lunedì 6 agosto 2018

Repubblica 6.8.18
L’algoritmo di Kojève
Gli studi sulla fisica del grande interprete di Hegel
di Antonio Gnoli


Ciò che lo colpiva era l’uso diverso del determinismo e del principio di casualità
Con conseguenze molto importanti
Nella fisica moderna viene meno l’accostamento tra mondo divino e mondo matematico

Credo abbia ancora qualche interesse domandarsi quale sia stata la vita intellettuale prima e dopo l’avvento dell’homo sovieticus. Quali tensioni e incertezze covassero nel cuore di certi russi che vissero in maniera traumatica il passaggio da un mondo contadino a un altro avvolto da efferatezze e utopie.
Ebbene, un certo tratto in comune lo ebbero coloro che, pur sorretti da acute forze spirituali e religiose, provarono ad avvicinarsi alla scienza e in particolare alla matematica. Gli esempi più vistosi, su piani che solo in parte sembrano avvicinabili, ci vengono offerti da due straordinari protagonisti di questa storia: Pavel Florenskij e Alexander Kojève.
Non mi sognerei di accostarli se non per il modo in cui, in certa parte delle loro vite, hanno affrontato le scienze esatte.
Florenskij fu considerato un purissimo talento delle matematiche, allievo di Bugaev si avvicinò al pensiero scientifico di Georg Cantor e in particolare agli sviluppi della relazione finito-infinito. Ma cosa c’entra Kojève, il cui nome è soprattutto associato a un seminario tenuto a Parigi sulla Fenomenologia dello Spirito? Poco prima di occuparsi di Hegel, questo russo trapiantato in Francia aveva manifestato grande curiosità per la fisica. È probabile che un tale interesse gli derivasse dall’assidua frequentazione di Alexandre Koyrè, anche lui russo, emigrato a Parigi e strepitoso storico della scienza. Fu Koyrè a proporre a Kojève di sostituirlo all’Ecole des Hautes Etudes. Ma nel 1931, cioè due anni prima che iniziasse le sue lezioni, Kojève scrisse L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (Adelphi, trad. di Sofia Moreno, a cura di Mauro Sellitto). Il libro resterà a lungo inedito contribuendo alla leggenda di quest’uomo che divorava mentalmente il mondo.
Quale motivo spinse Kojève a occuparsi delle scienze esatte e sperimentali? Il monito heideggeriano che la tecnica aveva soppiantato la metafisica si potrebbe qui intendere non già come una condanna ma come un’opportunità per leggere più a fondo il rapporto certo non semplice tra la filosofia e la scienza. A Kojève interessa cogliere e spiegare il diverso atteggiamento del mondo antico (si legga fisica classica) rispetto a quello contemporaneo in cui la fisica attraverso Planck, Bohr e Einstein rivoluziona le proprie basi.
Che un signore molto ironico ma anche addentro alle questioni religiose e filosofiche potesse approdare alle vertiginose letture dei testi dei grandi fisici del primo novecento può apparire bizzarro.
Che cos’è che lo attrae al punto da farsi coinvolgere così seriamente su una materia che non è la propria? Come altri contemporanei, è colpito dalla radicale differenza tra fisica classica e moderna. Dall’uso diverso del determinismo. Dal fatto che nella fisica classica – il cui punto più alto si tocca con Galilei e Newton – le leggi causali consentono una prevedibilità attendibile dei fenomeni fisici, per cui le stesse cause hanno dovunque gli stessi effetti.
Adottando, in tal modo, il postulato della continuità. Ed è abbastanza ovvio, come egli stesso riconosce, che il quadro teorico cambia radicalmente dopo la celebre conferenza che Max Planck terrà nel 1900 "sulla radiazione del corpo nero", con la quale introduce il concetto di discontinuità in fisica. Concetto che verrà ripreso e approfondito da Bohr e Heisenberg, i due fisici che porranno fine alla spiegazione causale del mondo fisico.
Che non ci fosse o che si potesse dubitare di una relazione necessaria tra la causa e l’effetto già David Hume, in omaggio al proprio scetticismo, lo aveva dichiarato. Ma Kojève fa un passo ulteriore: rigetta il lavoro di quei fisici che tendono a identificare l’universo fisico con l’universo matematico. Per quanto si possa geometrizzare lo spazio fisico non lo si potrà esaurire, dal momento che il mondo fisico resterà pur sempre il solo spazio reale.
Negli anni Sessanta, tornando a riflettere su questi temi, Kojève scrisse un fondamentale articolo su Le origini cristiane della scienza moderna. Qui "moderna" non va intesa come quantistica, ma galileiana. Perciò: se Dio è all’origine di tutte le cose, la scienza, nell’adottare il principio di causalità, ne è per così dire la prosecuzione nel mondo fisico.
Non c’è alcuna differenza, precisa Kojève, tra il cielo divino e quello matematico o matematizzabile.
Fu nei primi anni del Novecento che l’accostamento tra mondo divino e mondo ipotetico-deduttivo venne meno.
La rivoluzione quantistica lasciò cadere il principio di causalità.
"Causa", nota a questo proposito Mauro Sellitto nella postfazione, in greco voleva dire "colpa", il termine era prevalentemente usato nell’ambito giuridico e religioso. La sua estensione nell’ambito della scienza trattiene il ricordo di un trauma (un urto che trasforma) e al tempo stesso richiama un sacrificio che è all’origine della capacità dell’uomo di creare similitudini, cioè di ristabilire un ordine precedentemente turbato.
È questo sfondo in cui le leggi divine e quelle fisiche per un attimo sembrano toccarsi che si appanna nel passaggio dalla fisica classica a quella quantistica. Dio non è più una risorsa. Ma non è neanche un problema dal momento che la realtà è ormai solo un fatto statistico.
È significativo che due russi geniali con storie alle spalle molto diverse abbiano alla fine scelto soluzioni differenti. Florenskij scoprì gli immensi tesori della ortodossia religiosa bizantina; Kojève, come pochi ossessionato da Dio, preferì crearsi un universo in cui proprio Dio non avrebbe potuto metter piede e proclamò, con qualche baldanza, la fine della storia. Entrambi non potevano allora scorgere le conseguenze di tutto questo. Sapevano che non c’era più un Dio a dettare le tavole della legge. Non potevano sapere che un semplice algoritmo avrebbe preso il suo posto.

Corriere 6.8.18
Vittorino Andreoli,
«Non dimenticherò mai lo sguardo di Pietro Maso
I matti? Geniali, li amo»
Lo psichiatra: io spettinato da sempre, papà mi sgridava
di Roberta Scorranese


Professor Andreoli, perché voleva più bene al papà che alla mamma?
«È stato lui il mio punto di riferimento. So che è ingiusto nei confronti di mamma, ma nella mia casa di campagna, al muro, c’è un solo ritratto, quello di papà. Si affacci, guardi quei ponti: è stato lui, dopo la guerra, a dirigerne la ricostruzione».
Finestra trilobata, prezioso Quattrocento veneziano: se ci si affaccia da questo palazzo nel cuore di Verona si scorge almeno il Ponte delle navi, che Luigi, il padre di Vittorino Andreoli, un costruttore edile, fece rimettere in piedi — come altre zone della città devastata dalle bombe. E non fu facile per il giovane Vittorino, un giorno, andare da lui e dirgli: «Mi dispiace ma io non prenderò il tuo posto nell’azienda, non farò case: voglio curare i malati di mente».
Come reagì?
«In quel momento seppe che la sua impresa sarebbe morta con lui, quindi fu un colpo. Però mi comprese e mi sostenne sempre».
Settantotto anni, una vita dedicata alla psichiatria e allo studio del cervello altrui. Oggi si sente più sereno o più preoccupato?
«Molto preoccupato. Ci sono segni evidenti di un declino della nostra civiltà e io non so immaginarmi in una civiltà diversa».
Dove vede una regressione della specie?
«Per esempio nella distruttività: io ho fatto appena in tempo a vivere la Seconda guerra mondiale e per decenni sono stato convinto che avessimo imparato che cosa vogliono dire i conflitti. Ma ci sono altri segnali: io e lei in questo momento stiamo utilizzando un vocabolario di un centinaio di parole. Bene, tenga conto che nelle conversazioni correnti se ne usa la metà. Poco alla volta perdiamo la memoria semantica, così come stiamo perdendo quella numerica, che abbiamo affidato agli smartphone: dai conteggi al calcolo per ritrovare la strada di casa. Ne parlo nel mio nuovo libro che uscirà a breve, e che ho voluto intitolare per questo Homo Stupidus Stupidus, poiché in sincerità non penso che possiamo più fregiarci della definizione Sapiens Sapiens».
Quindi l’uomo potrebbe continuare, ma questa civiltà potrebbe estinguersi? E come?
«Se viene a mancare un sistema di trasmissione di valori, insegnamenti, memoria. Badi: non parlo solo della scuola: oggi gli esperti di una materia non solo non vengono ascoltati, ma derisi, ignorati a volte. Si ricordi: basta una generazione a far evaporare quello che l’umanità ha imparato nel corso dei millenni».
Si mette in discussione con leggerezza anche la scienza, penso ai vaccini.
«Guardi che anche noi, nel dopoguerra, mettevamo in discussione la ricerca ma per altri motivi: perché ci si chiedeva se un sistema che aveva portato a realizzare la bomba atomica potesse essere legittimato. Oggi è diverso: l’uomo è diventato senza misura. Ci faccia caso: non si cerca più l’equilibrio, ma l’eccesso. La politica o la televisione ne sono esempi».
Eppure lei nella sua vita ha conosciuto da vicino il male. Dai serial killer che ha seguito, alle perizie fatte sugli accusati della strage di piazza della Loggia.
«Un periodo difficilissimo. Nel caso di piazza della Loggia giuravamo sulla riservatezza e per mesi la mia famiglia non ha saputo dove andassi. I quattro che vennero accusati all’inizio, se presi singolarmente per me non riscontravano patologie importanti. Ma se esaminati insieme, sì. Capii allora che non esiste il male in sé, ma esiste l’uomo che fa il male».
Eppure lei ha frequentato papi, uomini di chiesa, gente convinta che il male in sé esista.
«Per esempio Paolo VI. Una volta facemmo una lunga passeggiata durante la quale mi ripetè più volte questo concetto. Ma io ho negli occhi lo sguardo di Pietro Maso, un ragazzo che arrivò a uccidere i propri genitori solo perché gli servivano 50 milioni. Per comprare una macchina che aveva visto in una serie tv».
La banalità del male?
«Maso però divenne “un mito” per molti adolescenti dell’epoca. Lo sa che una ragazza arrivò a licenziarsi dalla Standa di Bologna per diventare la sua fidanzata e poterlo andare a trovare in carcere ogni sabato? Lui era un narciso, capace di annullare il suo prossimo».
Perché ci facciamo attrarre tanto dal male? Penso ai cosiddetti «cattivismi» di oggi.
«Perché stiamo ridiventando pulsionali. E sono convinto che la maggior parte delle (numerose) paure che ci attanagliano siano in un modo o nell’altro legate ai soldi. Abbiamo paura della povertà e ogni forma di potere mette in scena un ricatto fondato su questo. Ecco perché ci percepiamo sempre poveri. Beninteso: oggi un professore di matematica con due figli ha uno stipendio forse non “da povero” ma di certo da persona quasi in difficoltà».
Lei, in disaccordo con un altro illustre veronese, cioè Cesare Lombroso, ha sempre detto che i sani possono diventare matti e viceversa. Siamo forse un po’ più matti oggi?
«No, perché io ho un grande rispetto per quelli che affettuosamente ho sempre chiamato “i miei matti” e ai quali ho dedicato buona parte delle mie ricerche. I matti sono più originali, più interessanti. Lei tra Galileo e Bellarmino chi sceglierebbe? I matti sono geniali, producono a volte cose bellissime: pensi solo all’Art brut. La normalità è noiosa. Ma non sto parlando della misura, che è ben altra cosa: la tendenza all’eccesso di oggi indica che l’uomo, non “matto”, non vuole essere misurato».
Questo è l’anno in cui la legge Basaglia ne compie 40. Lei è intervenuto poco, perché?
«Sono intervenuto solo in un convegno a Milano nel quale è emerso che oggi, su 450 servizi di diagnosi e cura, solo 23 non usano la contenzione fisica. In tutti gli altri vengono applicati presidi di vario tipo per limitare i movimenti del paziente. Devo aggiungere altro?»
Lei ha seguito numerosi serial killer. Oggi però questa figura, almeno sul piano mediatico, si è molto diradata. Sono finiti gli assassini seriali o siamo cambiati noi?
«I cosiddetti serial killer si muovono sempre su uno sfondo sessuale, diretto o indiretto. Evidentemente sono cambiate le nostre abitudini sessuali, abbiamo meno limiti. Penso a Donato Bilancia, 13 ergastoli da scontare per 17 omicidi. Lui aveva un modus operandi terribile: avvicinava la prostituta, la faceva inginocchiare e, ottenuta la prestazione sessuale, le puntava una pistola alla tempia».
Si fermò davanti a una donna che, capite le sue intenzioni, gli mostrò la foto del figlio.
«Sì, e in seguito fu catturato proprio grazie alla segnalazione della donna. Lui si fermava sempre laddove c’era di mezzo un bambino. Una volta aveva deciso di uccidere un prete. Entrò in questa chiesetta, chiese del sacerdote ma poi vide un ragazzino nei paraggi e si bloccò. Se ne andò senza fare nulla. Vede, la mente umana è un mondo complesso e se io oggi ho un rammarico è che avrei voluto fare di più. Di più per gli altri, per la società, per i miei matti. Non mi basta mai quello che faccio».
Eppure, lei sembra una persona felice.
«Sono un “infelice gioioso”. Non amo il concetto di felicità perché è individuale, direi egoistico. La gioia invece è corale, si può condividere e trasmettere. Se vuole sapere qual è stata una grande gioia della mia vita glielo dico: sono stato felice quelle due volte in cui mio padre mi ha detto che era contento perché io avevo fatto il mio dovere. Nonostante fossi un gran secchione, non mi ha mai detto “bravo”».
Torna la figura di suo padre. È vero che la sgridava perché era sempre spettinato?
«Sì! Ma con affetto. Come vede, lo sono ancora: non sono mai andato dal barbiere».
Però lei ha cinquant’anni di matrimonio alle spalle. Sua moglie è una psicanalista. Qual è il segreto di un legame così duraturo, a parte le due figlie e i nipoti?
«Sarò preciso in questo: perché mi sforzo di capire che non siamo solo degli “io”, ma tutti noi siamo delle “storie”. In continua evoluzione e narrazione. Certo, anche nel dolore. Ma nel momento in cui smettiamo di pensarci come entità individuali e ci convinciamo che un poco dipendiamo dagli altri e che gli altri un poco dipendono da noi, be’ i legami durano» .
Vittorino Andreoli è rinomato per la sua rigorosa riservatezza nella vita privata. Ma qui faccia un’eccezione e ci racconti come ha conosciuto sua moglie.
«Va bene, farò uno strappo. L’ho conosciuta ovviamente all’università perché, come ho detto, io pensavo solo a studiare e non avevo altre occasioni di incontrare persone. Di lei mi ha colpito subito l’aspetto materno, con il fisico “dolce”, cosa che mi ha sempre attratto».
Ahia, professore, qui però torna la figura della mamma!
(ride) «Ma che fa, mi analizza?»
Scherzi a parte, a sentirla parlare si direbbe che lei sia mosso da una grande forza. È fede?
«Le confesso la mia personalissima preghiera, che non ho mai rivelato a nessuno. Fa così: caro Dio, io non credo di conoscerti, ma ricordati che se ti conoscessi, farei esattamente quello che tu mi chiedi».
Un non credente fiducioso?
«Non sono ateo. Ma detesto i teologi perché vogliono spiegare un mistero che, invece, appartiene alla nostra esperienza. Ci dividiamo in tre categorie: i credenti, i non credenti (categoria alla quale appartengo) e gli atei. Se mi posso permettere, la chiesa forse dovrebbe concentrarsi su di noi, non credenti però in qualche modo in attesa».
Che cosa la annoia professore?
«L’arroganza del potere. Perché è prevedibile, perché è debolezza. Amo le persone originali, poco mondane, poco inclini ai compromessi. E diffido di chi fonda tutto sul denaro».
Si diverte?
«Non guardo la tv, non vado al cinema, passo il mio tempo a studiare e a scrivere i miei libri. Noioso? Forse, ma di certo molto libero».

