Corriere 22.9.18
Il dramma di Rebibbia
I figli uccisi dalla madre in cella Il giallo dei domiciliari respinti
di Giovanni Bianconi
ROMA
Che la madre assassina fosse una donna instabile e non presente a se
stessa l’ha confermato ieri lei stessa, davanti al giudice. Il terzo
attore di una tragica odissea durata meno di un mese, che ha portato
alla morte dei due figlioletti della trentatreenne tedesca Alice
Sebaste, uccisi nel carcere romano di Rebibbia dove scontavano con lei
la custodia cautelare; due anni il primo, sette mesi la seconda. Al
magistrato la donna ha raccontato di avere tentato il suicidio quando
aveva 16 anni, ha parlato di altri disturbi e ha sconnessamente
insistito nel considerarsi una buona madre, che ha protetto i suoi
bambini «dalla mafia», mentre continuava a bere perché doveva produrre
latte. Anche se ormai non deve allattare più nessuno.
Il giudice
ha confermato il fermo nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro
Pertini, in vista di un prevedibile trattamento sanitario obbligatorio e
di un successivo trasferimento in una residenza per malati di mente
considerati socialmente pericolosi. Ma la drammatica vicenda di Alice e
del suo crimine comincia prima, con altri provvedimenti giudiziari,
insieme a un sistema e a una burocrazia che fatalmente non riesce (o non
serve) a prevedere e prevenire certi eventi.
Il «no» ai domiciliari
Ecco
allora che l’attenzione si concentra sul provvedimento del secondo
giudice che s’è occupato di Alice, quando il 7 settembre scorso ha
negato la detenzione domiciliare dopo la cattura decisa dal primo, per
il possesso di 10 chili di marijuana nascosta nei pannolini dei bimbi.
«Gli elementi a sostegno dell’istanza non possono ritenersi tali da
elidere, neppure in minima parte, i presupposti fondanti la misura in
corso di esecuzione», ha scritto il gip rigettando la richiesta.
Quando
si tratta di donne con figli piccoli, per lasciarle in carcere c’è
bisogno di «esigenze cautelari eccezionali», altrimenti gli arresti
domiciliari sono la regola. Tanto più per una persona incensurata come
Alice, fermata il 26 agosto nei pressi della stazione Termini con la
droga, insieme ai figli e a due nigeriani (subito liberati per
insufficienza di indizi), che però non aveva una «fissa dimora» dove
poter scontare la misura cautelare. Motivo per cui il primo giudice l’ha
trattenuta in cella. Il secondo ha aggiunto: «I dati offerti dal
difensore sono già stati ampiamente valutati in sede cautelare, e non ne
sono acquisiti nemmeno di ulteriori tali da modificare il quadro
indiziario e cautelare», e l’ha lasciata a Rebibbia. Dove Alice, quattro
giorni fa, ha compiuto il suo crimine.
L’avvocato Andrea Palmiero
ribatte che il magistrato non ha valutato la sua istanza, dove una
novità c’era: l’indicazione di un nome e un indirizzo presso i quali la
donna poteva ottenere i domiciliari. Era la casa napoletana di un
nigeriano «onesto lavoratore e lontano da logiche criminali, dotato di
permesso di soggiorno» a Napoli, trovata dal compagno di Alice —
nigeriano anche lui — che s’era accordato sul prezzo dell’affitto. Una
soluzione che forse il magistrato non ha ritenuto adeguata, visto il
contesto nel quale la donna sarebbe tornata. Tuttavia questa eventuale
motivazione non compare nell’ordinanza.
Un reparto modello
Dopodiché
nemmeno il difensore conosceva i precedenti autolesionisti della donna,
e non si capacita per quello che è successo: il giorno in cui li ha
scaraventati dalle scale — uccidendo sul colpo la bambina e provocando
la morte cerebrale del maschio — aveva vestito i suoi figli con gli
abiti buoni perché convinta che stessero per farli uscire.
Il
ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e il nuovo capo
dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, hanno decretato
l’immediata sospensione dal servizio della direttrice e della
vicedirettrice di Rebibbia femminile, e della vicecomandante degli
agenti.
Una decisione presa a tempo di record nello stile della
risposta immediata e subito annunciata, contestata — prima ancora che
dagli interessati — dalle associazioni di volontariato, dai sindacati
della polizia penitenziaria, dai garanti dei detenuti. Quel carcere, e
in particolare il reparto-nido dov’era rinchiusa Alice, insieme a chi lo
dirigeva, sono considerati dagli operatori l’eccellenza del sistema
penitenziario. Una specie di fiore all’occhiello decapitato nel giro di
poche ore, quando ancora non è chiaro cosa sia successo riguardo alla
sorveglianza sulla donna tedesca.
Le segnalazioni
Il capo
del Dap parla di ripetute segnalazioni di «comportamenti sintomatici di
una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli», che
sarebbero stati ignorati o sottovalutati. Ma «eventi critici» comunicati
secondo i protocolli in vigore non ne risultano. Si parla
dell’iniziativa di una puericultrice, ma non è certo che sia arrivata
alla direzione.
Dopo la visita della psicologa al primo ingresso
era stata rilevata la necessità di un incontro con lo psichiatra esterno
al carcere, che in venti giorni non s’è visto. Forse ha pesato anche il
periodo feriale, ma accertamenti sanitari di questo tipo non dipendono
dagli istituti di pena bensì dal Servizio sanitario nazionale, a cui
pure sono giunte le rimostranze del Dap.