il manifesto 5.8.18
Il peso complesso del desiderio
È italiano il primato dei disturbi alimentari nell’infanzia e adolescenza. Un percorso di letture affronta il fenomeno clinico in forte aumento, soprattutto tra le bambine
di Franco Lolli
Una recente stima della diffusione delle patologie dell’alimentazione in età infantile indica approssimativamente in trecentomila il numero di bambini tra i sei e i dodici anni affetti da varie forme di disagio legato al cibo, principalmente (ma non solo) obesità e disturbi evitanti del cibo. Una cifra allarmante, ancor più se correlata all’impressionante numero di adolescenti che, secondo analisi epidemiologiche condotte in Italia, si aggirerebbe intorno ai tre milioni.
Questi sono i dati inquietanti di una vera epidemia psicopatologica che fanno da sfondo al libro di Laura Dalla Ragione e Paola Antonelli dal titolo Le mani in pasta (Il Pensiero Scientifico Editore, pp. 300, euro 20, prefazione di Marino Niola), un testo scritto – come recita il sottotitolo – per riconoscere il disturbo selettivo dell’alimentazione in infanzia e prima adolescenza. Un testo per operatori e famiglie, pensato come strumento d’aiuto utile a tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, si trovano a dover fare i conti con un fenomeno clinico che assegna all’Italia il triste primato di nazione con il più alto numero di casi.
UN LIBRO IMPORTANTE, questo, anche perché contribuisce ad approfondire la conoscenza dei disturbi alimentari in età preadolescenziale, rendendo possibile la distinzione tra due grandi contenitori sintomatici: le patologie della prima/primissima infanzia e quelle dell’età prepuberale. Nel primo caso – spiegano le autrici – i disordini dell’alimentazione si instaurano principalmente a partire dal delicato passaggio all’alimentazione autonoma e vengono a segnalare una problematica precoce nella comunicazione tra il bambino (indifferentemente, maschietto o femminuccia) e le persone che provvedono al suo accudimento. Si tratta, soprattutto, di quei disturbi caratterizzati dal timore di soffocare, da iperfagie, dal rifiuto di determinati cibi e dalla scelta di altri in funzione di caratteristiche speciali (il colore, la forma, la consistenza, ecc.).
NEL SECONDO CASO – indicativamente, dagli otto-dieci anni in su – i disturbi alimentari sembrano segnalare, al contrario, la crescente (e preoccupante) tendenza delle più conosciute forme anoressico-bulimiche ad anticipare l’epoca della loro insorgenza. È così, allora – come evidenziano Dalla Ragione e Antonelli, commentando gli interessanti risultati di una ricerca compiuta su 167 bambini di alcune scuole elementari e medie inferiori umbre – che il fenomeno sintomatico conferma la sua prevalenza nel gruppo delle bambine e la sua associazione a pensieri riguardanti la bellezza, la forma sottile del corpo, l’attenzione alla «leggerezza» dei cibi e tutti i temi tipici della problematica anoressico-bulimica adolescenziale e giovanile.
Già in bambine di terza/quarta elementare, infatti, la fascinazione per il corpo disincarnato sembra rappresentare un ideale consolidato al quale sacrificare le proprie abitudini alimentari o, a seguito del frequente fallimento di tale aspirazione, l’irrinunciabilità del cibo (che spinge alle devastanti pratiche di abbuffata-vomito) appare come l’illusoria consolazione autoerotica nella quale trovare un momentaneo rifugio all’insoddisfazione. Due forme – parimenti rovinose – di misurarsi con la questione della femminilità, tanto quella che – considerata l’età – è sul punto di sbocciare all’interno del proprio corpo (mettendo in discussione la stabilità psichica e relazionale che aveva tenuto in equilibrio l’età infantile), tanto quella – spesso negata, rimossa o incomprensibile – della propria madre.
PARLARE DI DISTURBI dell’alimentazione dell’infanzia significa, pertanto, distinguere due logiche sintomatiche differenti, discriminabili anche sul piano della loro incidenza di genere: a differenza delle patologie della prima/primissima infanzia, l’insorgenza di forme anoressico-bulimiche è preponderante nelle bambine (già a partire, come detto, dagli otto-dieci anni) e indica la potenza delle due grandi tematiche che ogni bambina è chiamata ad affrontare alle soglie del proprio sviluppo sessuale: il confronto con la donna che è stata ed è sua madre e il confronto con le altre donne (ovvero, con l’ideale di donna che il contesto socioculturale promuove). Le patologie dell’alimentazione, dall’età prepuberale in poi, si incrociano inevitabilmente con la questione della femminilità. Questo è un dato che non si può ignorare: non si comprende il comportamento anoressico-bulimico senza tener conto di come, per ogni bambina, si ponga il problema di individuarsi come donna e di come, in questo compito, ella si trovi sprovvista di un riferimento simbolico certo.
IL RICORSO allo stereotipo sociale – che impone l’immagine di una donna alleggerita dalla forme ingombranti di una sessualità che non si saprebbe come soggettivare – rappresenta la soluzione «a portata di mano», alla quale sempre più le bambine ricorrono. In questo modo, la dimensione «melanconica» della donna – che, come afferma Sarantis Thanopulos nel suo ultimo acuto lavoro editoriale La solitudine della donna (Quodlibet, pp. 144, euro 12, postfazione di Annarosa Buttarelli), dipende dalla necessità di entrare in rapporto con la vita «a partire dalla loro interiorità, guardando da dentro fuori» – viene apparentemente cancellata dall’euforia maniacale del corpo magro (che si soddisfa nel rifiuto) o del godimento illimitato dell’abbuffata. È così allora, che il faticoso compito di trovare un modo di fare i conti con «la profondità dell’interiorità erotica femminile» – tratto peculiare della donna che l’autore descrive con grande sensibilità – viene risolto dal pensiero ossessivo del cibo: la solitudine della donna – espressione, afferma sempre Thanopulos, della «sua presenza silenziosamente eversiva per le istanze ordinatrici della civiltà – si degrada, così, in isolamento sintomatico, in rifiuto difensivo della dinamica dello scambio ed in un ritiro centrato sull’appagamento assicurato dall’adesione ad un ideale di perfezione estetica.
LA BAMBINA che – come notano Dalla Ragione e Antonelli – vive imprigionata nella coazione della dieta (desiderata o praticata, poco importa) tenta di superare, attraverso di essa, la difficoltà di fare i conti con una dimensione che non sa padroneggiare, con il suo imminente «divenir donna», con quella solitudine che – scrive Francesco Stoppa nel suo illuminante libro La costola perduta (Vita e Pensiero, pp. 200, euro 16) – è «il partner primo della donna».
LA MANCANZA che abita il suo corpo – che, aggiunge Stoppa, «si declina in una dimensione di irriducibile singolarità, nell’una per una che contraddistingue la posizione femminile» – si trasforma, così, in vuoto da riempire con l’abbuffata o da adorare feticisticamente nel rito nichilista del digiuno patologico. La bambina, all’esordio dei suoi disordini alimentari, allontana da se il faticoso compito di costruirsi la propria risposta all’enigma della femminilità (propria e della madre). Il pervertimento della funzione elementare (ma non naturale) che è il nutrirsi ne segnala l’effetto di radicale disturbo: di questo disturbo (e della sua comprensione profonda), ogni cura psicoterapica e ‘riabilitativa’ non potrà non tener conto.
Corriere La Lettra 5.8.18
La fine del sesso
L’elmento maschile, in una panoramica generale, si presenta in modo sporadico e occasionale, e dunque accessorio
I successi delle biotecnologie interrogano su una questione:
declino e limiti di «rapporti naturali» e riproduzione sessuata
L’errore di Freud
Si prova smarrimento dinnanzi alla meravigliosa capacità delle donne di trasmettere la vita. La teoria dell’invidia del pene non regge, semmai esiste un’invidia del parto
La partenogenesi è una forma di procreazione portata a termine dalle sile femmine: è possibile anche provocarla artificialmente, con stimolazioni chimiche dell’oocita così da indurlo a riassorbire un globulo polare (un falso spermatozoo) er ricostruire l’integrità del genoma
di Carlo Alberto Redi
Una delle domande trabocchetto negli esami del corso di laurea in Scienze biologiche è quella relativa alla definizione di sesso. Lo studente impreparato cade nell’errata semplificazione antropocentrica di definire il sesso come potrebbe fare la mitica casalinga di Voghera (Arbasino docet): l’insieme delle contrastanti e complementari caratteristiche (anatomiche, fisiologiche, psicologiche) che mostrano gli individui delle specie a riproduzione sessuata, dissertando poi di sesso genetico, cromosomico, gonadico e precisando tutti i caratteri apprezzabili, primari (ovaio e testicolo), secondari (peli, barba e mestruazioni), terziari (aspetti psicologici e di genere). La corretta definizione fa riferimento al processo della ricombinazione genetica dei caratteri ereditari: nella produzione dei gameti, uova e spermatozoi, la molecola di Dna viene tagliata e ricucita, mescolando i caratteri genetici e creando variabilità nell’assortimento degli stessi. Il grande vantaggio evolutivo della riproduzione sessuata consiste così nel creare un’alta variabilità genetica, sulla quale si esercita la selezione darwiniana; gli individui che hanno ereditato le associazioni di caratteri più favorevoli per l’ambiente in cui vivono sono in grado di accedere con maggiore successo alle risorse ambientali e quindi di riprodursi (fitness).
Due le grandi ipotesi che tentano di spiegare l’origine della riproduzione sessuata, la tangled bank e la «Regina rossa». La prima fa riferimento a Charles Darwin, che nell’ultimo paragrafo della sesta e ultima edizione dell’Origine delle specie, usa l’espressione tangled bank per descrivere l’ambiente come una «banca ingarbugliata», ricco di un enorme assortimento di tante e diverse creature tutte in competizione tra loro; creando alta variabilità genetica tra gli individui, la riproduzione sessuata assicura loro un vantaggio nella competizione per le risorse. La critica più ovvia è legata al fatto che i batteri presentano una scarsissima variabilità, pur essendo sul pianeta Terra da miliardi di anni.
Anche l’ipotesi della «Regina rossa» incontra difficoltà teoriche. La formula è di Leigh van Valen, che nel 1973 la riprese dal romanzo di Lewis Carroll Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, quando la «Regina rossa» spiega che «se si vuole andare da qualche altra parte, si deve correre almeno due volte più veloce». Fu William Donald Hamilton a esplicitare la metafora in lavori scientifici che sono veri capisaldi concettuali della teoria genetica dell’evoluzione del sesso (e dell’altruismo, della sociobiologia, in particolare per le relazioni preda/predatore e parassitato/parassita): gli individui delle varie popolazioni che compongono una specie debbono sempre «correre», evolvere in continuazione, per sopravvivere; in altre parole, la ricombinazione genetica (il sesso) assicura al parassitato di evolvere rapidamente caratteristiche capaci di difenderlo dall’attacco del parassita, ma... anche il parassita, grazie al sesso, è in grado di evolvere nuove combinazioni di caratteri tali da permettergli di parassitare di nuovo, così perpetuando in continuazione l’infinita rincorsa.
La riproduzione asessuata è molto diffusa sia tra gli animali sia tra i vegetali; associata a un’alta capacità di rigenerazione dell’individuo, assicura la procreazione di cloni genetici. Si realizza per scissione binaria o per frammentazione e rigenerazione del corpo: chi tra i lettori non ha mai compiuto un’operazione di riproduzione asessuata di un vegetale strappando un pezzo di foglia, ramo, radice per riprodurlo, tramite talea rigenerativa, a casa propria? Negli animali è presente in moltissimi gruppi, dai Protozoi unicellulari ai Metazoi pluricellulari come i Poriferi (le spugne).
È materia del contendere se la riproduzione sessuata si sia originata da quella asessuata o viceversa. Oggigiorno si tende a preferire l’ipotesi che sia la riproduzione asessuata a essersi originata dalla primigenia sessuata (in molti libri di testo è ancora favorito il caso inverso), considerando il fatto che tutta la macchina enzimatica che assicura il taglia-e-cuci del Dna nel corso della ricombinazione genetica è essenzialmente quella impiegata nei meccanismi molecolari del taglia-e-cuci utili alla riparazione della doppia elica del Dna; questi erano già attivi nel mantenere l’integrità della molecola di acido nucleico dell’ultimo antenato universale comune di tutti gli esseri viventi (in sigla Luca, Last Universal Common Ancestor).
Comunque originato, il sesso è determinato da specifici geni che nel corso dell’evoluzione si sono raccolti su singoli cromosomi, i cromosomi sessuali X e Y (Mammiferi) oppure Z e W (Uccelli). Anche l’ambiente (temperatura, durata del periodo d’illuminazione giornaliera, densità di popolazione, risorse trofiche...) influenza la determinazione del sesso, come nelle tartarughe ove una temperatura superiore ai 30°C determina la nascita di femmine. Il sesso primario nell’uomo si stabilisce intorno alla quinta settimana di sviluppo, quando l’embrione indifferenziato sviluppa i testicoli con l’accensione del gene Sry (sul cromosoma Y) o l’ovario grazie al gene Wnt4 (sul cromosoma 1). Si intuisce chiaramente che un processo così altamente complesso possa alterarsi e produrre uno spettro di caratteristiche sessuali (intersessualità) che trascende rigide categorizzazioni. L’intersessualità non va confusa con l’ermafroditismo, ove un solo tipo di individui è portatore delle gonadi dei due sessi e produce sia uova sia spermatozoi (sebbene a fasi alterne e quindi gli ermafroditi debbono comunque accoppiarsi).
Un aspetto assai curioso e paradossale della riproduzione sessuata è che il sesso maschile, in una panoramica biologica generale, si presenta qui e là in modo sporadico e occasionale. Pur tralasciando la visione sociobiologica che assegna un «costo» al mantenimento dei maschi (costituiscono la metà della popolazione, non partecipano in modo significativo all’allevamento dei piccoli, non li generano direttamente), il sesso maschile risulta dunque un sesso accessorio e non obbligatoriamente presente, non indispensabile nell’accadere della riproduzione sessuata, che può essere tranquillamente portata a termine dalle sole femmine grazie alla partenogenesi, una modalità di riproduzione sessuata uniparentale.
La partenogenesi può produrre solo femmine oppure solo maschi o entrambi i sessi e può essere un modo obbligatorio di riproduzione oppure può comparire accidentalmente ed essere del tutto facoltativa; le varie modalità sono in relazione ai contesti di variazione delle condizioni ambientali e negli insetti stecco (Fasmidi) e negli Imenotteri sociali (api, vespe...) viene studiata in dettaglio. È possibile anche indurre la partenogenesi, artificialmente, con stimolazioni chimiche dell’oocita così da indurlo a riassorbire un piccolo globulo polare (un falso spermatozoo!) e ricostituire l’integrità del genoma.
L’intervento delle biotecnologie in ambito riproduttivo risale all’abate Lazzaro Spallanzani e al 1786, con la prima fecondazione artificiale realizzata nel cane (il clamore fu mondiale) per giungere alla nascita del primo baby in provetta (Louise Brown, nel 1978 ad opera del Nobel sir Robert Edwards). Se la fecondazione artificiale è pratica accettata, con gli attuali circa 400 mila bimbi che ogni anno nascono in provetta, di fatto la sessualità umana si interroga dinanzi alle attuali possibilità e pratiche di selezione del sesso con risvolti drammatici in alcune società orientali (Cina, India) ove è abitudine diffusa l’aborto delle femmine, al punto di aver prodotto un eccesso di maschi nella società degli adulti.
Di grande interesse l’analisi di questi problemi a livello internazionale realizzata dalla banca mondiale in relazione alle cause che li influenzano (guerre, migrazioni, politiche riproduttive). In che termini le biotecnologie riproduttive possano ridisegnare l’umanità e rendere obsoleto il sesso, permettendo di eliminare patologie e scegliere caratteristiche fisiche e mentali del nuovo individuo (il «bambino disegnato») è un fatto ancora tutto da sviluppare, poiché, mentre avanzano le conoscenze scientifiche, resta da decidere quale possa essere il limite delle loro applicazioni. Oggi da una semplice biopsia di cellule della pelle si possono ottenere, in vitro, cellule staminali pluripotenti e differenziarle in spermatozoi e uova; la gran parte dei benestanti potrà avere figli geneticamente propri in un ampio spettro di possibilità, inclusa la uniparentalità, grazie alla produzione di gameti artificiali e alla produzione incrociata di gameti (uova da maschi e spermatozoi da femmine). Tralasciando ectogenesi, per lo sviluppo dell’individuo al di fuori dell’utero, e clonazione, ancora proibita in ambito umano in tutte le legislazioni, già oggi la multigenitorialità è assicurata dalle pratiche di gestazione surrogata (utero in affitto) e la omogenitorialità dagli scambi di gameti.