Repubblica 6.8.18
L’appello
Un impegno collettivo
Elezioni europee, basta indifferenza: adesso una rete di iniziative per contrastare la deriva populista in atto
di Massimo Cacciari


Gentile direttore, il testo-appello pubblicato venerdì 3 agosto su Repubblica è stato redatto insieme da tutti gli amici che l’hanno sottoscritto e, inoltre, da Maurizio Pollini e Salvatore Sciarrino. Nelle intenzioni di chi l’ha pensata e promossa, l’iniziativa non chiede tanto generiche adesioni, quanto l’impegno di tutti coloro che condividono il senso generale del testo pubblicato nel promuovere appelli o documenti analoghi, ma rivolti a aree culturali e politiche, settori professionali, interessi diversi.
Dalla denuncia in generale dei caratteri sempre più apertamente regressivi della politica italiana, è necessario passare a critiche e proposte specifiche per ogni ramo di attività, dall’amministrazione della giustizia, alla politica industriale e dei lavori pubblici, alla politica della scuola e della ricerca, fino agli stessi problemi cruciali della politica estera e della immigrazione.
L’appello iniziale deve cosi trasformarsi e concretizzarsi in una molteplicità di documenti collegati tra loro e sottoscritti dal maggior numero possibile di operatori nei diversi ambiti, che facciano comprendere in tutti i suoi aspetti le conseguenze nefaste per il Paese non tanto dei programmi demagogici che il governo sbandiera, quanto dei comportamenti civili, della cultura in generale che con i suoi atti e le parole dei suoi capi sembra voler quasi promuovere.
Il testo del 3 agosto voleva essere una " chiamata" perché ciascuno, per le proprie competenze e nel proprio settore, comprendesse che l’indifferenza è ormai equivalente a irresponsabilità e assumesse le iniziative che ritiene più utili per contrastare la deriva in atto. Sono certo che Repubblica saprà apprezzare e accompagnare questo progetto.

Repubblica 6.8.18
La società civile
La cultura batta un colpo
Di fronte ai nazionalismi gli intellettuali devono con urgenza risvegliare nei loro Paesi il sogno dell’Europa
di Guido Crainz

Forse c’è una ragione se una parte non piccola del mondo culturale appare oggi impotente e quasi attonita di fronte alla crisi sempre più drammatica dell’Europa: forse di quella crisi ha anch’essa responsabilità non lievi. Forse al fondo non vi sono solo responsabilità politiche (certamente enormi) ma anche inadeguatezze e inerzie della cultura, incapace di accompagnare il processo di unificazione con un radicale salto di qualità nel confronto e nella circolazione di idee. Nella costruzione di uno sguardo comune sul futuro e al tempo stesso sulle ferite e sulle lacerazioni del passato. Anche per pigrizie e passività della cultura, forse, i due momenti che sembrarono sancire il coronamento di un sogno — l’avvio dell’euro e poi l’allargamento del 2004 — segnarono in realtà l’inizio del suo incrinarsi. Era stato inevitabile — annotava vent’anni fa Ezio Mauro su queste pagine — « avviare l’unificazione attraverso l’unico comun denominatore oggi possibile, quello della moneta » , ma era urgente « dare un contesto istituzionale, culturale e politico a questa moneta. Perché rappresenti l’Europa e non soltanto un gruppo di Paesi comandati da una banca». Il compito divenne ancor più necessario dopo l’allargamento del 2004, e fu disatteso ancor più gravemente: eppure entravano allora nell’Unione parti decisive di un Occidente che era stato a lungo "sequestrato" dall’Urss, per dirla con Milan Kundera, e largamente abbandonato dal resto dell’Europa (o che tale si sentiva). Vi entravano Paesi che non avevano conosciuto reali democrazie neppure prima dei regimi comunisti, ove si eccettui la Cecoslovacchia fra le due guerre. E proprio la vicenda del " gruppo di Visegrád" ci fa cogliere nodi irti, perché esso non nasce " contro l’Europa". Tutt’al contrario, nasce nel 1991 come strumento per l’allargamento della costruzione europea, promosso da figure come Václav Havel e Lech Walesa: quando è iniziato il processo inverso? Su quali errori politici e su quali scelte economiche inadeguate, su quali cecità e chiusure esso ha potuto prosperare? Appaiono oggi drammaticamente profetiche le parole pronunciate nel 1990 al Senato polacco da Bronislaw Geremek, uno dei principali dirigenti di Solidarnosc. Nei nostri Paesi post-comunisti, osservava, c’è oggi euforia per una libertà riconquistata ma vi è al tempo stesso «un senso di debole radicamento delle istituzioni democratiche e del pensiero democratico » . E aggiungeva: « Tre pericoli accompagnano in questa fase transitoria i Paesi che si sono liberati dalla dittatura comunista. Il primo è il populismo, che ha un naturale terreno di coltura nelle esperienze vissute finora da tali società e si fonda sulle illusioni egualitarie. Il secondo è la tentazione di instaurare governi dalla mano forte, particolarmente avvertita nelle società post-comuniste proprio perché in esse le istituzioni democratiche sono deboli. Il terzo è il nazionalismo » . Sino ad ora, concludeva, il sentimento nazionale è stato un elemento naturale di solidarietà e di resistenza all’oppressione sovietica ma ora può «deformarsi e diventare nazionalismo e sciovinismo » . Alcuni nodi sono tratteggiati qui in modo straordinario, e si aggiungano le ferite del passato: non ha certo pesato poco in Ungheria il trattato di Trianon — evocato sabato da Cuperlo — che dopo la Prima guerra mondiale l’ha amputata di ampie parti ( si legga almeno il Sándor Márai di " Volevo tacere"), o in Cecoslovacchia quel patto di Monaco che aprì la via ad Hitler ( il primo " tradimento dell’Europa", seguito dall’inerzia di fronte al colpo di stato comunista del 1948 e poi di fronte all’invasione dell’agosto di cinquant’anni fa). Se questo è vero, è anche nella costruzione di uno sguardo comune sul futuro e sul passato che dobbiamo procedere, in un confronto molto più aperto e continuo di quello attuale: molto più capace di superare le deformazioni e di rispondere realmente alle differenti memorie nazionali. O a veri e propri vuoti di conoscenza. È un compito di lungo periodo, naturalmente, ma è decisivo avviare subito una radicale inversione di tendenza rispetto a troppe pigrizie intellettuali: l’avvicinarsi di elezioni europee cruciali, giustamente evocato dall’appello di Cacciari e di altri, ne aumenta l’urgenza.

Repubblica 6.8.18
Attenti alla rete di Bannon
di Ian Buruma


Dopo essere stato allontanato dalla Casa Bianca e da Breitbart News, Stephen K. Bannon — spesso considerato " il cervello" della campagna presidenziale di Donald Trump — ha giurato che avrebbe rifatto l’Europa. La sua organizzazione, chiamata The Movement, ha base a Bruxelles e mira ad unire i populisti di destra europei e a demolire l’Unione Europea così come la conosciamo. Bannon vede il proprio compito come parte di una "guerra" tra il populismo e " il partito di Davos", tra le " persone vere" — che, per usare le parole del suo sostenitore britannico Nigel Farage, sono bianche, cristiane e patriottiche — e le élite cosmopolite e globaliste. Bannon, quanto meno dalla stampa, viene preso sul serio.
Un obiettivo che sembrerebbe piuttosto arduo per questo pallone gonfiato americano, perennemente trasandato e promotore di idee bislacche sui cicli della storia destinati a sfociare in cataclismi per cambiare la storia dell’Europa. Pur avendo incontrato molti luminari di destra, come l’autoritario primo ministro ungherese Viktor Orbán, il vice primo ministro italiano Matteo Salvini e Boris Johnson, il clownesco ex ministro degli Esteri britannico (i quali gli augurano tutti il meglio), Bannon non ha quasi alcuna esperienza di politica europea. A Praga ha lasciato di sasso una folla di simpatizzanti sparando a zero contro "l’ingiusta concorrenza" di quei Paesi stranieri che ricorrono a una manodopera a basso costo. Il Pil della Repubblica ceca deriva soprattutto dalle esportazioni, ed esattamente per quel motivo.
Tuttavia, il problema principale è che i leader populisti di destra sono un gruppo piuttosto variegato. Lo stesso Bannon è un reazionario cattolico che ama immaginare di essere un guerriero che si batte contro le forze del male ( fantasie alimentate dalla passione per gli eroi di Hollywood). Orbán è un autocrate che sfrutta il disincanto popolare nei confronti del post comunismo per prendersela contro gli immigrati e l’Unione Europea: anche l’economia ungherese senza i sussidi di Bruxelles sopravviverebbe a stento. I demagoghi del Nord Europa, come Geert Wilders, vedono nell’Islam la principale minaccia alla civiltà occidentale, ma difendono cause come quella dei diritti dei gay (perché presumono che i musulmani li odino). Boris Johnson non rappresenta altri che se stesso, ma i suoi compagni pro-Brexit non sono tanto interessati alla minaccia islamica quanto ad una grandiosa versione del nazionalismo inglese.
Il Fronte nazionale francese, che oggi si chiama Raggruppamento Nazionale, è opera della famiglia Le Pen, che tenta in ogni modo di prendere le distanze dalle proprie radici antisemite e vichyiste. Così come negli anni Venti e Trenta accadeva con il fascismo europeo, nemmeno oggi è facile trovare molta coerenza ideologica in queste varie correnti politiche, e men che meno nel Movimento di Bannon. Anche se sono tutte accomunate da un’animosità diretta ora contro i musulmani, ora contro qualsiasi tipo di migrante, molto spesso contro l’Unione Europea e immancabilmente contro le élite liberali, o — come li definisce il primo ministro britannico Theresa May — i "cittadini di nessun luogo".
Questa animosità contiene un che di cospiratorio; l’idea che l’uomo comune sia alla mercé di una fumosa rete di burattinai in grado di determinare il destino del mondo. Ma per quanto la retorica e le politiche contro i migranti possano essere sgradevoli, il vero obiettivo della collera dei populisti rimane quell’élite globalista di sinistra che ai loro occhi è rappresentata da George Soros e da altri liberal, accusati di promuovere (per proprio interesse) i diritti umani, la compassione verso i rifugiati e la tolleranza religiosa. Sarebbero loro a inondare le terre cristiane di stranieri, accoltellando così la civilizzazione occidentale alle spalle. Bannon ha persino espresso ammirazione nei confronti di Soros, che pure considera una sorta di Satana: egli stesso ambirebbe ad essere il Soros della destra.
Può sembrare ironico che i nazionalisti radicali, tra cui Bannon, possano desiderare di unirsi in un movimento globale, come a voler scimmiottare i loro nemici internazionalisti. Eppure, di ironico non vi è nulla, dal momento che i populisti, più che distruggere l’elitismo in quanto tale mirano a far fuori le vecchie élite. A questo atteggiamento si deve il loro linguaggio comune, fatto di autocommiserazione. Come se Orbán, Salvini, Wilders e gli altri fossero oppressi dal "partito di Davos". Spesso si sentono esclusi, persino guardati con sufficienza. E credono che per loro sia arrivato il momento non solo di governare, ma di esigere vendetta per tutte le offese che ritengono di aver subito. Ecco perché Donald Trump, il rozzo immobiliarista dall’atteggiamento sprezzante, è il loro eroe. È evidente che Trump si sente a proprio agio più con i dittatori che con i leader democraticamente eletti. L’idea di un uomo forte che tratta con un altro uomo forte gli piace. Tuttavia questo non basta a fare di lui un internaziona-lista, così come dei gruppi di populisti di destra europei non bastano a dare vita ad un movimento internazionale coerente, o The Movement. Si tratta semplicemente di occasioni per scambiarsi reciproche lusinghe e pavoneggiarsi di fronte alle telecamere. È difficile capire se i populisti siano in grado di fare di più e possano, collettivamente, riuscire a smantellare l’Unione Europea e riorganizzare il mondo occidentale. Potrebbero frantumarsi tra rivalità ed recriminazioni. I loro interessi non sono gli stessi. Trump e Bannon vedono nella Cina il grande nemico globale. Orbán vuole fare affari con i cinesi. E i nazionalisti inglesi stanno portando il loro Paese verso uno splendido isolamento. In ogni caso, qualunque fine farà la destra globale, è improbabile che sarà Steve a condurvela.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 6.8.18
Mappe
Il sondaggio Demos Coop
Il calo di popolarità di Francesco che paga la difesa dei migranti
Resta il più amato dagli italiani ma rispetto a cinque anni fa il sentimento positivo è scivolato dall’88 al 71 per cento. A sorpresa, il Papa piace meno ai giovani
di Ilvo Diamanti


