Corriere 19.9.18
Dietro la crisi del Pd
La sinistra che ignora i deboli
di Antonio Polito
C’è
forse un nesso tra il crac della Lehman Brothers, la banca d’affari che
diede il via alla grande recessione, e il fallimento elettorale del Pd.
Nel 2008, quattro mesi prima che a New York iniziasse la fine del turbo
capitalismo finanziario, il Partito democratico di Veltroni otteneva in
Italia alle elezioni politiche dodici milioni e passa di voti; cinque
anni dopo con Bersani, nel pieno della crisi del debito in Europa, otto
milioni e mezzo; altri cinque anni e, nel 2018, a recessione finita, i
voti di Renzi sono scesi a sei milioni e rotti. Un elettorato dimezzato
in una decade. E secondo i sondaggi in continuo restringimento.
Forse
il destino del Pd era già scritto in quella data di nascita. La
sinistra italiana, di origine marxista, approdò con troppo ritardo al
tentativo di trasformarsi in una sinistra liberale, più protesa alla
creazione di ricchezza che alla sua distribuzione, sulla scia del
successo di Clinton negli Usa e di Blair in Europa. Costruì così un
telaio, il Pd, che era fatto per la Formula Uno, per far correre
l’economia il più velocemente possibile senza fermarsi ad aspettare i
perdenti, nella convinzione che sarebbero stati prima o poi recuperati
da una crescita ormai senza più cicli e limiti. Il programma del
Lingotto ne fu la summa: anche simbolicamente, in casa Fiat. Poi la
storia è andata diversamente. L’economia italiana ha dovuto arrancare su
un terreno sconnesso e minato, e di caduti lungo la strada ce ne sono
stati tanti.
M a il Pd non era più attrezzato per ascoltare i
deboli. La retorica delle opportunità in cambio di sacrifici è così
proseguita anche oltre il ragionevole, tentando di mettere insieme la
Coop con Amazon, come dice Aldo Bonomi, il sindacato con Marchionne, i
risparmiatori coi banchieri, l’artigiano con la Fornero. E dura ancora:
il segretario Martina propone per il 30 settembre una manifestazione
dell’«Italia che non ha paura», mentre è così evidente che il suo
problema sta proprio nell’Italia che ha paura, perché non vive nella Ztl
delle grandi città e non può mandare il figlio a Londra per un master.
Cosi l’intera scommessa su cui si basava il nuovo partito è naufragata,
prima nella lunga recessione italiana e poi, ancor di più, nella troppo
debole ripresa.
Una tale catastrofe politica può indurre
sentimenti di sconforto, o accendere desideri di vendetta. L’uno e
l’altro stato d’animo sono abbondantemente presenti nel dibattito
interno a quel partito; specialmente in chi, non essendo riuscito a
guidarlo, ora vorrebbe scioglierlo, naturalmente restandone al comando;
oppure propone di rifondarlo in una cena privata o sul lettino di uno
psichiatra. Tutto ciò è offensivo per migliaia di militanti e milioni di
elettori. Il Pd non va buttato. È ancora uno dei più grandi partiti
della sinistra europea, e ha reso più di un servizio alla Repubblica
negli anni peggiori di questa decade. Chi ha a cuore la democrazia e il
pluralismo politico non può davvero augurarsi la scomparsa di un partito
di massa, per quanto acciaccato e pesto sia.
Ma per essere
salvato da un gruppo di dirigenti che sembra aver perso la testa, il Pd
deve fare una scelta. Una possibilità è auto-annettersi al populismo,
come ha fatto Corbyn in Gran Bretagna, nazione in cui però non ci sono
già, come da noi, due grandi partiti che occupano quell’area. Ma
attenzione: anche solo scimmiottarne lo stile, come è accaduto quando il
Pd ha addirittura occupato l’aula di Montecitorio per impedire un voto
di fiducia su un decreto qualsiasi, può portare acqua al mulino del
populismo: non si può ricostruire la credibilità di un’opposizione sul
sabotaggio e sulla ripicca. Soprattutto quando, al governo, il voto di
fiducia lo si è messo perfino sulla legge elettorale.
Oppure il Pd
può decidere che non vale la pena di buttare questi dieci anni e che
intende restare nella sinistra liberale. Ma allora deve fare i conti con
la sconfitta che questo pensiero politico ha conosciuto in tutto
l’Occidente. E non deve aver paura di trarne conseguenze radicali.
È
ciò che invita a fare il manifesto dell’ Economist per «un nuovo
liberalismo», che non può più apparire, come è stato in questi anni,
dalla parte della rendita, dei magnati, dei monopolisti privati che si
sostituiscono a quelli pubblici, e dei furbi. Il settimanale inglese
ricorda di essere nato, 175 anni fa, per battersi contro le Corn Laws,
in difesa cioè dei poveri che dovevano comprarsi il pane e contro i
grandi proprietari terrieri che avrebbero guadagnato dal protezionismo
sul grano.
Questa carica delle origini si è persa. Un po’ ovunque,
da Hillary Clinton a Matteo Renzi, i leader della sinistra liberale
sono invece diventati agli occhi della gente una élite compiaciuta di se
stessa e compiacente con i più forti. E non per carattere o per
antipatia, come si dice oggi; ma proprio perché, convinti che la
modernità fosse un pranzo di gala, non hanno avuto il coraggio del
radicalismo politico cui la chiama il manifesto dell’ Economist .
Perciò
oggi non hanno le carte in regola per proporre un futuro migliore a
opinioni pubbliche che sembrano invece sprofondare nella nostalgia del
passato, pericolosa quando si rivolta anche contro la democrazia e la
tolleranza. Errori ne abbiamo commessi anche noi, osservatori,
commentatori, intellettuali schierati dalla parte delle libertà
economiche e politiche, incapaci di lanciare per tempo o con la
necessaria forza l’allarme per la deriva lungo la quale le nostre
società stavano scivolando. L’Italia, come tutto il mondo, ha tratto
progresso e prosperità dalla libertà, e non deve invertire la rotta.
Ma
se il Pd vuol fare parte di questa battaglia deve rapidamente
rimettersi in piedi. Deve capire, smettendo ogni sciovinismo e
liberandosi da qualsiasi ipoteca, che oggi è parte del problema
italiano, e non della soluzione. È una questione di idee: ne devono
venire di nuove, e di migliori. Ed è una questione di leader, che tanto
più credibili saranno quanto meno hanno condiviso gli errori di questi
anni.
Soprattutto, è una scelta che spetta alla gente del Pd, a
chi ancora ci crede e che ancora lo vota. Solo loro sono i proprietari
del marchio, e devono riprendersi il destino nelle proprie mani .