salotti culturali nella lussuosa villa di Cabourg. Quéniaux riesce a costruirsi un nuova immagine, viene rispettata nelle cene mondane. Ed è forse per questo che non rivendicherà mai di essere stata la modella di Courbet.
Un solo, piccolo indizio avrebbe potuto tradirla. Dopo la morte nel 1908, a 76 anni, senza figli, lascia in donazione un quadro di Courbet.
Una composizione di fiori primaverili accompagnati da camelie bianche e rosse: il simbolo delle cortigiane nell’opera di Dumas figlio.

il manifesto 26.9.18
«Cittadini con il vizio di origine, il decreto Salvini è incostituzionale»
Lorenza Carlassare. Nel testo del decreto sicurezza vedo norme eterogenee, discriminazione sulla base della provenienza, violazione del principio di uguaglianza e del diritto alla difesa
di Andrea Fabozzi


Professoressa Lorenza Carlassare, come giudica il decreto «sicurezza»?
La prima considerazione critica riguarda la mancanza di omogeneità nel testo. La Corte costituzionale ha sempre detto che ci vuole omogeneità nei contenuti di un decreto legge, mentre questo di Salvini mette assieme cose diverse. Nella seconda parte, quella più propriamente sulla sicurezza, accanto a misure da rifiutare, come l’allargamento nell’impiego della pistola elettrica, ci sono anche cose che possono essere interessanti, per esempio tra le misure antimafia. Aggiungo che, come ha già osservato il professor Flick, l’accostamento tra migranti, terroristi e mafiosi è parecchio malizioso. Il decreto non è solo eterogeneo, vuole anche suggerire che i migranti sono pericolosi e questo è inaccettabile. Ecco, la prima cosa da dire è che avrebbero dovuto essere almeno due decreti, come del resto era previsto in origine.
Secondo lei il decreto è incostituzionale?
Sul punto delle revoca della cittadinanza penso proprio di sì. Intendiamoci, nel momento in cui uno straniero acquista la cittadinanza è cittadino italiano come gli altri. Invece questo decreto è come se gli attribuisse un vizio di origine. Prevede che alcune categorie e solo loro possono perdere la cittadinanza, così pone in essere una discriminazione effettiva e ingiustificata sulla base della provenienza. Questo è sicuramente incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza.
Le sembra violato anche l’articolo 22 per il quale «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome»?
Se ne può discutere. La condanna per terrorismo non può essere considerata come un motivo politico. Ma è certamente politica la selezione di una categoria di cittadini che può perdere la cittadinanza, in conseguenza di queste condanne.
Il decreto prevede anche l’espulsione immediata per il richiedente asilo prima della condanna definitiva, questo viola la presunzione di innocenza?
A mio modo di vedere è soprattutto una violazione del diritto alla difesa, articolo 24 della Costituzione. Essere espulsi condiziona moltissimo, anzi praticamente impedisce la possibilità di difendersi in tribunale. A pensarci bene anche questa disposizione può rappresentare una forma di discriminazione, quindi un’altra violazione del principio di uguaglianza, perché la presunzione di innocenza viene fatta valere meno per una certa categoria di persone, i richiedenti asilo.
Il prolungamento fino a 180 giorni della detenzione amministrativa è costituzionale?
In questo caso prima ancora che dal punto di vista giuridico c’è molto da eccepire dal punto di vista umano. Il mio problema non sono tanto i giorni in più o in meno di questa detenzione, ma le condizioni disumane in cui queste persone sono tenute. È gravissimo come stanno, non quanto ci stanno. La Costituzione impone il rispetto della persone, la dignità umana è il suo cuore. Anche una persona sottoposta alla limitazione della libertà deve avere garantito un trattamento rispettoso e umano, a maggior ragione chi non sta scontando alcuna pena. La Costituzione non distingue neppure tra cittadini e stranieri, la dignità è un diritto universale.
Le giro una obiezione renziana: perché voi professori del no alla riforma costituzionale, malgrado le scorribande di Salvini, avete smesso di denunciare la “deriva autoritaria”?
Per adesso la Costituzione non è stata toccata, anzi le proposte di cui ha parlato il ministro Fraccaro mi sembrano condivisibili anche perché puntuali. Una legge incostituzionale può sempre essere bloccata dalla Corte costituzionale, mentre se si cambia la Costituzione non c’è rimedio. All’obiezione rispondo per quello che riguarda me: se dovesse esserci un attacco alla Carta del genere di quello portato dal Pd nella scorsa legislatura, Renzi stia tranquillo che insorgerò. Vale anche per modifiche alla legge elettorale che cambiano nella sostanza la rappresentanza e la forma di governo, come quelle che hanno proposto e realizzato i renziani. Che anche per questo portano una responsabilità per la situazione attuale.

il manifesto 26.9.18
Migranti, da Zagrebelsky e Libertà e Giustizia appello al dissenso M5S


«Tra le molteplici aberrazioni giuridiche, colpisce in particolare quella che prevede la revoca della cittadinanza come sanzione per la commissione di determinati reati» scrivono Gustavo Zagrebelsky, Tomaso Montanari, Sandra Bonsanti, Lorenza Carlassare, Paul Ginsborg, Francesco Pallante, Valentina Pazé, Elisabetta Rubini, Salvatore Settis e Nadia Urbinati in una nota di Libertà e Giustizia sul decreto Salvini.«Discriminare all’interno della cittadinanza – aggiungono – significa creare un ordinamento separato sulla base dell’appartenenza etnica. D’ora innanzi, alcuni saranno cittadini; gli altri sudditi. Ancor prima che questione di violazione dell’ordinamento giuridico internazionale, europeo e italiano, è questione di uscita dalla civiltà giuridica contemporanea. Colpisce la totale sudditanza alla Lega del M5S, ci rivolgiamo a tutti coloro che nel Movimento erano sinceri nel difendere la Costituzione nel 2016: è il momento di far sentire la vostra voce di dissenso, perché ora è la democrazia ad essere in gioco».

Il Fatto 26.9.18
Libertà e Giustizia: “Sulla cittadinanza sudditanza M5S”


“La revoca della cittadinanza come sanzione per la commissione di determinati reati”, di terrorismo o assimilati, è “una previsione che, colpendo una parte soltanto della popolazione (i cittadini non per nascita), frantuma la nozione di cittadinanza, vale a dire il fondamento stesso dello Stato costituzionale”. Lo scrive Libertà e Giustizia in una nota sul decreto Salvini a firma di Sandra Bonsanti, Lorenza Carlassare, Paul Ginsborg, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Valentina Pazè, Elisabetta Rubini, Salvatore Settis, Nadia Urbinati e Gustavo Zagrebelsky. “ Discriminare all’interno della cittadinanza, dando vita a posizioni giuridiche tra loro diseguali, significa creare un ordinamento separato sulla base dell’appartenenza etnica. Alcuni saranno cittadini; gli altri sudditi”. Per Libertà e Giustizia è “questione di uscita dalla civiltà giuridica contemporanea. Colpisce la totale sudditanza alla Lega del Movimento 5 Stelle (…). Ci rivolgiamo a tutti coloro, che nel Movimento, erano sinceri nel difendere la Costituzione, e che oggi non possono non soffrire, vedendola calpestata da un governo anche loro: è il momento di far sentire la vostra voce di dissenso, ora è la democrazia ad essere in gioco”.

