Corriere 24.9.18
Pd, il partito «doppio» che non riesce a discutere
di Paolo Franchi
Antonio
Polito (Corriere, 19 settembre) ha sollevato sulle sorti del Pd
questioni importanti, che meritano di essere approfondite e discusse. E
ha messo a fuoco un punto politico che i protagonisti, impegnati in un
tragicomico balletto di proposte di autoscioglimento avanzate e
ritirate, nonché di cene convocate e sconvocate, non hanno il coraggio
di enunciare.
C’è, nonostante tutto, un futuro per il Pd? Per
tentare una risposta, occorre anzitutto prendere atto che l’ipotesi
stessa su cui il Pd nacque, dieci e passa anni fa, è andata in fumo da
un pezzo. Forse questo partito è nato troppo tardi, affrettando un
fallimento (quello del governo dell’Unione e della maggioranza «da
Mastella a Bertinotti», capeggiati da Romano Prodi) e non offrendo una
speranza di vittoria, nonostante il tentativo di Walter Veltroni di
fondarlo su una visione del mondo. Forse non è mai nato davvero come
casa comune del centrosinistra, ma solo come frutto di una fusione a
freddo tra i post comunisti dei Ds e i post democristiani (non solo di
sinistra) della Margherita, destinata a produrre, parola di Massimo
D’Alema, un «amalgama mal riuscito». Sicuramente, e su questo Polito ha
del tutto ragione, è nato per così dire a tempo scaduto, tardo blairista
e tardo clintoniano nell’immediata vigilia di una crisi finanziaria,
economica e sociale destinata a togliere spazio, identità e voti a
riformismi e a riformisti, o se si preferisce a neoliberalismi e a
neoliberali, che ragionavano in termini di società affluente. In ogni
caso, ha smesso di smuovere passioni, entusiasmi e consensi un minuto
dopo le elezioni del 2008, perse, sì, ma con un 37 e mezzo per cento,
più di 14 milioni di voti, che oggi sembra appartenere, e in effetti
appartiene, a un altro tempo e a un altro mondo.
I tentativi di
rianimarlo e di restituirgli un senso e una prospettiva, la «ditta» di
Pierluigi Bersani come il partito personale di Matteo Renzi, sono
falliti, il secondo più fragorosamente del primo. Così che il Pd si
ritrova davanti, ma stavolta ridotto a un passo dalla marginalità
politica, a qualcosa di non troppo dissimile dai contrasti che a inizio
secolo ne rallentarono la nascita, e poi ne resero claudicante
l’incedere. Caso più unico che raro nella storia dei partiti politici,
non si è mai impegnato, dopo una sconfitta storica, in qualcosa di
simile a un’analisi del voto, per mettere a fuoco dove, come e perché
aveva perso. Al di là delle impuntature di Renzi e dei litigi nel (si fa
per dire) gruppo dirigente, anche qui una ragione deve esserci. Perché è
proprio sull’analisi del voto del 4 marzo, prima ancora che sul che
fare in vista delle elezioni europee, che le posizioni si divaricano, o
meglio, si divaricherebbero, se potessero esprimersi compiutamente.
Per
dirla bruscamente. Il problema è cercare di recuperare almeno una parte
di quei milioni di elettori che hanno voltato le spalle al Pd e a una
sinistra nella quale non si riconoscono più, considerandola ormai non
solo lontana, ma anche ostile? In questo caso, il campo di gioco,
attualmente ai limiti dell’impraticabilità, è quello di una sinistra da
ricostruire, da ridefinire, da cambiare: campagna lunga, e dall’esito
incerto. Oppure si tratta di lasciarsi rapidamente alle spalle quel poco
che resta di una vecchia storia per andare ben oltre la stessa figura
politica del Pd renziano, perché in Italia e in Europa il cuore della
lotta politica batte ormai altrove? E allora gli interlocutori (e
soprattutto gli elettori) possibili stanno da un’altra parte, una volta
si sarebbe detto al centro, tra i cosiddetti moderati, oggi diremmo tra
quanti possono essere mobilitati per contrastare populismo e
nazional-sovranismo: campagna lunga ed esito incerto anche qui. A chi
propende per la prima ipotesi, spetterebbe l’onere di dimostrare come si
fa a battere il populismo sul suo terreno senza assumerne le sembianze e
diventarne la ruota di scorta. A chi coltiva la seconda, più vicina
all’impianto originario del partito, toccherebbe spiegare come potrebbe
mai fare il Pd a recuperare, procedendo per questa via, oltre a un
eventuale plauso dell’Economist, anche i voti (di popolo, di giovani, di
ceti medi) che ha perduto. Certo: la scelta dell’una o dell’altra
prospettiva potrebbe comportare anche una separazione, quanto
consensuale è tutto da stabilire. Già si è scritto: siamo di nuovo ai Ds
e alla Margherita? Può darsi che aleggi nell’aria anche un certo qual
odore di naftalina. Ma, se non su questo, su cosa mai dovrebbe
discutere, dilaniarsi, e all’occorrenza spaccarsi in un congresso di cui
non è dato ancora sapere nemmeno la data e che, peraltro, non esiste
nemmeno nello statuto del partito? Ha detto al Fatto Peppe Provenzano,
il giovane economista che ha fondato la rete «Sinistra anno zero» e gira
l’Italia per riscoprire, e ove possibile rianimare, la sinistra
medesima: «Bisogna capire se basta un partito o se si deve prendere atto
che non si può tenere insieme chi vuol fare Corbyn e chi Macron». Fare
Corbyn? Fare Macron? Torna alla mente un’antica leggenda del Corriere,
quella dell’editorialista che chiedeva al direttore se avrebbe preferito
un fondo alla Montanelli o un fondo alla Scalfari, e si sentiva
rispondere: fai te stesso, se ci riesci. Ma il problema è che, per fare
se stessi, occorre prima di tutto esserci. Il Pd non c’è, da molto prima
del 4 marzo 2018. Per questo prova a esorcizzare la questione, o almeno
a tenerla lontana, sullo sfondo, nella speranza (vana) che perda
consistenza.