È sempre lui, il più amato dagli italiani. L’uomo del Futuro. Papa Francesco.
Il consenso nei suoi confronti, infatti, si conferma molto elevato: poco sopra il 70%. Ma 5 anni fa, quando venne eletto, era pressoché totale: 88%. Diffuso in tutta la popolazione. Con poche distinzioni di genere, età, titolo di studio. Ma anche di posizione politica. Papa Francesco piaceva a tutti. Perfino ai non credenti e ai non praticanti. Quelli che non vanno (mai) a messa. Soprattutto per "empatia". Perché si dimostrò subito "distante dalla distanza" suggerita dal ruolo. Papa Francesco succedeva a Benedetto XVI. Joseph Ratzinger. Fine intellettuale, oltre che uomo di Chiesa e di fede. Allievo, a Tubinga, di Romano Guardini.
Teologo e filosofo italo-tedesco.
Nato a Verona. Con radici a Isola Vicentina. Eletto Papa nel 2005, Benedetto XVI si dimise 8 anni dopo. Nel 2013. Gli succede Jorge Mario Bergoglio. Papa Francesco.
Appunto. Gesuita. Anch’egli teologo. Scelse, però, un approccio diverso. Molto diverso.
Da tutti i suoi predecessori.
Compreso Giovanni Battista Montini, Papa Paolo VI, di cui oggi ricorre il 40simo anniversario dalla morte. E che lo stesso Bergoglio ha beatificato, nel 2014. Ebbene, Papa Francesco si presentò, subito, come "uno di noi". "Un uomo del popolo". E per questo "popolare". Ma anche un poco "populista". Nello stile di comunicazione e di azione.
Diretto e perfino ir-rituale. Papa Francesco venne accolto, anche per questo, da un consenso sostanzialmente "totale". Oggi gli orientamenti, al proposito, sembrano cambiati. Anche se in "misura misurata". I giudizi positivi nei confronti di Papa Francesco, infatti, superano ancora il 70%. Riguardano, dunque, una maggioranza larghissima. Ma il calo, rispetto agli anni dell’avvio, appare significativo. Confermato dall’indagine condotta dall’Osservatorio su Nord Est e pubblicata sul Gazzettino di recente. Il Nord Est: l’area più bianca del Paese. La "sacrestia d’Italia". Dove, storicamente, la Chiesa ha messo radici profonde.
Nella società, sul territorio. Nella politica. Ebbene, anche nel Nord Est, e soprattutto in Veneto, il consenso verso Papa Francesco è sceso, pressoché nella stessa misura. Dal 93% nel 2013 all’80% di oggi. Le spiegazioni di questa tendenza sono diverse. Secondo alcuni analisti è prodotta dalle attese, deluse, di cambiamento "della" e "nella" Chiesa. Enzo Pace, sociologo della religione fra i più autorevoli, pone l’accento sulle difficoltà incontrate da Papa Francesco nel proposito di "incidere sulla struttura del potere ecclesiastico". Ma vi sono commentatori che valutano criticamente le posizioni di Francesco sul piano dei diritti e dei problemi della società.
Soprattutto, sull’accoglienza agli immigrati. Sull’apertura verso gli ultimi – e i penultimi. Il calo di popolarità, secondo i critici di queste posizioni, rifletterebbe un clima d’opinione impaurito dai mutamenti e dai movimenti demografici. Francesco: la voce dei poveri e dei migranti.
Susciterebbe ri-sentimento, dunque: un sentimento re-attivo, in tempi attraversati dall’incertezza e dalla paura.
Suscitate dai poveri e dai migranti. Componenti che, per molti versi, si sovrappongono.
Le sue parole contro chi "costruisce muri, reali o immaginari, invece di ponti" si scontrerebbero con la domanda, crescente, di chiudere e sorvegliare le frontiere.
Peraltro, Papa Francesco ha, di recente, riformulato il Catechismo della Chiesa Cattolica, escludendo ogni ricorso alla pena di morte da parte di uno Stato. Mentre il progetto di legge del Governo sulla legittima difesa prevede l’uso delle armi per allontanare chiunque entri, furtivamente, in una abitazione privata o in luogo di lavoro. È difficile non cogliere il contrasto fra le esortazioni del Papa e le iniziative del governo. In particolare: della LDS. La Lega di Salvini. Una frattura che coinvolge anche la Chiesa, visto che "Famiglia Cristiana" ha dedicato proprio a Salvini una copertina molto esplicita.
Titolata, senza mezzi termini: "Vade retro". Tuttavia, se osserviamo con maggiore attenzione le misure degli atteggiamenti positivi e critici verso il Papa, il quadro appare più complesso. Gli orientamenti politici, infatti, contano relativamente. Il favore per il Papa, infatti, fra gli elettori della Lega è prossimo al 70%.
Praticamente: nella media.
Mentre presso la base del M5s sale al 73%. E sale oltre l’80% nel Pd. Ma le indicazioni più interessanti emergono se spostiamo lo sguardo in altra direzione. Il minor grado di consenso per il Papa è, infatti, espresso, anzitutto da coloro che mostrano una pratica religiosa più ridotta. Inoltre, dai più giovani. Un aspetto, quest’ultimo, che può risultare, forse, sorprendente. Comunque, inatteso. Questi due aspetti, però, appaiono particolarmente significativi se considerati insieme. Perché oggi la pratica religiosa si rivela più bassa proprio fra i più giovani. Fra 15 e 24 anni, infatti, il favore verso Papa Francesco scende al 58%.
Fra i giovani-adulti (25-34anni) scende ancora, di poco. Al 55%. Il minimo, osservato nella popolazione. Ma nelle stesse fasce d’età si osserva la maggior quota di "non praticanti".
Definita da coloro che "non vanno mai a messa". Fra i più giovani, addirittura il 36%. Il doppio rispetto alla popolazione nell’insieme. Così, il sentimento verso Papa Francesco si conferma positivo. Ma in misura minore rispetto al passato recente. In Italia. Non solo perché, con le sue posizioni, con le sue parole, ha spezzato la tradizionale prudenza della Chiesa. Non solo perché è entrato in contrasto con il clima di crescente paura degli altri, dello xenos, del mondo che "cade su di noi". Ma anche perché, come conferma il Mapping di Demos, nella percezione degli italiani, la Chiesa appare in declino. Gli italiani, soprattutto i più giovani, si allontanano dalla Chiesa. Dove vanno sempre meno di frequente. Così, è inevitabile: anche Papa Francesco si allontana... la festa ci hanno pensato i carabinieri. Non appena lo hanno visto fra i portatori, gli uomini della stazione di Zungri hanno bloccato la processione. Il lungo serpente di gente che si snodava dietro il quadro si è fermato. Accorinti è stato subito allontanato.
Non ha conti in sospeso con la giustizia, non è ai domiciliari e non è più sorvegliato speciale, ma nulla giustificava la sua presenza fra i portatori della pesante effigie. E qualcuno avrebbe potuto non gradire. Per questo i militari sono intervenuti: motivi di ordine pubblico. Già ieri i carabinieri hanno ascoltato il parroco , don Giuseppe La Rosa, e alcuni fedeli del comitato promotore dei festeggiamenti. Toccherà invece alla procura di Vibo Valentia valutare se e in che misura ci siano elementi a sufficienza per aprire un’inchiesta.
« È un fatto increscioso, sicuramente c’è stata qualche falla » ha detto il vescovo di Mileto, monsignor Luigi Renzo, fra i pionieri della linea dura contro l’infiltrazione degli uomini dei clan nelle manifestazioni religiose. Suo l’ordine, inviato a tutti i parroci della diocesi, di estrarre a sorte i portatori delle effigi sacre. Suo l’assoluto divieto di ammettere fra loro imputati o condannati per mafia che non abbiano dato pubblici segnali di pentimento. Suo l’ordine di rispedire al mittente le offerte sospette. Indicazioni in linea con quelle della Chiesa calabrese tutta, che da qualche tempo ha deciso di porre un freno alle tante, troppe infiltrazioni della ’ ndrangheta nelle processioni e dietro gli altari. A Sant’Onofrio e Stefanaconi, nel Vibonese, per anni sono stati uomini delle forze dell’ordine a portare le statue in processione. Nella Locride, sacerdoti imputati in processi di mafia come don Pino Strangio sono stati allontanati dai santuari. In tutta la Calabria, molte offerte sono state rispedite al mittente. Ma alla ricerca di consenso e legittimazione, boss e gregari non smettono di provare a nascondersi nelle processioni e dietro abiti talari.

La Stampa 6.8.18
La metà dei credenti italiani pratica una religione fai da te
di Andrea Tornielli 


http://www.lastampa.it/2018/08/06/societa/la-met-dei-credenti-italiani-pratica-una-religione-fai-date-dGo2FpmcRHxipnK5fgV9XO/premium.html