Repubblica 26.9.18
L’alleanza gialloverde
Crisi di nervi in casa m5s
di Piero Ignazi


Il Movimento 5 Stelle è un partito sull’orlo di una crisi di nervi. Si rende conto, ogni giorno che passa, di essere impreparato a governare, esattamente come era successo alla sindaca Raggi. Le complessità e le interdipendenze di un Paese industriale ( ancora) avanzato, inserito in un sistema di relazioni internazionali politiche, economiche e militari, infrangono il semplicismo con cui sono stati affrontati i problemi nei vari talk show, unico luogo pubblico frequentato dai grillini, vista l’assenza di contradditorio (e sarebbe ora di cambiare registro).
Le indicazioni fornite in campagna elettorale per giustificare i loro costosissimi progetti peccavano di precisione e rigore, ma in quelle circostanze nessuno brilla per accuratezza.
Era ipotizzabile, e sperabile, che dietro i fuochi di artificio dei politici ci fosse qualche esperto che aveva preparato un piano attuabile; e la presenza di un brillante giovane economista come Andrea Roventini, indicato quale futuro ministro del Tesoro, tranquillizzava.
Così come il doppio linguaggio adottato spesso da Di Maio, arrembante di fronte alle folle, ma rassicurante al cospetto di platee composte. Ora questa ottimistica interpretazione sta mostrando la corda. Il "capo politico" del M5S non sembra in grado di gestire gli oneri del governo e nemmeno quelli della direzione politica. Del resto, se non c’è riuscito uno come Renzi...
Di Maio soffre sul versante del governo perché non dispone delle competenze giuridico- economiche necessarie per far avanzare il diamante della corona pentastellata, il reddito di cittadinanza.
Di fronte ai rilievi tecnici, se ne esce con espressioni sconfortanti di infantilismo politico — «dateci i soldi» — in linea con quelle, più grevi, veicolate da un personaggio televisivo transitato al governo ( uno scambio di ruoli, lascito grazioso del berlusconismo). Nel corpo a corpo con la burocrazia ministeriale che, e questo è vero, spesso agisce da freno per pura reazione pavloviana di rigetto a fronte di qualunque innovazione, Di Maio agisce in maniera irruenta, e alla fine inefficace. In questo modo, non solo Di Maio rischia di perdere la sua battaglia decisiva, ma incrina anche quella immagine composta e tranquillizzante che gli ha portato molti consensi.
Il nervosismo del leader pentatellato è poi acuito dalla competizione con Salvini. Sono bastate poche settimane perché emergesse in maniera clamorosa il differenziale di esperienza tra leghisti e grillini.
Il sorpasso della Lega nei consensi dell’elettorato investe direttamente Di Maio quale leader del Movimento.
Per ora tutto tace, a parte le sortite del presidente della Camera, Roberto Fico, che però non smuove ancora nulla nel partito. Tuttavia, cresce la sensazione di essere in trappola. Del resto, il M5S ha voluto governare a tutti i costi, anche con il partito più lontano dai suoi programmi, ad eccezione, e solo in parte, della politica sui migranti; e non si è reso conto delle incomparabilmente maggiori risorse politiche della Lega — governo dei territori, classe politica sperimentata, relazioni con le associazioni di interessi — e, soprattutto, della sua ventennale abilità nell’usare il doppio registro di partito di lotta e di governo.
In una situazione come questa, il M5S può avere la tentazione di rovesciare il tavolo se non ottiene qualcosa che possa "vendere" come reddito di cittadinanza; se ci riesce, gratifica, e quindi consolida, il suo elettorato, in particolare al Sud, e l’alleanza regge.
In caso contrario, prende corpo la tentazione di un rilancio del massimalismo, senza freni: uno scenario peronista, al centro del quale non potrà che esservi il rientrato Di Battista.
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Il leader del Movimento non è capace di gestire gli oneri del governo e nemmeno quelli della direzione politica
Piero Ignazi è professore di Politica comparata presso l’Università di Bologna Il suo ultimo libro è "I muscoli del partito" (Il Mulino, 2018) scritto con Paola Bordandini

Il Fatto 26.9.18
Politico.eu: sabato a Roma Bannon ha incontrato Di Maio


Steve Bannon avrebbe incontrato sabato il leader dei Cinque Stelle, nonché vicepremier, Luigi Di Maio. A scriverlo è il sito Politico.eu, che sostiene che a raccontare di questo incontro sarebbero state due persone: un deputato del Movimento e una fonte vicina allo stesso ex guru di Donald Trump. La notizia non è stata smentita. Bannon era a Roma per partecipare ad Atreju. Per adesso al suo “The Movement”, ha aderito formalmente Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia, mentre Matteo Salvini si è avvicinato in maniera ancora informale. All’appello mancano i Cinque Stelle: Bannon stava cercando un contatto da mesi. E a questo punto sarebbe arrivato. L’incontro con Di Maio sarebbe stato “costruttivo”: ma se alla fine il Movimento diventerà parte organica del processo sovranista è tutto da vedere. Al Parlamento europeo, la Lega siede nel gruppo Europa delle Nazioni e delle libertà, mentre i Cinque Stelle stanno con l’Ukip di Nigel Farage (gruppo destinato a scomparire, con la Brexit). Come si presenteranno alle elezioni del 2019 è tutto da vedere.

Il Fatto 26.9.18
Comitato democrazia: “Decreto incostituzionale”


“Il provvedimento su immigrazione e sicurezza è incostituzionale, inutile e dannoso; la sua emanazione come decreto legge può provocare guasti a cui sarà difficile porre riparo”. La critica al decreto sull’immigrazione voluto da Matteo Salvini, arriva dal “Coordinamento per la democrazia liberale”, comitato nato per il “no” alla riforma costituzionale del governo Renzi. “L’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari – è scritto in una nota firmata, tra gli altri, dall’ex sottosegretario all’Economia Alfiero Grandi e il magistrato Domenico Gallo – è mirata specificamente a sgonfiare il volume dei permessi di soggiorno, creando una serie di drammi personali (…). L’unico effetto reale sarà l’allargamento dell’area della clandestinità: ciò comporterà l’incremento di una popolazione di persone senza diritti, impossibilitate a lavorare e costrette al lavoro schiavile, facile preda della criminalità”. “Parimenti incostituzionale – continua la nota – è la norma che prevede la sospensione della procedura d’asilo ed il rimpatrio del richiedente asilo che abbia subito una condanna in primo grado: è contraria alla presunzione di non colpevolezza e al principio che la difesa è diritto inviolabile”.

il manifesto 26.9.18
«Così i migranti saranno sempre più ricattabili, anche se sono in regola»
Salvatore Fachile (Asgi). «Si accomunano i migranti ai criminali per giustificare l’uso del provvedimento di urgenza. E si inseriscono norme che limitano senza motivo e loro diritti»
di Carlo Lania


«Giuridicamente il decreto Salvini è in perfetta continuità con il precedente decreto Minniti ma in più punta rendere sempre più precaria e ricattabile la vita dei migranti presenti in Italia, anche se sono in possesso della protezione internazionale o addirittura della cittadinanza». Avvocato dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, Salvatore Fachile non nasconde la preoccupazione per le possibili conseguenze del provvedimento su immigrazione e sicurezza varato lunedì dal consiglio dei ministri.
Nel decreto si mettono insieme migranti e terroristi.
Ovviamente i migranti vengono trattati come un fenomeno criminale, ma la cosa che colpisce di più è l’uso della decretazione di emergenza per un fenomeno che nel corso dell’ultimo anno ha subito un calo dell’80%. I migranti vengono strumentalizzati associandoli a fenomeni pericolosi o di emergenza che devono essere oggetto di grande attenzione mediatica e affrontati con l’uso di provvedimenti eccezionali. Questo si vede nell’uso dello strumento scelto, il decreto, ma anche in una serie di norme che vengono varate, alcune delle quali sono apertamente incostituzionali e altre, che definirei inopportune, che limitano i diritti dei cittadini stranieri e lo fanno soprattutto senza una ragione.
Cosa comporterà l’abrogazione della protezione umanitaria?
Realisticamente un piccolo aumento del numero delle protezioni sussidiarie riconosciute, che oggi rappresentano una percentuale bassissima, ma nello stesso tempo moltissime persone che oggi sono perfettamente integrate e non rappresentano nessun allarme per l’ordine pubblico diventeranno irregolari.
E’ prevista anche la possibilità di revocare l’asilo in caso di condanna.
Non si fa altro che amplificare una norma già esistente rendendo più semplice sia il diniego che la revoca della protezione internazionale inserendo delle ipotesi di reato meno gravi rispetto a quelle previste oggi per poter procedere con la revoca. Come ad esempio alcune ipotesi di furto aggravato o la minaccia a pubblico ufficiale. In questo modo si rende ancora più precaria e più ricattabile la vita delle persone anche quando ottengono la protezione oppure la cittadinanza. Non si è mai al sicuro.
Si limita l’accesso al sistema Sprar ai soli titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati. I richiedenti asilo finiranno nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria. Non si rischia di creare quelle megaconcentrazioni di migranti criticate in passato anche dalla Lega?
L’intento normativo è proprio quello: abbandonare il modello di accoglienza Sprar basato su numeri piccoli e sdoganare senza più alcun limite normativo l’accoglienza dei grandi luoghi, permettendo una maggiore possibilità per i prefetti di gestire direttamente i fondi legati all’accoglienza e la logistica. Attenzione: non stiamo parlando di una misura che tende al risparmio, perché i costi saranno gli stessi. In più la possibilità di creare grandi agglomerati di cittadini stranieri avrà come conseguenza l’aumento di tensioni con le popolazioni locali.
Nel decreto è prevista la possibilità di revocare la cittadinanza ai cittadini stranieri. Così non si crea una disparità di trattamento con gli italiani?
E’ una misura con forti profili di incostituzionalità che ancora una volta punta a rendere sempre ricattabile il cittadino straniero. Ma voglio sottolineare un altro aspetto preoccupante contenuto nel decreto, e che riguarda la procedura di frontiera e la detenzione. E’ il settore in cui più è stata forzata la mano. Tutte le persone che arriveranno alla frontiera, dall’aeroporto a Lampedusa, potranno essere detenute fino a sei mesi, anche negli hotspot, solo a fini identificativi. In questo modo tutti gli hotspot diventeranno delle carceri. Per queste persone è prevista una procedura accelerata che limita tantissimo il potere di ricorso. Significa di fatto non dargli la possibilità di parlare con un avvocato e di ricevere le informazioni a cui hanno diritto. Avere una procedura normale per la richiesta di asilo diventerà un privilegio per pochi, mentre la maggior parte delle persone verranno giudicate in maniera sommaria alla frontiera e per di più in stato di detenzione.