È tempo che su questo quasi inevitabile futuro i decisori politici (in fatto di eguaglianza), i giurisperiti (per gli aspetti di responsabilità) e i filosofi (in relazione al post-umanesimo) diano il via alla discussione per capire se abbiamo già imboccato l’autostrada che porta alla fine del sesso con un totale investimento sociale sulla cura corpo, sui problemi della senescenza e sul godimento ormonale grazie al sesso virtuale. Tanta parte della filosofia è ancora attardata a riflettere sulle conquiste della fisica e non a sviluppare nuove visioni e pensieri su chi è oggi un individuo, sul destino del singolo, sulla genitorialità come progetto affettivo di legame sociale consapevole ed elettivo, non sessual-riproduttivo (quindi ascrittivo, non voluto), sulla costituzione del nucleo familiare, sul significato delle storie, dei miti e della psicoanalisi circa i «legami di sangue».
Tutte queste opportunità legate allo svolgersi della sessualità interrogano sulla obsolescenza del sesso «naturale» e sui limiti della riproduzione sessuata, sulle possibili pratiche odierne di sesso assicurate dalla realtà virtuale: la sezione della mostra Human+. Il futuro della nostra specie (chiusa a Roma il 1º luglio al Palazzo delle esposizioni) dedicata a questo tema impressionava coloro che (come lo scrivente) ancora sono amanti di inviti e corteggiamenti. La psicologia evolutiva potrebbe aiutare a dipanare lo smarrimento e lo stupore che i maschi provano dinnanzi alla meravigliosa capacità femminile di generare, a capire la genesi dei meccanismi di costrizione del fisico femminile messi in atto storicamente dai maschi per controllare quel corpo generante: e se Sigmund Freud avesse preso una cantonata con la storia dell’invidia del pene da parte femminile? E se fosse invidia del maschio della capacità riproduttiva delle femmine? Altri aspetti, forse meno impegnativi, attendono di essere chiariti: esiste una base chimica per l’attrazione sessuale? La bellezza è davvero negli occhi di chi guarda o nelle ghiandole sudoripare delle femmine? Sono soprattutto le femmine selettive nella scelta sessuale?
La risposta a quest’ultima domanda è la più facile: sì, in tutte le specie a fecondazione interna, dalle mosche all’uomo, la femmina è ben più discriminativa dei maschi nella scelta del partner sessuale. Ne conseguono alcuni avvertimenti, soprattutto per i maschi più giovani: i fiori non si mandano mai prima, ma solo dopo aver vinto la mitica «battaglia dei sessi». Con alcuni corollari: se la corteggiata è una biologa fate attenzione, i fiori sono organi genitali. State regalando ovari e testicoli… prudenza!
Corriere La Lettura 5.8.18
Il «testo sacro»
De Beauvoir spezzò le catene delle donne
di Cristina Taglietti
Nel 2019 saranno passati 70 anni dalla pubblicazione de Il secondo sesso di Simone De Beauvoir (in basso). Il testo della scrittrice di cui quest’anno ricorrono i 110 anni dalla nascita è una poderosa riflessione spesso ridotta allo slogan «Donna non si nasce, lo si diventa» perché — scrive Simone de Beauvoir — «nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna». Testo sacro del femminismo che un editto Vaticano nel 1956 mise nell’indice dei libri proibiti (in Italia lo pubblicò il Saggiatore nel 1961), Il secondo sesso è una riflessione filosofica che, a partire dalla dialettica hegeliana, applica l’esistenzialismo di Sartre ai temi dell’emancipazione femminile, sottraendo la donna a un destino biologico che la esclude dalla storia, ma anche all’interpretazione fallocentrica di Freud e a quella del materialismo storico che pone la categoria economica al di sopra di tutte le altre.
Il secondo sesso, libro dal forte impianto filosofico, letto da migliaia di donne, passa in rassegna i ruoli attribuiti dal pensiero maschile alla donna mettendoli in relazione con i miti ancestrali, i costumi, i tabù, la sessualità studiata in ogni fase della vita femminile, dall’infanzia all’iniziazione sessuale, dalla maturità alla vecchiaia.
Il settantesimo anniversario sarà ancora un’occasione di dibattito tra chi vorrebbe rinchiudere quel testo, insieme alla sua autrice, nel recinto dell’inattualità e chi ritiene che sia stato ingiustamente messo da parte. Di certo Il secondo sesso fu un libro rivoluzionario: oggi si può metterlo in discussione, non ignorarlo.
La Stampa 5.8.18
L’inferno della bimba anoressica sottratta ai medici dai genitori
Torino, madre e padre indagati per maltrattamenti. L’avvocato: sono una famiglia perbene
L’anoressia infantile colpisce solo a Torino 500 bambini all’anno
di Lodovico Poletto
Alzarsi al mattino e andare dritti in ospedale, per mesi e mesi: «Ciao bimba mia stai meglio quest’oggi?». La paura dopo le parole dei medici: «Ora, vostra figlia, dovrà andare in una casa famiglia per almeno un mese. Poi si vedrà». E infine la decisione più sofferta, più rischiosa, più complicata: fuggire da lì, dall’ospedale infantile, da quei medici che avevano paventato l’utimo incubo: separare per chissà quanto tempo i genitori dalla loro creatura.
Questa è la storia di una bambina torinese di dieci anni. Quarta elementare. Eppure già finita dell’angosciante circuito dell’anoressia. O per dirla con parole che fanno meno paura, ma che non cambiano il concetto: «Con gravi disturbi nell’alimentazione». Mercoledì pomeriggio suo padre e sua madre l’hanno portata via a forza dall’ospedale infantile Sant’Anna dove era ricoverata ormai da tre mesi. Reparto di neuropsichiatria infantile. Una struttura protetta, certo, ma pur sempre un ospedale. L’hanno presa contro il parere del personale e sono fuggiti, assistiti da un avvocato che ha cercato di placare le proteste del personale. Che ha motivato la scelta. E ha messo davanti a tutto e a tutti le norme del codice: «La scelta spetta soltanto ai genitori».
Poi la polizia che arriva chiamata dalla direzione sanitaria. Le volanti del 113 che prendono a verbale chi ha assistito alla scena. Le segnalazioni della Asl alla Procura della Repubblica. E infine l’allarme che scatta in tutta Italia: «Stanno andando in Sardegna». Con conseguente allarme ai porti per rintracciare la bimba. E i suoi.
Che fine ha fatto la bimba anoressica? Tre giorni - e mille ipotesi dopo - la bimba riappare. È ricoverata in una struttura pubblica, fuori dal Piemonte. È con la mamma. Dalle 9 alle 21,30 in ospedale, poi passano insieme la notte. «La bimba sta bene, mangia, è felice» assicura l’avvocato Jolanda Noli. «Non c’erano ragioni per tutto questo can can».
Già. Ma l’anoressia a dieci anni, perchè? «È inconsapevole» dice qualcuno. «Può accadere un rifiuto del cibo o un comportamento anomalo derivante da cause esterne». Sì, ma quali?
In questa storia di fughe e bambini malati c’è molto che non è ancora chiaro. Anzi non è stato chiarito completamente. Ecco, tutto inizia con una visita pediatrica, per quella magrezza «anomala» della bimba. Che finisce da uno psichiatra infantile. Il resto è un concatenarsi di eventi rapidi che dinamitano la vita di tutti. Si mobilitano gli assistenti sociali del paese della cintura dove vive la famiglia. Un posto come mille altri, di casette e segreti. Di piccola borghesia e finestre sbarrate. Guardi adesso la casa e vedi una villetta in una spianata di villette. Mattoni rossi e giardinetto, il patio in ordine, l’auto posteggiata dietro il cancello chiuso.
Perché gli assistenti sociali hanno bussato qui? Perché l’anoressia a dieci anni? Ci sono dei legami? L’avvocato Noli è una donna determinata. Dice: «Stiamo parlando di una famiglia per bene. Sono gente molto per bene. Che hanno fatto ciò che chiunque farebbe per il proprio bambino. Non sono spariti. Abbiamo informato tutti di dove la stavamo portando». Tutto vero. Ma la Procura della Repubblica di Torino ha aperto un fascicolo su quella mamma e su quel papà. E sopra ci sarebbe scritto maltrattamenti. Di che tipo? Come? Le bocche su questa storia sono cucite come non mai. Sigillate perchè prima di tutto va tutelato quello scricciolo dai capelli lisci, che ha passato la quarta elementare d’un fiato, senza problemi. Che ha fatto la prima comunione la scorsa primavera. Quando i sintomi della malattia si stavano appena appena appalesando. E tutto era ancora confuso.
«L’ospedale stava facendo una scelta muscolare invece di guardare al bene della bambina» dice, in estrema sintesi, l’avvocato Jolanda Noli. Portarla in una comunità - per loro - era una decisione troppo forte.
E intanto sono tutti lì a interrogarsi sull’anoressia infantile. Poi salta fuori un numero: 500 casi l’anno, soltanto a Torino. Diverse migliaia in tutta Italia. È una malattia che avanza rapida. È più che un’emergenza. È un’onda di disagio angosciante che minaccia i bambini.
La Stampa 5.8.18
Violenza sulle donne, boom di denunce
Aumentate del 50 per cento le telefonate al 1522, il numero promosso dal dipartimento Pari Opportunità La presidente del Telefono Rosa: “Segnale positivo, significa che c’è maggiore consapevolezza del problema”
di Flavia Amabile
Sempre più donne in Italia decidono di dire basta e mettere fine alle violenze subite. Da gennaio a giugno di quest’anno il numero gratuito di pubblica utilità 1522, promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità e gestito da Telefono Rosa, ha ricevuto solo a Roma 444 chiamate da parte di donne vittime di violenza, riuscendo in sei mesi quasi a raggiungere il numero totale di telefonate del 2017, quando erano arrivate 587 denunce.
L’aumento è evidente anche nel resto d’Italia dove fino a giugno sono arrivate 4 mila 664 telefonate, non troppe di meno rispetto alle 6 mila 533 giunte in tutto il 2017. In totale, fa sapere il sito del 1522, sono arrivate il 53% in più di telefonate.
«C’è di sicuro un significativo aumento delle donne che chiedono aiuto e decidono di mettersi nella condizione di ricevere assistenza», racconta la presidente di telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli.
Questo non vuol dire che siano aumentate le violenze ma potrebbe voler dire che sta aumentando la capacità delle donne di reagire. «È un segnale decisamente positivo nella nostra battaglia contro il fenomeno sommerso della violenza e che dimostra una sempre maggiore consapevolezza delle donne che escono allo scoperto e trovano il coraggio di denunciare le violenze subite, che molto spesso avvengono all’interno delle mura domestiche», conferma la presidente di Telefono Rosa.
Si spera, insomma, che sia il frutto di una nuova stagione, un’onda iniziata con il movimento #MeToo negli Stati Uniti ma che ha trovato ampio spazio anche in Italia con una forte diffusione mediatica. «È innegabile che da un anno a questa parte se ne sia parlato molto. C’è una grande sollecitazione che sta avendo i suoi effetti e che fa capire alle donne che denunciare è la strada giusta. Tuttavia non si può non ricordare che è stata condotta una campagna di comunicazione del numero 1522 come numero gratuito antiviolenza e antistalking con spot pubblicitari che di sicuro hanno portato a questi risultati», ricorda la presidente di Telefono Rosa. In occasione dello scorso 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il Dipartimento Pari Opportunità guidato da Maria Elena Boschi con la collaborazione della consigliera in materia di Pari opportunità, Lucia Annibali, avevano presentato due spot che sono poi andati in onda sulle reti Rai.
In base ai dati raccolti dall’associazione, le vittime che hanno avuto il coraggio di denunciare al 1522 le violenze subite nei primi mesi del 2018 sono soprattutto italiane, con figli e una scarsa autonomia economica. L’87,01% infatti sono italiane, il 70,8% ha figli e più della metà sono disoccupate, casalinghe, pensionate o lavoratrici in nero. Percentuali non molto diverse nel caso di vittime di stalking: il 95,45% sono italiane, il 50,23% hanno figli. L’unica differenza riguarda l’indipendenza economica: il 63,86% ha un lavoro.
Gli autori delle violenze denunciate al 1522, invece, sono uomini italiani, in gran parte con figli e un’occupazione. Il 94,53% sono maschi, l’88,24% italiani, il 68,49% ha figli e il 54,68% ha un’occupazione. Una fotografia molto simile anche quando si parla di autori di atti di stalking. Il 93,41% è maschio, il 95,45% è italiano, il 45,45% ha figli e il 53,86% ha un lavoro.
Ora al Dipartimento Pari Opportunità siede Vincenzo Spadafora, la presidente di Telefono Rosa lo ha incontrato nelle scorse settimane. «In questi anni il Dipartimento ha compiuto un grande lavoro. Ci rivedremo a settembre, bisogna di sicuro andare avanti nella campagna di informazione e sensibilizzazione. Il 1522 è uno strumento importantissimo. Mi auguro poi che ci sia uno snellimento delle procedure burocratiche delle denunce e soprattutto dell’iter giudiziario che deve essere più breve. Per le vittime è una fase massacrante, è una vera tortura dover aspettare anni per arrivare a un provvedimento definitivo. È poi molto importante lavorare nelle scuole, purtroppo stiamo riscontrando anche un abbassamento dell’età delle vittime e degli autori, bisogna evitare che la violenza prenda piede fra i più giovani. Ma soprattutto vanno aumentate le case-rifugio dove vengono ospitate le vittime che hanno avuto il coraggio di denunciare e poi le opportunità di reinserimento delle donne nella società per fare in modo che riescano davvero a costruire una nuova vita».
La Stampa 5.8.18
È solo la punta dell’iceberg
Il 90% ancora non denuncia
di Linda Laura Sabbadini
La violenza di genere contro le donne è di grandi dimensioni. Ce lo ricordano i dati relativi alle telefonate al numero 1522, da parte delle donne che hanno subito violenza nel primo semestre del 2018 e che sembrano essere in crescita rispetto all’ anno precedente. Tante telefonate, sì,ma ancora troppo poche se si considera che il 90% delle donne vittime di violenza non denuncia e il 30% non si rivolge a nessuno. Non possiamo affermare né che l’aumento sia espressione della crescita della violenza, né che evidenzi un incremento della coscienza femminile. Può essere ambedue le cose o anche dovuto a un maggior investimento in comunicazione che aumenta il numero di donne informate. Non è questa la fonte dei dati adatta per sciogliere questo nodo. Per poter affermare se la violenza stia crescendo o diminuendo dobbiamo aspettare che venga svolta l’indagine dell’Istat che stima anche la componente sommersa.
E’ assolutamente utile potenziare la campagna di informazione sul 1522 per far sapere a più donne della possibilità di ricorrere a un sostegno facile e accessibile per affrontare un problema complesso e delicato. Il nuovo governo può farlo e ha la possibilità di migliorare le norme esistenti in molti casi a costo zero. E allora perché non togliere le doppie, triple testimonianze che le donne sono costrette a fare se cambia il giudice per i reati di violenza, maltrattamenti e stalking? Perché non modificare nella legge sulla violenza la parola «costrizione» con «non consenso»? Molte donne si bloccano se subiscono violenza e ciò non deve poter essere utilizzato contro di loro. Perché non estendere le misure di prevenzione e di sicurezza a violenza sessuale, maltrattamenti e stalking, inserendo il non avvicinamento del violento? E’ il momento di agire, con fermezza e tempestività.
Il Fatto 5.8.18
Imbecilli, razzisti, criminali: la graduatoria dell’idiozia
di Antonio Padellaro
“Non facciamo parte di alcun gruppo politico e non siamo affatto razzisti. È stata una stupida goliardata per passare una serata diversa”.
Federico De Pascali, 19 anni, figlio del capogruppo Pd di Vinovo, autore con due suoi amici del lancio di uova che ha ferito all’occhio l’atleta Daisy Osakue
Non tutti gli imbecilli sono razzisti. Ma tutti i razzisti sono anche degli imbecilli. Per esempio: i lanciatori di uova di Moncalieri negano di essere razzisti ma si dichiarano dei perfetti imbecilli. Per esempio: i “tanti che fanno la fila” per andare a trovare in carcere Luca Traini, pistolero razzista di Macerata (Repubblica) sono sicuramente dei razzisti ma pure degli imbecilli al cubo.