Milioni di persone costruiscono un proprio percorso spirituale sganciato dalle fedi organizzate e dalle strutture tradizionali. I cristiani restano maggioritari, ma solo il 18,5% va a messa la domenica. Per gli altri è un’identità etnico-culturale
La grande statua bronzea di Cristo con le braccia spalancate accoglie i pellegrini. La struttura è quella di un monastero, con il chiostro e diverse cappelle, strutture per l’accoglienza dei pellegrini oltre al tempio principale dove possono trovare posto fino a un migliaio di persone. Siamo alle porte di Leini, nell’hinterland torinese. La cupola di rame che sovrasta il grande tempio a navata unica non fa da scenario a messe celebrate da preti cattolici, bensì ai «darshan» le liturgie guidate da «swami» Roberto Casarin o dai suoi «ramia» uomini e donne sacerdoti del movimento di Anima Universale. 
Sincretismo e padrini 
Una religione cristiana nuova di zecca che unisce la Bibbia e la fede in Gesù e Maria a quella nella reincarnazione in nuove vite umane, convinzione che il fondatore Casarin ha maturato nel tempo distaccandosi dal cattolicesimo nel quale era nato ed era stato battezzato. In Italia si moltiplicano i nuovi culti. Ma ad essere preponderante, secondo le stime del Cesnur, il centro studi sulle nuove religioni, è piuttosto un tipo di religiosità fai da te caratterizzata da percorsi spirituali personali al di fuori delle religioni organizzate: un fenomeno che interessa circa il 50% della popolazione.
Movimenti come “Anima universale” mantengono legami con la Chiesa cattolica 
Qui ad Anima Universale molti dei «monaci» vestono con colori simili a quelli del classico clergyman - grigio e blu - e vista l’abbondanza di statue della Madonna la prima impressione è di essere entrati in un accogliente convento cattolico di recentissima costruzione. 
«Swami» Roberto, trent’anni fa indicato dai rotocalchi come un «nuovo Padre Pio» per i doni mistici che la gente gli riconosceva, è stato scomunicato insieme ai suoi monaci nel 2010 dall’allora arcivescovo di Torino Severino Poletto dopo che Anima Universale già da tempo aveva preso una strada diversa allontanandosi dalla religione cattolica.
Turismo religioso globale 
Misticismo e simboli cristiani, vesti liturgiche orientaleggianti e nomi evocativi nell’antico sanscrito si uniscono a opere di beneficenza in favore di missionari e missionarie cattoliche in Africa e India. Casarin e i suoi monaci hanno o hanno avuto amici preti come il paolino don Antonio Tarzia e lo scomparso Pierino Gelmini, fondatore delle comunità «Incontro», che ha donato la grande statua della Madonna che campeggia all’ingresso del tempio. «Accogliamo chiunque senza chiedere conversioni né affiliazioni né denaro - ci spiega “swami” Roberto - predichiamo come unico obbligo l’evangelico “ama il prossimo tuo come te stessoˮ e viviamo di provvidenza». Anima Universale celebra battesimi (solo dopo la maggiore età), matrimoni e funerali, ha qualche migliaio di fedeli dislocati soprattutto in Piemonte e in Veneto (dove a Riese Pio X esiste una seconda comunità) e rappresenta uno dei tanti esempi di come stia cambiando la religiosità in Italia.
«Facciamo molte opere di carità aiutando preti e suore cattolici - aggiunge “ramia” Roberto Rodighiero - e non crediamo nel proselitismo: la nostra è una visione “karmicaˮ, chi deve arrivare qui ci arriva... Per noi è importante far capire che qui non si praticano medicine alternative: all’ingresso di una cappella c’è un cartello che recita: “La Divina Provvidenza non aiuta chi non va dal medico e non prende le medicine”». A qualche decina di chilometri di distanza, a Baldissero Canavese in Valchiusella, al confine con la Val d’Aosta, si trova un’esperienza spirituale organizzata e molto strutturata che invece non ha nulla a che spartire con il cristianesimo e rimane secondo gli studiosi unica al mondo ed è oggetto di ricerche come pure di un florido turismo religioso internazionale, con migliaia di visitatori all’anno, in grande maggioranza provenienti da fuori Italia.
In Valchiusella si trova un’esperienza spirituale organizzata e molto strutturata che non ha nulla a che spartire con il cristianesimo e rimane secondo gli studiosi unica al mondo 
È Damanhur, federazione fondata negli Anni Settanta da «Falco Tarassaco», al secolo Oberto Airaudi, appassionato di parapsicologia, scomparso nel 2013. La principale attrattiva è senza dubbio rappresentata dai Templi dell’Umanità, una grande costruzione scavata a mano sottoterra, nella roccia, a Vidracco. Contatto con la natura, introspezione, pranoterapia, simboli legati a culti egizi ed esoterici sono di casa per le comunità-villaggi dove circa 500 aderenti fanno vita comune, producono per sé e per il pubblico cibo, oggetti artigianali e artistici, ristrutturano e costruiscono secondo i criteri della bioedilizia, hanno sviluppato aziende di progettazione e installazione nel campo delle energie rinnovabili, prediligono metodi di cura naturali. I damanhuriani cambiano il loro nome prendendo quello di un animale (che vorrebbero salvare) e di un vegetale. Ad accoglierci è il pranoterapeuta «Orango Riso», Michele Scapino, che si occupa della scuola di meditazione: «Non facciamo proselitismo e non ci consideriamo una religione e non ci piace essere associati al New Age, che è un movimento anarchico mentre noi siamo una realtà sociale e strutturata. Siamo piuttosto una scuola spirituale, che pratica una forma di ricerca esoterica. La nostra ritualità è molto semplice, celebriamo solstizi ed equinozi».
L’impegno nella politica 
I membri di Damanhur si impegnano in politica e nelle amministrazioni locali, amministrano Vidracco e hanno consiglieri comunali in altri piccoli Comuni della zona. «Fin dai tempi del vescovo Luigi Bettazzi - spiega alla Stampa “Coboldo Meloˮ, al secolo Roberto Sparagio - i nostri rapporti con la Curia di Ivrea sono stati difficili. Siamo malvisti dai riformisti, mentre siamo più rispettati dal clero più tradizionalista».
Nuove esperienze spirituali e religiose, che attingono dai culti precristiani, come nel caso di Damanhur, oppure innestano nella fede cristiana credenze diverse, come nel caso di Anima Universale. Ma rimangono comunque fenomeni assolutamente minoritari, insieme alle circa 800 diverse forme di religione strutturate e organizzate presenti in Italia secondo il censimento del Cesnur. A crescere numericamente è un fenomeno diverso. Se la Chiesa cattolica rimane infatti molto radicata come in nessun’altra nazione dell’Europa occidentale, nel nostro Paese è però in aumento il numero di coloro che scelgono percorsi spirituali personalissimi e quasi mai strutturati.
La punta dell’iceberg 
Gli italiani che effettivamente e regolarmente frequentano la messa domenicale nelle parrocchie o nei santuari sono, secondo le stime del Cesnur, circa il 18,5 per cento della popolazione. C’è poi un 40 per cento (secondo un sondaggio appena pubblicato dall’americano Pew Research Center) rappresentato da coloro che si dicono cristiani ma non praticanti: sono quelli che il sociologo Franco Garelli definisce «cristiani culturali». In Italia il numero di coloro che si dicono cristiani rimane maggioritario, pur essendo diminuito percentualmente di tre punti in dodici anni, passando dal 76% del 2002 al 73% del 2014 (fonte Ess, European Social Survey). È attorno al 15 la percentuale degli italiani che non seguono alcuna religione. Mentre i residenti sul territorio italiano che professano altre fedi si attestano sul 9,7%: soltanto un terzo di questi ha la cittadinanza italiana. 
A crescere è soprattutto la religiosità fai da te di quanti si costruiscono percorsi spirituali personali 
Ma a crescere è soprattutto la religiosità fai da te di quanti si costruiscono percorsi spirituali personali, al di fuori sia delle religioni tradizionali e organizzate, sia dei nuovi movimenti religiosi. Un fenomeno che, spiega PierLuigi Zoccatelli, vicedirettore del Cesnur, «può arrivare a interessare, con una miriade di sfaccettature diverse e difficilmente incasellabili, quasi la metà della popolazione italiana. Se fenomeni come Damanhur o Anima Universale li possiamo considerare la punta dell’iceberg, l’iceberg vero e proprio è rappresentato da questa nuova forma di religiosità, o spiritualità».
In base alle necessità 
Il professor Franco Garelli a questo proposito invita a distinguere bene: «Non è in crescita il numero degli italiani che vivono spiritualità veramente alternative, come il New Age o i nuovi movimenti religiosi: questi rimangono attestati tra il 10 e il 15 per cento della popolazione. A crescere - spiega - è soprattutto il fenomeno dei cristiani che io definisco etnico-culturali. Secondo le mie ricerche oggi rappresentano circa un terzo della popolazione. Mantengono qualche forma di legame con il cattolicesimo, ma vissuto in modo sempre più soggettivo, personale e meno rigido: magari credono in Gesù Cristo ma non si riconoscono più in tanti altri aspetti della dottrina cattolica». È quella che il filosofo Zygmunt Bauman nel 2013 aveva definito una «religione à la carte», nella quale «prevale l’attitudine a ibridare elementi diversi, secondo i bisogni particolari e la sensibilità dei singoli: su queste basi, è molto difficile che si costituiscano dei gruppi organizzati, delle comunità di fede in senso proprio».

La Stampa 6.8.18
“Delusi dalla fede d’origine creano un puzzle di principi mutuati da altre confessioni”


«I nuovi movimenti religiosi sono importanti perché ci dicono che nel corpo sociale sta accadendo qualcosa. E questo qualcosa è una forma di religiosità e di spiritualità soggettiva, lontana da forme organizzate». Il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Cesnur, ha passato molti anni a studiare e censire le nuove religioni.
Qual è la situazione?
«La Chiesa cattolica tiene ancora. Oltre alle religioni maggioritarie ci sono numerose minoranze o nuovi movimenti religiosi - ne abbiamo censiti 800 - che hanno una loro storia, una dottrina e una struttura organizzata. Ma parliamo di numeri molto bassi, che non raggiungono il 3%. Nella società però qualcosa si muove in maniera molto evidente. Da una parte si diffondono sempre più queste nuove forme spirituali, organizzate e strutturate,come Anima Universale e Damanhur. Dall’altra, ed è un fenomeno diverso e ben più ampio, c’è una forma di religiosità o spiritualità soggettiva, trasversale, e lontana da qualsiasi forma organizzata».
Come definirebbe questi nuovi credenti?
«Persone che hanno perso il contatto con la loro religione d’origine o lo mantengono in modo molto blando. Al tempo stesso non hanno dimenticato il loro senso religioso e si sono creati un loro orizzonte spirituale».
Su quali basi?
«Sono persone che costruiscono i propri convincimenti dopo aver letto un libro, aver visto un film o ascoltato una conferenza. Il fenomeno può essere considerato una mutazione del New Age degli Anni Novanta, l’esito di un approccio relativizzante al fatto religioso. “Sento” di avere un rapporto con Dio, magari a Natale mi capita di andare a messa, ma mi interesso di forme di spiritualità orientale, ammiro il Dalai Lama o Sai Baba, m’incuriosisce la filosofia Zen e magari credo nella reincarnazione».
Perché questo fenomeno rappresenta una novità?
«Perché si tratta di una religiosità che non diventa cultura, non si trasforma in scelte fondamentali di vita, ma resta un’adesione del tutto personale, privata, intima. Senza forme organizzate e strutturate».
Quanto è diffusa questa nuova religiosità?
«Già nel 1985 il sociologo Robert Bellah aveva previsto questo fenomeno con l’esempio di un’infermiera, Sheila, che si era creata una sua religione personale con pezzi di cristianesimo, buddhismo, esoterismo, affermando che lo “sheilaismo” (“220 milioni di religioni, una per ogni americano”) sarebbe diventata la religione maggioritaria. Il 38% dei francesi crede nell’astrologia, il 35% degli svizzeri alla divinazione, il 20% degli statunitensi nella reincarnazione. E in alcuni Paesi dell’Europa occidentale la maggioranza della popolazione, soprattutto dei giovani, si dichiara “spirituale ma non religiosa”».
A.TOR.

Repubblica 6.8.18
’Ndrangheta
Il boss: " Porto io la Madonna" e i carabinieri bloccano la processione in Calabria
di Alessia Candito


Accorinti, considerato affiliato ai clan, pretende di imporsi nel corteo per farsi vedere da chi ogni estate torna a Zungri dal Nord: allontanato
REGGIO CALABRIA
Voleva essere lì a tutti i costi. A portare il pesante quadro della Madonna della neve in processione per le vie del paese doveva essere lui. E Giuseppe Accorinti, 59 anni e una lunga storia di scivoloni giudiziari per droga e mafia alle spalle, non ha ammesso rifiuti. Ha preteso di essere fra i portatori della "vara" e solo i carabinieri sono riusciti ad allontanarlo. Zungri, paesino di duemila anime, arrampicato sui monti del Vibonese, che forse solo d’estate, riesce a contare su tutti i suoi cittadini. La festa della Madonna della neve ogni agosto è anche una festa del ritorno. Chi per lavoro o per studio è andato al Nord o all’estero cerca di tornare in paese.
Forse per questo Giuseppe Accorinti, che per gli investigatori è elemento di spicco dei clan di Zungri vicini ai Mancuso, ieri, ci teneva a farsi vedere fra i portatori del quadro sacro. Come molti boss prima di lui, magari con quel gesto voleva testimoniare la coincidenza fra il potere spirituale e quello mafioso, quasi a nobilitare con sigillo divino la dittatura di sangue e omertà che la ’ndrangheta impone.

Repubblica 6.8.18
Asili per gli italiani tasse agli immigrati ecco la famiglia secondo la Lega
Nella proposta di legge firmata anche da Giorgetti bonus solo a chi ha la cittadinanza. Diritti ai nuclei uomo-donna
di Giovanna Vitale


Roma È « fondata sul matrimonio tra uomo e donna » l’unica famiglia degna di riconoscimento giuridico da parte dello Stato. Che « tutela e garantisce il ruolo sociale dell’educazione dei figli » attraverso le « figure genitoriali quale madre e padre » : tertium non datur. Da cui far discendere tutta una serie di benefici, anche economici, a patto di essere cittadini italiani o, al massimo, comunitari.
È contenuta nella proposta di "legge quadro" depositata da 15 parlamentari leghisti il 26 marzo scorso — prima firmataria Barbara Saltamartini, insieme al sottosegretario di Palazzo Chigi Giorgetti, l’attuale presidente del Friuli Fedriga, il sottosegretario all’Interno Molteni — la summa del pensiero sovranista in materia di " famiglia e tutela della vita nascente". Che il partito del vicepremier Salvini s’incarica di ridefinire, fissando paletti di genere e razza ben precisi; demolendo tutte le conquiste in materia di diritti civili; trasformando i consultori in una sorta di dependance delle associazioni pro-life.
Contro la dittatura relativista
Si legge nella relazione introduttiva che spiega lo spirito delle norme, recepite solo in parte nel contratto di governo giallo- verde, ma pronte a essere discusse in Parlamento qualora i grillini si dimostrassero troppo timidi: «Ci troviamo dinnanzi a un progetto ben organizzato perseguito in modo scientifico da gruppi militanti, schiavi della propria ideologia, che cercano con tutti i mezzi di affermare il proprio stile di vita utilizzando tecniche e strategie mirate a cancellare la verità in nome della volontà di instaurare una vera e propria dittatura relativista». Da ribaltare con nuove politiche di contrasto alla detanalità e di aiuto alle coppie tricolori, mediante il sostegno per l’acquisto della prima casa, assegni mensili per chi ha bimbi sotto i 3 anni, buoni da mille euro l’anno per i servizi essenziali, detrazioni fiscali. Obiettivo prioritario: aumentare i posti negli asili, che devono diventare gratuiti.
Società fondata sul matrimonio
Se l’articolo 29 della Costituzione definisce la famiglia quale «società naturale fondata sul matrimonio», l’art. 3 della 388/ 2018 aggiunge « tra uomo e donna» : solo così diventa «autonomo centro di imputazione di diritti, doveri e prerogative » tale da poter accedere ai benefici di legge. Con una novità: anche « il concepito è riconosciuto quale componente del nucleo familiare a tutti gli effetti », in grado di far guadagnare punti nelle «graduatorie che tengono conto del numero dei figli». In chiara funzione anti- abortista.
Aboliti i genitori 1 e 2
«Al fine di sviluppare una politica di contrasto alla detanalità, gli interventi previsti sono rivolti ai cittadini italiani o di Stati membri Ue componenti i nuclei familiari» recita l’art. 4. Tanto si sa che gli immigrati fanno figli, non hanno certo bisogno di incentivi per procreare. Non solo. Si fa anche divieto assoluto di utilizzare nei documenti ufficiali « termini surrettizi di definizione di madre e padre». Altro che "genitore 1 e 2" introdotto in alcune scuole: sarà bandito.
Tassa sulle rimesse
Uno dei principali problemi degli incentivi economici sono le coperture. Ma siccome all’«assegno di cura e di custodia per sostenere le famiglie nelle spese necessarie all’assunzione » di una baby sitter non si vuole rinunciare, ecco trovato il sistema: l’introduzione di «un’imposta di bollo sui trasferimenti di denaro all’estero effettuate dalle apposite agenzie » , in misura del « 3% dell’importo trasferito con ogni singola operazione, con un minimo di prelievo pari a 5 euro » . Una tassa sulle rimesse degli immigrati. Che quasi sempre sono le baby sitter stesse.