La Stampa 26.9.18
Mozione pro Orban, la giravolta del M5S
Testo con la Lega per obbligare Conte a rimettere in discussione le sanzioni a Bruxelles
di Jacopo Iacoboni


Un Movimento 5 stelle anti-Orban al Parlamento europeo e - incredibile - pro Orban in quello italiano. Del resto Beppe Grillo l'aveva detto, «noi siamo un po’ Dc, un po’ di destra, un po’ di sinistra. Possiamo adattarci a ogni cosa». E avremmo dovuto prenderlo alla lettera.
Il 12 settembre scorso, come noto, il Movimento 5 stelle ha votato contro Viktor Orban al Parlamento europeo, o meglio, a favore dell’attivazione dell’articolo 7 del Trattato europeo (che prevede la possibilità di comminare sanzioni gravi contro gli Stati che non rispettano i valori fondanti dell’Unione). La cosa fece notizia. Tornò a echeggiare le tesi propagandistica, cara a tanti in Italia, «in fondo sono più vicini al centrosinistra». In realtà il Movimento di Davide Casaleggio votava diversamente dal suo alleato naturale (la Lega) non perché ritenesse xenofobe le politiche di Orban sui migranti, ma perché «solo noi difendiamo gli italiani». Insomma, era un voto per propagandarsi più nazionalisti dei nazionalisti; un voto da nazionalisti italiani contro i nazionalisti ungheresi.
Alessandro Di Battista, due giorni prima, lo disse esplicitamente: «Le politiche migratorie di Orban vanno contro gli interessi italiani, quindi Orban non può essere mio alleato». Il sottosegretario alla Farnesina, Manlio Di Stefano, grande estimatore di Vladimir Putin, proclamò: «Non ci schieriamo contro l’Ungheria ma a favore degli italiani. Per noi Orban è come Macron, entrambi mettono i loro interessi politici personali davanti al benessere collettivo minacciando la tenuta stessa dell’Unione Europea». Il gruppo M5S in Europa emise un comunicato: «Per noi Orban, Macron, Merkel sono fatti della stessa pasta. Il M5S difende gli italiani». Italians first; stile Donald Trump. Secondo le procedure dell’articolo 7 del Trattato toccherà comunque al Consiglio dell’Unione europea rendere effettive le sanzioni. E lì occorrerà un voto dei quattro quinti del Consiglio. Diventa importante, quindi, anche cosa farà il governo italiano del premier Giuseppe Conte.
Grande è stato allora, ieri pomeriggio intorno alle quattro, lo stupore di taluni deputati nel vedersi recapitare alla Camera, con pochi che ci facevano davvero caso, una mozione comune firmata da Lega e Movimento cinque stelle (documento 1-44, che pubblichiamo qui a fianco) in cui il Movimento prende una posizione assai diversa da quella assunta in Europa. La mozione, firmata dai capigruppo di Lega e M5S a Montecitorio, Riccardo Molinari e Francesco D’Uva, ricorda che l’iter delle procedure anti-Orban «potrà durare alcuni mesi», e dunque «impegna il governo» a fare due cose. La prima è del tutto innocua: «Attivarsi per la protezione e promozione dei valori su cui si fonda l’Unione». Ma la seconda - in cauda venenum - capovolge totalmente il senso del voto M5S al parlamento europeo: il testo dei due capigruppo della Legastella impegna il governo e Giuseppe Conte a verificare se sussisteranno i motivi per la procedura d’infrazione: gli stessi motivi che il M5S in Europa ha appena deciso che sussistono. Una giravolta che apre un bel portone per un aiutino italiano all’amico Orban. Il governo deve «attivarsi affinché il Consiglio dell’Unione accerti che i motivi che si ritiene siano all’origine delle procedure di cui all’articolo 7, paragrafo 1, del Trattato nei confronti dell’Ungheria non siamo venuti meno e, nel caso non fossero più validi, affinché sia chiusa celermente la procedura stessa, in quanto infondata». Traduciamo: Molinari (Lega) e D’Uva (M5S) scrivono in modo chiarissimo che, al minimo segnale utile, il governo italiano si deve impegnare a far cessare la procedure contro Orban. Perché ovviamente «noi siamo italiani», non perché siamo amici di Orban.

Corriere 26.9.18
Gli Stati e i migranti
Egoismi e illusioni d’Europa
di Sergio Romano


Per molto tempo i governi europei hanno trattato il problema dell’immigrazione con rassegnazione e una buona dose di egoismo nazionale. Sapevamo che l’Africa era diventata un enorme serbatoio di vite umane ansiose di lasciare il loro continente per cercare fortuna in Europa. Sapevamo che le crisi mediorientali avrebbero scaricato sulle nostre coste qualche milione di profughi. Ma ogni Paese cercava soluzioni nazionali e sperava di scaricare il problema sulle spalle degli altri.
Il trattato di Dublino, con cui l’Unione Europea decise che la richiesta di asilo doveva essere indirizzata alle autorità del primo sbarco, è diventato per molti Paesi un alibi perfetto. Quando in Italia sbarcò una prima ondata di tunisini, quasi tutti diretti verso il Paese dove viveva il maggior numero di amici e congiunti, la Francia di Nicolas Sarkozy chiuse la porta di Ventimiglia. La Gran Bretagna era una meta desiderata, ma il governo britannico riuscì a ottenere che le prime pratiche amministrative venissero fatte a Calais piuttosto che a Dover. Quando la Turchia accettò di vendere la propria ospitalità a caro prezzo (quasi sei miliardi di euro in due versamenti) per accogliere due milioni e mezzo di migranti, ci dimenticammo che il Paese di Erdogan non era un modello di democrazia.
Non mancarono iniziative che avrebbero giovato all’ Europa e avrebbero fatto di Gheddafi il poliziotto del Nord Africa.
I l trattato che Silvio Berlusconi firmò con il leader libico a Bengasi nell’agosto del 2008 era certamente discutibile sotto il profilo umanitario, ma poteva essere migliorato. Non è stato altrettanto possibile, invece, sostituire Gheddafi, quando tre grandi Paesi occidentali (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) decisero di abbandonarlo ai suoi nemici e spalancarono ai migranti africani le porte del Mediterraneo.
N on mancò nemmeno chi cercò di rendere le migrazioni meno inquietanti ricordando che avrebbero permesso di affrontare meglio la crisi della natalità in alcuni Paesi europei. Fu uno degli argomenti usati dalla cancelliera Merkel quando decise di accogliere 800 mila siriani. L’analisi era giusta, ma anche le cose giuste, quando sono dette nei momenti sbagliati, producono effetti negativi. I profughi giunti nella Repubblica federale nel 2015 sono diventati la palla al piede della cancelliera tedesca nei suoi quotidiani duelli con una forza politica, Alternativa per la Germania, che odora di nazismo.
Questo è il contesto in cui i partiti populisti e sovranisti hanno cominciato a raccogliere e a interpretare gli umori della pubblica opinione. Quanto più ogni Paese si dimostrava privo di una politica efficace, tanto più i sovranisti potevano riempire il vuoto lasciato dai governi e proclamarsi interpreti autorizzati della volontà popolare. Il problema delle migrazioni non è il solo fattore che ha contribuito alla diffusione del populismo. Nel corso dell’ultimo decennio, gli effetti della grande crisi finanziaria del 2008, alcune sgradite ricadute della globalizzazione, le incertezze provocate dalla Brexit e un certo malessere della Commissione di Bruxelles hanno ingrossato la legione populista. Ma niente ha favorito l’ascesa dei sovranisti quanto il problema dell’immigrazione.
Non sembra che i governi abbiano imparato la lezione. Oggi si parla più frequentemente di politica comune e di rafforzamento delle frontiere europee. Ma nella pratica di ogni giorno la reazione al singolo caso è ancora strettamente nazionale. Ne abbiamo avuto una dimostrazione quando all’Aquarius (una nave ben nota alle cronache italiane) e ai suoi 58 migranti è stato impedito lo sbarco a Marsiglia.
Non credo che i sovranisti, dopo avere conquistato il potere in alcuni Paesi, cercheranno di trovare insieme una ragionevole soluzione del problema. La paura dei migranti è diventata il terreno su cui è cresciuta la loro pianta e continueranno a innaffiarla probabilmente con una sgradevole e crescente dose di razzismo. Tocca quindi alla Commissione e al Parlamento europeo prendere l’iniziativa per affrontare la crisi soprattutto là dove sono le sue origini. Negli scorsi giorni il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha proposto un Piano Marshall per l’Africa. La ricetta è stata usata troppo frequentemente, spesso a sproposito. Ma in questo caso potrebbe finanziare nel continente africano strutture e istituzioni capaci di dare ai giovani in patria il futuro che oggi cercano altrove.