Sull’argomento esistono graduatorie diverse. L’ex funzionario del Senato che ha ferito la bimba rom con un fucile di precisione è nell’ordine: un imbecille, un razzista e un criminale. Mentre il “lupo” Traini è nell’ordine un razzista, un criminale e un imbecille (il fatto che si fosse candidato con Salvini non costituisce aggravante ma neppure attenuante).
Gli sparatori che a Pistoia e Napoli hanno aggredito e ferito i migranti invece rappresentano un kit: l’equipaggiamento perfetto del nuovo italiano a spasso che racchiude in dosi equivalenti criminalità, razzismo, imbecillità e un cicinin di fascismo. Anche se non tutti i fascisti sono degli imbecilli, anzi (come quei furbacchioni di Casapound che sul duce ci campano benone). Non sappiamo invece se i partecipanti alla ronda notturna di Aprilia, e finiti sotto accusa per la morte di un immigrato, siano razzisti e criminali. Ma se una volta arrestati hanno piagnucolato “siamo rovinati” la patente di imbecilli col botto se la danno da soli.
Proviamo adesso a immergerci nella complessità dell’idiozia. Il ministro leghista Fontana che vuole abrogare la legge Mancino, che “in questi anni si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalismi per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”, è un imbecille? Fino a ieri non risultava anche se la succitata frase può creare pesanti sospetti. Lui e il suo “capitano” Salvini sembrano piuttosto degli sfruttatori intensivi di imbecilli. Come quegli avventurieri che all’inizio del secolo scorso trovarono in Texas il petrolio che nessuno cercava, i nostri eroi un giorno devono essersi interrogati su come ricavare profitti (politici) dai giacimenti di imbecillità che la Rete dei social aveva fatto prima zampillare e poi dilagare (grazie anche ai carotaggi dei Cinque Stelle). Bisogna ammetterlo: stanno facendo un grande lavoro. Naturalmente esiste anche l’imbecille di sinistra che tuttavia non può essere in nessun modo riciclato (come la plastica nei mari) in quanto danneggia il prossimo senza conseguire alcun vantaggio per se stesso (vedi il Pd renziano).
In definitiva, resta sempre attuale la risposta che il generale De Gaulle diede a un suo collaboratore. “Mon général, morte ai cretini”. “Caro amico, il suo programma è troppo ambizioso”
Il Fatto 5.8.18
Aperta la caccia al nemico globalista
di Furio Colombo
Dunque questo è il nuovo. Di solito il nuovo porta euforia. Qualcuno vede nel nostro Paese tracce di umore sereno, se non di euforia? Vincere le elezioni (specialmente se si vince di molto), porta buoni sentimenti negli eletti e negli elettori. Questa volta, forse la prima, almeno nella memoria di chi ha visto molte vittorie e molte sconfitte, prevale, si rafforza e dilaga un cattivo umore risentito.
Ha tre caratteristiche. La prima è l’impegno a fare le cose in fretta, come se mancasse il tempo, e fosse necessario esibire subito un risultato, come se le prossime elezioni fossero vicine (non lo sono e non possono esserlo). La seconda è “di fargliela pagare”, inventando un nemico, il “globalismo”, che difficilmente può essere una persona, una legge o un partito. È come l’ondata di caldo del momento, un fatto planetario che si presta più al lamento che alla discussione. Chi apre la porta non è la causa del caldo. Ma qui, adesso, viene combattuto come tale. Il terzo è la vendetta trasversale. Con molta attenzione si cerca che cosa sta a cuore, che cosa è irrinunciabile per coloro che sono estranei alla rivoluzione dello strano e tetro “nuovo” in cui stiamo vivendo, dunque nemici.
Una volta trovato il punto debole (il rigetto del razzismo, la ripulsa del fascismo, il conoscere la Storia, il rispetto della Costituzione, il ricordo di via Tasso) si è trovato dove colpire. Strumenti sono il sarcasmo, un progetto di legge offensivo, la pronuncia ministeriale, l’autorevole ripetizione della dichiarazione che sbatte, in modo calcolato, contro i tuoi sentimenti, “declamando” a nome di tutti gli “italiani” sentimenti opposti che però, detti dal potere, non sono più sentimenti, suonano come regole di condotta, e anche, un po’ come minaccia, perché il potere ha sempre un modo di intromettersi nella tua vita.
Forse, negli ultimi giorni, i casi più interessanti sono stati l’aggressione online al Quirinale e al presidente della Repubblica, dopo che Di Maio, irritabile come i suoi capi (non dico Conte, dico Grillo) e il suo maxi-collega, ha chiesto prontamente l’impeachment del Presidente della Repubblica per avere respinto (e motivato) la nomina di un ministro e la improvvisa dichiarazione filo-fascista del ministro della famiglia Fontana. Nel primo caso, come in Guerre Stellari, si vede che una macchina da guerra di robotica internazionale è pronta a scattare contro il simbolo chiave della democrazia italiana, curiosamente manovrata (eppure stiamo parlando di sovranisti gelosi delle frontiere) fuori dai nostri confini. Nel secondo caso scatta non solo la vendetta trasversale dell’attaccare e offendere brutalmente gli antifascisti e le vittime sopravvissute del fascismo. Ma anche una nuova grande messa in scena alla Evola: giganti globalisti si aggirano in mezzo a noi, resi forti dalla legge Mancino che punisce le offese e le persecuzioni agli antifascisti, qualcosa che non si può tollerare se si vuole colpire il globalismo.
Dunque, per difendersi dai globalisti (che, apprendiamo, sono antifascisti) Lega e Cinque Stelle devono cancellare le leggi che frenano il libero esercizio di un nuovo fascismo. Fontana accenna anche al fatto che le idee non si possono fermare per legge. Dimentica che si può fare per l’idea di omicidio, il giuramento di mafia e alcune altre cose non migliori e non peggiori del fascismo. Quando vorrà, Fontana potrà ricevere una lista dei morti del fascismo e del nazi-fascismo (ad opera di assassini, sicari, prigioni e campi di sterminio) cominciando da Gobetti. Faccia spazio nel suo ufficio, gli serviranno parecchi armadi.
Qualcosa di interessante però accade: mentre crollano tutti gli indicatori economici e l’Italia appare un Paese sempre più allo sbando, il quadro bizzarro impiantato da Grillo come prova della sua fervida immaginazione copre qualche cos’altro di cui non sappiamo nulla. Nessuno ha provato a spiegare che cosa ci fanno i russi in casa dei leghisti e in casa dei Cinque Stelle. Nessuno ci racconta i legami con Putin e lo strano fervore di sconosciuti personaggi russi nell’attacco mediatico al Quirinale, nella notte del 27 maggio. Non risulta alcun tipo di contatto fra la Presidenza della Repubblica e il resto del governo italiano. Non si capisce perché, nelle stesse ore, cominci il tormento di un certo Marcello Foa che deve essere a tutti i costi presidente della Rai. Benché decine di migliaia di attacchi mediatici contro Mattarella si moltiplicassero (scatenati, si direbbe, dalla capricciosa affermazione di Di Maio che aveva chiesto pubblicamente, sia pure per un giorno, l’impeachment del Capo dello Stato), il resto del governo si è tenuto fuori dalla disputa (chiamiamo così un gravissimo e misterioso evento). Chi è intervenuto, chi ha guidato, chi ha indagato? Con quali connessioni con gli altri affari italiani (Rai)? Come vedete è difficile che il nuovo sia lieto, nella versione di questa strana alleanza di vendette.
Il Sole 5.8.18
Preoccupazione e scetticismo, prese di distanza e no comment dopo l’annuncio dell’ex strategist di Trumpdi sostenere i partiti anti-Ue - Ma l’iniziativa può innescare la reazione di chi crede ancora nell’integrazione
di Giuseppe Chiellino e Alberto Magnani
L’Europa tra populismi e sovranismi Lo spauracchio si chiama Bannon
A Bruxelles non ha ancora aperto nulla e a quanto pare il suo punto d’appoggio è solo uno dei fondatori del Parti populaire che, con il 6% dei voti e un eletto, si è dato l’obiettivo di «raddrizzare la Vallonia e Bruxelles, restituendole fierezza e dignità». Ma è bastato l’annuncio, sapientemente veicolato, di voler aprire un ufficio con una decina di persone nella capitale belga in vista delle elezioni europee del 2019, e Steve Bannon ha acceso il dibattito. A conferma che quando gli alleati lo descrivono come una «macchina da guerra» mediatica non sbagliano. I detrattori sono meno lusinghieri, ma ne parlano comunque. L’ex stratega politico di Donald Trump, ha capacità e mezzi per restare sulla scena. Prima negli Usa e ora nella sua nuova (facile?) scommessa politica: l’Unione europea. E questo, visti i precedenti, preoccupa.
Gli obiettivi della fondazione
Bannon sta lavorando al debutto di una fondazione, ribattezzata The Movement, nel tentativo di proporsi come guida di tutte le forze Ue nazionaliste ed euroscettiche in vista dell’elezione dell’Europarlamento. Niente attività di lobby tradizionale, ma un soggetto che «unisca e potenzi» i partiti della destra populista, radunati da un’agenda comune e sostenuti con consulenze che vanno dalla raccolta dati alla comunicazione sui social. Nemici comuni: l’Unione europea «antidemocratica», il multiculturalismo e il finanziere-filantropo George Soros, uno dei bersagli preferiti dei sovranisti per la sua attività di beneficenza «che favorisce l’immigrazione» elargendo denaro alle Ong. La fondazione dovrebbe assoldare 10-15 persone e si insedierà a Bruxelles per tenere il fiato sul collo delle istituzioni che Bannon cerca di scardinare dall’interno con una sorta di cartello fra i partiti nazionalisti del Vecchio Continente. Dalla Lega di Matteo Salvini in Italia («Il cuore pulsante della politica in Europa») al Rassemblement national di Marine Le Pen in Francia, senza lasciare per strada Fidesz di Viktor Orban, la destra radicale di Alternative für Deutschland in Germania, i polacchi di Diritto e giustizia e qualche sigla minore. Proprio come il Parti populaire, partito belga di destra con un seggio al parlamento vallone (e zero in quello europeo), che vuole giocare un ruolo di peso nell’iniziativa di Bannon. Uno dei fondatori, l’avvocato Mischaël Modrikamen, dice di aver avuto l’intuizione di un blocco unico dei movimenti populisti all’epoca della vittoria di Trump nel 2016. Ne ha parlato con Bannon, sostiene, l’idea gli è piaciuta e si dovrebbe tradurre in realtà a metà settembre. In cima all’agenda, spiega Modrikamen (di cui non ci sono in giro foto con Bannon), ci sono gli stessi obiettivi che fanno da collante ideologico fra i vari partiti: «Chiusura delle frontiere, lotta contro l’islamizzazione, recupero dei valori cristiani dell’Occidente. Tutti temi su cui possiamo tranquillamente trovare un accordo anche fra forze di estrazione diversa». La fondazione si reggerà su donazioni private dagli Stati Uniti e dall’Europa: magari non si arriverà al miliardo di dollari all’anno dell’Open society di Soros, ma «raccoglieremo comunque finanziamenti perché siamo in linea con quello che pensa la gente. È la sfida dei partiti populisti contro il partito del globalismo» spiega Modrikamen che si fa anche ambizioso «garante» contro ingerenze russe. Per ora non si parla della creazione di un gruppo parlamentare a sé ma l’ipotesi non si può escludere.
Quale possa essere la potenza d’urto di The Movement, comunque, è tutto da stabilire. Gli stessi ipotetici protagonisti del suo progetto, i partiti sovranisti europei, hanno reagito in modo diverso all’annuncio dell’ex spin doctor (o presunto tale) di Trump. Membri del Rassemblement national, erede del Front National, hanno già dichiarato ai media internazionali che «non accettano entità sovranazionali» sulla loro testa. Dal governo austriaco di Sebastian Kurz, rappresentante dell’euroscettico Partito della libertà, fanno sapere che «nessuno sembra essere stato contattato da Bannon». E Salvini? Il vicepremier si è già incontrato con Bannon e la Lega è un candidato ideale al progetto, ma finora non ha ricevuto alcuna informazione su The Movement.
Reazioni prudenti
L’effetto annuncio comunque c’è stato eccome. A Bruxelles se ne parla, soprattutto in privato, anche se la sostanza è tutta da verificare. Questo spiega la presa di distanza di alcuni dei partiti corteggiati da Bannon e il silenzio di quelli tradizionali ed europeisti. Non perché non prendano sul serio l’iniziativa. Prudentemente, non si pronunciano. Come il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, esponente di primo piano del Partito popolare (Ppe), e il primo vicepresidente della Commissione, il socialista olandese Frans Timmermans. Rinvia ogni commento a dopo le vacanze anche il presidente del Ppe, il tedesco Manfred Weber, il quale potrebbe essere il più preoccupato dal momento che un eventuale gruppo parlamentare sovranista rischia di ridimensionare soprattutto il Ppe che già accoglie Orban e ha lanciato più di un messaggio alla Lega. Nessuna risposta anche da Guy Verhofstadt, ex premier belga e presidente dei Liberal-democratici: un anno e mezzo fa aveva tentato di arruolare gli europarlamentari del M5S sottraendoli agli euroscettici, ma aveva dovuto rinunciare al progetto per la rivolta dei suoi. E a proposito dei 5stelle, Bannon non ne parla: il movimento viene considerato populista, euroscettico, ma non sovranista. Parla invece Sven Giegold, eurodeputato tedesco dei Verdi ed è tranchant: «Tutti i partiti che si collegano a Bannon si fanno del male. La reputazione di Trump in Europa è pessima e Bannon è e rimane legato alle sue politiche dannose. Senza dubbio il populismo di destra è pericoloso, ma dubito che Bannon lo renderà più forte».
«In cerca di uno zar»
Cas Mudde, esperto di populismi in cattedra alla University of Georgia, ha stroncato sul Guardian le ambizioni europee di Bannon, definendolo «l’aspirante Rasputin in cerca di uno zar». Raggiunto dal Sole 24 Ore, Mudde si rifiuta di parlare ancora di lui «per non fargli pubblicità gratuita – dice – finché non ho la prova che conti qualcosa». La tesi di Mudde è che Bannon sia in cerca di un lavoro, dopo essere stato estromesso sia dalla Casa Bianca sia da Breitbart news, il sito di ultradestra fondato nel 2007.
Sospesi tra preoccupazione e scetticismo, per i partiti tradizionali, e soprattutto per i cittadini che ancora vedono nell’Unione europea un grande progetto di pace tra le nazioni attraverso un processo di integrazione economia e politica, la sfida di Bannon suona dunque come una chiamata alle armi, per non riportare le lancette della storia indietro di 70 anni.
il manifesto 5.8.18
La Flat Tax rompe l’impianto Costituzionale
Governo. È insanabile la contraddizione con la progressività imposta dall’art. 53 Cost., che non apre spiragli. Il principio è semplice ed essenziale: chi ha di più deve dare di più
di Simone Pieranni
A margine del summit gialloverde che ha visto l’assedio a Tria da parte dei famelici convitati di governo, apprendiamo di Flat tax e Reddito di cittadinanza subito, forse gradualmente, non per tutti. L’incertezza domina, e potrebbe esserci un altro summit a breve.
Nella partita di tennis in corso Salvini ha messo a segno un ace sui migranti, a spese della nostra coscienza collettiva di paese civile e tollerante. Di Maio ha inteso rispondere con il decreto dignità, peraltro cedendo su punti qualificanti come i voucher. Ora, nessuno dei due può permettersi di lasciare il gioco in mano all’altro. Quindi, Flat tax e Reddito di cittadinanza insieme o niente, come ha certificato il sottosegretario Giorgetti. E dal momento che non si può essere certi che il governo duri a lungo, subito, o almeno al più presto. A nessuno importa che nella parte relativa alla Flat tax ci siano ovvi profili di incostituzionalità.
È insanabile la contraddizione con la progressività imposta dall’art. 53 Cost., che non apre spiragli.
Il principio è semplice ed essenziale: chi ha di più deve dare di più. Ed è ovvio che la maggiore disponibilità di risorse acquisita è strumentale a cruciali obiettivi di eguaglianza e solidarietà. Consente la redistribuzione indispensabile alla eguale attuazione per tutti dei diritti fondamentali. È motore dell’ascensore sociale delineato dall’art. 3, comma 2. È collante primario della coesione territoriale senza la quale l’unità della Repubblica ex art. 5 è un mero flatus vocis. La Flat tax non è solo diretta violazione dell’art. 53. È anche un colpo all’impianto complessivo della Costituzione.