Repubblica 6.8.18
Il ministro leghista per la Famiglia
Legge Mancino, l’altolà di Di Maio non ferma Fontana
"Una riflessione va fatta Ne parlerò con Conte e il vicepremier M5S C’è un problema se tutto diventa razzismo"
di Valerio Varesi


MILANO MARITTIMA Legge Mancino, vaccini, omofobia: il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, dal palco della festa della Lega Romagna a Cervia, tocca tutti i temi caldi che l’hanno visto protagonista nelle ultime settimane, spesso in contrapposizione con i 5Stelle. A partire dalla contestazione della legge Mancino che vorrebbe abrogare. Fontana non demorde: « Penso che una riflessione vada fatta e rifletterò con il presidente del Consiglio e con il ministro Di Maio: sono persone che mi hanno anche stupito per la loro capacità e il loro buonsenso » afferma. E aggiunge: «Dico che c’è un problema se tutto diventa razzismo e se quest’ultimo diventa uno strumento politico per colpire la Lega » . Il ministro cita anche Oriana Fallaci che fu additata come intollerante e razzista perché insisteva su una deriva violenta del mondo islamico: « Credo che, alla luce di quel che è successo, non avesse tutti i torti». Poi precisa: «Il razzismo non appartiene alla Lega, ma dobbiamo stare attenti a non citarlo a sproposito come è accaduto nel caso dei lanciatori di uova. Mi chiedo cosa sarebbe successo se uno dei lanciatori fosse stato figlio di un consigliere della Lega anziché del Pd».
Sui vaccini è favorevole al modello belga dove la vaccinazione è personalizzata a discrezione del pediatra: «È evidente che il tasso di vaccinazione deve essere molto alto. In Veneto è così e la vaccinazione è una libera scelta. Credo che l’ultima parola vada lasciata alla scienza, importantissimi sono l’informazione e il parere dei medici».
Fontana tocca anche i temi di massima frizione con M5S: omofobia e famiglia. «El Pais ha scritto che io sono omofobo perché ho sostenuto che la famiglia è composta da un padre e una madre e dai figli ma non ho il diritto di esprimere il mio pensiero? Vorranno mica mettermi in galera? Ci sono battaglie che non sono forse nel programma, ma fanno parte della difesa della norma vigente. Per esempio, l’utero in affitto è vietato in Italia, ma chi ha i soldi lo fa all’estero. Io dico: si faccia rispettare la legge».

Repubblica 6.8.18
Intervista
Carlo Freccero
"Sì a nuove nomine ma non è la Rai che vorrei"
di Anna Maria Liguori


ROMA «Mi chiede quale sarà in futuro il ruolo della Rai? Avrei voluto rispondere alla sua domanda.
Avevo presentato la mia candidatura proprio perché avevo idee ben precise sul futuro del servizio pubblico. La mia candidatura è stata bocciata, quindi la rivolga ad altri». Carlo Freccero, consigliere Rai uscente, rompe il silenzio e per dire che «oggi la Rai viene presa in considerazione come teatro dell’informazione partitica».
La causa, in questo momento, è lo scontro sulla presidenza Rai?
«Cominciamo col dire che quanto sta succedendo sulle nomine Rai nasce da una riforma voluta da Renzi per consacrare il Servizio Pubblico alla propaganda governativa. Ancora oggi i notiziari e l’informazione sono in gran parte a favore di quella maggioranza che non c’è più . In un contesto come questo è abbastanza comprensibile la corsa dei partiti vincitori delle ultime elezioni a sostituire le nomine renziane. Che poi questa non sia la Rai che vorremmo vedere, questo è un altro discorso».
Ha dichiarato di stimare Foa. È sicuro che possa guidare la maggiore azienda culturale del Paese?
«Prima di tutto vorrei dichiarare che per me non contano tanto le persone, quanto le idee, gli orientamenti, i programmi. Per decidere quale nomina sia più opportuna per la Rai, bisognerebbe prima ricostruire una funzione alla Rai, che giustifichi sia la sua esistenza che il pagamento del canone. Detto questo le rispondo su Foa.
Conosco Foa per aver letto il suo libro "Gli stregoni della notizia" Da anni le mie ricerche ed i miei studi sono concentrati sul tema della propaganda e della manipolazione dell’opinione pubblica. Foa è un pioniere in questo campo. Il suo libro è stato adottato come libro di testo in numerose facoltà di comunicazione. Al contrario di quello che si dice, Foa non costruisce fake news, le decostruisce e le smaschera sulla base di documenti inconfutabili».
Cambiare la Rai è allora impossibile? Lega-M5S hanno annunciato un cambiamento rivoluzionario in Rai e poi litigano per le poltrone dei Tg.
«La nomina di Foa ha un preciso significato. La rivoluzione che M5S e Lega annunciano in Rai non sta nella metodologia delle nomine, ma nell’avvento di una informazione attendibile contro la propaganda del governo. È una visione dell’informazione che non posso che condividere, ma che, secondo me, non esaurisce il ruolo della Rai. La Rai deve dare un’informazione corretta, ma l’informazione non è l’unico scopo della Rai».
La vigilanza ha comunque bocciato la designazione di Foa alla presidenza. Non crede che il voto del Parlamento vada rispettato e che si debba cambiare persona?
«Non mi sembra che ci sia stata nessuna violazione alle regole.
Ogni organo ha espresso i suoi candidati secondo la legge. C’è piuttosto uno stallo dovuto al conflitto tra le parti, ma questo è legittimo e superabile secondo le regole esistenti. Per quello che so per aver fatto parte del Cda Rai, Foa può tranquillamente presiedere il Consiglio in qualità di Consigliere anziano».

Repubblica 6.8.18
E la lobby delle armi esultò "Così condizioniamo il governo"
Il Comitato e il patto con Salvini: "Via ai vincoli, ecco le otto concessioni già ottenute"
di Marco Mensurati Fabio Tonacci


Roma Hanno detto che la lobby delle armi non conta niente e che, dunque, Repubblica si è inventata tutto. Hanno anche detto che, nonostante gli impegni presi pubblicamente dal ministro Salvini in campagna elettorale con i rappresentanti dei possessori di pistole e fucili, " la Lega non fa accordi con lobby o cooperative" ( Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia, 16 luglio). Anzi, che la lobby "neanche esiste" ( Antonio Bana, presidente Assoarmieri, 17 luglio).
Invece, la lobby delle armi è viva. E lotta insieme a loro. Basta dare un’occhiata al sito del Comitato Direttiva 477. Prima, però, occorre sapere alcune cose di questa associazione. Nata nel 2015, in soli tre anni si è affermata come il punto di incontro e rappresentanza degli interessi di tutti soggetti della filiera delle armi, dal produttore al consumatore. Oggi può vantare collaborazioni internazionali ("sia pure embrionali") con la potentissima National Rifle Association, la lobby americana, e con l’europea Firearms United. Mentre in Italia lavora con le associazioni confindustriali dei fabbricanti di pistole e fucili. Il suo principale obbiettivo è quello di monitorare il recepimento delle nuove norme europee sulla circolazione delle armi affinché questo risulti il meno restrittivo possibile. Prima di finire sul tavolo del governo per l’approvazione finale, lo schema di recepimento della direttiva ha dovuto passare il vaglio di ben quattro commissioni parlamentari; una fase cruciale, che si è conclusa pochi giorni fa con splendidi risultati ( per la lobby). E proprio grazie all’attivismo del Comitato. Che dunque, il 31 luglio, è in vena di festeggiamenti.
"La nostra mobilitazione — scrive — ha permesso che oggi un’associazione di detentori di armi rappresenti stabilmente presso la politica e tutte le istituzioni, l’intera categoria e, soprattutto, che siano state accolte delle proposte e vi sia stata una incidenza netta sul processo di formazione delle leggi".
Incidenza netta, dunque. Ma non solo: " Non si era mai visto prima che il Ministero dell’Interno acconsentisse a dialogare con chi rappresenta i cittadini detentori di armi e men che mai che trasponesse in atti normativi le loro proposte".
Del resto questo era esattamente il senso del patto assunto per iscritto da Salvini, l’ 11 febbraio, all’Hit Show di Vicenza, e di cui Repubblica ha svelato i contenuti. In cambio dell’appoggio della lobby alle urne, l’allora candidato si è impegnato a "coinvolgere il Comitato e le altre associazioni di comparto ogni qual volta siano in discussione provvedimenti" su pistole e fucili. Detto, fatto. E così adesso il Comitato e gli organi di stampa prossimi alla lobby possono festeggiare la loro incidenza netta, elencando, ad uso dei loro lettori (ed elettori) i risultati ottenuti. Tra questi: "1) Divieto assoluto di retroattività delle nuove norme; 2) Aumento da 6 a 12 delle armi sportive detenibili e possibilità di trasporto e uso delle armi in collezione; 3) Eliminazione della discrezionalità dei questori nell’imporre limitazioni su tipologia e quantità di munizioni acquistabili durante il periodo di validità delle licenze di porto o trasporto; 4) Aumento a 10 per le armi lunghe e a 20 per le armi corte, dei colpi consentiti nei caricatori, oggi limitati rispettivamente a 5 e 15; 5) Estensione della categoria di "tiratori sportivi" — prima riservata agli iscritti alle Federazioni del Coni — anche agli iscritti alle sezioni del Tiro a Segno Nazionale, agli appartenenti alle associazioni dilettantistiche affiliate al Coni, nonché agli iscritti ai campi di tiro e ai poligoni privati...". In tutto si contano otto concessioni, chiamiamole pure regali, alla lobby. Come, l’ultima, quella che equipara, sotto la generica categoria di "tiratori sportivi", gli atleti della Federazione agli " sparatori della domenica", i campioni olimpici ai frequentatori di poligoni privati rimediati nelle cave di tufo ( strutture di cui in Italia manca persino un censimento ufficiale e che comprendono sia impianti seri sia autentiche bocciofile a mano armata).
Grazie a questo cavillo, tutti avranno la possibilità di comprare, trasportare e usare armi demilitarizzate o con caricatore di capacità superiore di 10 colpi.
Si capisce così la soddisfazione della lobby che, infatti, a partita chiusa, ha voluto mostrare i muscoli, incontrandosi a Roma, sempre il 31 luglio scorso con l’obbiettivo — reso pubblico — di " rafforzare il coordinamento". Al summit ha partecipato una dozzina tra associazioni e federazioni, tra cui le ricchissime l’Anpam ( Associazione nazionale produttori armi e munizioni), Conarmi e Assoarmieri.
"Il tavolo di lavoro — recita il comunicato finale — ringrazia i parlamentari che hanno mostrato impegno, sensibilità e interesse nel considerare la questione in una prospettiva tecnica e non ideologica (...) L’auspicio è che il Ministero competente (Salvini, ndr), si attenga alle indicazioni delle commissioni parlamentari, evitando norme più restrittive rispetto a quelle europee". Infine, la chiosa, a metà tra la promessa e l’indicazione strategica: "Non lasceremo cadere l’attenzione verso le attività di Parlamento, Governo e Amministrazione...". Insomma, il lavoro della lobby delle armi, quella che " non conta niente" e che "neanche esiste", è solo all’inizio.

Il Sole 6.8.18
Università e lavoro
Test di medicina, la «via estera» per tentare la sorte con più successo
Con prove di ingresso sempre più selettive, cresce il numero di studenti che si iscrivono a un ateneo oltreconfine per avere una seconda possibilità
di Francesca Barbieri Chiara Bussi Marta Casadei