il manifesto 26.9.18
Donne in carcere, come mettere le relazioni al centro
Fuoriluogo. La tragedia di Rebibbia evidenzia quanto sia carente una cultura delle relazioni. In Italia, in carcere non esistono luoghi per favorire l’affettività e per incontri riservati con il compagno/la compagna. Domina invece la retorica della maternità
di Grazia Zuffa


Sulla tragedia di Rebibbia, della detenuta che ha ucciso i figli, anche troppo si è detto. E troppo si è fatto (da parte del ministro) alla facile ricerca di colpevoli: la sospensione di alcune dirigenti, a parte i dubbi di merito esposti nella lettera appello di tante associazioni, rischia di allontanare una seria riflessione sul problema dei bambini delle donne detenute. Su questo vorrei prendere parola. Cominciando ad affrontare la questione dal verso giusto: che non è quello della «detenuta madre» come caso speciale. E neppure è quello dei «diritti dei bambini», per quanto fondamentali siano. Poiché i bambini avrebbero diritto sia a stare fuori dal carcere sia a vivere con la madre.
Gli sforzi normativi si sono finora mossi proprio nell’ambito dei due diritti dei bambini che la detenzione pone in conflitto (cercando di rendere più accettabile una vita «dentro» e/o più accessibile una vita «fuori» dal carcere). Ma i limiti di tale approccio sono evidenti più che mai, se non si affronta il nodo della detenzione femminile (prima che della maternità in carcere); della pena carceraria come risposta pervasiva a pressoché tutti i tipi di reati (che nei fatti vanifica le norme «speciali» a favore delle madri detenute); dell’inflazione del penale (con previsione di pene molto alte anche per reati non violenti, come quelli di droga). E, in ultimo, ma assai importante, se non si fa di più perché le detenute (ma anche i detenuti) possano mantenere le loro relazioni affettive e svolgere per quanto possibile le loro funzioni genitoriali quando i bambini vivono lontani. In una ricerca di qualche anno fa fra le detenute in Toscana (consultabile nel volume Recluse, Ediesse, 2014), se la separazione dai cari emergeva come il fattore di sofferenza più importante, dolorosa era anche la percezione che i rapporti coi figli fossero gestiti in una logica di concessione «premiale» più che di diritto, in ogni caso «non incentivati come dovrebbero essere», per dirla con una delle donne intervistate.
Sembra cioè carente una cultura delle relazioni, prova ne è che in Italia non siamo ancora riusciti a avere in carcere luoghi per favorire l’affettività e per incontri riservati con il compagno/la compagna. Al suo posto domina una retorica della maternità. Che non può non giocare contro la donna autrice di reato, di per sé sospetta di essere «cattiva madre». Può perciò capitare che alcune richieste di detenute per avere contatti coi figli siano respinte per presunto «uso strumentale» delle norme a favore della maternità. Così il vaglio dei giudici si muta in una sorta di Tribunale Morale, che nei fatti vanifica le disposizioni speciali. Di recente, una giurista attiva nel sostegno legale alle detenute mi riferiva un caso esemplare di tali contraddizioni: una donna condannata a una pena molto severa aveva tenuto il bambino con sé in carcere per molti anni, ma poi la lunghezza della pena li aveva separati, con molto dolore per entrambi, e il bambino era stato dato in affidamento. Non solo non le era stata concessa alcuna alternativa per evitare la separazione, ma aveva aspettato due anni prima di avere un permesso per vedere il figlio.
Il Tavolo sulla detenzione femminile degli Stati Generali, nel 2016, ha offerto indicazioni preziose, da quelle più generali «di una consistente de-carcerizzazione… e una forte depenalizzazione», unita a un allargamento delle alternative al carcere e a un uso maggiore di quelle esistenti; fino a suggerimenti puntuali, quali la «previsione di luoghi adatti all’esercizio dell’affettività e della sessualità», l’ampliamento dell’Ordinamento Penitenziario perché le donne possano partecipare a momenti fondamentali della vita dei figli. Il ministro e il Parlamento possono prenderle finalmente in considerazione?

il manifesto 26.9.18
«In Europa la sinistra resti unita. Drammatico se si spaccasse»
Verso le europee. Intervista al deputato Victor Perli, pontiere della Linke: noi con i profughi, confronto sull’apertura totale delle frontiere. "Fra noi non ci sono razzisti né nazionalisti, difendiamo il welfare statale contro lo smantellamento spinto dalle istituzioni sovranazionali"
di Jacopo Rosatelli


