Repubblica Robinson 23.9.18
E ho aiutato l’invasor
Tutti
colpevoli? Il premio Goncourt Eric Vuillard ricostruisce i colloqui tra
Hitler e i dirigenti austriaci nel ’33. Perché, spiega, sono "i piccoli
dettagli che portano alle grandi catastrofi". Una lezione del passato
che conviene tener presente?
di Paolo Di Paolo
"Le
più grandi catastrofi si annunciano spesso a piccoli passi". L’ordine
del giorno di Eric Vuillard – romanzo vincitore dell’ultimo Premio
Goncourt – incamera l’eco quasi impercettibile di quei passi. Sono i
passi di finanzieri, uomini politici, figure stinte sul fondale della
Storia, gente che pare non aver lasciato traccia, né in bene né in male –
e che tuttavia c’era, era là quando l’inevitabile era ancora evitabile.
Quando l’ascesa del peggiore era ancora "resistibile". Vuillard, per
riprodurre sulla pagina il lungo istante prima della catastrofe nazista,
aggira le convenzioni del romanzo storico. È impressionante: con tocchi
rapidissimi, frasi secche, stilettate, ricostruisce non tanto un’epoca –
i cupi anni Trenta in Europa – ma la voragine suicida che in essa si
scava; e il contributo, più o meno diretto, più o meno cosciente,
fornito alla causa hitleriana da comprimari di varia natura. Nessuno è
innocente. Non il signor von Ribbentrop, diplomatico tedesco e ministro
degli Esteri fra il 1938 e il 1945 – che mentre si annuncia l’invasione
dell’Austria chiacchiera di tennis e di vini francesi. Non i
ventiquattro imprenditori e uomini d’alta finanza che approvano
silenziosamente le promesse del braccio destro di Hitler, Hermann
Göring: se il partito nazista ottiene la maggioranza, saranno le ultime
elezioni per i prossimi dieci anni. 20 febbraio 1933, "il compromesso
inaudito con i nazisti", è – racconta Vuillard – in fondo un episodio
abbastanza ordinario della vita affaristica, "una banale raccolta di
fondi". Banale, sì – aggettivo fin troppo ricorrente nel bilancio
storiografico dei totalitarismi. Vuillard rende visibile, e inquietante,
una sequenza di atti inoffensivi solo in apparenza: colpevoli? Di
sicuro parecchio ambigui, legati a valutazioni erronee, storte, in ogni
caso determinanti.
La voce narrante – una terza persona
sottilmente ironica – ragiona sulla possibilità di pietrificare quei
personaggi, di bloccarne i movimenti: "Si dice che la letteratura
consenta tutto. Potrei quindi farli girare all’infinito sulla strada di
Penrose, non riuscirebbero più a scendere né a salire".
L’effetto
di una moviola inceppata. Vuillard però non ci tiene a fare la storia
con i se: tutto è andato come è andato – male, malissimo – e il punto è
che la cortina fumogena di ogni evento immane rischia di oscurare una
quantità di eventi minimi. Un uomo si slaccia un bottone, si allarga il
solino, un altro abbassa i grossi occhiali rotondi sul naso, un altro
ancora si spazzola col guanto il viso rubicondo e "scatarra
religiosamente nel fazzoletto, è raffreddato". Sono tutti lì in attesa
di Hitler. Quelli che non l’hanno mai incontrato sono curiosi di
vederlo. "Era sorridente, rilassato, niente affatto come lo
immaginavano, affabile, addirittura cordiale, molto più cordiale di quel
che pensavano".
Non ci vuole molto per fare la storia, nemmeno te
ne accorgi, a volte basta trovarsi lì dove passa e lasciarla passare,
non fare la differenza.
È straordinario Vuillard nella selezione
dei dettagli. "La verità è dispersa in ogni genere di polveri": il
minimo, l’insignificante, ciò che non lascia traccia per definizione –
mano sudaticcia, cielo grigio del mattino, fiocco di brina, fumo di pipa
– qui risalta, lampeggia.
Risalta come risaltano, nello studio di
Hitler, le poltrone tappezzate di stoffa volgare, i cuscini mosci, i
paralumi ornati da nappine.
La stanza è solo una stanza, una
stupida stanza con una finestra affacciata sul cielo invernale del
febbraio 1938, e al signor Schuschnigg, capo di governo austriaco, pare
all’improvviso troppo grande, mentre si sente addosso gli occhi pallidi
di Hitler. "Per il momento Hitler lo chiama ‘signore’ e Schuschnigg,
imperturbabile, continua a chiamarlo ‘cancelliere’. Hitler l’ha trattato
come uno zerbino e lui, per giustificarsi, si è vantato di fare una
politica tedesca".
Invece di girare i tacchi e chiuderla lì – fa
notare maliziosamente il narratore – il povero Kurt von Schuschnigg,
cancelliere d’Austria, "piccolo aristocratico razzista e timorato",
cerca di placare il conterraneo naturalizzato tedesco, cavando dalla
memoria esempi di utilità della piccola Austria al Reich. A un certo
punto, se ne esce citando Beethoven.
Spera di aver colpito nel segno. "Beethoven non è austriaco", replica Hitler. "È tedesco".
Può
il progetto di invasione nazista dell’Austria essere connesso a un
colloquio tanto ridicolo e insulso? Sì. Solo a patto di non trascurare
il disagio di Schuschnigg, che fuma nervosamente, di non sottovalutare
il tempo uggioso e il caffè servito a fine pranzo da giovani SS. I
viennesi, un mese dopo, "erano così impazienti di essere invasi" che si
accontentarono dei primi tre soldatini tedeschi entrati in città per
portarli subito in trionfo. Con un lieve ghigno, il narratore ci informa
che l’oroscopo del 12 marzo ’38 fu splendido per Bilancia, Cancro e
Scorpione, "mentre per il resto dell’umanità era nefasto". E aggiunge
che solo l’oscuro caporedattore di un giornale locale farà uscire quel
giorno un breve articolo "di resistenza". In mattinata le squadracce
naziste si presentano al giornale per picchiare impiegati e redattori.
"Eppure
al Neus Wiener Tagblatt non sono di sinistra, non hanno detto una
parola quando il parlamento si è dissolto nel nulla, hanno approvato
docilmente il cattolicesimo autoritario…". L’eroismo, commenta Vuillard,
è una cosa strana, "relativa".