Un sogno nel cassetto: diventare cardiologa. E uno scoglio da superare: il test di ammissione alle facoltà di medicina e odontoiatria, 60 domande in 100 minuti, un ammesso ogni sei candidati. Poi, la scelta: andare a Pilsen, Repubblica Ceca, una delle sedi della Charles university of Prague. Aiutata da un intermediario, ovviamente a pagamento.
Carmen Gagliardi, 22 anni, ha fatto proprio così, affidandosi a Medicor Tutor, società nata nel 2010 che collabora con università in Spagna, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Cipro. «Non ho superato il test in Italia – racconta – e ho scelto una carriera internazionale. Il questionario? Su biologia e chimica, senza domande di cultura generale». Non è certo l’unica italiana a frequentare il suo corso: «Ci sono circa 15 italiani su cento studenti», dice. E per molti - aiutati dai tutor - la carriera internazionale è peraltro la prima scelta e non il “piano B”.
Il 4 settembre saranno in 67.005 a tentare il test per entrare a medicina od odontoiatria, per un totale di 10.875 posti disponibili in tutta Italia. Chi non passa, spesso cerca di trovare un’altra via: qualche anno fa gli aspiranti medici si iscrivevano all’estero sperando poi di tornare in Italia bypassando il numero chiuso. Ora si punta direttamente sull’opzione internazionale, dalla Spagna alla Romania con mete e università non sempre scelte sulla base del ranking.
Gli intermediari
Chi punta su una facoltà straniera deve mettere in conto, innanzitutto, di impegnare una discreta cifra. Gli atenei esteri dove è possibile studiare sono spesso privati, con rette annue fino a 20mila euro. Se poi si fa rotta su un intermediario si devono mettere in conto cifre che partono da 3.500 euro per arrivare ai 10mila euro per la consulenza – di solito attraverso piattaforme di e-learning con lezioni interattive, slide e test di prova – o per i pacchetti all inclusive che assistono lo studente anche nel disbrigo delle pratiche amministrative e nella ricerca dell’alloggio.
I test d’ingresso - come detto - sono diversi da quello italiano e sono focalizzati su chimica, biologia, matematica e fisica. Più facile entrare? La risposta appare scontata, anche se numeri ufficiali non ce ne sono. «Oltre l’85% dei ragazzi che si rivolgono a noi hanno l’estero come prima opzione, già al 5° anno delle superiori – spiega Janina Holesovska di Medicor Tutor –. Dei 106 studenti che abbiamo seguito lo scorso anno 95 sono riusciti a entrare».
Una percentuale certo assai più allettante di quella nostrana. Il test, comunque, spesso si svolge in Italia, «a Milano, con la presenza dei docenti delle università straniere» dice Holesovska. Invece la società di intermediazione Tutor Medicina convoca i candidati al test direttamente a Napoli (20 domande di chimica e 20 di biologia) per entrare all’università di Pleven sul Mar Nero in Bulgaria. Il costo? 8.540 euro di agenzia e 7.500 euro di tasse universitarie all’anno.
Il ritorno in Italia
Chi si laurea può rientrare in Italia e con il riconoscimento delle qualifiche iscriversi all’Albo senza sostenere l’esame di Stato. In base ai dati della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri), il fenomeno è più marcato tra i dentisti. Nel 2017, su 8.384 nuovi medici, 132 arrivavano dall’estero; mentre su 1.335 odontoiatri oltre un terzo (531) aveva un titolo straniero. Ma si può tornare anche prima. Se fino al 2015 si sono moltiplicate le cause presentate da aspiranti medici e dentisti “pendolari” per potersi iscrivere al secondo anno in Italia facendo leva sul principio della libera circolazione, e in tanti hanno dovuto comunque sostenere il test di ammissione italiano, le cose sono cambiate dopo la sentenza 1/2015 del Consiglio di Stato. La pronuncia ha, infatti, stabilito che negli atenei in cui si creano posti vacanti per rinunce o abbandoni dopo il primo anno, gli studenti stranieri possono concorrere all’assegnazione di tali posti. Alle università italiane la libertà di stabilire i criteri di valutazione.
Secondo i dati del ministero della Salute relativi al 2016 e 2017, a chiedere di tornare in Patria a lavorare sono stati soprattutto gli italiani laureati in medicina in Romania, ma anche in Austria, Spagna, Slovacchia, Gran Bretagna, Germania e Ungheria.
Una delle mete più battute, in effetti, è l’università di Targu Mures in Romania, dove è previsto un percorso in inglese. Gettonata anche la quotata Università di Vienna, la cui frequenza è aperta solo agli italiani con una buona padronanza del tedesco. Altre destinazioni la Charles University di Praga e la Masaryk University di Brno, oltre alle spagnole Universidad Europea di Valencia e di Madrid.
Ci sono giovani, insomma, che tentano la sorte in atenei “blasonati” per assicurarsi una carriera internazionale. Altri, invece, vogliono solo ritentare dopo il mancato ingresso nel sistema nazionale e quindi fanno rotta verso i campus stranieri dove trovano un posto e che hanno barriere d’ingresso meno rigide.

Repubblica 6.8.18
Un archivio di 10mila pezzi
Il collezionista del ’ 68 " A casa mia racconto la storia con riviste, poster e dischi"
di Brunella Giovara


Emiliano Sisto è nato nel ’73 ("mio padre era nel movimento") e ricostruisce gli anni della contestazione "Grazie a Facebook mi arriva materiale da tutta Italia"

MILANO Cos’è stato il ’68? Mah, chi può dirlo davvero. I documenti lo possono spiegare bene, a saperli leggere, e intanto ci vuole qualcuno che li raccolga, come sta facendo Emiliano Sisto, 44 anni, uno che non c’era ma ha la passione di raccattare e catalogare volantini e manifesti, libri e opuscoli, e persino dischi, tipo Gli sfruttati e Padroni ci volete spaventare, «due canzoni sindacali di Franco Rusnati» edite da "I dischi del Sole", il coro era degli operai della Breda di Sesto San Giovanni, e chissà se qualcuno ne ha altri in cantina.
Se qualcuno ne ha, e francamente non sa più che farsene, potrebbe contattare Sisto, che da un anno ha messo su una pagina Facebook che si chiama Lunga Rabbia e lì ha cominciato a pubblicare tutto quello negli anni ha comprato, o trovato, o avuto in regalo, come «la cassa di documenti che mi è arrivata da Napoli, era roba del capo ufficio propaganda del coordinamento dei comitati di lotta operaia, tra Napoli, Secondigliano e dintorni, dal ’67 fino al 1973, un pezzo di storia». Il suo è un archivio privato — 10mila pezzi circa — tra politica e controcultura, conservato in uno studio che si affaccia sul soggiorno di casa, dove una moglie paziente sopporta un leggero odore di muffa, tutta roba che arriva da cantine e robivecchi, o librerie antiquarie che di colpo si trovano davanti anziché una cinquecentina, un libretto che si intitola Eni — Petrolio e lotta di classe, a cura "del collettivo Eni". Che farsene? E poi: quanto può valere? Sisto può dare un suo parere, forte della esperienza che si è fatta negli anni, studiando molto e rubando molto tempo al lavoro — settore finanza — ma da quando ha aperto la pagina Facebook è stato tutto un «ti mando delle cose, non so più che farmene», oppure «che peccato, mio figlio ha appena buttato via tutto».
Venticinquemilacinquecento followers, non è poca roba, uno scrive «non ho mai condiviso le idee, ma è un’autentica pagina di storia, mi riporta indietro nel tempo, in quella Milano che nei filmati oggi si vede solo in bianco e nero, ma noi giovani di allora la sapevamo dipingere con i nostri ideali, le nostre diversità, e quella voglia di vivere che nella generazione di oggi stento a trovare».
Non c’è solo Milano, naturalmente. Nei volantini, fogli sparsi, ciclostilati, numeri unici, giornali e riviste (tutta Lotta Continua, tutto Re Nudo, e anche A/ traverso, la rivista dell’ala creativa dell’autonomia bolognese) e foto, sono rappresentati i movimenti di contestazione della sinistra rivoluzionaria dal 1965 al 1980, «ossia il lungo ’68 italiano». Un «flash sugli anni 70», scrive una lettrice, si presume ragazza in quegli stessi anni di lotte e occupazioni, scioperi e manifestazioni, cortei, arresti e voglia di esserci — quando la parola impegno non era casuale — di partecipare, «cosa che purtroppo oggi non vedo più succedere», dice Sisto. Lui non c’era, essendo nato nel ’73, ma figlio di un «papà che ha fatto il ‘68 a Pisa nel movimento studentesco, poi entrato nel gruppo Fiat, dirigente della Magneti Marelli a Sesto San Giovanni», uno che raccontava cose interessanti, da lì è nata la passione per un’epoca «secondo me poco studiata, e con molte ricostruzioni ideologiche. Non sono uno storico e nemmeno un archivista, ma ho capito che nella storia d’Italia c’è una specie di buco, ad un certo punto si passa dalla Seconda Guerra Mondiale all’oggi, e sembra che di quegli anni non si voglia parlare». Delle carte di allora, essendo Internet ancora lontano, «molto è andato distrutto, o semplicemente perso.
Qualcosa salta fuori nei mercatini delle pulci o dalle cantine sgomberate», dove talvolta affiora anche molto altro, non solo ricordi del tempo che fu. «Molto arriva da ex militanti, una signora del movimento studentesco di Scienze e Chimica di Palermo mi ha mandato i documenti sulle richieste degli studenti, anni ‘68-‘69, le matrici originali per il ciclostile». Da Cinisi sono arrivati i volantini che Democrazia Proletaria stampò per la morte di Peppino Impastato, era il 1978. Molte foto, come quelle di Dino Fracchia al Parco Lambro, alcune addirittura a colori, molte dell’archivio Farabola, si vedono i funerali delle vittime di piazza Fontana, davanti al Duomo tutto nero di gente in piedi. E il funerale del commissario Calabresi, il furgone che passa per via Fatebenefratelli tra altrettanta gente, muta. Ci sono le immagini di Dario Bellini, i disordini a Campo de’ Fiori lo stesso giorno in cui morì Giorgiana Masi. Scatti mai visti, spesso, foto degli scontri di via De Amicis a Milano, ragazzi che corrono, striscioni: "Il governo che licenzia e uccide", "Siamo noi donne che dobbiamo gestire il nostro corpo", "La casa è un diritto", e poi un tizio con un elegante loden che vende Senza tregua.
Poi, c’è il terrorismo. Sisto custodisce pezzi rari, come
Nuova Resistenza, due soli numeri, aprile e maggio 1971.
Nella redazione ci sono Franceschini, Curcio, Cagol, il gruppo fondante delle Brigate rosse (pezzi trovati in un mercatino di Milano). «Mi affascina sapere e capire perché persone normali, e anche intelligenti, finirono per prendere le armi», dice lui, che ha una curiosità solo storica, non ideologica, e la capacità di stupirsi ancora, nonostante i molti libri studiati. «Il mio obbiettivo è preservare questo materiale dalla distruzione, utilizzarlo per divulgarlo, per farne cultura», e chissà che non ci riesca davvero.

Il Fatto 6.8.18
Belfast, paura di Brexit e ritorno della violenza
Con l’addio di Londra una frontiera potrebbe rialzarsi tra Nord e Dublino. Si riaccendono le tensioni “congelate” tra unionisti ed eredi dell’Ira
di Sabrina Provenzani


Nel ginepraio che è diventato il negoziato su Brexit, il dossier nord-irlandese occupa fin dall’inizio il ruolo non invidiabile di elefante nel negozio di cristalli. Il problema senza soluzione.
Gli equilibri politici, sociali ed economici dell’Irlanda del nord (o Ulster) – di fatto, il suo presente e il suo futuro – si reggono sugli accordi di Good Friday, quella miracolosa stretta di mano fra Tony Blair per la Gran Bretagna e Bertie Ahern per l’Irlanda che, il 10 aprile del 1998, un venerdì di Pasqua, sancì la fine dei 30 anni di conflitto fra unionisti leali all’Inghilterra e repubblicani pro Irlanda.
Da quel Good Friday nel Paese è in corso un faticoso processo di pace, fondato su una delicatissima divisione dei poteri a tutti i livelli fra le principali forze politiche: il Sinn Fein, repubblicano e filo-irlandese, e il Dup, unionista, che identifica la madrepatria nell’Inghilterra.
Il simbolo più potente di questo compromesso è lo smantellamento dei controlli al confine fra le due Irlande, quei check point minacciosi baluardi dell’occupazione militare britannica. In virtù di quegli accordi, fondati sulla comune appartenenza all’Unione europea, fra le due Irlande non c’è, di fatto, alcun confine, e la gente vive in Ulster e lavora in Eire, facendo della convivenza e della tolleranza un esercizio quotidiano che idealmente dovrebbe sanare, nello spazio di un paio di generazioni, le profondissime ferite dei Troubles, il conflitto nord-irlandese: 3.700 morti, decine di migliaia di feriti, una eredità ancora presente di sofferenze irrisolte.
“È una popolazione traumatizzata”, ci spiega Alan McBride, che dopo aver perso la moglie 29enne in un attentato dell’Ira, negli Anni 90 ha fondato Wave, un centro per il sostegno dei sopravvissuti che oggi ha cinque sedi: “Il processo di riconciliazione sta funzionando? Solo in parte. Alcuni riescono ad andare avanti, molti altri rimangono esattamente dov’erano, preda di divisioni settarie che non sono mai cambiate. In questi giorni assistiamo persone traumatizzate dalle violenze recenti”.
Si riferisce ai sei giorni di scontri nelle prime settimane di luglio, a Derry e East Belfast, in occasione delle celebrazioni della vittoria di Guglielmo III d’Orange contro le forze del re cattolico Giacomo II nella battaglia di Boyne il 1° luglio del 1690. Per le migliaia di affiliati dell’Orange Order, protestanti unionisti, le marce tradizionali in ricordo di quella vittoria, che si tengono il 12 luglio, sono il simbolo del predominio britannico sull’Irlanda e riaccendono antiche tensioni. Quest’anno c’è stata un’escalation, con lanci di molotov, roghi d’auto e attacchi alla polizia. Dietro quelli di Derry ci sarebbero i dissidenti repubblicani, membri paramilitari della nuova Ira, mentre a Belfast, la notte dell’11 luglio, si sono scatenati i lealisti dell’Ulster Volunteer Force, che hanno acceso falò non autorizzati e intimidito la popolazione. Nella notte successiva, due ordigni esplosivi sono stati lanciati contro la casa di Gerry Adams, ex leader del Sinn Féin, cioè il braccio politico dell’Ira, e di Bobby Storey, uno degli “eroi” della resistenza irlandese all’occupazione britannica. “Le violenze non sono una novità – spiega la giornalista irlandese Mary Carson, veterana dei Troubles – ma stavolta abbiamo visto un salto di qualità nell’organizzazione. Queste fazioni flettono i muscoli, sono rinvigorite dalla Brexit, dal populismo crescente e dal vuoto di leadership”. Un vuoto letterale. A gennaio 2017, gli equilibri politici in Irlanda del nord sono saltati quando Martin McGuinness, vice primo ministro e storico militante dello Sinn Féin, si è dimesso con lo scopo di costringere alle dimissioni Arlene Foster, primo ministro e leader del Dup coinvolta in una inchiesta su un programma di energia pulita pagato dai cittadini, i cui costi sono misteriosamente lievitati.
Il Paese non ha un governo da allora. La situazione si incancrenisce a giugno 2017, quando un incauto calcolo politico porta Theresa May a indire le disgraziate elezioni che le fanno perdere la maggioranza in parlamento. Nelle febbrili consultazioni post-voto, l’unica stampella che trova è quella del Dup di Arlene Foster e dei suoi 10 parlamentari che le assicurano l’appoggio esterno e la tengono così in ostaggio. Le conseguenze sono due: la prima è che il governo britannico, che del rispetto degli accordi di pace di cui si fece promotore dovrebbe fare da garante, non è più percepito come super partes, e non sembra avere la forza di opporsi ai costanti tentativi di boicottaggio del Dup per un ritorno a un governo e assemblea parlamentare funzionanti. La seconda è che ha le mani legate sull’impatto di Brexit in Irlanda del nord, benché qui il 56% degli elettori abbiano votato Remain.
Il dilemma è chiaro: il governo May a Londra sogna la quadratura del cerchio, in cui il Regno Unito lasci formalmente mercato comune e unione doganale ma eviti di ristabilire un confine fra le due Irlande. Problema: la May si è impegnata sia a rispettare gli accordi del Good Friday sia a portare il suo Paese fuori dall’unione doganale e dal mercato unico, due promesse incompatibili. Se l’Irlanda del nord esce dall’Europa, deve ristabilire un confine fisico con quella del Sud che ci resta. Con gravissime ricadute sugli scambi commerciali con Dublino, che valgono il 35 per cento delle sue esportazioni, 4 miliardi in prodotti e servizi. Per non parlare dell’impatto simbolico, di portata incalcolabile.
Un accordo ad hoc è auspicato da Bruxelles e da Dublino, ma sia i Brexiteers che gli alleati del Dup si sono opposti a ogni ipotesi di “allineamento regolatorio”, termine diplomatico per mantenere lo status quo. Piuttosto che cedere sovranità sembrano disposti a far saltare il governo May. Per ora, e a soli otto mesi da quel 29 marzo 2019 fissato per l’uscita, nessuno ha la soluzione all’impasse. Visto da Belfast lo spettro dell’addio all’Unione europea è particolarmente sinistro.