I sostenitori della Flat tax argomentano che sarà disegnata in modo da essere compatibile con l’art. 53. Ma non si vede come sia possibile. La modulazione su due aliquote e l’intervento sulla no-tax area e sulle detrazioni non negano il modello di fondo. E del resto la prova è nel fatto – certo – che vengono meno risorse per alcune decine di miliardi. Nelle tasche di chi rimangono? Ovviamente, di chi ha il maggiore alleggerimento nel carico fiscale. Quindi, sono favoriti i contribuenti a maggiore reddito, e i territori economicamente più forti.
È costituzionalmente discutibile anche l’idea di introdurre all’avvio il nuovo regime solo per professionisti e Partite Iva. È ben vero che nessun sistema fiscale prevede tasse uguali per tutti. Ma qui – se abbiano bene compreso – un medesimo reddito avrebbe un regime fiscale radicalmente diverso se prodotto dall’avvocato, dall’imprenditore, dal lavoratore dipendente. E questo è di per sé discutibile, anche a non voler considerare la nota tendenza a rendere definitivo il provvisorio.
I fan della Flat tax sostengono che ne deriverebbe uno stimolo per l’economia nel suo complesso. Meno tasse e più ricchezza per tutti: una versione fiscale del miracolo dei pani e dei pesci. Ma chi laicamente ha studiato le esperienze fin qui condotte ha rilevato l’infondatezza dell’assunto. Quel che accade è che i ricchi diventano più ricchi, e i poveri rimangono – nella migliore delle ipotesi – poveri. Anche le ultime vicende statunitensi offrono indicazioni in tal senso.
In realtà, chi vuole la Flat tax non nega che il maggiore beneficio sia pensato per i più ricchi e vada a loro. Ma accompagna a tale premessa la teoria del «trickle down», per cui dal beneficio ai privilegiati discende poi un vantaggio anche per i meno fortunati, per il miglioramento del quadro economico complessivo. Ma la minore disponibilità di risorse pubbliche è certa e immediata, l’impatto positivo è futuro e incerto, e dipende anche da una molteplicità di fattori diversi.
In ogni caso, la stessa parola usata – trickle – si traduce come rivolo, flusso sottile, irregolare, lento (così il dizionario). La premessa è che la massa d’acqua da cui il rivolo discende rimane in larga parte a beneficio di altri.
Dal contratto al paradosso di governo: più Flat tax uguale meno reddito di cittadinanza, e viceversa. Intanto, i mercati fremono e i timori aumentano, in specie avvicinandosi la fine dello scudo assicurato dalla Bce. Dopo il summit ci si chiede se la montagna abbia partorito il topolino, o il topolino si appresti a partorire la montagna. Sarà comunque bene ricordare che dove c’è una montagna c’è anche inevitabilmente un precipizio.
il manifesto 5.8.18
Quel giorno che Fontana si perse la madonna di Fatima
Nel 2012 con Borghezio, un prete e un avvocato integralista, il neo ministro, allora a Strasburgo, voleva convertire l'europarlamento. Ma in aeroporto qualcosa andò storto
Strasburgo, 22 ottobre 2012. Lorenzo Fontana è il primo da sinistra alla presentazione della marcia della madonna di Fatima
di Andrea Fabozzi
«Lo scontro finale tra il signore e il regno di satana sarà sulla famiglia e sul matrimonio». Non lo ha scritto il ministro Fontana su facebook, o non ancora, ma è l’ultima profezia di suor Lucia, la pastorella veggente di Fatima. Una rivelazione consegnata al mondo senza sapere che nel 2018 l’Italia avrebbe avuto Fontana come ministro della famiglia (ci sono le prove, la suora è morta nel 2005). La mistica non poteva accedere ai social ma aveva una capacità di sintesi superiore a quella del ministro, che recentemente ha impiegato le 160 pagine del suo libro La culla vuota delle civiltà per dire la stessa cosa. È inutile quindi che di fronte alle frequenti alzate di ingegno del ministro i commentatori si affatichino a ricostruire le ascendenze culturali di una tale mente, rileggendo Steve Bannon o i volantini degli ultras dell’Hellas. Per capire Fontana bisogna passare da Fatima.
Devoto delle madonne, soprattutto di quelle che appaiono, appena un mese fa il ministro ha avuto l’idea di rispondere al Gay Pride portando la famiglia in pellegrinaggio alla cappella delle Ghiaie di Bonate, sede di un culto non riconosciuto dalla chiesa cattolica. La sua preferita è però la madonna di Fatima. Il 13 maggio scorso, nel pieno delle trattative per il governo del cambiamento, non ha dimenticato di ricordare, su facebook, il 101esimo anniversario dell’apparizione della vergine ai tre pastorelli portoghesi. Eppure una volta Lorenzo Fontana la madonna di Fatima se l’era persa.
Siamo nel 2012, l’appena trentenne Fontana, eletto al parlamento europeo per la Lega Nord, segue le orme del più noto Mario Borghezio, il leghista della prima ora ammiratore del nazismo e del fascismo considerato erroneamente una figura eccentrica del movimento, mentre invece era un precursore. I due hanno una trovata di genio: portare la statua della madonna di Fatima a Strasburgo. Per «richiamare l’Europa ai valori cristiani». Niente meglio della madonna più famosa al mondo, del resto «il simbolo dell’Europa unita è un simbolo squisitamente mariano: le dodici stelle, i colori bianco e azzurro…». Fermiamoci qui.
Il programma prevedeva una processione dal sagrato della cattedrale di Strasburgo alle porte della sede dell’europarlamento. In testa la statua della madonna di Fatima, o meglio una delle tante repliche dell’originale portoghese, questa però benedetta direttamente da Paolo VI durante il primo storico viaggio di un papa a Fatima. Attesa a Strasburgo da Montreal accompagnata da padre Nicholas Gruner, fondatore della «Crociata internazionale del Rosario di Fatima» e custode unico della preziosa immagine, la statua però fu inutilmente attesa all’aeroporto francese. Si dev’essere persa durante lo scalo ad Amsterdam, spiegarono gli addetti della compagnia Klm ai momentaneamente increduli organizzatori dello sbarco in Alsazia. Con Borghezio, Fontana e lo sfortunato padre custode c’era Christopher Ferrara. Un avvocato americano integralista cattolico che sarebbe diventato qualche anno dopo tra i più tenaci sostenitori dell’eresia di papa Bergoglio, assieme all’ex banchiere dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, cioè il coautore con Fontana del già citato saggio La culla vuota della civiltà.
I paladini mariani di Strasburgo però non si arresero e il 22 ottobre 2012 tennero ugualmente la conferenza stampa di presentazione della «marcia» pur sapendo di non avere più la statua. Si arrangiarono, il giorno dopo, con una statuetta rimediata all’ultimo minuto: madonne di Fatima di discrete dimensioni si trovavano e si trovano anche su Amazon a partire da 20 euro.
La madonna “originale” riapparve quattro giorni dopo nei magazzini dello scalo olandese. Troppo tardi per la marcia di Borghezio e Fontana, anche se in perfetto tempismo con il novantesimo anniversario della marcia su Roma; ma allora per fortuna a nessuno venne in mente. Borghezio volle comunque gridare al miracolo. Promise una nuova processione, che stiamo ancora aspettando, e cominciò a scrivere petizioni all’europarlamento «a sostegno delle richieste della madonna di Fatima». Soprattutto una: «Consacrare alla vergine la Russia», paese considerato all’origine di tutti i peccati, visto che all’epoca doveva ancora prendere forma l’altro culto leghista, quello per Putin.
Il parlamento europeo, in tutti questi anni, ha sempre rifiutato anche solo di ricevere le richieste di Borghezio e Fontana, considerando fuori dalla sua portata la missione di consacrare la Russia. Non è chiaro se adesso che è al governo Fontana intenderà riproporre la missione. Che però, va detto, non è nel contratto di governo
La Stampa 5.8.18
Il nuovo studio:
“Sulla Sindone c’è il sangue di un torturato”
diFabrizio Assandri
Il sangue della Sindone troppo rosso per essere vero? No, secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Applied Optics, che risponde a una delle obiezioni dei detrattori del Telo che avrebbe avvolto Gesù, quella secondo cui è senso comune che, una volta rappreso, diventi marrone. Può sembrare un problema da poco, ma decine di studi sugli aspetti più diversi, il colore è uno, non hanno fermato il tormentone sulle macchie della Sindone: una sfida, si può dire, all’ultimo sangue. Quelle sfumature di rosso sono state analizzate dopo l’ostensione del 2015, con raggi laser e strumenti ottici che servono anche per dire se l’immagine dell’uomo si è deteriorata (a proposito: no).
Il risultato dell’analisi
I risultati: «Il sangue resta rosso se colpito da raggi ultravioletti compatibili con la luce del sole», spiega Paolo Di Lazzaro, ricercatore Enea e vicedirettore del Centro Internazionale di Sindonologia, che firma lo studio con ricercatori Inrim e Cnr. Ma attenzione - il diavolo sta nei dettagli - il fenomeno si verifica solo con un preciso tipo di sangue: «Quello di un malato di ittero, o di chi è stato torturato». Lo studio è stato condotto su un malato, «non potendo torturare nessuno», scherza Di Lazzaro. L’ipotesi era già stata formulata, «noi l’abbiamo verificata, e dimostriamo che le macchie sono di vero sangue, c’è emoglobina antica, e non ocra o altro, mentre c’è chi, come il Cicap, continua a sostenere il contrario».
Il tema dell’autenticità, qui, resta sullo sfondo. «Il valore della ricerca sta nell’aggiungersi, completare e confermare risultati di esami fatti negli anni ’80, che hanno dimostrato che il sangue della Sindone è davvero sangue», dice Gian Maria Zaccone, direttore del Centro di sindonologia. «Sono convinto per altri motivi che la Sindone sia un falso, ma questi studi non tolgono il fatto che molti altri dimostrino che l’ocra è stata usata», dice il chimico Luigi Garlaschelli del Cicap, comitato che si occupa di paranormale e ha da poco pubblicato uno studio su un altro aspetto del sangue: le macchie sarebbero false per forma, dimensione e posizione. «Mi aspetto che queste conclusioni sul sangue rosso siano analizzate attentamente».
A colpi di studi e ricerche, il dibattito non si arresta, mentre il Duomo si prepara per l’ostensione lampo di venerdì prossimo. Sono attesi 2mila giovani, prima del pellegrinaggio a Roma per l’incontro col Papa.
il manifesto 5.8.18
«Perché Salvini non fa sgomberare CasaPound?»
La lettera del sindaco di Cerveteri, coordinatore del nuovo partito di Pizzarotti, al ministro e alla prima cittadina di Roma ricorda che la sede nazionale dei "fascisti del terzo millennio" è un bene dello stato
di Ruggero Scotti
Ieri il sindaco di Cerveteri Alessio Pascucci, coordinatore di «Italia in Comune» – il nuovo partito fondato dal sindaco di Parma, Pizzarotti – ha scritto una lettera al ministro dell’interno Salvini, alla sindaca di Roma Raggi e al prefetto della Capitale Basilone per invitarli a sgomberare, finalmente, la sede nazionale di CasaPound.
«Nella capitale esiste un elenco di immobili occupati stilato con la deliberazione n. 50 del 26 aprile 2016 dal prefetto Tronca. In tale deliberazione vengono individuati 16 immobili da sgomberare con assoluta priorità, fra i quali vi è anche il palazzo di via Napoleone III n. 8, occupato dal movimento CasaPound che ha trasformato tale immobile pubblico nella sede ufficiale del partito», scrive nella lettera Pascucci, in passato ai ferri corti con CasaPound per via del suo sostegno alla causa Lgbt.
Dalla deliberazione del prefetto Tronca sono passati due anni, CasaPound è ancora lì. La sede non passa inosservata per chi si trova a passare nelle vicinanze della stazione Termini: «L’ambasciata d’Italia nel quartiere più multietnico di Roma» la chiamano i «fascisti del terzo millennio». Per le dimensioni ricorda proprio un’ambasciata: si tratta di un palazzo di sei piani con ottima vista sul centro storico e con almeno una ventina di appartamenti, tra i quali le abitazioni di parenti dei massimi dirigenti del partito (la moglie del presidente Gianluca Iannone e il fratello del segretario Simone Di Stefano, ad esempio). All’ultimo piano si può trovare una grande sala per conferenze e presentazioni di libri.
Per tutte queste attività che si svolgono nella sua sede, CasaPound Italia non versa un centesimo alla proprietà statale. Una volta il palazzo apparteneva al Ministero dell’istruzione che dopo l’occupazione del 2003 aveva chiesto lo sgombero alla prefettura. Per poi fare marcia indietro l’anno successivo (ministra Moratti) riconsegnandolo all’Agenzia del demanio per «cessate esigenze istituzionali». Da allora, stando a un’inchiesta dell’Espresso del marzo scorso sull’occupazione dello stabile, c’è un ping pong tra il ministero e il demanio sulle rispettive responsabilità. La situazione poteva sbloccarsi durante la giunta Alemanno, nel 2009 il Demanio inserì il bene in un protocollo d’intesa con il Comune, preludio di una vendita al Campidoglio. L’allora opposizione di centrosinistra, temendo che il bene potesse essere lasciato dal sindaco Alemanno in comodato d’uso a CasaPound, riuscì a bloccare il contratto, lasciando però la situazione in stallo.
«Da sindaco voglio essere tranquillo che il ministro Salvini intenda far rispettare la legge ovunque venga infranta senza andare a colpire qua e là. Per questo ho inviato questa lettera e mi aspetto una risposta forte e decisa come quelle date finora su migranti e sui rom» scrive ancora nella sua lettera Pascucci. «Sarebbe un bel segnale di legalità se il ministro andasse in via Napoleone III e spiegasse che quel palazzo è del demanio e non può essere trasformato in sede politica», conclude il coordinatore di Italia in Comune, che venerdì ha sottoscritto a nome del partito il manifesto degli amministratori locali «inclusione per una società aperta».
Repubblica 5.8.18
Il sindaco di Cerveteri
"Caro Salvini caccia gli abusivi di Casapound"
di Monica Rubino
ROMA Una lettera al ministro dell’Interno Matteo Salvini per richiedere lo sgombero di un immobile di proprietà del Demanio statale occupato abusivamente a Roma dai neofascisti di CasaPound. Il mittente è Alessio Pascucci, sindaco di Cerveteri, coordinatore del movimento di sindaci antifascisti "L’Italia in Comune", nonché consigliere della Città metropolitana della Capitale.
Ed è proprio nelle vesti di consigliere metropolitano che Pascucci invia la missiva a Salvini, al prefetto di Roma Paola Basilone e alla sindaca Virginia Raggi. Con la richiesta di sgomberare l’immobile al civico 8 di via Napoleone III, a due passi dal Viminale, «occupato dal 2003 dal movimento politico CasaPound che ha trasformato tale immobile pubblico nella sede ufficiale del partito», con tanto di utenze di luce e gas attive.
Non solo: il palazzo, sui cui pende un’inchiesta della procura regionale della Corte dei Conti, sarebbe anche la residenza di alcuni esponenti dell’organizzazione di estrema destra.
«Come sindaco - afferma Pascucci - voglio essere tranquillo che il ministro dell’Interno intenda far rispettare la legge ovunque questa venga infranta. Mi aspetto una risposta forte e decisa, come quelle date finora sui migranti o sui campi rom».
Perché «l’illegalità non ha colore di pelle o nazionalità», aggiunge il primo cittadino di Cerveteri, tra i firmatari del Manifesto dei sindaci contro il razzismo lanciato contro l’idea del ministro Fontana di abolire la legge Mancino.
Come documenta anche un’inchiesta dell’Espresso, nonostante il palazzo sia stato inserito nel 2016 dall’allora commissario straordinario di Roma Paolo Tronca in una lista di 74 immobili occupati senza titolo, in quasi quindici anni non c’è stato nemmeno un tentativo di sgombero. E non si tratta di un modesto appartamento di periferia, bensì di uno stabile di sei piani con sessanta vani, circa una ventina di appartamenti in pieno centro, dove i prezzi di mercato sono tra i più alti di Roma: la sede di sicuro più grande fra tutti i partiti italiani.
A Pascucci risulta anche che nel palazzo occupato siano residenti i vertici nazionali dell’organizzazione di estrema destra. A partire dal leader Simone Di Stefano, da suo fratello Davide e dalla moglie del presidente Gianluca Iannone, Maria Bambina Crognale. In prossimità delle elezioni del 4 marzo era girata la voce di uno sgombero imminente. Secca la reazione di CasaPound: «Resisteremo con le unghie e con i denti, qualora l’amministrazione pretenda di mandarci via senza offrire delle soluzioni alternative».