«Il mio principale obiettivo è che la Linke resti unita». Nella sinistra di opposizione in Germania non ci sono solo sostenitori o avversari di Sahra Wagenknecht e del suo movimento Aufstehen: (Alzarsi) Victor Perli, deputato 36enne, radici familiari in Alto Adige e Olanda, è tra i «pontieri».
Perli, qual è il suo giudizio sull’iniziativa di Wagenknecht?
Aufstehen può raggiungere e attivare persone di sinistra che sono insoddisfatte dai partiti: è la funzione svolta in passato da Attac. Ora ci sono movimenti tematici, contro le morti nel Mediterraneo o contro il cambiamento climatico, ma ne manca uno più generale: può essere il ruolo di Aufstehen.
Nessun rischio di scissione per la Linke, quindi?
In astratto, se vediamo la storia della sinistra, questi rischi ci sono sempre. E qualcuno spinge in quel senso, ma è minoritario. Wagenknecht ha detto chiaramente che non vuole fondare un nuovo partito, cosa che peraltro la legge tedesca non rende facile. La Linke è il più forte partito a sinistra della Spd da quando è nata la Repubblica federale: per decenni quest’area non ha avuto rappresentanza ed è una conquista che non dobbiamo mettere in pericolo. Aufstehen può far bene alla Linke se crea partecipazione nelle persone che sono fuori dal partito, non deve condurre militanti a uscirne.
Ma qual è lo stato di salute della Linke con queste fibrillazioni?
Stabile, ma non soddisfacente: non riusciamo a raccogliere i consensi che perde la Spd. All’interno il partito sta cambiando molto. Le correnti tradizionali contano di meno e si stanno rimescolando, crescono gli iscritti più giovani, molti dei quali sono entrati per reagire all’ascesa della destra. Dobbiamo saper gestire le nostre contraddizioni, come insegnano Marx e Gramsci. Sarebbe una tragedia non riuscirci, soprattutto ora che la Spd è in caduta libera.
Il deputato Victor Perli
Il tema-chiave è quello dei migranti. Aufstehen va dietro ad Alternative für Deutschland?
La Linke è il polo opposto rispetto alle posizioni della Afd e anche del ministro degli interni Seehofer, che ha definito l’immigrazione «la madre di tutti i problemi». La nostra posizione è nettissima contro il razzismo, contro chi vuole la guerra dei tedeschi poveri contro i migranti. Fra noi c’è una discussione, che c’è in tutta la sinistra europea, sull’apertura incondizionata delle frontiere e sul diritto di residenza incondizionato per chiunque. La Linke difende il diritto intangibile di tutti i profughi ad essere accolti e a restare, mentre si confronta su quanta immigrazione sia concretamente sostenibile per il nostro Paese. Aufstehen sta in questa discussione.
Le contraddizioni a cui si riferiva sono legate anche alla personalità più in vista: Wagenknecht è leader di Aufstehen e capogruppo della Linke in parlamento.
Trovo legittimo che lei sia attiva, come molti di noi, anche in associazioni o campagne, ma in prospettiva ritengo che i portavoce di Aufstehen dovrebbero diventare altri.
I critici, poi, si chiedono come mai Wagenknecht, da sempre contro il governo rosso-rosso-verde, sia ora favorevole alle intese, come scritto nel manifesto di Aufstehen.
Per otto anni c’è stata una maggioranza numerica nel Bundestag a sinistra della Cdu-Csu, un’opportunità che non poteva essere colta perché mancavano le condizioni politiche. Spd e Verdi non avevano intrapreso nessuna vera autocritica rispetto alle loro scelte nel periodo del governo Schröder e molti di noi temevano che un’alleanza sarebbe stata un abbraccio mortale, perché non ci sarebbero stati spazi per incidere. Wagenknecht vuole, con Aufstehen, aumentare la pressione su Spd e Verdi affinché facciano finalmente questa autocritica.
Chi dice che è un movimento dall’alto si sbaglia?
Già in passato erano stati intellettuali e personalità pubbliche a dare vita a movimenti. Il punto è vedere quanti dei 150mila che hanno aderito online ad Aufstehen si attiveranno davvero: solo allora sapremo se la critica è giusta.
Allarghiamo la prospettiva: ai rischi di rottura in Germania corrispondono quelli in Europa.
Sì, ma sul piano europeo il pericolo mi sembra più forte. Se nel prossimo parlamento di Strasburgo non ci fosse più il gruppo unitario della Gue, ma ce ne fossero due, sarebbe drammatico. Tutti noi dobbiamo sentire la responsabilità di rafforzare la sinistra in Europa di fronte alla destra in crescita. Si può essere critici verso Syriza e Tsipras, come lo è Mélenchon, ma questo non deve condurre a una separazione.
Ma secondo lei qual è la posizione giusta sull’Europa?
La sinistra è internazionalista e non può assumere il punto di vista degli stati nazionali. La Linke ha sempre difeso il sistema statale di protezione sociale contro lo smantellamento che traeva impulso dalle istituzioni sovranazionali perché i rapporti di forza attuali impediscono di creare un sistema di welfare europeo, che deve comunque restare l’obiettivo a cui tendere. La nostra prospettiva non è il ritorno allo stato nazionale. Non solo perché l’Europa è una realtà nella vita di tante persone che studiano e lavorano, ma anche perché le grandi sfide del presente – migrazioni, cambiamento climatico, pace nel continente – non possono certo essere affrontate a livello nazionale. Noi dobbiamo essere, contemporaneamente, europeisti e critici verso il radicalismo di mercato e l’austerità di questa Unione europea. Noi dobbiamo riformare radicalmente l’Ue, non distruggerla.

il Fatto 26.9.18
Alzarsi», la Linke fa i conti con l’ala sovranista
Sahra Wagenknecht e Oskar LaFontaine
di Jacopo Rosatelli


«Aufstehen» (Alzarsi) è il movimento promosso dalla capogruppo parlamentare della Linke Sahra Wagenknecht con esponenti di Spd e Verdi. Nato il 4 settembre, ha per obiettivo «una Germania europea in un’Europa di democrazie sovrane» e vuole «far pressione» sulle forze progressiste per «nuove maggioranze». Alla sua piattaforma online si sono registrate 150mila persone. Per l’iniziativa di Wagenknecht consensi e critiche. I punti più controversi: le posizioni su immigrazione ed Europa e i rischi per l’unità della Linke.
La temuta scissione sinora non c’è stata, ma fra la capogruppo e i segretari no-borders Kipping e Riexinger il clima è da separati in casa.  Un segnale di ricomposizione è arrivato ieri: a guidare le liste del partito alle prossime europee saranno Alev Demirel e Martin Schirdewan, riconducibili ciascuno a uno dei due blocchi. Demirel, di origine curda, è leader della Linke in Nordreno-Westfalia, feudo di Wagenknecht.

La Stampa 26.9.18
Austria
La censura dell’ultradestra
“Basta notizie ai media critici”
di Walter Rauhe


Niente più comunicati stampa e informazioni ai media critici. La mail inviata dal portavoce del ministro degli Interni austriaco e rappresentante del partito di estrema destra della Fpö alla polizia ha scatenato a Vienna un putiferio. Il braccio destro del ministro Herbert Kickl aveva dato indicazioni alle forze dell’ordine di ridurre al minimo le informazioni da fornire a organi di stampa rivelatisi critici nei confronti del lavoro del ministero degli Interni. Nella missiva il portavoce di Kickl ha anche elencato i media da boicottare, come ad esempio il quotidiano Der Standard, il tabloid popolare Kurier o il settimanale Falter. Queste testate gli organi di sicurezza dovrebbero, secondo la volontà del Ministero degli Interni, ottenere solo i comunicati stampa ufficiali ma essere esclusi da seminari di approfondimenti su specifici temi, viaggi di lavoro e coperture esclusive di eventi e fatti di cronaca.
Il cancelliere Kurz: “E’ inaccettabile”
Un palese invito alla censura e al boicottaggio di organi di stampa critici oltre che una limitazione della libertà di stampa. Il discusso ministro degli Interni austriaco, al centro da tempo di forti polemiche per le sue posizioni autoritarie e oltranziste (è lui l’artefice della proposta di doppia-cittadinanza per i cittadini dell’Alto Adige e sostenitori dell’invio di soldati al confine del Brennero) ha superato in questo caso la «linea rossa» tracciata dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz, popolare, per l’alleato di governo dell’ultra destra. «Ogni limitazione della libertà di stampa è inaccettabile. I partiti, le istituzioni del governo e le organizzazioni pubbliche hanno un’alta responsabilità per garantire e salvaguardare un giornalismo libero e indipendente nel nostro Paese», ha messo in chiaro il cancelliere austriaco dopo che diversi organi di stampa avevano diffuso il contenuto della e-mail al centro delle polemiche.
Nella sua nota di 4 pagine inviata alle centrali della polizia, il portavoce del ministro degli Interni non si è limitato a invitare al boicottaggio dei media più critici, ma ha anche elencato un vademecum su come mettere in risalto i delitti e crimini commessi da cittadini stranieri e profughi nel Paese. I responsabili delle forze dell’ordine sono stati così sollecitati a indicare e mettere in risalto la nazionalità degli autori di stupri, molestie sessuali e rapine dando più spazio ai loro reati rispetto a quelli commessi da cittadini austriaci.

