Corriere 10.9.18
Per i popolari europei è l’ora della verità
Daranno riparo al populismo di Orbán?
di Paolo Valentino
Quando
il presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, decise di confermare
Edgar J. Hoover, il peggior nemico dei democratici, direttore a vita del
Fbi invece di licenziarlo come gli chiedevano i suoi, diede una
motivazione entrata per sempre nel lessico politico americano: «Better
to have him inside the tent pissing out, than outside the tent pissing
in», «meglio averlo dentro la tenda che urina fuori, invece di averlo
fuori che urina dentro».
Ridotto all’essenziale, mutatis mutandis,
è lo stesso rovello che tormenta e lacera in queste ore il Partito
popolare europeo alle prese con il premier ungherese Viktor Orbán. Non è
più teorica ma reale la questione di quanto sia grande e variopinta la
tenda cristiano-democratica in Europa, di fronte al voto di mercoledì,
con cui il parlamento di Strasburgo deciderà se avviare contro
l’Ungheria la procedura per violazione dello Stato di diritto, prevista
dall’articolo 7 del trattato.
Occorrono due terzi dei deputati per
approvare il rapporto della Commissione per gli Affari interni, che
raccomanda la messa in stato d’accusa del governo di Budapest,
individuando «un chiaro rischio di violazione dei valori sui quali si
fonda l’Unione». Se innescata, la procedura potrebbe portare alla
sospensione dei diritti di voto dell’Ungheria in seno al Consiglio dei
ministri. Ma una tale maggioranza può prodursi soltanto con l’adesione
di una fetta importante del gruppo più numeroso, il Ppe appunto, di cui è
parte anche il Fidesz di Viktor Orbán.
È un test cruciale, una
prova di forza decisiva per il futuro del Partito popolare, la sua
vocazione europeista e maggioritaria, secondo alcuni perfino la sua
stessa esistenza.
Lo è prima di tutto per Manfred Weber, il
cristiano-sociale bavarese che presiede il gruppo popolare e si è appena
candidato per guidare il Ppe alle elezioni europee del 2019, con
l’ambizione di diventare presidente della prossima Commissione Ue. Weber
ha bisogno di Orbán, non solo perché senza i deputati del Fidesz
difficilmente dopo il voto di maggio sarà ancora il primo partito
nell’aula di Strasburgo. Ma anche e soprattutto perché il premier
ungherese, vero maître à penser del sovranismo, si vuole pontiere verso
le forze populiste, dal polacco Kaczynski a Matteo Salvini, con cui
l’esponente bavarese dice di volersi confrontare e fare compromessi.
Costruita
nel segno di una svolta conservatrice, difesa dei valori cristiani e
linea dura sull’immigrazione, la candidatura di Weber rischia però di
trovarsi in difficoltà proprio a causa di Orbán, considerato dai
moderati del Ppe, specie quelli dei Paesi nordici, incompatibile con i
valori europeisti dei cristiano-democratici: «L’Ungheria si sta
chiaramente allontanando dai nostri principi statutari», dice Anna Maria
Corazza, deputata popolare svedese. «Nelle nostre file cresce la
frustrazione per le azioni di Orbán», ammette la tedesca Sabine
Verheyen, europarlamentare della Cdu.
La contraddizione in cui si
trova Manfred Weber è stata riassunta non senza malizia dal presidente
francese, Emmanuel Macron, la scorsa settimana a Lussemburgo: «Non si
può appoggiare allo stesso tempo Merkel e Orbán». Certo Macron ha tutto
l’interesse a seminare zizzania nel Ppe, sperando di trarne vantaggi per
il suo movimento En Marche. Non è un mistero infatti che il capo
dell’Eliseo punti a convincere alcuni partiti nazionali oggi nel Ppe a
unirsi a lui. Ma la sostanza non cambia: dopodomani a Strasburgo sarà
per Weber l’ora della verità. Probabilmente lascerà libertà di voto ai
suoi. Ma se i voti del Ppe consentissero di mettere sotto accusa il
governo ungherese, allora la strada per espellere Fidesz dal Ppe sarebbe
aperta, un duro colpo per i piani e le ambizioni di Weber.
Che la
posta in gioco sia altissima, lo prova la presenza di Viktor Orbán a
Strasburgo. Il premier ungherese ha chiesto infatti di intervenire
personalmente domani nel dibattito in aula alla vigilia del voto. Fonti
popolari suggeriscono che l’accorto tribuno magiaro potrebbe concedere
qualcosa, ad esempio promettendo di modificare alcuni dei provvedimenti
più controversi, come quelli che di fatto rendono impossibile l’attività
delle Ong in Ungheria. «Se non tende la mano lo manderemo a quel
Paese», ha detto un anonimo esponente popolare a Politico.
Una
cosa è certa. Mercoledì nell’aula di Strasburgo non si vota solo su
Orbán e le sue leggi liberticide. Si vota per decidere se la gloriosa
tenda cristiano-democratica possa in futuro far da riparo anche
all’agenda populista.