La Stampa 5.8.18
L’attivista palestinese liberata
“Difendo i diritti delle donne
per sconfiggere l’occupazione”
di Davide Lerner
Donne di tutto il mondo (anche Israele) unitevi. Se il messaggio della diciassettenne palestinese Ahed Tamimi all’indomani della liberazione dalle carceri minorili israeliani dovesse essere riassunto in una frase, la frase sarebbe di sicuro questa. «La lotta per i diritti delle donne è la medicina contro l’occupazione», dice la minorenne dai capelli dorati divenuta da un giorno all’altro icona palestinese, «la vera wonder woman» come la chiamano i fan che alludono al personaggio cinematografico interpretato dall’attrice israeliana Gal Gadot. Quel video in cui schiaffeggiava due soldati israeliani per cacciarli dal cortile di casa, nel villaggio di Nabi Saleh a Nord di Ramallah, ha fatto il giro del mondo, e in un batter d’occhio si è bevuto tutta la sua gioventù. Ahed Tamimi risponde alle domande de «La Stampa» mentre ministri dell’Autorità Nazionale Palestinese si mettono in fila per essere filmati al suo fianco, come per brillare della luce riflessa di una stella nata per caso in un angolo desolato della Cisgiordania palestinese.
Volevi fare la leader politica da grande?
«A dire il vero volevo fare la calciatrice. Sono una gran tifosa del Barcellona, in Italia mi piace la Juventus. Durante i mesi di carcere (otto ndr.) ho guardato tutti i mondiali, avrei voluto che vincesse il Brasile (mima le lacrimucce.) ma le cose non sono andate così. Ma per chi vive sotto occupazione è difficile fare finta di niente. Pensa come ti sentiresti se non potessi muoverti liberamente, se la tua possibilità di spostarti anche nei luoghi più vicini fosse ostacolata dai check-point israeliani. Pensa come ti sentiresti se il tuo paese avesse il mare (Tel Aviv dista poche decine di chilometri dal villaggio ed è visibile dall’insediamento israeliano circostante, Halamish, ndr.) ma non potessi andare in spiaggia, fare il bagno. Pensa come ti sentiresti se la tua vita fosse minacciata ogni giorno da un esercito nemico che usa la violenza con leggerezza. Te lo dico io come ti sentiresti: ti sentiresti soffocare».
Perché dici che le donne sono «medicina contro l’occupazione»?
«Le donne sono la chiave di volta nella lotta contro l’oppressione in tutto il mondo, non solo in Palestina. Devono lottare per i propri diritti anche in Israele, dove sono obnubilate dall’ideologia sionista ma in verità sono a loro volta oppresse. Le donne non solo rappresentano metà della popolazione, ma giocano un ruolo cruciale nella società e crescono le future generazioni. In carcere sono state proprio delle donne ad aiutarmi e a tenermi su di morale, malgrado avessero molti più anni da scontare rispetto a me non avevano perso la voglia di vivere».
I funzionari del partito di Abu Mazen, il Fatah, hanno addobbato la tua casa di famiglia con le loro bandiere in favore di telecamera dopo il tuo rilascio, malgrado la famiglia Tamimi si dichiari politicamente indipendente. Ma se un giorno diventassi una rappresentante politica più «tradizionale», a quali condizioni faresti la pace con gli israeliani?
«Bisognerebbe tornare indietro allo status quo precedente all’occupazione, bisognerebbe che tutti avessero pari diritti in queste terre. La strada è ancora lunga ma non bisogna mai perdere la speranza: nessuna occupazione dura per sempre».
Ma riconosci il diritto di Israele a esistere?
«Come ho detto, serve tornare al periodo antecedente l’occupazione e la colonizzazione quando musulmani, cristiani ed ebrei vivevano insieme in pace e rispettando la dignità di tutti. Continuerò a lottare al fianco del mio popolo per conseguire questi diritti. Gli italiani devono sapere che il mio arresto non ha nulla di speciale rispetto all’arresto di centinaia di altri bambini palestinesi che sono vittime di questo tipo di abusi ogni giorno. Da oggi intendo impegnarmi per loro».
Qual è il modo migliore per mettere fine all’occupazione: attraverso la resistenza armata, oppure attraverso altre forme di lotta, come insistere sul piano politico per la piena applicazione degli accordi di Oslo?
«A questo preferisco non rispondere (familiari e amici consigliano a Tamimi di non esporsi dal momento che si trova in “probation period”, o libertà condizionale)».
Ci sono figure storiche a cui ti ispiri?
«Sì. Mio padre e mia madre».
In prigione hai finito il liceo, adesso cosa farai?
«Voglio studiare diritto internazionale e legge in modo tale da poter combattere in maniera intelligente le usurpazioni degli israeliani. In cella ho già cominciato a leggere e a informarmi, insieme ad altre detenute, per portare l’occupazione e i suoi crimini contro il mio popolo in tribunale».
La Stampa 5.8.18
Carovita e crollo della moneta, proteste e scontri in Iran
di Rolla Scolari
Quarto giorno consecutivo di scontri in Iran, fra assalti a scuole religiose e protese per l’impennata dei prezzi. Nella provincia di Alborz, Nord del Paese, la rivolta è degenerata, una persona è morta e venti sono state arrestate, durante la manifestazioni. Il tutto a due giorni dell’entrata in vigore delle nuove sanzioni americane in seguito al ritiro degli Usa dall’intesa sul nucleare. La prima fase partirà martedì: il Dipartimento del Tesoro imporrà blocchi sulle transazioni finanziarie, sull’importazione di materie prime, sul settore automobilistico e sull’aviazione commerciale. Non è un caso che la compagnia di bandiera, Iran Air, abbia annunciato ieri che cinque velivoli del produttore di aeromobili franco-italiano Atr saranno consegnati oggi. L’impossibilità di acquistare aerei di linea - e pezzi di ricambio - crea una delle maggiori preoccupazioni al governo di Teheran, che nel 2015, quando l’accordo nucleare era entrato in vigore, aveva siglato contratti internazionali per rinnovare una flotta molto vecchia.
Altre sanzioni arriveranno il 5 novembre: colpiranno i settori petrolifero e del gas, e la banca centrale. Secondo Forbes, sono già molte le compagnie internazionali ad aver dichiarato la cessazione delle loro attività in Iran. Tra loro ci sono Total, Maersk, Peugeot, General Electric, Honeywell, Boeing, Lukoil, Dover e Siemens.
Ma sono le tensioni e le proteste nel Paese a scuotere gli equilibri. Tanto che il presidente iraniano «moderato» Hassan Rohani – che aveva puntato tutto sull’accordo nucleare per attirare investimento estero – ora vede assottigliarsi il suo sostegno, minato dall’opposizione conservatrice sempre più compatta e dalla protesta di piazza contro la crisi economica, il crollo della moneta nazionale, la siccità, la disoccupazione. Per la prima volta in cinque anni di mandato il Parlamento lo ha convocato entro la fine dell’estate per esporre un piano di ripresa economica.
La rabbia nel Paese
«Dove sono i nostri soldi?», hanno gridato nei giorni scorsi e ancora ieri i manifestanti in diverse città, assieme a slogan contro «il dittatore» e la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Da martedì a venerdì diverse città sono state investite dal dissenso: Isfahan, Mashhad, Shiraz e la stessa Teheran. Ieri gli scontri ad Alborz con una vittima e venti arresti. Le proteste sono più contenute rispetto a quelle che tra dicembre e gennaio hanno portato a scontri e alla morte di 25 persone. Ma il ritorno delle sanzioni, agita una popolazione già piegata dalla crisi economica. Un seminario religioso, che assieme alle banche legate al clero sciita è simbolo di un potere giudicato corrotto e inefficiente, è stato assalito in una cittadina vicino alla capitale.
E una scuola teologica è finita nel mirino dei dimostranti nella stessa Alborz. I media conservatori hanno insistito sull’aspetto violento del dissenso e sugli attacchi della folla ai centri religiosi.
Corriere 5.8.18
Intervista
L’analisi dello storico francese Maurice Aymard: i porti chiusi e il sovranismo antieuropeo non risolvono alcun problema
Mediterraneo senza imperi
«Questo mare non è mai stato così instabile. Anche Usa e Russia sono in affanno»
dal nostro inviato Carlo Vulpio
PARIGI «Il fatto radicalmente nuovo è che il Mediterraneo oggi è diventato un moltiplicatore mondiale di instabilità, e questo sarà un grande problema per le nuove generazioni». Maurice Aymard, 82 anni, storico di fama mondiale, è direttore di ricerca all’École des Hautes Études en Sciences Sociales e amministratore della Maison des Sciences de l’Homme dell’università La Sorbona. Allievo, amico e collega di Fernand Braudel, ne ha raccolto l’eredità alla guida della Scuola superiore.
Professor Aymard, il mare Mediterraneo, che dalla scoperta dell’America in poi sembrava sempre sul punto di diventare marginale, è invece tornato centrale. Ma, sostiene lei, questa volta come mai era successo prima. Perché?
«Perché oggi il Mediterraneo è molto frammentato e non è controllato da nessuno. Io stesso pensavo che con la decolonizzazione tutti i problemi sarebbero stati risolti, compresa la questione israelo-palestinese. Invece è accaduto di tutto e nella maniera più imprevedibile. Dopo la caduta del Muro di Berlino è stato un crescendo: l’assassinio di Yitzhak Rabin (il 4 novembre 1995, a Tel Aviv), la dissoluzione del Sud Est europeo e l’esplosione della Federazione jugoslava, con l’emergere di nazionalismi che nessuno avrebbe mai immaginato, e il Medio Oriente di nuovo in fiamme dopo l’intervento di Bush jr in Iraq. Ecco, quest’ultima era forse l’unica cosa che si poteva prevedere, e cioè che le guerre coloniali si perdono sempre. I sovietici hanno perso la loro guerra coloniale in Afghanistan, gli americani in Iraq. Per fortuna la Francia ne è rimasta fuori e l’Italia avrebbe fatto meglio a imitarla. Adesso, con la Siria e l’intervento della Turchia il quadro è completamente a pezzi: nessuno controlla la situazione, nemmeno Putin che ha sostenuto Bashar al-Assad».
Che cos’è diventato il Mediterraneo negli ultimi vent’anni?
«Un sistema di equilibrio politico-militare molto precario e allo stesso tempo una frontiera assoluta per i flussi migratori. I migranti non vengono più dalle periferie immediate, cioè dall’Algeria o dal Marocco, ma dall’Africa subsahariana. Non vengono più dal Medio Oriente, ma dall’Asia. Ciò vuol dire che c’è una dilatazione del Mediterraneo oltre le fasce costiere, che arriva fino al ventre dell’Africa e all’Estremo Oriente. Un fenomeno di dimensioni intercontinentali, mondiale».
Che cosa significa che il Mediterraneo è diventato un problema mondiale, che riassume in sé le grandi questioni del mondo irrisolte?
«Di più. È esso stesso un fattore dinamico di questa crescente frammentazione, ne è un moltiplicatore. È questo il fatto radicalmente nuovo. E sarà un grande problema per le nuove generazioni, che non troverà una risposta adeguata nel breve periodo. Per ora, credo che l’unica cosa che si possa fare a breve scadenza sia cercare di limitare i guasti e, a più lunga scadenza, di costruire qualcosa di più complesso e incisivo».
Finita la guerra fredda, i decisori forti, i russi e gli americani, sono rimasti. Come mai allora questa instabilità?
«Oggi la situazione è un po’ diversa. Non credo ci sia alcuna possibilità di una qualche “pax imperiale”. Per esempio, Putin ha potuto approfittare della situazione di debolezza americana dopo l’Afghanistan e il fallimento in Iraq, ma nonostante questo non controlla la situazione. E chi ne esce più forte è Assad, non lui».
Il Mediterraneo è da tremila anni scenario di migrazioni. Anche Erodoto parlava della sua migrazione, ma come quella di una persona che cercava un posto in cui vivere meglio, non per sfuggire a una guerra. Perché dunque dovremmo essere allarmati dalle migrazioni più di quanto non avvenisse allora? E perché dobbiamo credere di non poter affrontare il problema come merita?
«Lo dobbiamo affrontare. Il problema non è nuovo per il Mediterraneo, certamente, ma ci sono diversi tipi di immigrazione. La prima è stata quella che ha prodotto la nostra umanità, che, non dimentichiamolo, viene dall’Africa. In epoca antica, la popolazione di origine asiatica, dal Sud Est asiatico, non arriva nel Mediterraneo. Bisogna giungere fino al primo millennio dopo Cristo per una immigrazione di origine germanica che si spinge verso il Sud, ma le due grandi correnti migratorie sono quella africana — degli schiavi africani — e quella transoceanica degli europei, e siamo fra i 12-13 milioni di persone durante tre secoli e mezzo. Ma, attenzione, per quanto riguarda i neri parliamo sempre di schiavi. Persone che non avevano alcuna intenzione di spostarsi e che sono morte in gran numero nel tragitto o per lo sfruttamento a cui erano sottoposte, anche se poi i sopravvissuti hanno acquisito la libertà. Adesso, anche se si parla di “nuova schiavitù”, perché parliamo di gente trattata male, in realtà siamo di fronte a persone che vengono a lavorare come “liberi” salariati, cercano di inserirsi nella nuova società e di fare arrivare qui le loro famiglie: questa è una situazione del tutto nuova, basti considerare le cifre enormi del potenziale demografico subsahariano».
Come si può affrontare questa situazione inedita, chiudendo le frontiere e i porti?
«Ma no. Chiudere le frontiere significa solo favorire il contrabbando. È come il proibizionismo per l’alcol. Più lo vieti, più l’attività rende. Senza considerare il problema reale delle pensioni da pagare ai cittadini europei di oggi, che senza il lavoro degli immigrati, la cui incidenza è sempre più importante, corre un grande rischio. Bisogna pensare a una stabilizzazione, affrontando questo argomento con razionalità e intelligenza. Diceva Braudel: “Ho bisogno di pensare la totalità”. Questa è la sua vera lezione. Mentre oggi di fronte a questo quadro inedito ci si limita ad adattare analisi logore e logiche vecchie. Se c’è stata una emigrazione europea che è durata 100-150 anni e ha popolato il resto del mondo, dobbiamo accettare che si creino movimenti in senso contrario e cercare di governarli. Non serve a nulla rieditare i nazionalismi di fronte alle migrazioni».
E l’Europa, cosa può fare? Dobbiamo lasciare che si sfaldi o è la nostra unica ancora di salvezza?
«Resto favorevole alla costruzione europea, soprattutto per le nuove generazioni, che ormai vivono non solo in ambienti europei, ma transnazionali, in una società in cui ci saranno sempre più matrimoni tra persone di diversa origine e nazionalità… Mi sembra difficile e non auspicabile tornare indietro. Evidentemente l’Europa che ha inventato gli Stati nazionali ha qualche problema a inventare una nuova forma di cooperazione politica che conservi anche gli Stati nazionali… Una cosa è sicuramente irreversibile. La stragrande maggioranza dei cittadini europei non accetterebbe un ritorno a un sistema di controllo dei passaporti e dei visti per circolare in Europa».
Lo stesso discorso vale per l’euro?
«Se ci fosse un referendum contro l’euro, persino in Italia dove oggi avete questo governo strano, i no-euro perderebbero. Esattamente come in Grecia, dove ho visto i miei colleghi del ceto medio intellettuale che hanno investito i loro risparmi in Belgio. Insomma, la gente vive sempre di più in modo europeo, lo vediamo dall’acquisto di macchine, dalle tecnologie, dalla pluralità di lingue parlate. Questi sono stati negli ultimi sessant’anni i veri cambiamenti “dal basso”, introiettati dalla gente, e quindi irreversibili. E dimostrano che la strada da seguire è quella di una Europa che non agisca solo dall’alto».
È arrivato o no il tempo per l’Europa di agire politicamente per rendere più stabile il Mediterraneo?
«C’è una cultura, artistica e letteraria, che possiamo definire europea, anche se le diverse popolazioni vivono in modo diverso e hanno persino cucine diverse. E ciò è un bene. Ma certe regole politiche, i diritti politici, individuali, i diritti dell’uomo, che sono valori europei, ora vengono più o meno accettati ovunque».
Ma sull’altra sponda del Mediterraneo non è così.
«È vero, ma le migrazioni hanno anche avuto proprio questo merito, di diffondere la cultura europea dei diritti umani».
La Ue cosa può fare concretamente?
