domenica 23 settembre 2018

Corriere 23.9.18
Andrea Carandini, 80 anni, archeologo e divulgatore
Il presidente Fai: la mia educazione familiare fu durissima
«A nove anni sognai l’inferno: ero destinato all’archeologia Ora racconterò la borghesia»
di Paolo Conti


Il presidente Fai: la mia educazione familiare fu durissima
Andrea Carandini, 80 anni, archeologo e divulgatore, conosce ogni metro quadrato del Palatino dopo averlo scavato per decenni. Ha firmato, con Paolo Carafa e col suo gruppo di lavoro dopo più di vent’anni di studi e ricerche, lo sterminato «Atlante di Roma antica», ormai punto di riferimento accademico internazionale.
Cosa vuol dire per lei «essere italiano»?
«Sono legato all’idea dell’Unità d’Italia, così come la immaginarono i miei avi, perché ci avevano creduto. È essenziale per me l’antifascismo. Mio nonno paterno, Francesco Carandini, perse nel 1924 il suo posto di prefetto perché antifascista. Mio nonno materno, Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, venne cacciato da Mussolini... E poi c’è un altro legame».
Quale?
«Non c’è altro luogo al mondo, come l’Italia, in cui affondino così le radici della civiltà occidentale. Ovviamente Roma, poi il cristianesimo. Le stesse prime forme di capitalismo sono nate sia a Roma che a Venezia. In più è un luogo di strepitosa bellezza. Ecco perché vogliono venire tutti qui. In troppi».
Troppi chi?
«Troppi immigrati, troppi turisti, troppi barbari dal basso».
Intende noi stessi che abitiamo in Italia?
«Purtroppo anche noi ci stiamo imbarbarendo. Insomma, sono tante le ragioni che mi legano al mio, al nostro Paese».
Le radici ricordano l’idea di scavo. Dunque l’archeologia. È qui, nelle radici, il senso della sua scelta di vita?
«Come motivazione generale forse sì... In realtà verso i miei 9 anni ebbi due sogni che poi si rivelarono profetici moltissimo tempo dopo. In uno cercavo mio padre, non lo trovavo, affrontavo una discesa agli inferi, in uno scenario di fatto archeologico. Ho trovato la mia strada tardi: prima volevo laurearmi in filologia, poi in arte antica. Solo nei primi anni 60 ho individuato la mia via. Sono riuscito, a fatica, a riconquistare un’unità complessiva del mio essere. E quindi, lo ammetto, ad approdare alla felicità».
Da giovane archeologo lei si soffermò sulle immondizie rintracciate negli scavi, suscitando l’ironia di molti...
«Nella mia ottica, trasmessa alla mia scuola, l’archeologia si basa sull’idea di contesto, di sistema, di insieme. Perché tutto si tiene. L’immondizia, lo vediamo anche oggi, è testimonianza involontaria di una civiltà: quali merci si consumano, le abitudini alimentari e igieniche, il gusto di un’era. Una discarica è una lezione di economia».
Lei è un Grande Borghese, viste le sue radici familiari. Le sue origini sono state un peso o una scorciatoia?
«L’educazione familiare mi ha pesato moltissimo. Era concepita come un continuo allenamento, un lavoro massacrante in vista di un futuro risultato che poteva arrivare o meno, come avviene per gli atleti. L’apprendistato fu durissimo. Questo mirare in alto, oggi non esiste più. L’uomo massa è soddisfattissimo di ciò che è. Per questo inneggia alla volgarità e all’insipienza. Provo una grande tristezza...»
Nel vedere cosa, dopo tanto allenamento?
«Non si tutela e si imita più il buono del passato e, insieme, non c’è l’aspirazione a puntare più in alto, a cercare un “nuovo” migliore. Se manca una simile tensione, una civiltà decade proprio perché è il frutto di continui sforzi secolari, millenari. Oggi rischiamo di allontanarci a grandi passi dalla civiltà moderna senza abbracciare un nuovo modello. Vedo sintomi allarmanti. L’uomo massa appare sempre più forte nel mondo e di fatto dice: “La civiltà crolla? Facciamone a meno!”. E facciamo anche a meno della mediazione dell’offerta politica, basta con i dibattiti, i compromessi. Meglio le azioni immediate. Meglio chi non ha nemmeno la più pallida idea di cosa sia una Costituzione liberaldemocratica, che tempera e impedisce la dittatura della maggioranza. Perché c’è anche quella, di dittatura...»
Santo cielo. Sta per caso alludendo all’Italia di oggi?
«Io sto rileggendo con attenzione “La ribellione delle masse” che il grande filosofo spagnolo José Ortega y Gasset scrisse nel 1929 quando erano al potere Primo de Rivera e Benito Mussolini. Lì già c’è tutto ciò che stiamo vivendo e vedendo negli Stati Uniti, in Europa, o in Italia. Una descrizione profetica strepitosa. Insomma, il discorso vale per tutti nel mondo: non esistono “democrazie illiberali”. O una democrazia è liberale, e anche per certi versi socialista, o semplicemente non è».