Il Fatto 6.8.18
Lo Sinn Féin: “Pronti a unificare l’Irlanda con un referendum”
di S. Prov.


“La Brexit infliggerà un colpo mortale a un Paese come l’Irlanda e dovremmo opporci a un possibile ritorno della violenza”. Mary Lou McDonald è, da febbraio, la presidente del Sinn Féin dopo i molti anni di controversa leadership di Gerry Adams. Un’eredità pesante, ma anche una scelta lungimirante da parte di Adams, all’insegna della discontinuità da un passato di sangue e del necessario rinnovamento del partito. Non solo è una donna a capo di una formazione tradizionalmente misogina, ma è anche nata e cresciuta a Dublino in una famiglia middle class, estranea per biografia e cultura alla stagione dei Troubles, la guerra a bassa intensità, in Ulster. Non a caso, non ha mai preso pubblicamente le distanze dalla lotta armata, ma per storia politica e personale è credibile nel presentarsi come volto di un partito pronto a voltare pagina. La Brexit rischia però di far tornare indietro la Storia, riaprendo le ferite di quel conflitto. “Theresa May sta giocando un gioco molto pericoloso: l’Irlanda del Nord rimanga nell’Unione europea”.
Quale rischia di essere l’impatto economico della Brexit sull’Irlanda del Nord?
Sappiamo già che per il prossimo trimestre c’è da aspettarsi una recessione, e che l’uscita dall’Europa rischia di aver un impatto rovinoso, soprattutto se si dovesse uscire senza un accordo, visto che sono decine di migliaia i posti di lavoro legati agli impegni commerciali con l’Irlanda.
E quello politico?
Ancora più grave. Gli accordi di Good Friday si fondano sulla premessa che entrambe le parti siano in Europa e da questo discendono decenni di leggi e accordi bilaterali su cui sono fondate le nostre istituzioni. Perdere questo significa infliggere un colpo mortale alla fiducia nella politica e nella sua buona fede in un Paese uscito da un conflitto civile, che di tutto ha bisogno meno che di un inamovibile governo britannico conservatore pronto a spazzare via la nostra vita politica e sociale. Sarebbe davvero da irresponsabili dare quello che abbiamo costruito per scontato e temo che Theresa May, con il supporto del suo partito, stia giocando un gioco molto pericoloso con gli equilibri nord irlandesi. Parliamo della vita quotidiana di migliaia di persone.
Si sente di escludere un’escalation in caso di ritorno del confine?
Sto entrando a Derry mentre parliamo. Qui, come a Belfast, le cose sono migliorate grazie al processo di pace e le comunità sono determinate a non tornare indietro. Ma questo è un Paese di reduci, ed è vero che sopravvivono frange di estremisti e di dissidenti che possono trarre dall’instabilità politica la spinta per un ritorno alla violenza. Ci opporremo con tutte le forze.
Anche con la disobbedienza civile?
No, per ora stiamo ribadendo con fermezza che questo è un problema europeo, e abbiamo ottenuto la solidarietà di Bruxelles e di molti paesi dell’Unione. Tutta l’Irlanda, eccetto il Dup, è unita nel rigettare Brexit.
Qual è la soluzione?
La May si è impegnata a proteggere gli accordi di pace: l’unico modo è accettare un negoziato su misura, che mantenga l’Ulster nell’Unione doganale e nel mercato unico. Le soluzioni proposte finora non possono funzionare, questa è la verità.
Il referendum per l’unificazione dell’Irlanda è ora più vicino?
Lo prevedono gli accordi. La questione non è più se ma quando: consideriamo realistico un orizzonte di 5 anni. Se poi il Regno Unito deciderà di uscire senza accordo, trascinando l’Irlanda del Nord nella rovina, dovremo andare al voto.

Repubblica 6.8.18
A 200 km da Damasco
Ucciso lo scienziato delle armi Ma il Mossad non lascia tracce
di Marco Ansaldo


C’è il più che probabile zampino del Mossad dietro la morte, sabato notte, del direttore di un centro scientifico siriano. L’uomo, generale di grado, era un alto ufficiale vicino al presidente Bashar el Assad, guidava il sito di ricerche accusato di produrre armi chimiche e la struttura è stata più volte colpita da razzi partiti da Israele.
Aziz Asbar si occupava dello sviluppo di missili balistici terra-terra a corto raggio, collaborando con l’Iran, e anche delle armi chimiche del regime. L’altra notte transitava con l’autista nei pressi del suo sito, a Masyaf, circa 200 chilometri da Damasco, nella provincia di Hama. Non è ancora chiaro, nella ricostruzione fatta dall’Osservatorio siriano dei diritti umani, basato a Londra, se i due siano rimasti uccisi per un’esplosione provocata da un ordigno nascosto nella vettura, o per una bomba posta sulla strada.
Nel centro ricerche di Masyaf, secondo fonti americane, è attivo da tempo un dipartimento per la produzione di armi chimiche, soprattutto per il gas sarin. In base a un accordo siglato con la Russia e con gli Stati Uniti, dopo un attacco portato nel 2013 con il sarin sul territorio della Ghouta orientale, distretto ribelle di Damasco, che aveva causato la morte di 1.400 persone, Assad aveva accettato di rinunciare a tutte le scorte di armi letali. Ma in seguito diversi Paesi occidentali erano tornati ad accusare il regime siriano di avere impiegato le armi proibite, causando nuove vittime: nell’aprile 2017 per un attacco contro un’area ribelle a Khan Sheikhun, nella provincia nord-occidentale di Idlib, e poi nuovamente sulla Ghouta orientale nell’aprile 2018. Israele aveva così deciso di colpire la struttura militare e lo aveva fatto con due raid: il primo nel settembre 2017 e quindi il mese scorso. Per entrambe le azioni militari i media arabi avevano indicato come possibile responsabile lo Stato ebraico. Fin dall’inizio della guerra civile in Siria nel 2011, Gerusalemme ha compiuto decine di azioni contro siti sospetti e depositi di armi. Soprattutto dove sono attivi i consiglieri dei Guardiani della rivoluzione iraniani o i centri di raccolta di armi sofisticate per i loro alleati libanesi Hezbollah.
Ieri l’uccisione di Aziz Asbar è stata rivendicata dal movimento ribelle Brigate Abu Amara, affiliato al gruppo Tahir al-Sham che include l’ex Fronte al Nusra vicino ad Al Qaida. «Abbiamo piazzato l’esplosivo che ha ucciso Asbar » , hanno scritto le Brigate sul loro profilo online Telegram. Ciò nonostante molti osservatori dubitano della legittimità della rivendicazione e sospettano che in realtà dietro l’attentato ci sia essere Israele e dunque il Mossad. Come è sua tradizione, lo Stato ebraico non conferma né smentisce tali azioni.
In sette anni di guerra il conflitto siriano ha visto la morte di oltre 350 mila persone e la dispersione di milioni di rifugiati. Un’atrocità che nell’ultimo periodo si è complicata per il coinvolgimento di nuovi attori internazionali come Russia e Turchia, oltre ad attacchi aerei su sospetti siti chimici decisi da Usa, Gran Bretagna e Francia.

La Stampa 6.8.18
Nel nome di Ludwig
Da un gruppo di giovani accademici umanisti l’impresa che realizza la supertraduzione
di Laura Anello


«Ragazzi, ma voi quando dovete tradurre una frase in inglese e avete un dubbio che fate?». Un pomeriggio di quattro anni fa Antonio Rotolo, archeologo e ricercatore universitario di ritorno da un’esperienza da borsista al Mit di Boston, chiacchierava a Palermo con i suoi amici di sempre, accademici in erba e anglofoni anche loro: Roberta Pellegrino, una laurea in Filosofia e un dottorato in Economia, e Federico Papa, avvocato con la passione per la storia. Tre siciliani under 30, tutti umanisti, tutti con esperienze internazionali, tutti avvezzi a scrivere pubblicazioni in inglese.
Per loro la questione non era trovare una traduzione letterale in modo più o meno approssimato - quello lo sapevano fare eccome - ma scegliere l’espressione più adatta, con la sfumatura giusta, nel contesto corretto, attestata già in un certo ambito di ricerca. Una «supertraduzione», per banalizzare.
«Splendida comunità»
Certo è che quei tre quasi ragazzi, insieme con un gruppo di amici ingegneri informatici reclutati poco dopo nel progetto (Francesco Aronica, Francesco Giacalone, Salvatore Monello, con il supporto esterno dell’esperto di linguistica computazionale Antonino Randazzo) sono oggi alla guida di una start up che si chiama Ludwig, in onore al filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein, quello che scriveva che «i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo». Una creatura che, a soli quattro anni di vita, è utilizzata da sette milioni di utenti di duecento Paesi del mondo, in testa - oltre all’Italia - gli Stati Uniti, il Giappone, la Sud Corea, il Canada.
«Ludwig», spiega Roberta Pellegrino, 32 anni, «è un motore di ricerca di frasi, non di parole, che attinge soltanto a fonti autorevoli e verificate in ambito scientifico, giornalistico e letterario, dal New York Times ai documenti ufficiali dell’Unione Europea. I nostri competitor non sono i traduttori on line. Non a caso l’80 per cento degli utenti, una splendida comunità che ci dà riscontri preziosi, immettono già frasi in inglese, vogliono sapere se sono corrette, se restituiscono esattamente che cosa vogliono dire, se ce ne sono altre più appropriate. Tra loro ci sono tanti traduttori professionisti, giornalisti, professori universitari, tutta gente che non vuole fare brutta figura».
Una sorta di «Google delle frasi» che funziona grazie a un algoritmo di ricerca chiamato SentenceRank. Provare per credere: https://ludwig.guru/
Ride e piange Roberta, pensando a quest’avventura che ha portato lei e i suoi amici di liceo a lasciare le proprie promettenti carriere accademiche e a buttarsi a capofitto nel mondo dell’impresa.
Una sfida difficile
«Grandi sacrifici, anche personali», dice, «e la responsabilità di portare avanti una società dalla Sicilia, senza accesso ai grandi fondi d’investimento presenti in altre aree geografiche del mondo, con tanta gente cui spiegare ogni giorno che cosa stai facendo e qual è il tuo sogno. A volte è schiacciante la consapevolezza di un confronto con un mercato globale dominato dai colossi della Silicon Valley, un confronto che vede in ballo un miliardo di persone, tante quante saranno nel 2020 quelle che quotidianamente scrivono in inglese per ragioni di lavoro».
Già, difficile parlare di start up digitali oggi in Sicilia, dopo il clamoroso fallimento di Mosaicoon, il prodigio che da Palermo si era allargato al mondo, con una sede sontuosa sul mare e basi a Londra, a Singapore, a New Delhi. In questi giorni i suoi mobili di design sono finiti all’asta e i 120 dipendenti sparsi per il mondo sono alla ricerca di un lavoro, una doccia fredda per tutti i giovani imprenditori digitali del Sud che ne avevano fatto un faro di speranza. Difficile farlo quando la sfida - prima o poi - è con i giganti Usa pronti a prendersi tutto.
Società senza sede
Ma Ludwig va avanti passo dopo passo. «Il 90 per cento delle start up che sono nate con il supporto di grossi finanziamenti, come Mosaicoon, dopo qualche anno fallisce», spiega Roberta. «Noi abbiamo voluto procedere in maniera diversa, cercando intanto di essere sostenibili senza grosse stampelle esterne. Devi stare in piedi da solo, questa è la sfida vera». La società non ha sede, viaggia sui computer dei suoi soci, nelle loro case, sulle scrivanie dei coworking.
La prima a crederci è stata Telecom, che premiò Ludwig nel 2014 con 25 mila euro nella competizione mirata a creare nuove realtà d’impresa. «Avevamo soltanto il progetto», spiega ancora Roberta, «non c’era ancora neanche un ingegnere nel team, non c’era l’algoritmo che arrivò pochi mesi dopo, ma i giurati si innamorarono di questa idea di democratizzazione del sapere che è alla base della nostra idea e del nostro stare al mondo. Da lì è arrivato il resto».
Pochi mesi fa l’avvio della versione Premium, a pagamento, e l’ingresso vero nel mercato, con i primi tremila abbonamenti venduti a un prezzo stabilito democraticamente in base al Pil del Paese, dai 2,99 euro al mese per gli abitanti dei Paesi più poveri ai 5,99 di quelli più sviluppati. La versione base consente di fare un certo numero di ricerche al giorno, quella Premium permette un accesso illimitato e un database più vasto. Un’altra finestra sul mondo, da cui si scopre per esempio che in Iran non si possono fare transazioni finanziarie sull’estero, e allora Ludwig ha stretto una partnership con un utente locale per avviare a breve una «cellula» a Teheran. Una finestra che connette con cerimoniosi professori giapponesi, con giornalisti birmani che ringraziano per avere la possibilità di raccontare in inglese del proprio Paese, con aspiranti imprenditrici africane.
E da quando Premium è a pagamento sono arrivati gli investitori che ci vedono lungo. Venture capitalist pronti a offrire soldi per crescere, per scalare il mercato. «Finora abbiamo voluto testare il nostro modello di business», dice Barbara, «e abbiamo voluto perseguire la sostenibilità. Adesso valuteremo queste proposte, tutte dall’estero, non una dall’Italia, consapevoli che se accettassimo dovremmo spostare la nostra sede fuori dal Paese. Noi siamo pronti a seguire Ludwig ovunque, è come un figlio, ma lo vogliamo portare a nuotare nella piscina dei grandi quando avrà braccia forti per nuotare».