«Intanto, può evitare di fare sciocchezze, come quella di Sarkozy di bombardare la Libia, o di Lega e M5S di chiudere i porti. E poi scegliere per sé una evoluzione prudente, senza imporre dall’alto ciò che in basso non viene accettato, e chiarire che solo l’accettazione di regole comuni dà diritto ai relativi vantaggi. In caso contrario, come per la Gran Bretagna della Brexit o la Polonia e l’Ungheria del gruppo di Visegrád, questi vantaggi non spettano e non possono essere rivendicati».
Infine, cos’è dunque il Mediterraneo?
«Non è una piccola provincia, come si poteva pensare un secolo fa. Perciò l’Europa non deve mai perdere di vista che il Mediterraneo ci aiuta, più che a capire, a formulare i problemi sul mondo di oggi».
Corriere 5.8.18
Calogero Conigliaro rievoca una vicenda poco conosciuta della Seconda guerra mondiale in Sicilia (Edizioni Leg)
I battelli corsari di Hitler nella città di Camilleri
di Paolo Rastelli
Che cosa successe durante la Seconda guerra mondiale nella cittadina siciliana di Vigata, in provincia di Montelusa? Niente, perché Vigata, dove Salvo Montalbano ha il suo commissariato, è una città inventata dallo scrittore Andrea Camilleri, il padre del celebre poliziotto dai cabasisi pronti a girare vorticosamente alla minima provocazione.
Invece nella cittadina agrigentina di Porto Empedocle, dove Camilleri è nato e che ha fornito l’ispirazione per l’ambientazione dei suoi romanzi (Montelusa corrisponde ad Agrigento), è successo parecchio. Qui era di stanza infatti un reparto di motosiluranti tedesche, le S-boote o Schnellboote (letteralmente «battelli veloci»), conosciute dagli inglesi come E-boat (dove le E sta per enemy, nemico), arrivate in Sicilia dopo un avventuroso viaggio lungo i fiumi francesi fino al porto provenzale di Saint Louis, unico modo per arrivare al Mediterraneo per una via d’acqua, visto che lo stretto di Gibilterra era in mani britanniche.
Da Porto Empedocle le siluranti parteciparono ai più importanti scontri che tra il 1940 e il 1943 videro impegnate le forze aeronavali inglesi e quelle italiane con l’appoggio di sommergibili, naviglio sottile e velivoli messi in campo dalla Germania nazista. La loro storia è narrata nel saggio I corsari del Terzo Reich e i segreti di Husky. Sicilia 1940-1943 (Libreria Editrice Goriziana) di Calogero Conigliaro, un giornalista siciliano poco più che quarantenne con una grande passione per la storia. Ma il volume, che si snoda lungo 256 pagine, contiene ben di più rispetto a quella vicenda, poiché si allarga ad esaminare, dalla prospettiva empedoclina, anche le battaglie che vennero combattute dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia del 10 luglio 1943 (la famosa operazione Husky).
Si tratta di una campagna militare che ancora adesso, a distanza di 75 anni dagli avvenimenti, continua a presentare qualche interrogativo, legato soprattutto alla caduta verticale del dispositivo militare italiano nell’isola, mentre a Roma, il 25 luglio, arrivava a compimento il colpo di Stato monarchico contro Mussolini che portò alla guida del governo il maresciallo Pietro Badoglio.
Una prefazione di Andrea Camilleri, la cui famiglia conobbe non pochi tra i personaggi citati nel volume, aggiunge spezie alla narrazione di Conigliaro.
Corriere La Lettura 5.8.18
Quando la sponda ricca del Mediterraneo era quella meridionale
Intorno all’anno Mille i viaggiatori musulmani descrivevano l’Europa occidentale c ce una terra di genti povere sporche incivili
a situazione cominciò a cambiare nei tre secoli successivi
di Amedeo Feniello
Il Mediterraneo è, oggi, un mare di grandi divergenze. Da un lato, c’è un Nord sviluppato, capace di generare prosperità e sicurezza; dall’altro, un Sud arretrato, ribollente di tensioni e ostilità. Ma non è stato sempre così. Per molti secoli, la condizione è stata opposta. E, per colmare le differenze, il cammino dell’Occidente europeo è stato lungo e intricato, con andirivieni tipici del tracciato storico.
A cavallo dell’anno Mille, le differenze tra Nord e Sud erano abissali. Basta leggere un curioso episodio, avvenuto nella prima metà del X secolo. Un gruppo di viaggiatori musulmani compie una lunga spedizione in terra cristiana. Vogliono andare a Roma, spinti dai racconti sulle ricchezze della città. Fanno un giro tortuoso, via terra. Da Tessalonica, nell’allora Impero bizantino, passano nei Balcani. Da qui a Venezia e poi a Pavia, la capitale del Regno d’Italia. Attraversano la Pianura padana e si trovano in un incubo: lo spettacolo indecente di tende e capanne, abitate da una massa derelitta e macilenta. Uno shock, per gente di città, come erano i nostri viaggiatori. Ai quali resta un’idea: che, in questa zona d’Italia, si viva ancora come i barbari. «Alla maniera dei Curdi», scrivono.
Perché era così, l’Europa del tempo. Era il mondo in cui, come è stato detto, la preistoria irrompe di nuovo nella storia. Per miglia e miglia nient’altro che foreste e paludi. Qua e là, come oasi in un deserto, piccoli centri abitati, autosufficienti nel loro isolamento. Di città e di mercati, quasi solo ombre. Dappertutto castelli, per difendersi da nemici, lontani e vicini. Poche le persone. Tanti contadini, in una condizione di sfruttamento totale, legati a vita al proprio campo. Poi c’era chi pregava. E chi combatteva. Ed era tutta qui la società del tempo. Un ambiente depresso, in cui i livelli di vita, l’istruzione, la divisione del lavoro, l’uso di moneta erano ridotti al minimo. E l’unica speranza di qualche gioia era altrove, nell’aldilà della Chiesa romana, in un tempo ultraterreno di redenzione e di attesa.
Strano, questo continente. Chiuso, come scrive Chris Wickham nel libro L’Europa nel Medioevo (Carocci), tra le civiltà della Spagna araba ad ovest e dell’Impero di Bisanzio a est, con pochi sbocchi verso il mare. Ai musulmani questo Occidente non interessava, a differenza dell’altra area più avanzata del mondo di allora, la Cina, che ispirava in loro un’ammirazione aperta, per il suo sistema amministrativo e giudiziario, l’ordine sociale, l’organizzazione economica, la trama delle città. L’Europa no. Esiste come concetto, che in arabo diventa Arufa, che si ritrova nel X secolo in geografi come Hamdani per indicare il quadrante nord-ovest del mondo abitabile. Ma l’attenzione verso questo Occidente barbaro, incolto, privo di ogni bellezza, dai confini incerti, era irrilevante, se non come terra da saccheggiare. Abitato da gente, come i Franchi o i popoli nordici, dalle lunghe barbe e dagli stranissimi occhi azzurri, che vivevano in condizioni ambientali al limite del sopportabile, in terre gelide e irraggiungibili, osservati dai pochi viaggiatori musulmani con stupefazione, descritti come riprovevoli, sporchi — «i più sporchi del mondo» —, che «si accoppiavano brutalmente», idolatri, crudeli, feroci.
Dietro questi ritratti c’è, naturalmente, molto di ideologico. In particolare, l’idea di superiorità religiosa e culturale. Che derivava però da un dato di fatto: i musulmani che visitavano l’Occidente venivano davvero da un diverso pianeta, più avanzato per condizioni e abitudini sociali. Uomini che appartenevano a una civiltà dell’acqua, dell’Hammam (le terme), delle fontane, della pulizia, dei profumi. Con livelli di cultura e di istruzione progrediti, che, proprio in questi secoli, esprimono quello che Frederick Starr ha di recente definito un «illuminismo perduto», quando tra il Mediterraneo e l’Asia centrale musulmana fioriscono commerci, arti, centri religiosi e di istruzione. E tutti i campi della conoscenza — dall’astronomia alla matematica, dalla filosofia alla medicina — conobbero sviluppi con pochi eguali nella storia dell’umanità.
Tutto questo avvenne in città. Perché se c’è un dato sensibile che caratterizza la civiltà musulmana è proprio quello dell’edificazione di città. Che formano una rete e riuniscono ciò che era stato separato dal lungo conflitto tra Parti e Bizantini e condizionano lo sviluppo economico globale, dal Sudan all’India, dalla Cina al Sud Italia. Da ovest a est nascono — o rinascono — città come Cordova, Damasco, Il Cairo, Tunisi, Kufa, Shiraz, Samarcanda, Bukhara, Palermo. E poi la più grande metropoli del tempo, con più di un milione di abitanti: la dimora del califfo, la città circolare, Bagdad.
Dal Mille in poi, però, nel malandato Occidente successe qualcosa. Innanzitutto, durante il periodo 950-1300 la popolazione europea si moltiplicò, più o meno, per tre. Rinacquero tantissime città e il loro numero, in alcune zone, come l’Italia centro-settentrionale e le Fiandre, crebbe considerevolmente. I commerci e i mercati tornarono a vivere e la nuova figura del mercante si impose per la sua ideologia improntata all’intraprendenza. Si cominciarono a produrre merci, soprattutto nel settore tessile e metallurgico. Aumentò la specializzazione artigianale, a dismisura, con una complessità inimmaginabile nella diversificazione della forza lavoro. Avvenne una rivoluzione tecnica che interessò le campagne, la nascente industria, il mondo della navigazione. Però, tanti aspetti di questo processo restano quasi incomprensibili. Come, ad esempio, in quale momento sia cominciata l’espansione demografica; oppure quando gli scambi di merci a lunga distanza siano diventati così importanti da condizionare il complessivo mondo economico europeo.
In ogni caso, le variabili in campo furono davvero tante, che toccarono ogni aspetto della società del tempo; e che potremmo condensare in un’unica parola, vitalità. Come scriveva infatti Carlo Maria Cipolla «quando una società dimostra di essere vitale lo dimostra a tutti i livelli, e non solo in quello economico, facendo di più e meglio di quanto fanno o hanno fatto altre società disponendo di eguali risorse». Insomma, per intenderci, non si possono capire i mercanti italiani senza quell’ambiente eccezionale composto da personalità come San Francesco, Dante, Giotto o Mondino di Luzzi, che rivoluzionò gli studi di anatomia.
Ma se c’è un fattore che fece davvero la differenza in questa rinascita occidentale fu, per me, la curiosità. Sembra sorprendente che in un’epoca di rinnovata aggressività, fatta di Reconquista e di crociate, emerga pure qualcosa di nuovo. Si comincia a intuire appunto come anche il dialogo con l’altro — il diverso, il concorrente, il nemico religioso — possa risultare per molti aspetti fruttuoso. Per prime, mettono in campo questa strategia le nostre città marinare, da Amalfi a Genova, da Pisa a Venezia. Lo fanno alternando l’uso della forza. Ma tante volte, specialmente all’inizio, esse si adattano al mercato musulmano, vendendo ad esempio merci di contrabbando, armi, schiavi. Poi gli occidentali riescono a fare di meglio: apprendono da chi ne sa di più, imitano gli altri e trasformano le conoscenze acquisite in proprio bagaglio culturale. Lo fa Leonardo Fibonacci, che impara i numeri «alla maniera degli Hindi», ma esporta queste conoscenze in Occidente, con un sovrappiù di nozioni che elabora nel suo Liber abaci. Lo fa Gherardo da Cremona, monaco che emigra in Spagna e mette su, a partire circa dal 1150, nella multietnica Toledo, sotto l’egida di re Alfonso VI di Castiglia, un atelier di traduzione nel quale impegna intellettuali arabi, ebrei e cristiani per restituire all’Europa le parole di Aristotele e di Tolomeo. Ci riescono con successo i fiorentini, che per primi riportano monete d’oro in Occidente, dopo lunghi secoli di buio monetario, seguendo ciò che avevano fatto per secoli bizantini e musulmani. Oppure, per gareggiare nella produzione di tessuti, si ingegnano (come fanno oggi i cinesi) a imitare i modelli fiamminghi di Bruges, Anversa o Gand, creando nuovi prodotti che conquisteranno il Mediterraneo e faranno grande l’economia cittadina.
Tre secoli di crescita, dal Mille al Milletrecento circa, che diminuirono la distanza col resto del mondo e tra Nord e Sud. Fu questo il Medioevo della rinascenza europea. Impossibile però da realizzarsi senza declinare i valori di scambio e curiosità, alla base di un’epoca che si mostrò tanto più aperta e innovativa di quanto oggi erroneamente si pensi.
Corriere La Lettura 5.8.18
Così l’illuminista Eulero fece i conti con l’infinito
La musica di Handel, le satire di Voltaire, i romanzi di Defoe... e poi il genio di di questo figlio di un pastore svizzero che rivolizionò il pensiero matematico
di Giulio Giorello
«Un bambino sulle ginocchia e un gatto sulla schiena: ecco come scrisse i suoi lavori immortali». Così un suo contemporaneo raffigurava il grandissimo Leonhard Euler — per gli italiani Eulero — intento alla stesura di qualche sua opera. E un autore del nostro tempo, l’americano David Stipp, nel suo L’equazione di Dio. Eulero e la bellezza della matematica (ora in italiano per Codice edizioni) ci tiene a ricordare che quel gigante della scienza «amava accompagnare i figli agli spettacoli di marionette, che trovava tanto divertenti da riderne a crepapelle insieme ai bambini. Spesso li portava al giardino zoologico: gli piaceva molto osservare gli orsi, in particolare i giochi dei loro cuccioli. Era lieto di avere ospiti a casa con cui chiacchierare di qualsiasi cosa, ed era capace di passare da impegnate discussioni tecniche a conversazioni informali a seconda delle occasioni. Ho il sospetto che i gatti facessero le fusa in sua presenza».
Eulero era nato nel 1707, figlio di un pastore svizzero; avrebbe dovuto seguire le orme paterne, ma ancora adolescente letteralmente si innamorò della matematica. Il primo riconoscimento pubblico lo ricevette all’età di diciannove anni partecipando al concorso internazionale tenuto annualmente all’Accademia delle scienze di Parigi. In quell’occasione il problema proposto era determinare il posizionamento ottimale degli alberi sulle navi per sfruttare al massimo la spinta dei venti. Eulero conquistò un prestigioso secondo posto, lui che «non aveva ancora visto un grande veliero». Scrive ancora Stipp che quel giovane genio era destinato a «progressi fondamentali» in «teoria dei numeri, calcolo infinitesimale, geometria, probabilità»; e cita al proposito un maestro del Novecento, André Weil, che ebbe a dire che Eulero «sembrava avere in testa l’intera matematica del suo tempo». E pensare che appena ventenne un’infezione aveva reso quel brillante esordiente cieco dall’occhio destro, e in seguito una mal riuscita operazione di cataratta all’occhio sinistro doveva impedirgli di riconoscere oggetti vicini e volti delle persone.
«Una distrazione in meno», pare abbia commentato. Eulero sapeva ormai cogliere le relazioni tra gli enti matematici grazie «all’occhio della mente», senza dimenticare le applicazioni all’economia e all’ingegneria. «A differenza di altri innovatori», osserva Stipp, Eulero «raggiunse fama mondiale ancora in vita. Oggi, tuttavia, mentre i lavori di altri geni dell’Illuminismo sono familiari ai più — la musica di Händel, le satire di Voltaire e i romanzi di Defoe, solo per citarne alcuni — quelli di Eulero sono noti solo a pochi, ed è un vero peccato, perché le gemme intellettuali che riuscì a intagliare sono scintillanti». Tra esse spicca la relazione, «stimolante e concisa», che abitualmente è chiamata «la formula di Eulero» per antonomasia o persino «l’equazione di Dio» per le sorprendenti connessioni che rivela tra i settori della disciplina (e non perché si creda «che una divinità l’abbia calata dall’alto», anche se a uno dei maggiori scienziati del primo Novecento come Henri Poincaré capitò di definire proprio Eulero come «il dio della matematica»).
In breve, quella formula «divina» ci dichiara che elevando un particolare numero detto e alla potenza i per pi greco e sommando poi uno otteniamo… zero. Nell’equazione di Eulero compaiono, dunque, i cinque numeri più significativi della storia della matematica: pi greco è il rapporto della circonferenza con il diametro; i è la cosiddetta unità immaginaria, che moltiplicata per sé stessa (ovvero elevata al quadrato) dà come risultato -1. E il numero e, detto anche numero di Eulero? «Di solito è definito come il numero a cui si avvicina la potenza n-esima di 1+1/n quando n diviene sempre più grande»: arrotondato all’undicesima cifra decimale e vale 2,71828182846. Però, «nemmeno un computer, indipendentemente dal tempo a disposizione per macinare calcoli con valori di n sempre più grandi, riuscirebbe a determinare il suo esatto valore».