Se una civiltà crolla, cosa accade?
«Si torna indietro nella Storia. A uno stadio anteriore. Siamo sommersi dalle immagini, ci si fotografa anche nei momenti più intimi, privati, perfino — almeno un tempo — imbarazzanti. La scrittura e la lettura, dunque l’apprendimento e lo studio, sembrano non avere più senso. Nel Medioevo si era ricchi di immagini proprio perché erano tutti analfabeti».
Andiamo verso un Neo-Medioevo supportato dalla Rete?
«Temo di sì. Diciamo un VII-VIII secolo dopo Cristo ma on line, senza l’alba di una nuova civiltà».
Lei sta scrivendo un nuovo saggio. Il titolo?
«Eccolo: “L’ultimo della classe”. Intendo l’ultimo della classe borghese, cioè io. Nessuno leggerà più i Buddenbrook di Thomas Mann... o le conversazioni di Eckermann con Goethe... Proverò a ricapitolare un pezzo di storia personale perché il nesso col passato non si spezzi. Racconterò le vicende di quel gruppo quasi gentilizio di famiglie borghesi, una è la mia, che non si piegò al fascismo nemmeno in nome dei propri interessi».
A chi pensa?
«Ovviamente ai Croce, ai Cattani, ai Ruffini, a noi Carandini... tutti poi confluiti nella tribù de “Il mondo” nell’ambito del liberalismo di sinistra e del primissimo Partito radicale. È una ricapitolazione importante per me, ma penso lo possa essere anche per molti altri».
Lei ha recentemente firmato per Laterza il fortunato «Io, Agrippina». Perché calarsi nei panni di una donna?
«Ho studiato talmente a lungo Roma e il Palatino da sapermi muovere in quei luoghi come nemmeno gli imperatori forse sapevano fare, perché ignoravano l’esistenza di tanti ambienti... A quel punto mi sono chiesto: perché non mettere in scena i racconti di Tacito lì dove si sono svolti? Ma occorreva un punto di vista. E quale migliore prospettiva di quella di una donna nipote, moglie e madre di imperatori, un unicum in tutta la Storia?»
Non c’è il pericolo che la fiction prenda la mano?
«Tutte le mie considerazioni nascono dalle fonti e dai fatti. Agrippina scrisse dei Commentari, veri e propri diari e resoconti che poi vennero appunto usati come fonte, per esempio, da Tacito. Poi, certo, ci sono le narrazioni: una libertà non immaginabile in un articolo scientifico ma che apre spazi di ricerca critica. Ogni tanto l’abbandonarsi all’interpretazione può essere magari pericoloso ma anche lungimirante...»
Il prossimo 3 novembre lei avrà 81 anni. Che rapporto ha con l’età?
«Da una parte è una fatica improba dal punto di vista fisico: il corpo ti sorregge meno, ti stanchi più facilmente. Però in compenso si maneggiano le cose umane con maggiore sapienza, minore intemperanza e dunque si evitano numerosi errori che in passato si sarebbero commessi. E per fortuna c’è la passione del lavoro, dello studio che arriva lì dove i muscoli meno possono...»
Dal 2013 lei è presidente del Fondo Ambiente Italiano ed è stato da poco confermato per il prossimo quinquennio. Una bella scommessa, vista l’età...
«Io non so se riuscirò a completare il secondo mandato fino alla fine ma trovo esaltante accompagnare il Fai nella sua riforma, nel mettere a punto il nuovo piano strategico, unendo la managerialità alla cultura. Sembra una contraddizione, un po’ come addomesticare uno scoiattolo, ma è possibile aziendalizzare un’offerta culturale: è una scommessa altamente civile, appassionante, possibile solo in una realtà privata non profit che può liberamente sperimentare. E poi amo i momenti di incontro con la rete dei volontari, quando posso immergermi in quella élite diffusa nel Paese che ama e sostiene il nostro Patrimonio culturale».
Lei prima parlava di felicità. È anche questo?
«Certo! È una gioia pari a quando, per esempio, pochi anni fa, proprio scavando sul Palatino, vinsi la mia personale scommessa scientifica: sapevo che sotto un tempio del II secolo dopo Cristo c’era altro, ben più antico. E trovammo capanne, con tombe di bambini, dell’VIII secolo avanti Cristo. In pochi metri, individuammo le tracce dell’inizio della nostra Storia. Una gioia immensa».
E cosa la rattrista?
«La condizione complessiva dell’Italia. Non si merita tutto questo. Anzi: non ce lo meritiamo. A partire dal decadimento della scuola, dove non si insegna più l’Educazione civica. Ovvero le fondamenta del nostro stare insieme: del nostro Stato...»