Il Fatto 6.8.18
I boia ci chiedono di star zitti anche sui centri di accoglienza
Il viaggio di Lucas tra i rifugiati nella “terra di mezzo” a Settimo Torinese
di Furio Colombo


Dobbiamo molto ai fotografi per sapere e ricordare eventi in cui molta gente è travolta e poca storia rimane. È il caso della guerra di Spagna, quasi del tutto dimenticata. Ma non le immagini di fotografi come Gerda Taro e Robert Capa (riportati a una emozionante attualità dal bel libro di Helena Janeczek). È il caso del Vietnam, di cui oggi molti giovani americani non saprebbero nulla se non ci fossero le celebri immagini di quella guerra (la bambina che fugge dal napalm).
Negli strani giorni che stiamo vivendo, dobbiamo molto a Uliano Lucas, per la sua storia fotografica di immigrati che ti costringe a sapere ciò che è avvenuto in una strana Italia in cui i diritti civili sono stati sospesi. Per questo conta molto il suo libro di immagini del centro di accoglienza Fenoglio di Settimo Torinese, immagini di umanità rispettata, e rasserenata in un Paese che pratica il rigetto dei migranti. In queste pagine l’osservazione del fotografo va molto più a fondo del dolore (Uliano Lucas, Una storia di accoglienza, Fondazione Mudima Editore). Sono i documenti che la sociologia non ci ha dato. Persino noi, i presunti “buoni”, rispondiamo con le nostre emozioni di fronte a queste immagini, con l’intenzione di salvare la nostra umanità, non la loro. Stiamo difendendo noi stessi dal baratro dei morti ammazzati (respingimento, rifiuto, insulto, negazione) in cui gli autori della persecuzione allo straniero ci vorrebbero complici. I boia di questo nostro tempo ci chiedono. Ci chiedono di stare zitti.
Pensate allo scherzo ignobile: il governo italiano si serve di mercanti libici che, dopo aver messo in mare, alle tariffe correnti barche di disperati, li va a cercare (sanno che non ci sono più le fastidiose navi Ong ) e, travestiti da marinai di una presunta guardia costiera libica, li affondano, li “salvano”, li riportano in Libia e li consegnano, incassando il dovuto, alle prigioni-lager dove tutti, anche donne e bambini, diventano schiavi. I sopravvissuti al deserto, al mare, alle navi dell’Eni, sono le persone che vedete nelle fotografie del libro di Uliano Lucas. Sono i protagonisti di un miracolo, perchè sono vivi e temporaneamente liberi, ma sanno che l’incubo del cosiddetto rimpatrio (che vuol dire libera offerta su un mercato africano) pesa su di loro. Perciò questa è la cronaca di una salvezza ma anche l’immagine di un pericolo imminente. Ci sono le immagini di una storia di discriminazione e persecuzione che non è ancora stata scritta.

Corriere 6.8.18
Un saggio di Giovagnoli
La speranza umanista nata nel 1968
di Giampiero Rossi


Dal movimento di Berkeley al Maggio francese, dalle lotte degli studenti di Sociologia a Trento alla «battaglia» di Valle Giulia a Roma. Grandi ideali in gioco, grandi questioni in discussione, avvenimenti clamorosi. La storia racconta che il Sessantotto è stato tutto questo. Ma in quest’anno quasi giubilare — a mezzo secolo da quei fatti — affiorano ancora chiavi di lettura inedite. Nel suo libro Sessantotto. La festa della contestazione (San Paolo, pagine 272, e 24), Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica, sostiene che la contestazione fu «una travolgente esperienza esistenziale» in cui «centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze entrarono in un inedito intreccio di relazioni collettive, senza più confini rigidi tra pubblico e privato, tra personale e politico». Insomma, il Sessantotto fu «la festa di un incontro intenso e continuato che liberava dalla solitudine e dall’isolamento».
Tutto sommato, secondo Giovagnoli, «non è stata una rivoluzione» perché «non ha cercato di sostituire vecchie strutture con nuove strutture». Anzi: «Malgrado la durezza del linguaggio e delle sue azioni, la contestazione ha lottato contro l’autoritarismo ma non ha negato del tutto l’autorità, ha pesantemente criticato le istituzioni, ma non ha escluso la possibilità di una loro modificazione». Un’eredità di quell’atto di ribellione per questi nostri tempi? «Il tentativo di una reazione umanista all’avvento di un mondo sempre più consumista, tecnologizzato, disumanizzato», cioè «il sogno di un mondo a misura d’uomo».
Nell’analisi di quei due anni scarsi di sommovimenti, Agostino Giovagnoli dedica un capitolo al caso «emblematico» della Chiesa cattolica. Fino a quel momento era sostanzialmente la stessa definita dal Concilio di Trento. «All’inizio degli anni Sessanta del Novecento, poco prima della contestazione, questa Chiesa sorprese il mondo prendendo audacemente posizione in merito alla sua stessa storia nei quattro secoli precedenti e avviando un ripensamento della sua impalcatura istituzionale». Forse non si può attribuire anche questo alla contestazione giovanile, però avevano sicuramente ragione quelli che cantavano The Times They are a-Changin’.

Repubblica 6.8.18
Regno Unito
Alla fine Corbyn chiede scusa per il caso antisemitismo
di Giampaolo Cadalanu


LONDRA, REGNO UNITO Con mezzo Labour in rivolta e il suo numero due Tom Watson che parla di possibile sparizione del partito, Jeremy Corbyn ha deciso di affrontare il tema che stava portando a una divisione del partito. Il segretario dei laburisti britannici ha chiesto scusa "per il dolore provocato" alla comunità ebraica ma anche per la lentezza del partito nell’affrontare problemi di disciplina interna, sottolineando che nel partito laburista non c’è posto per gli antisemiti.
La polemica, esasperata dagli attacchi della stampa popolare, era nata dopo la rivelazione che Jeremy Corbyn aveva partecipato a un evento culturale in cui un sopravvissuto di Auschwitz aveva paragonato le politiche di Israele con quelle del nazismo.

Repubblica 6.8.18
Israele
Protesta di 90mila drusi contro la legge dello Stato-nazione
di Marco Ansaldo


Novantamila israeliani, in maggior parte drusi, si sono ritrovati ieri nella centrale piazza Rabin di Tel Aviv per una nuova dimostrazione contro la legge che qualifica Israele come "Stato nazionale del popolo ebraico". Alla protesta hanno partecipato anche ex responsabili della sicurezza fra cui ex capi del Mossad, dello Shin Bet, e delle forze armate.
Tzipi Livni, oggi leader della opposizione di centro-sinistra, ha attaccato il premier Benyamin Netanyahu per aver approvato la legge. E ha detto che quando tornerà al governo farà in modo che venga sostituita, proclamando al suo posto come legge fondamentale la "Dichiarazione di indipendenza" di Israele che garantisce piena eguaglianza a tutte le minoranze etniche. Il premier le risponde: «Quella norma non lede i diritti civili».

Repubblica 6.8.18
La Germania taglia i vitalizi delle vittime dei nazisti
Pensioni di 660 euro al mese dimezzate "quando il sopravvissuto finisce in ospizio". Il ministero conferma: continuiamo così
di Roberto Brunelli


È il novembre 2015. Olaf Scholz, oggi ministro delle Finanze tedesco, sorride. Accanto a lui, più serio, Ludwig Baumann, sopravvissuto all’Olocausto. C’è da inaugurare un monumento dedicato agli ex disertori del Terzo Reich, simbolo del coraggio civile dispiegato contro la più feroce delle dittature. Baumann aveva appunto disertato nel 1942, è stato per dieci anni nel braccio della morte, dopodiché la sua condanna fu " declassata" alla deportazione in un campo di concentramento.
Oggi il suo nome torna alla ribalta dopo la denuncia del figlio André: lo Stato tedesco dimezza i vitalizi delle vittime della giustizia nazista quando si trasferiscono in un ospizio per anziani. Tra questi, persone finite nei lager per diserzione, le vittime delle sperimentazioni sull’eutanasia o di sterilizzazioni. Già di per sé queste pensioni non sono esattamente principesche: 660 euro al mese, ridotti a 352 euro.
Come non bastasse, dato che l’ingresso nell’ospizio del signor Baumann – poi morto a luglio – non fu segnalato alle autorità, ora lo Stato pretende dalla famiglia la restituzione di 4000 euro. Nonostante le polemiche e l’imbarazzo, un portavoce del ministero delle Finanze, guidato da Scholz (che ai tempi della foto di cui sopra era sindaco di Amburgo), ha fatto sapere che «è una pratica corrente e comunque non sono previsti cambiamenti ».
Il caso fa discutere perché Baumann è stato il più noto tra i "disertori di Hitler", essendosi dopo la guerra impegnato attivamente in campagne pacifiste, tanto da ottenere nel 1995 un’importante onorificenza. Ma non è affatto un caso isolato. Fino al 2017 erano circa 150 le vittime ancora in vita della sistema giuridico hitleriano: per loro la Germania ha speso in tutto, l’anno scorso, ben 733 mila euro. Niente.
La polemica infuria. Il partito della sinistra Die Linke chiede che il taglio dei vitalizi venga immediatamente sospeso: « Invece di essere onorati, i sopravvissuti degli orrori nazisti subiscono nei loro ultimi anni di vita una grave discriminazione. È una vergogna». Dal canto suo, André Baumann non intende pagarli, quei 4000 euro.

Repubblica 6.8.18
Niente film Disney
Winnie the Pooh (ri)vietato in Cina Ricorda troppo Xi Jinping
di Filippo Santelli


PECHINO Eppure i creativi della Disney dovevano saperlo. Quello che tutto il mondo considera un tenero e adorabile orsetto, Winnie The Pooh, in Cina è da tempo schedato come un pericoloso sovversivo. Bandito dalla Rete, da quando è diventato l’alter ego fantastico di Xi Jinping, complice una vecchia foto in cui il presidente- segretario trotterella con goffaggine un po’ ursina a fianco di Obama. E ora bandito anche dagli schermi cinematografici.
Christopher Robin, l’ultima pellicola della casa americana che ha Winnie come protagonista (al fianco di Ewan McGregor, miracoli della computer- grafica), si è vista negare dalle autorità cinesi l’autorizzazione a essere proiettata nelle sale del Dragone. Il motivo, a sentire fonti interne citate da The Hollywood Reporter, sarebbe proprio la volontà di evitare che immagini e parole diventino materiali per i critici del regime, che usano l’orsetto come un simbolo di resistenza.
Bel pasticcio per casa Disney, visto che il mercato cinese ormai è il secondo al mondo dopo quello americano, decisivo per decretare le sorti al botteghino di una pellicola. Forse i suoi dirigenti non si aspettavano da Pechino tanto zelo censorio. Che Winnie fosse diventato persona non grata era noto anche nel 2015, l’anno in cui la produzione del film ha avuto luce verde. Ma è la scorsa estate, mentre iniziavano le riprese, che la caccia all’orsacchiotto è diventata grossa, oscurato da social e chat di ogni tipo. Di lì a poco, al Congresso del Partito, Xi avrebbe messo le basi per restare in carica a vita: qualsiasi riferimento anche indiretto alla sua stretta sul potere andava evitato.
Da allora l’attenzione della tentacolare autorità sui media verso l’immagine del presidente non è calata, anzi. A giugno per esempio, dopo che il comico americano John Oliver ha ironizzato sulla suscettibilità di Xi per l’accostamento con Winnie ( « non proprio una proiezione di forza » ), il sito dell’emittente HBO è stato oscurato. Altre fonti sostengono che la ragione dello stop a Christopher Robin sia solo tecnica, legata alla quota massima di film americani che ogni anno la Cina decide di importare.
Fatto sta che nelle prossime settimane le sale del Paese saranno invase da pellicole statunitensi, dal nuovo Mission: Impossible al fantascientifico Ant- Man, l’uomo- formica prodotto da Marvel e distribuito dalla stessa Disney. Paradossi della propaganda: passano agenti segreti e supereroi, non gli orsetti.