Repubblica 26.9.18
Tra Cina e Usa ora l’Europa batta un colpo
di Bruno Le Maire


Un anno fa, nel suo discorso alla Sorbona, il presidente della Repubblica Emmanuel Macron presentava le sue proposte per ridare nuovo slancio alla costruzione europea. Un anno fa tracciava una via senza ambiguità: niente Europa senza valori, senza ambizione e senza risultati concreti per i suoi cittadini.
Scommetteva sulla costruzione di un’Europa unita, forte e democratica.
I nostri sforzi per fare dell’Eurozona un polo di crescita e stabilità hanno avuto esito positivo. Nel giugno scorso, Macron e la cancelliera Angela Merkel hanno concluso a Meseberg un accordo storico. La Francia e la Germania riconoscono la necessità di dotare l’Eurozona di un suo bilancio. Questa ambizione dobbiamo ora condividerla con i nostri vicini e partner dell’Eurozona da qui alla fine dell’anno, per concretizzare e dar vita a questo accordo franco-tedesco. Abbiamo rafforzato gli strumenti per lottare contro l’evasione fiscale e la pianificazione fiscale aggressiva, due fenomeni profondamente intollerabili, oggi ancora più di prima. Abbiamo rafforzato la trasparenza per lottare contro le scatole vuote e creato una lista nera europea per sanzionare gli Stati che aiutano gli evasori a non pagare le imposte dovute. Abbiamo fatto della giustizia fiscale in campo digitale la nostra battaglia principale. Siamo decisi a fare in modo che l’Europa si doti, di qui alla fine dell’anno, di un sistema di tassazione equo dei colossi del digitale.
Queste imprese pagano 14 punti percentuali di tasse in meno della media. È una situazione inaccettabile, ingiusta e rivoltante. Ed è anche inefficace per gli Stati, che si vedono privati di introiti importanti. Abbiamo convinto una ventina di Paesi a schierarsi a favore della proposta francese, ripresa dalla Commissione, di una tassa sul fatturato di queste imprese digitali, in attesa che si trovi una soluzione di consenso a livello internazionale. Contro le minacce di guerra commerciale brandite dagli Stati Uniti, abbiamo dimostrato che siamo capaci, noi europei, di rispondere collettivamente e difendere i nostri interessi economici e industriali. Contro le sanzioni extraterritoriali americane, l’Europa ha reagito in blocco: non accettiamo che gli Stati Uniti, o qualunque altra potenza, si ergano a gendarmi del commercio mondiale. Lavoriamo dunque a una soluzione che possa consentire all’Europa di commerciare liberamente con tutti i partner di sua scelta senza subire le sanzioni di un Paese terzo, com’è successo in Iran.
Contro i rischi degli "investimenti di rapina", abbiamo fatto la scelta di non essere più ingenui e di difendere i nostri interessi. Siamo giunti a un accordo per controllare meglio gli investimenti esteri nei nostri settori strategici.
L’Europa deve aiutarci anche a fare in modo che la nostra industria rimanga all’avanguardia, in particolare per quanto riguarda le innovazioni dirompenti. Le forze contrarie sono più presenti che mai: tra una Cina aggressiva e un’America che volta le spalle ai suoi alleati, è ora che l’Europa batta un colpo. Di fronte all’ascesa dei populismi e degli estremisti, dobbiamo rispondere alle aspirazioni dei nostri concittadini europei attraverso azioni concrete: più giustizia, più sovranità e più protezione.
Bruno Le Maire è il ministro dell’Economia e delle Finanze francese © LENA, Leading European Newspaper Alliance ( Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 26.9.18
Wim Wenders e Francesco
“Guardando il Papa negli occhi ho visto un uomo senza paura”
di Fulvia Caprara


Faccia a faccia con Papa Francesco, per parlare dei problemi che affliggono il mondo, dall’immigrazione al consumismo, dalla povertà all’ecologia, con un linguaggio semplice e diretto, che non escluda nessuno e che comunichi a tutti, non solo cattolici e cristiani, la forza di un esempio unico: «Stiamo vivendo un periodo drammatico, che non può durare a lungo e che dovrà sicuramente cambiare, ma perché ciò accada abbiamo bisogno di ottimismo e di forza. Guardando Papa Francesco negli occhi ho avvertito questa carica di energia e, soprattutto, la sensazione di avere a che fare con una persona che mantiene quello che promette».
Non a caso, folgorato da Jorge Mario Bergoglio, Wim Wenders ha voluto che il suo film si chiamasse Papa Francesco - Un uomo di parola: «In un’epoca di profonda sfiducia nei confronti dei politici e del potere, un tempo in cui bugie, corruzione e fake news sono all’ordine del giorno, in cui tutti sembrano aver abbandonato la nave che affonda, il film ci mostra un uomo che mette in pratica ciò che predica conquistando così la fiducia di tutti i credi religiosi, culturali e sociali».
Concentrato e appassionato, a Roma per il lancio dell’opera (in 350 sale dal 4 al 7 ottobre con Universal) Wenders racconta che di Bergoglio lo ha colpito più di tutto il coraggio: «Mi ha spiazzato che in lui ci fosse totale assenza di paura, e poi una grande tenerezza, e un’apertura che non esclude nessuno».
Il problema pedofilia
L’audacia ha naturalmente un prezzo e del Pontefice si dice, sempre più spesso, che sia oggetto di fronde e di attacchi della destra cattolica: «L’aspetto più complesso del suo papato - commenta Wenders - riguarda il problema della pedofilia, che ha ereditato e che per primo ha scelto di affrontare. La sua linea della tolleranza zero è la più difficile da mettere in atto. Il Papa vuole che la Chiesa aderisca a questa posizione, ma io ho la triste impressione che la strada non venga seguita».
Girare un film sul Papa non è impresa da accettare a cuor leggero, Wenders si è posto domande e ha vissuto notti insonni, ma le condizioni per realizzarla c’erano tutte: «Il Vaticano mi ha dato da subito carta bianca, garantendomi l’accesso privilegiato agli archivi e il “final cut”. Prima e dopo la lavorazione nessuno mi ha chiesto di aggiungere o togliere niente. Sono partito da alcuni punti fondamentali. Il film non doveva essere una biografia, perché il Papa è un uomo modesto e non desidera che l’attenzione si concentri su di lui, non doveva essere costoso perché il Papa ci insegna a vivere con meno, e non dovevano esserci opinioni sul conto del Pontefice, perché tutti ne hanno, e l’importante era avere le sue, attraverso le sue stesse parole».
Le riprese dovevano avvenire in tranquillità, al riparo da sguardi curiosi ed eccessiva pubblicità: «Abbiamo avuto quattro lunghi incontri-intervista, per quattro pomeriggi, nel corso di due anni e devo dire che all’inizio ero abbastanza nervoso. Ne abbiamo girati tre al chiuso, in vari luoghi del Vaticano, e uno in giardino, ma sempre all’interno delle mura vaticane».
Le sue radici sudamericane
Tra i tanti argomenti toccati, c’è quello dell’ambiente, che secondo Wenders ha a che fare con le sue radici sudamericane: «Quando è venuta fuori l’Enciclica Laudato si’ sono rimasto stupefatto non solo per l’importanza del contributo scientifico che offriva, ma anche perché per la prima volta veniva stabilito un nesso tra la povertà degli uomini e la sofferenza della Terra. Un collegamento, che per chi come Bergoglio viene dall’America Latina, è più immediato e palpabile». L’immersione nella spiritualità di Bergoglio ha risvegliato in Wenders emozioni lontane: «Sono cresciuto in una famiglia cattolica e a 16 anni avevo seriamente pensato di fare il prete. Poi è arrivato il rock and roll e l’amore per il cinema, ho lasciato la Chiesa e ci sono tornato dopo 20 anni, da protestante».
Il concetto ricorrente del film è semplice e stupefacente: «Assemblando il tutto - fa notare Wenders - è emersa un’unica, grande preoccupazione per il bene comune. Il Papa è concentrato su questo. Sulla giustizia e sul modo migliore per raggiungere un equilibrio tra i poveri e quel 20% di persone che possiede l’80% delle ricchezze del mondo».

Corriere 26.3.18
l’intervista Dopo il viaggio nei paesi baltici
«Accogliere per integrare Però non sia una minaccia contro la propria identità»
Il Papa: con la Cina un compromesso, ma le nomine le fa Roma
 

