Corriere 24.9.18
La «leggenda nera» degli ex comunisti
di Pierluigi Battista
Conosco
molti ex comunisti, o post comunisti, o comunque molto critici e severi
nei confronti della tradizione politica comunista da cui provengono,
che però si arrestano perplessi, spaventati, o addirittura paralizzati
da un riflesso esistenzialmente autodifensivo, di fronte alla
demolizione di un ultimo tabù: il giudizio sui risultati del 18 aprile
1948. Aldo Cazzullo, in un libro appunto dedicato alla gloriosa
Ricostruzione dell’Italia piagata e devastata dalla guerra, «Giuro che
non avrò più fame» (Mondadori), dedica al 18 aprile un capitolo che
mette in discussione la «leggenda nera» costruita attorno alle elezioni
«più importanti della nostra storia», una leggenda secondo cui la
vittoria del blocco dominato dalla Dc, insieme ai repubblicani, ai
liberali, ai socialdemocratici di Giuseppe Saragat sarebbe stata
determinata «dalle Madonne pellegrine, dai Cristi piangenti, dalla paura
del castigo divino». No, più determinante ancora fu un’altra paura: la
paura del comunismo, la certezza che con la vittoria del Fronte popolare
del Pci insieme all’alleato subalterno del partito di Nenni un destino
cupo avrebbe fatto avvicinare l’Italia ai regimi soffocanti di Varsavia,
di Budapest, di Sofia. O di Praga, dove un colpo di Stato dei comunisti
aveva affossato definitivamente la democrazia, simbolicamente
rappresentato dalla defenestrazione fisica, non solo metaforica, di Jan
Masaryk. La «leggenda nera» di cui parla Cazzullo non è però senza
padri: ad alimentarla sono proprio gli eredi critici della tradizione
comunista che però non riescono ad accettare che quella vincente fu «la
parte giusta» mentre il fronte social-comunista incarnava la «parte
sbagliata». Non riescono a dire che quelle elezioni sono state una
benedizione per l’Italia, che l’antitesi tra la democrazia e lo
schieramento totalitario di cui il Pci faceva parte non era
un’invenzione propagandistica, ma l’esposizione di una realtà. Alberto
Ronchey, figura specchiata di laico, disse una volta di non aver provato
imbarazzo in quel frangente per l’alleanza con il partito cattolico,
perché «una messa al giorno era sempre meglio di una messa al muro».
Difficile dare torto a Ronchey, e alla sua tagliente ironia politica. Il
18 aprile fu una vittoria della libertà, uno spartiacque decisivo per
il destino italiano. Poi, ciascuno per la sua strada, come si conviene
in tutte le democrazie pluraliste.