Fu Eulero stesso a dimostrare (1737) che le cifre decimali di e si susseguono con andamento casuale senza fine. Lo stesso si doveva poi (1761) constatare per l’altrettanto «elusivo» pi greco: l’infinito si annidava nell’espressione di tali numeri, fornendo un esempio di quella che il matematico Hermann Weyl considerava la sfida più grande: «La comprensione simbolica dell’infinito con mezzi umani, ovvero finiti». E commenta Stipp, «i matematici sono stati attratti dall’infinito, nel corso dei secoli, come le falene dal fuoco». La formula di Eulero riconduceva quell’infinito «senza regola» a due «curiose» quantità: all’uno, che per gli antichi Greci era «il generatore dei numeri» più che un numero come gli altri che indicano delle molteplicità, e allo zero, che nemmeno indica una vera quantità, ma semmai «l’assenza di quantità», il puro nulla — e che per questo era stato accettato con grande difficoltà e sospetto nel mondo di chi operava con cifre e con figure. Eppure (o forse proprio per questo) la formula di Eulero è parsa a molti «un sapiente miscuglio di concisione e raffinatezza».
Bertrand Russell ebbe a scrivere che «l’autentico piacere, l’esaltazione, il senso di essere qualcosa di più che una creatura umana si ritrovano nella matematica con altrettanta certezza che nella poesia». Ma poiché «la bellezza è sempre nell’occhio di chi guarda», non sono mancati anche degli «esperti» che, nella nostra epoca, hanno dichiarato di trovare l’equazione di Eulero «se non insipida, quantomeno totalmente ovvia». Libero ognuno di pensarla come gli pare, ribatte a costoro Stipp, ma «anche se dei gusti non si discute… devo confessare che non vorrei che fossero gli insegnanti di matematica dei miei figli!».
Eulero, protagonista della ricerca in matematica (e in fisica), era stato alla corte di «despoti illuminati» come Federico II di Prussia e Caterina II di Russia, sovrani «che condividevano la fede nel primato della ragione, e che promuovevano l’istruzione e la tolleranza religiosa». Sia l’uno che l’altra erano orgogliosi delle rispettive accademie scientifiche, che si configuravano «come centri di ricerca d’eccellenza». Federico, controvoglia, aveva lasciato andar via quel «ciclope» svizzero che aveva i tratti e il genio di Eulero. Questi aveva trovato in San Pietroburgo una sede più ospitale. Qui chiudeva la sua esistenza il 18 settembre del 1783, fino all’ultimo convinto della fecondità dell’unione tra passione e ragione.
Il Sole Domenica 5.8.18
Victor Hugo. La nuova edizione del romanzo dello scrittore francese nella Biblioteca della Pléiade, con i testi preparatori e quelli omessi che raccontano la genesi dell’opera. E una serie di disegni autografi
Come i «Misères» sono diventati «Misérables»
di Giuseppe Scaraffia
Due eventi stranamente concatenati, uno tragico e uno grottesco, avevano liberato la vena di Victor Hugo che da tempo non era avanzato in un progetto che ancora si chiamava Les Misères come spiega il curatore Henri Scepi nella nuova, maestosa edizione di Les Misérables per la biblioteca della Pléiade. Un’edizione in cui ai testi preparatori e a quelli omessi si aggiunge una serie di disegni. Anche se preferiva considerarsi un arredatore, Hugo era uno straordinario pittore. Nessuno più di lui sapeva far calare, in mezzo all’ombra minacciosa dei ruderi, un raggio di luna o stagliare sull’orizzonte bluastro della notte il nero profilo frastagliato delle torri e dei campanili. Era un strana abilità, il cui aspetto, confessava Théophile Gautier, era opprimente come un incubo.
Nel 1843 mentre era in viaggio con l’amante in titolo, la remissiva Juliette Drouet, la figlia adorata, Léopoldine che tanto aveva cercato di persuaderlo a non partire, era annegata con il marito. Solo la dolce timidezza della bionda Madame Biard, moglie inquieta di un pittore, aveva potuto alleviare il dolore di Hugo per la morte di Léopoldine. «Sei un angelo - le scrisse - bacio i tuoi piedi e le tue lacrime». Due anni dopo la polizia, invocata dal marito geloso, faceva irruzione in una stanza sorprendendo Victor e la Biard «in conversazione criminale». La signora, riporta Léon Daudet, era vestita solo della sua bellezza, ma lo scrittore, in camicia da notte, aveva reagito bellicosamente: «Io sono il visconte Hugo, pari di Francia e dunque intoccabile». Visto il flagrante adulterio, la signora, su istanza del consorte, venne incarcerata, mentre Hugo potè andarsene indisturbato. L’indomani i giornali alludevano, senza far nomi, all’incresciosa vicenda. Per calmare la furia di François-Thérèse Biard ci volle l’intervento del re, Luigi Filippo, che gli fece un’importante ordinazione. Il poeta Lamartine dichiarò: «La Francia è elastica; ci si rialza persino da un canapé». Dopo alcuni mesi di detenzione, la bella Madame Biard venne liberata, si separò dal geloso e diventò uno dei pilastri del salotto di Hugo.
Lo scandalo però era stato notevole e, insieme al lutto per la figlia, aveva ispirato a Hugo il bisogno di allontanarsi dal palcoscenico della vita parigina per dedicarsi a un tema rigenerante. Il perfido Augustin de Sainte-Beuve, l’ex-amico che aveva sedotto la moglie di Hugo commentava ironicamente: «Sta chiuso a lavorare a non so quale opera sperando che uno scalpore coprirà l’altro».
Léopoldine sarebbe riaffiorata nella purezza di Cosette, la figlia di Fantine che, a sua volta era già entrata nella vita dello scrittore. Parigi nel febbraio 1841 era tutta imbiancata quando Hugo vide un bellimbusto infilare una palla di neve nella scollatura di una giovane prostituta. La vittima reagì buttandosi sull’aggressore. Le guardie richiamate dalle grida, si limitarono ad arrestare la ragazza. «Non ho mai fatto nulla di male, vi assicuro. È stato quel signore a molestarmi. Non ho fatto niente di male». «Andiamo, cammina, ne avrai per sei mesi!» replicarono i poliziotti. Incerto sul da farsi, Hugo li seguì fino al commissariato. Temeva le malignità dei giornali, ma vedendo la disperazione della ragazza, la difese. L’agente replicò seccamente che la sua testimonianza non contava nulla, ma lo scrittore si palesò. La sua fama era immensa e presto la prostituta, piena di gratitudine, venne rilasciata. Era nata la struggente Fantina che, sedotta da uno studente, è costretta a vendersi per mantenere la figlia, Cosetta. Inutile aggiungere che il salvatore aveva subito approfittato della riconoscenza della poveretta.
Un altro personaggio gli era apparso mentre si stava dirigendo verso la Camera. Aveva visto un uomo «pallido, magro, stravolto» arrestato per avere rubato una pagnotta. «Quell’uomo per me non era più un uomo, era lo spettro della miseria, era l’apparizione deforme, lugubre, in piena luce, in pieno sole, di una rivoluzione ancora affondata nelle tenebre, ma in arrivo». Per documentarsi era andato nelle carceri della Conciergerie. Era stata una visita impressionante; appena entrato, l’oscurità aveva scatenato un senso di oppressione, togliendogli il respiro. Era stato pervaso da un senso di nausea dilatato dall’atmosfera lugubre. «La prigione ha il suo odore e il suo chiaroscuro. L’aria non è più aria e la luce non è più luce. Dunque delle sbarre di ferro hanno un certo potere su due cose libere e divine, l’aria e la luce!».
Lo sosteneva la devozione di Juliette che ricopiava quello che aveva scritto, senza sapere che l’ex-madame Biard svolgeva gli stessi compiti. Una tranquillità in seguito squarciata da un’iniziativa della rivale che, gelosa di lei, le aveva mandato le ardenti lettere ricevute dallo scrittore. Un’usanza più diffusa di quanto si pensi se, sempre nell’esilio di Guernesey, Hugo ricevette da Sainte-Beuve le lettere infiammate mandategli da Madame Hugo.
Tuttavia l’evidente affetto con cui Juliette parlava dei personaggi del romanzo era insostituibile. Alludendo a Cosette, finalmente resuscitata dalla penna dell’amato scriveva: «Ho fretta di rivedere questa povera ragazza e di sapere la sorte della sua bella bambola. Sono impaziente di sapere se quel mostro di Javert ha perso le tracce di quel povero sublime scellerato», di Jean Valjean.
Il 26 aprile 1860 lo scrittore si era finalmente deciso a riaprire la valigia di ferro in cui erano stipati appunti e manoscritti di quello che si chiamava ancora Misères . «Ho trascorso sette mesi a penetrare di meditazione e di luce l’intera opera presente alla mia mente, affinché ci sia un’unità assoluta tra quello che ho scritto dodici anni fa e quello che scriverò oggi. Del resto era tutto solidamente costruito, Provisa res. Oggi riprendo in mano (spero per non lasciarla più) l’opera interrotta il 21 febbraio 1848». In quell’anno era iniziato il processo che, sull’onda dei sollevamenti rivoluzionari e della delusione suscitata dal colpo di stato di Luigi Bonaparte, il futuro Napoleone III, avrebbe portato Hugo a spostarsi verso una sinistra socialisteggiante. Proprio nel 1860 aveva annotato i mutamenti previsti per la visione politica del personaggio. «Modificare assolutamente Marius e fargli giudicare Napoleone autentico. Tre fasi: 1° monarchico; 2° bonapartista, 3° repubblicano».
Nei Miserabili, Hugo replicò il successo dei Misteri di Parigi di Sue santificando una plebe perseguitata, ma intimamente innocente e generosa. La legge, che dovrebbe combattere il male, spesso lo incarna, come l’inesorabile Javert. Il vero eroe è il popolo, rappresentato da Jean Valjean, fondamentalmente buono e ingiustamente condannato per un reato insignificante. Le masse si riconobbero subito nella capacità di redenzione di Jean, l’evaso pronto a trasformarsi in benefattore, per difendere i disgraziati come lui. «Il destino e in particolare la vita, il tempo e in particolare il secolo, l’uomo e in particolare il popolo, Dio e in particolare il mondo, ecco quello che ho cercato di mettere in questo libro», riassumeva compiaciuto l’autore. Gli intimi non ebbero difficoltà a riconoscere in Marius innamorato di Cosette il giovane Victor assorbito dalla sua passione per la futura moglie Adèle.
La polizia di Napoleone III e la stampa di regime temevano gli effetti eversivi del libro. Le copie volavano, le librerie venivano d’assalto. I poveri facevano collette per comprarlo e organizzavano letture pubbliche. Alla fine il libro veniva sorteggiato. Se George Sand era entusiasta – «Che grande cosa questo libro» - e Verlaine applaudiva – «È grande, è bello, soprattutto è buono», i colleghi erano incerti. Per Flaubert i protagonisti non erano realistici. In un articolo Baudelaire lo definì un romanzo edificante, ma in privato diceva che era immondo e insulso. La madre di Arthur Rimbaud scrisse al professore del figlio sedicenne: «Non potrei approvare un libro come quello che gli avete dato giorni fa, I miserabili... sarebbe certamente pericoloso».
Les Misérables
Victor Hugo a cura di Henri Scepi e Dominique Moncond’huy, Gallimard,
Bibliothèque de la Pléiade,
pagg. 1734, € 65
Il Sole Domenica 5.8.18
Biografie letterarie. I personaggi femminili di Henry James assomigliano alle sue amiche, figure romanzesche come Caroline Fitzgerald, la cui corrispondenza con lo scrittore è stata recentemente ritrovata
Ritratto di «donna nuova»
di Elisabetta Rasy
Henry James non era certo uno scrittore naturalista, né devoto al realismo, però è innegabile che i suoi personaggi femminili assomiglino alle sue amiche o viceversa, cioè che scegliesse amiche simili alle donne romanzesche che aveva in mente. Un esempio è Edith Wharton: una ricca americana espatriata in Europa, desiderosa di libertà ma consapevole dei vincoli della condizione muliebre, inquieta, mal maritata e male amata, ma pudica elegante e sensibile. Tutto questo poi miscelato in un considerevole numero di salotti, dove si annidavano, ben temperati dall’educazione, affetti e veleni. Una figura simile è Caroline Fitzgerald di cui è venuto recentemente alla luce un gruppo di lettere con lo scrittore americano, ora pubblicate da Archinto, mentre arriva in libreria una interessante storia della sua vita ricostruita da Gottardo Pallastrelli.
Delle eroine jamesiane Caroline aveva molti tratti: la passione per usi costumi e cultura del Vecchio Continente, intraprendenza, una certa dose d’ingenuità e anche una certa dose di sfortuna: come la Isabel Archer di Ritratto di signora farà un cattivo matrimonio, e come Daisy Miller, protagonista dell’omonimo romanzo, morirà precocemente a Roma. Aveva inoltre un aspetto adeguato a una giovane lady fin-de siècle dalla vita travagliata ma determinata, come si vede dal ritratto che le dedicò il pittore preraffaellita Edward Burne-Jones e dalla fotografie che la riprendono in varie stagioni: era sottile, flessuosa e un po’fragile, con un viso malinconico e pensieroso. Anche se nei suoi quarantasei anni d’esistenza dimostrò, come del resto le indomite eroine di James, di avere molta energia da spendere sui differenti campi da gioco della vita.
Era nata nel 1865 nel Connecticut, in una famiglia di ricchi borghesi che allevarono i loro tre figli, la ragazza e due maschi, al gusto dell’Europa ma anche delle terre lontane: dei due fratelli uno fu un importante esploratore e scalatore e l’altro un viaggiatore e pittore. Arrivata a Londra poco più che ventenne, volle diventare poetessa, dedicando una prima raccolta di versi all’ammirato Robert Browning, ma soprattutto sposò nel 1889 un pessimo aristocratico inglese, Lord Edmond Fitzmaurice, dal quale, per matrimonio non consumato, fu costretta a divorziare sei anni dopo. Per qualche indegnità del marito non passata alla storia, il matrimonio suscitò un certo sconcerto in società, tanto che Bertrand Russel, al momento della separazione, scrisse alla moglie: «Ti ho mai detto che ho sentito in Cancelleria che la povera Lady Edmond sta chiedendo il divorzio sulla base della nullità del matrimonio? Mi sono sempre rammaricato del suo matrimonio, così non ho potuto non provare una specie di gioia nel pensare che lei si stia sbarazzando di lui e ricominci una nuova vita…». La «povera Lady Edmond» però non si dette per vinta dopo la brutta avventura matrimoniale: liberatasi del consorte e della sua passione per la campagna («ogni volta che mi propongono la campagna mi sento morire», scrisse a un’amica) continuò un’intensa vita sociale londinese, coltivando le sue passioni, tra cui quelle per lo studio del sanscrito, per i viaggi, specie verso l’Italia, e per gli amici intellettuali, tra cui Henry James, che conobbe poco dopo il divorzio.
Il carteggio tra i due comincia nel 1896, quando lo scrittore sta scegliendo definitivamente il Sussex come rifugio dalla vita mondana londinese, che pure gli è molto cara. James sembra compiaciuto e insieme allarmato dal corteggiamento sociale cui lo sottopone la nuova amica e si difende come può: «E – ohimè – sono lontano dalle gioie di Mayfair – Mi dispiace, mi dispiace moltissimo, avere di nuovo perduto l’occasione della vostra ospitalità». Oppure: «Domani sarò costantemente occupato – amici per colazione e un pomeriggio molto complicato». Inoltre, di fronte alla inesauribile mobilità di Caroline, sempre in cerca di nuove mete e incontri, James rivendica con tutto l’ironico understatement di cui sa essere capace, la sua vocazione contraria: «La grande e rapida corrente della vostra vita, cosmopolita e ampia, mi fa sentire – per contrasto – vecchio e uggioso e semplicemente obeso!». Ma l’insistenza di Caroline, in questo perfetto, e sommessamente comico duetto tra una signora del bel mondo con aspirazioni intellettuali e uno scrittore che educatamente cerca di sottrarsi alle sue seduzioni, avrà la meglio quando un vero e proprio colpo di scena ne scuote la vita. Durante uno dei suoi viaggi la giovane divorziata americana conosce un medico italiano che, come suo fratello Edward, ha la passione delle scalate e delle esplorazioni, il dottor Filippo De Filippi, e ricomincia la nuova vita che le augurava Bertrand Russell, sposandolo nel 1901.