DAL VOLO PAPALE Il volo BT7103 ha lasciato da poco Tallinn quando Francesco raggiunge i giornalisti sull’aereo. Racconta di ciò che lo ha colpito del viaggio nei Paesi baltici. A cominciare dai segni dei totalitarismi a Vilnius: il ghetto ebraico annientato dai nazisti, la prigione del Kgb. «Quel giorno sono rimasto distrutto. La crudeltà non è finita. La stessa si trova oggi in tante carceri: anche la sovrappopolazione è una tortura, o una prigione che non dà speranza. Abbiamo visto i terroristi Isis, il pilota giordano bruciato vivo, i copti sgozzati sulla spiaggia, tanti altri. In tutto il mondo si compie, è un grave scandalo della nostra cultura e società».
Santità, alcuni cattolici cinesi, come il cardinale Zen, la accusano di avere svenuto la Chiesa al governo comunista di Pechino dopo anni di sofferenza. Che risponde?
«È un processo che va avanti da anni, un dialogo fra le commissioni vaticana e cinese per sistemare la nomina dei vescovi. La delegazione vaticana ha lavorato tanto. Vorrei fare alcuni nomi: monsignor Claudio Maria Celli, padre Rota Graziosi, e il segretario di Stato Parolin che è molto devoto ma ha una speciale devozione alla lente: tutti i documenti li studia — punti, virgole, accenti — e questo mi dà una sicurezza molto grande. Quando si fa un accordo di pace, ambedue le parti perdono qualcosa. Questa è la legge. Due passi avanti, uno indietro, mesi senza parlarci… È il tempo di Dio, che somiglia al tempo cinese: lentamente, è la saggezza dei cinesi. Sui vescovi sono io il responsabile che ha firmato. Penso alla resistenza offerta dai cattolici. È vero, soffriranno. In un accordo c’è sempre sofferenza. Ma hanno una grande fede “martirale”. Sono dei grandi. Mi fanno arrivare messaggi: ciò che Pietro dice è ciò che dice Gesù. L’accordo l’ho firmato io, le lettere plenipotenziarie: io sono il responsabile. Gli altri hanno lavorato più di dieci anni. Non è una improvvisazione. Quando c’è stato il comunicato di quel famoso ex nunzio (Viganò che chiedeva le dimissioni del Papa, ndr), gli episcopati del mondo mi hanno scritto che pregavano per me. Anche i fedeli cinesi: e c’erano le firme del vescovo diciamo così “tradizionale cattolico” e di quello della “chiesa patriottica”. Per me è stato un segnale di Dio. Non dimentichiamo che in America Latina — grazie a Dio è superato — erano i re di Portogallo e Spagna a nominare i vescovi. Ma questo è un dialogo sugli eventuali candidati. La cosa si fa in dialogo, ma nomina Roma, nomina il Papa. Questo è chiaro. E preghiamo per le sofferenze di alcuni che non capiscono o che hanno alle spalle tanti anni di clandestinità».
Ha parlato di apertura ai migranti…
«Il messaggio sull’apertura è abbastanza avanti, nei popoli baltici. Non ci sono fuochi forti populisti. Bisogna accogliere ma non massicciamente, perché non si può. Integrarli con la prudenza del governo. Nei discorso dei presidenti la parola apertura è frequente. Questo indica una voglia di universalità, nella misura in cui si possa integrare, e che non sia una minaccia contro la propria identità. Apertura prudente e ben pensata. Oggi il problema dei migranti è grave in tutto il mondo e non è facile studiarlo. In ogni Paese ha diverse connotazioni».
Ha detto che i giovani si indignano perché non vedono una condanna netta della Chiesa sugli abusi.
«Tutti conosciamo le statistiche. Ma se anche ci fosse stato un solo prete ad abusare di un bambino o una bambina, è mostruoso. I giovani si scandalizzano, lo capisco. Sanno che la corruzione c’è dappertutto ma nella Chiesa è più scandaloso perché un prete deve portare i bambini a Dio e non distruggerli».
La Chiesa non ha fatto ciò che doveva, ha coperto?
«Un esempio, la Pennsylvania: nel primi settant’anni c’erano tanti preti caduti nella corruzione, in tempi più recenti è diminuita perché la Chiesa si è accorta che doveva lottare in un altro modo. In tempi antichi queste cose si coprivano, anche a casa: lo zio che violenta la nipotina, il padre il figlio… Era il modo di pensare del secolo scorso. Un fatto storico va interpretato con l’ermeneutica dell’epoca, non di oggi. Anche lo Stato pontificio aveva la pena di morte, poi la coscienza morale cresce… In Pennsylvania, quando la Chiesa ne ha preso coscienza, ce l’ha messa tutta. Dalla Dottrina della fede ho ricevuto tante condanne, mai ho firmato una richiesta di grazia. Non si negozia».
Ha parlato di «minacce di armi». Cosa pensa delle tensioni sul confine est (con la Russia, ndr)?
«Oggi le spese mondiali in armi sono scandalose, in un mondo affamato. È lecito e ragionevole avere un esercito per difendere le frontiere, come avere la chiave alla porta di casa, è un onore difendere la patria così. Il problema è quando un Paese diventa aggressivo».

Corriere 26.9.18
La castrazione con i farmaci e i dubbi dei medici «Può non bastare»
di Cristina Marrone


Si riapre il dibattito sul trattamento chimico
Come spesso accade dopo una violenza sessuale si torna a chiedere a gran voce la castrazione chimica. Non l’ha invocata solo Matteo Salvini: ieri nel corso della trasmissione «Prima Pagina» su Radio 3 sono arrivati in redazione molti messaggi di donne favorevoli a questo tipo di pena per i reati a sfondo sessuale. Ma cos’è davvero la castrazione chimica? Si tratta di una terapia antagonista del testosterone, l’ormone maschile. Di fatto, tramite la somministrazione di farmaci a base di ormoni (capsule, fiale, iniezioni sottocutanee) viene inibita la produzione e il rilascio in circolo degli ormoni che stimolano i testicoli alla produzione di testosterone. I due principi attivi più utilizzati sono il ciproterone acetato e il medrossiprogesterone acetato (meno costoso, diffuso soprattutto negli Stati Uniti), ma ce ne sono altri come il bicalutamide o gli analoghi LHRH. Ma che cosa sappiamo sull’utilità di questa pratica? E quali sono i risvolti etici? Gli studi (americani) si contano sulla punta delle dita.
«Questi farmaci sono nati per combattere il carcinoma alla prostata ma oggi sono utilizzati anche per abbattere il desiderio sessuale dei sex offender, là dove il carcere non basta» spiega Vincenzo Mirone, già presidente della Società italiana di urologia e professore di Urologia alla Federico II di Napoli. «Sfatiamo però un mito — aggiunge il professor Andrea Salonia, urologo e andrologo, esperto di medicina sessuale all’ospedale San Raffaele di Milano — e cioè che i violentatori e i pedofili abbiano un livello di testosterone più alto dei soggetti che hanno una normale sessualità. Non è così: non è dal livello di ormone maschile che si può capire se un uomo diventerà un sex offender». Dubbi ci sono anche sulla reversibilità della terapia. Come spiega il professor Mirone due-tre mesi dopo la sospensione del farmaco il testosterone dovrebbe tornare a livelli normali. «Ma è possibile che il desiderio sessuale non sia più quello di prima, come tra l’altro può succedere a chi segue una terapia ormonale contro il tumore» chiarisce il professor Salonia. Inoltre una volta terminati gli effetti della castrazione chimica nessuno garantisce la non recidività del soggetto. Vero è che testosterone e sessualità vanno a braccetto, ma ci sono persone che, pur avendo l’ormone maschile abbattuto, hanno ancora il desiderio di sessualità. «Abbiamo pazienti — aggiunge ancora Salonia — con 0,01 di testosterone perché hanno avuto problemi di tutt’altro genere che hanno ancora un’attività sessuale proprio perché la sessualità non è solo una questione di ormoni, ma è legata anche alla sfera biologica e psicologica». Non sempre la riduzione del livello di testosterone è sufficiente a inibire il comportamento patologico deviante. Gli psichiatri sottolineano che la violenza sessuale non è quasi mai la soddisfazione di un impellente bisogno fisiologico, ma spesso trae soddisfazione dall’esercizio del potere, della forza, dell’umiliazione e del controllo della vittima.
La castrazione chimica non è esente da effetti collaterali. Oltre all’impossibilità di procreare, l’alterazione dell’equilibrio ormonale provoca cambiamenti fisici e psicologici. Aumentano l’adipe sui fianchi, le cosce e le mammelle mentre diminuiscono i peli sul corpo. Proprio a causa dell’aumento del grasso corporeo cresce il rischio di malattie cardiovascolari e diabete. Tra gli effetti anche l’insorgenza di osteoporosi.
La castrazione chimica è prevista nell’ordinamento giuridico di alcuni Stati degli Usa e in diversi Paesi europei. La netta maggioranza dei Paesi come Svezia, Finlandia, Germania, Danimarca, Norvegia, Belgio e Francia ne fa un uso estremamente limitato e subordinato al consenso del condannato, che deve essere informato degli effetti collaterali. Sperimentazioni sono in corso in Portogallo e nel Regno Unito. In Russia e in Polonia la castrazione chimica è obbligatoria per i colpevoli di stupro su minorenni.

Corriere 26.9.18
Asia Argento contrattacca: è stato Jimmy Bennett che «mi è saltato addosso» e dunque è stata lei la vittima di un rapporto sessuale avvenuto quando l’attore aveva 17 anni. Lo ha detto l’attrice italiana alla DailyMailTv. Asia, nella seconda parte dell’intervista postata sul sito online del tabloid britannico, dà anche della «bugiarda» a Rose McGowan per averla accusata di non aver fermato Bennett dall’inviarle foto di lui nudo da quando aveva 12 anni.

Repubblica 26.9.18
La crisi dem
Il primo test regionale
La Toscana in fuga dal congresso Pd Al voto uno su tre
Renzi esulta per il vantaggio di Bonafè ma nei circoli crolla l’affluenza di iscritti
di Massimo Vanni


FIRENZE Pd, fuga dai congressi.
Nella Toscana non più rossa, ma pur sempre casa madre del renzismo, la partecipazione si attesta poco sopra il 30% del totale degli iscritti. Il 32% a Firenze, il 34% in tutta la Toscana, la prima regione ad aver aperto il congresso. Un crollo di quasi la metà rispetto alla disfida di oltre un anno fa tra Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano, a guardare i dati relativi ai primi 272 circoli, poco meno del 50%.
E, nonostante la bassa affluenza, s’incrina pure il monolite toscano fedele a Renzi. La candidata segretaria dell’ex premier, l’europarlamentare Simona Bonafè, sta vincendo con il 72% contro il 28 della sinistra interna capeggiata da Valerio Fabiani. Tanto che lo stesso Renzi può esultare: «Brava Simo, avanti così». Ma la corsa congressuale che deciderà il controllo del partito toscano, con le primarie aperte del 14 ottobre che seguiranno il voto dei circoli, non si esaurirà nel duello tra renziani e sinistra interna, anche se a supporto di Bonafè, ci sarà pure la lista dell’ex responsabile sanità del Pd ed ex deputato Federico Gelli, interprete dell’anima critica del renzismo. Si consumerà così un duello tutto renziano tra giglio magico e fan del ricambio interno («Gelli per il cambiamento con Simona», si chiamerà l’altra lista).
Duello che rischia di essere per pochi intimi. Poco più di tre iscritti su dieci, mediamente, si sono presentati alle discussioni e alle votazioni per il futuro segretario regionale. Pesano le disfatte di Pisa, Siena e prima ancora Pistoia che oggi disegnano una Toscana con la maggioranza dei capoluoghi governata dal centrodestra a trazione leghista e dai 5 Stelle. E di questo passo, se alla fine andranno a votare 10mila iscritti sui 41mila titolari di tessera della Toscana, sarà un successo: «Il 30% è un dato fisiologico, in molti circoli è sempre stato così», tiene a dire il presidente del Consiglio regionale toscano Eugenio Giani, colonnello renziano.
Ma nelle chat interne l’allarme è scattato: l’onda che solo qualche anno fa aveva portato Renzi prima alla guida del Pd e poi a Palazzo Chigi si è come ripiegata. Nel Pd toscano l’ex premier continua a dominare, a vincere con percentuali bulgare, ma intorno a lui l’entusiasmo di una volta non si vede più. Il Pd che controlla si è ristretto.
«Il ghiacciaio di un tempo si è sciolto, come al polo Nord. Il partito è ormai una scatola vuota, ci sono solo i comitati elettorali di quel parlamentare o di quell’altro», spiega un renziano critico. Eppoi: «Perché un iscritto dovrebbe votare ai congressi? Lo sanno tutti che è già tutto deciso, che Renzi ha già scelto come segretaria Bonafè», sostiene un altro. «Dobbiamo trovare il coraggio di dire che l’adesione a un partito nell’era di internet non passa più dalla tessera, questo mondo non esiste più», riflette un esponente del giglio magico.
La partita finale si giocherà comunque con le primarie aperte a tutti gli elettori. E allora Gelli (non ricandidato da Renzi e non riconfermato alla guida del dipartimento sanità del Pd quando si è rifiutato di correre per la carica di sindaco di Pisa), proverà a raccogliere «la voglia di cambiamento che c’è all’interno dello stesso mondo renziano». Una sfida portata dall’interno, la sua. Ma pur sempre una sfida all’establishment renziano.
Per adesso, nel voto dei circoli, Bonafè è saldamente in testa. La sinistra zingarettiana di Fabiani non sfonda. Resta al di sotto della somma dei consensi ottenuti al tempo da Orlando ed Emiliano. Al circolo Vie Nuove di Firenze, quello di Renzi e di Francesco Bonifazi, è finita con 79 voti per Bonafè e 16 per Fabiani. Un totale di 95 voti espressi su 185 iscritti. A Firenze città Bonafè vince con l’81%. A Scandicci, il collegio del senatore Renzi dove Bonafè ha fatto l’assessore, ha avuto 221 voti su 241. In un circolo di Pisa, invece, il candidato della sinistra ha superato la parlamentare europea. Mentre a Incisa, nel fiorentino, il candidato della sinistra si è imposto per 29 voti a 10.

Repubblica 26.9.18
"Nelle grotte cerco il segreto della vita"
Jennifer Macalady racconta i suoi studi nelle viscere della terra, dalle Bahamas a Frasassi
di Rosita Rijtano


Nelle viscere della Terra, dove non arriva luce né ossigeno, arriva lei. Ha tempra e aspetto di una roccia Jennifer Macalady, microbiologa della Pennsylvania State University che da vent’anni percorre il mondo di sotto, in largo e in lungo. Fino a centinaia di metri di profondità, dalle Bahamas all’Italia, in provincia di Ancona. È nelle grotte di Frasassi che preleva i campioni da studiare per afferrare il mistero in cui è avvolta l’origine della vita. Quaggiù come lassù, su Marte. Una signora delle grotte, "curiosa e coraggiosa". Anche se paura ne ha avuta tanta, come all’inizio: « A volte sono stanca e infreddolita — racconta — ma alla fine prevale sempre l’adrenalina: in ogni discesa so che imparerò qualcosa di nuovo, mi sento fortunata».
Una storia risalita in superficie grazie a The most unknown, documentario in onda su Netflix che coinvolge nove scienziati per rispondere a grandi quesiti universali irrisolti: esiste davvero la materia oscura? Come si forma la coscienza? In che modo nasce la vita? Macalady ha scelto di scoprire come si sono formati i primi organismi facendo luce sugli anfratti più bui. Immagina le grotte come macchine del tempo in cui si possono trovare condizioni ambientali simili a quelle che hanno caratterizzato la Terra miliardi di anni fa. « Studiarle ci fa capire l’evoluzione dei microrganismi e l’esistenza di trilioni di specie di microbi, di cui conosciamo solo l’1%».
Un amore particolare la lega a Frasassi, dove torna dal 2002. Scende in un silenzioso mondo sulfureo popolato da organismi che sfruttano acido solfidrico come fonte d’energia. Qui ha speso anni in pazienti analisi e qualche sorprendente scoperta. Come quella pubblicata su Astrobiology lo scorso aprile, quando Macalady e colleghi hanno individuato tracce di vita a 400 metri di profondità. «Nella composizione del gesso c’erano alcuni isotopi di atomi compatibili con la presenza e l’azione di microrganismi. Una firma biologica che nelle missioni spaziali potrebbe essere usata per sapere se c’è stata o c’è vita su Marte», spiega la scienziata.
Un grande punto di domanda è come i microrganismi riescano a sopravvivere anche nelle falde acquifere più profonde, dove l’energia chimica è talmente bassa da rendere in teoria impossibile l’esistenza. Non in pratica. Una resilienza che Macalady ha fatto propria. «Avere pazienza e lavorare sodo», sono le due lezioni che le hanno insegnato le scarse risorse finanziarie e i tempi della natura. «Adesso studieremo la vita che si forma molto al di sotto della superficie dell’acqua, quindi quasi senza ossigeno. Credevo che la morfologia delle grotte ce l’avrebbe impedito, invece ci stiamo riuscendo. L’ecosistema analizzato finora è paragonabile a ciò che c’era sulla Terra tra i 2,5 e i 0,5 miliardi di anni fa, mentre così potremo risalire a epoche ancora più antiche » . Un ulteriore balzo indietro che ci avvicina alla comprensione dell’origine della vita. Ci riusciremo mai? «Sì, abbiamo già tecnologie e conoscenze necessarie».