De Filippi è uno dei primi appassionati automobilisti del nuovo secolo e James, che adora andare in macchina, è ospite incantato del meraviglioso «cocchio di fuoco» che il medico guida con disinvoltura «per strani passi e deviazioni» fino a Parigi. Ormai lo scrittore apprezza l’amicizia per quella che chiama «la bella e trasandata» Caroline che, come scrive a Edith Wharton, guarda «con un’abbondante dose di una certa oscura compassione». James è un funambolo delle alchimie psicologiche, e anche nei confronti della coppia ha sentimenti contrastanti fino all’incomprensibilità. Sempre all’amica Wharton a proposito di Madame De Filippi: «È felice, ma dopotutto ha sposato un borghesuccio piemontese diabolico e positif – lei che viene da una tradizione transalpina e perfino transatlantica, semplice, ampia e libera. Lo si nota sotto ogni aspetto via via che li si vede più spesso – e in breve sono decisamente interessanti…». Interessante la coppia lo diventa sempre di più negli anni a venire. Dopo il matrimonio Caroline con il marito si sistema a Roma in una luminosa e moderna casa di via Urbana, nel nuovo quartiere attorno a via Nazionale, che descrive incantata a un’amica inglese: «Roma è splendida, una grande città, che non ha nulla da invidiare alle capitali d’Europa. In questi giorni è animatissima, e via Nazionale e il Corso ieri parevano strade di Londra» anche se poi di fronte ai continui disguidi e rimandi degli artigiani romani annota: «Qui è tutto così e non si fa che ordinare e aspettare»). Frequentano la migliore società cosmopolita che soggiorna nella nuova capitale, ma soprattutto si dedicano a grandi e avventurosi viaggi. La Russia, la Crimea, il Caucaso, infine l’India: benché cagionevole di salute Caroline è pronta a seguire il marito nelle sue spedizioni e affronta qualsiasi disagio e difficoltà con la tempra transatlantica che le riconosceva James. Dopo tanti soggiorni lontani una polmonite la spegne a Roma nel 1911. Gli eredi di De Filippi hanno fortunatamente conservato le sue carte e lettere, preziosa testimonianza di una di quelle ammirevoli «donne nuove» che in un mondo ancora molto ostile cercarono di fare della propria vita qualcosa di imprevisto e differente dalle convenzionali aspettative.
Su letti di asfodelo
Henry James. Lettere a Caroline Fitzgerald
A cura di Rossella Mamoli Zorzi e Gottardo Pallastrelli
Archinto, Milano, pagg. 105, € 18
Ritratto di signora in viaggio, Gottardo Pallastrelli
Donzelli, Roma, pagg. 253, € 25
Il Sole Domenica 5.8.11
Se la magia è razionale
Tra Medioevo e Rinascimento. Un saggio illustra lo sviluppo delle pratiche magiche come disciplina, con una sua logica: quella di accedere a un sapere per poter meglio agire
di Gianluca Briguglia
Bacchette magiche, mantelli dell’invisibilità, formule e talismani, pozioni e suffumigi sono da sempre presenti nelle storie per i ragazzi (e non solo) e in favole di ogni tipo, in film, racconti, serie tv. E non è necessario aver studiato al castello di Hogwarts per capire che la magia funziona sempre, soprattutto se associata al fantastico e oscuro Medioevo, sebbene la vera epoca dei maghi, a pensarci bene, sia il solare Rinascimento. La magia del resto ha una sua logica, una sua razionalità, una sua volontà di azione sulla natura e su ciò che ci circonda, che in più ci dà accesso a un mondo di misteri e verità nascoste che ci inquieta e ci affascina (letteralmente).
Pensiamo meno al fatto che quello che troviamo nei Merlino dell’industria culturale e negli Harry Potter del cinema e della letteratura è la traccia di una visione scientifica che ha davvero costituito un percorso del cammino europeo, quando i maghi e i filosofi, cioè i sapienti, potevano confondersi tra loro. Basterebbe pensare a un dipinto notissimo, I tre filosofi, di Giorgione, che rappresenterebbe tre misteriosi e non ancora identificati filosofi, ma che sarebbe anche la variante finale di una prima versione (scoperta molti decenni fa grazie a indagini radiografiche) che raffigurerebbe, secondo una nota interpretazione, i Re Magi, sapienti per eccellenza. Maghi e filosofi, scienza e magia: sono alcune delle oscillazioni e delle sovrapposizioni di un mondo premoderno senza il quale neppure la modernità sarebbe pensabile.
Un agile libretto di Ilaria Parri, La magia nel Medioevo, traccia alcune linee di sviluppo della magia come disciplina con un proprio statuto epistemologico, tra il XII secolo e il Rinascimento.
Guglielmo d’Alvernia, teologo dell’Università di Parigi nella prima metà del XIII secolo, ci mostra come un uomo colto e impegnato, a conoscenza di tutte le principali fonti testuali della magia del suo tempo, fosse da un lato preoccupato dalla pratica di costruire talismani e immagini per produrre effetti portentosi - perché questo implicava e anzi esigeva l’invocazione di spiriti sconosciuti e presenze demoniache - e dall’altro lato fosse consapevole che alcuni fenomeni straordinari potevano essere il risultato di forze fisiche e naturali semplicemente sconosciute. Se lo sguardo del favoloso basilisco uccide, aggiunge Pietro d’Abano, non è per azione magica in senso stretto, ma è per la corruzione dell’aria che la presenza di quella sorta di rettile comporta.
La magia può dunque essere, per questi autori, capacità, attraverso la conoscenza, di manipolare fenomeni naturali, o una pratica pericolosa che necessita l’intervento di agenti esterni, i demoni. La presenza di spiriti non deve farci derubricare questo sapere a semplice superstizione o a ingenuità. La figura del demone è eredità del mondo antico, che filtra e però cambia natura nel passaggio al cristianesimo (e anche attraverso il mondo arabo e islamico). Basterebbe pensare al demone di Socrate, oppure alla presenza delle Intelligenze nell’astronomia aristotelica, che nel mondo cristiano assumono il ruolo di mediatori nel caso degli angeli, o comunque di agenti nel caso dei demoni. Una forma di magia, quella cerimoniale, si esprime attraverso rituali, formule, oggetti come candele, specchi, spade, proprio per indurre gli spiriti ad agire per conto del mago. E su principi simili agisce anche la cosiddetta magia salomonica, che si basa su alcuni testi che la tradizione medievale attribuiva a Salomone o ad alcuni suoi discepoli. L’Ydea Salomonis è una figura magica che serve a dominare tutti gli spiriti malvagi. In questo caso però l’intermediario sarebbe un angelo divino e dunque si cerca di legare le azioni magiche e teurgiche al quadro delle attività permesse da Dio. Nel famoso Picatrix, libro arabo dell’XI secolo tradotto in castigliano nel XIII secolo e poi in latino, la magia è anche negromanzia, intesa in senso ampio, che è tuttavia talmente pericolosa che l’autore del trattato specifica di voler rivelare i suoi segreti solo agli uomini saggi e buoni.
Ma esiste anche una magia senza spiriti, come abbiamo accennato, che conosce il potere e le virtù degli astri e le proprietà nascoste delle cose. Nel trattato Sui raggi stellari di Al-Kind?, tradotto dall’arabo al latino nel XII secolo, una grandiosa teoria fisico-astronomica è la base dell’intervento possibile sul mondo. Ogni stella o pianeta, con la sua natura propria, irradia e produce i suoi effetti sull’universo e in particolare sul mondo sublunare, cioè la Terra, e questi raggi si combinano tra loro, si potenziano per la posizione e per i movimenti degli altri corpi celesti. Ogni cosa ha un suo potere di irradiamento, anche i suoni, i colori, gli odori. Si spiegano così, nella conoscenza delle cause, i poteri delle formule magiche, il ruolo dei suoni, la capacità di incantamento delle parole, che il mago conosce e sfrutta intervenendo sulle cause delle cose.
È naturalmente Ermete Trismegisto, il “tre volte grandissimo”, figura mitica che combina i personaggi di Mercurio e di Thot e che medievali e rinascimentali pensavano fosse realmente esistito e che fosse stato contemporaneo di Mosè, il nome più noto della tradizione magica. I testi del corpus “ermetico” sono in realtà redatti nell’Egitto greco-romano tra III sec. A.C. e III sec. d.C. e rappresentano la fiducia nella possibilità di intervenire nel mondo soprattutto attraverso la conoscenza astrologica. È da lui che Marsilio Ficino, medico, prete e mago, si indirizza per comprendere la natura. Ed è proprio con i tre grandi maghi rinascimentali, appunto Ficino, ma anche Pico della Mirandola e Cornelio Agrippa di Nettesheim (che una leggenda coeva voleva accompagnato da un cane nero con un collare ornato da figure negromantiche), che il lavoro di Ilaria Parri, è una sorta di piccolo manuale delle tradizioni magiche, si conclude. Il senso del percorso culturale sembra chiaro: la magia è un coacervo di posizioni e di aspettative, pratiche e teoriche, ma ha una sua logica e una sua razionalità, quella di accedere a un sapere più profondo, per poter intervenire sul mondo e per poter meglio agire, che in fondo è il desiderio di tutte le epoche, di tutti i saperi e di tutte le scienze. E non c’è bisogno di studiare a Hogwarts per capirlo.
La magia nel Medioevo
Ilaria Parri
Carocci, Roma, pagg. 166, € 15
Il Sole Domenica 5.8.11
Ingmar Bergman. Il regista è stato un teologo agnostico: il suo insegnamento per immagini ha affrontato
con decisione le domande ultime sul senso della vita, della morte, del sapere, dell’amore e della solitudine
L’Apocalisse ci coglie al cinema
di Gianfranco Ravasi
s.J.
Antonio Block, il Cavaliere è in ginocchio, con gli occhi chiusi e la fronte corrucciata che prega, mentre il sole dell’alba si affaccia su un mare nebbioso. In alto, un uccello marino dissemina voli lenti e lancia un grido inquietante. All’improvviso ecco una figura vestita di nero, col volto segnato da un pallore impressionante. «Chi sei?», le domanda il Cavaliere. «Sono la Morte... è già da molto che ti cammino a fianco», risponde quella persona misteriosa.
Ecco, è ancora così davanti ai miei occhi l’avvio del Settimo sigillo che vidi da giovane studente liceale, quasi una cinquantina di anni fa. Una scena e parole che sono rimaste infisse nella memoria mia e credo di tanti spettatori che hanno assistito alla partita a scacchi con cui il Cavaliere disilluso, reduce dalla crociata, cercherà di sfidare la Morte. Una scena che aprirà subito dopo un orizzonte affollato di presenze: lo scudiero simile al Falstaff verdiano, l’attore, il fabbro, il mascalzone, la strega-bambina, e la coppia festosa dei giocolieri che con il loro bambino, incarnazione dell’amore che vince la Morte. È, quindi, la storia umana nello spettro variegato delle sue iridescenze gelide e calorose ad essere sottoposta al giudizio, all’interno di quel «silenzio di circa mezz’ora» che irrompe all'apertura del settimo sigillo dell’Apocalisse, il libro cardine dell’ispirazione di quel film.
Fu quella la grande rivelazione per molti, credenti e non, e la prima lezione di un regista che assumerà spesso le vesti di un teologo agnostico. Il suo insegnamento per immagini proseguirà per anni inerpicandosi sui sentieri d’altura delle domande ultime nei cui confronti la filosofia balbetta e la stessa letteratura arranca. Il 14 luglio cadeva il centenario della sua nascita a Uppsala, figlio di un rigido pastore luterano che lascerà un’impronta indelebile, anche se dialettica, nella vita e nell’arte del figlio. La sua figura e la sua opera cinematografica sono state intensamente rievocate in queste pagine lo scorso 8 luglio da Roberto Escobar sotto il titolo suggestivo Il pescatore di perle e illusioni. Ora noi vorremmo dedicarci alla prospettiva teologica di Bergman che è stata una sorta di controcanto in tante delle sue 171 opere cinematografiche, televisive e radiofoniche. Il pensiero corre subito all’indimenticabile Posto delle fragole, un vero e proprio itinerarium mentis in Dio e nell'uomo, nel senso della vita e della morte, del sapere e dell’ignorare, dell’amore e della solitudine. Ininterrottamente, quasi in una sorta di corpo a corpo, Bergman si è infatti confrontato con le verità estreme che la superficialità dei nostri giorni cerca di narcotizzare.
E lo faceva di film in film, lasciandosi talora sorprendere dalle teofanie di luce, altre volte e più spesso precipitando nello sconforto di una sconfitta perché l’Oltre e l’Altro si rivelavano troppo resistenti al suo approccio. Oppure, la contraffazione della fede e l’ipocrisia lo conducevano a uno scontro aspro e fin sarcastico con la religione (come non pensare a Fanny e Alexander?). Eppure sempre egli ritornava alle vette ventose dello spirito o alle spiagge del mare livido infinito del bene e del male, della fede e dello scetticismo, dell’amore e del vizio, della libertà e del destino, della speranza e della disperazione, dell’evidenza e dell’assurdo, della luce e della tenebra, di Dio e di Satana.
La sua era una teologia della domanda bruciante, sollecitata dalle sue radici protestanti pietiste. Egli forse non scopriva mai una risposta che divenisse un suggello alla sua interrogazione insonne; per lo spettatore invece – e non lo dico solo come teologo ma dando voce a tutti coloro che s’interrogano sulle questioni ultime – gli squarci di luce erano emozionanti, così come fecondi erano i suoi silenzi e i suoi dubbi. Un riferimento particolare meriterebbe una straordinaria trilogia bergmaniana, tutta dedicata al silenzio di Dio e alla crisi della fede, cioè Luci d’inverno, Come in uno specchio e Il silenzio.
Vorrei solo fare riferimento al primo dei tre film, proprio perché ha al centro un ecclesiastico, uno dei non rari pastori luterani che s’affacciano nelle sceneggiature del regista di Uppsala. Il film è la storia di una crisi interiore che progressivamente ramifica la sua mano mortale nell’anima di un uomo di Chiesa che si sente sempre più il banditore pubblico di un prodotto religioso e non più il testimone di una fede. Una sensazione che traspare dalle parole dei suoi sermoni, tant’è vero che lentamente s’allarga attorno a lui il vuoto della comunità, capace di intuire che ormai egli non è più un annunciatore ma solo un propagandista professionale. Ma accanto a lui rimane uno dei «puri di cuore» evangelici, il sagrestano, persona semplice e luminosa.
È lui a prospettare il dramma di Cristo nel Getsemani e sulla croce. Da un lato, ecco appunto l’incomprensione e l’isolamento dagli amici, i discepoli, che «abbandonatolo, fuggirono», come nota l’evangelista Matteo. Ma d’altro lato, ecco il momento ben più tragico, quello del silenzio del Padre che sembra ignorare il grido angosciato del Figlio, crocifisso: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». In sintesi è questo il messaggio del sagrestano: «Pensi al Getsemani, signor pastore, pensi alla crocifissione... Cristo fu preso come Lei da un grande dubbio, dovette essere quella la più crudele di tutte le sofferenze, voglio dire, il silenzio di Dio».
Si potrebbe a lungo seguire la lezione teologica di Bergman intorno a questo grumo oscuro che fa parte del credere stesso, tant’è vero che percorre la storia persino del padre nella fede delle tre religioni monoteistiche, Abramo, mentre sale l’erta del monte Moria, accompagnato da quella voce divina mostruosa che gli impone il sacrificio del figlio (Genesi 22). Credere è una lotta aspra e ferrata: Bergman ne è uscito, come un altro patriarca ebreo, Giacobbe, ferito al femore, zoppicante dopo la sua lotta con Dio (Genesi 32). Il regista, però, non ha voluto affidarsi alle promesse di quella voce trascendente e divina. A mio avviso, egli rimane compagno di ricerca di altri autori che – su strade e con esiti differenti – hanno sperimentato lo stesso combattimento, registi che considero anch'essi a loro modo «teologi».
Penso al cattolico «giansenista» Bresson che, però, pur nel deserto dell’assenza di Dio e del trionfo di Satana, fa sorgere il sole della grazia. Penso a Buñuel e alla sua disputa teologica nella Via Lattea, ma anche alla «statua» spirituale del suo Simeone nel deserto e all’instancabile appello a Dio perché cerchi di esistere, essendo terribile una storia consegnata solo nelle mani dell’uomo. Penso a Tarkovskij, il regista delle straordinarie epifanie conquistate, come il suo Andrej Rublëv, attraverso il martirio lacerante di una crisi di fede. Penso provocatoriamente persino a Woody Allen che, sotto il manto lieve dell’ironia e della secolarità americana, conserva tante domande radicali dello spirito che tormentavano Bergman.