sabato 4 agosto 2018

La Stampa 4.8.18
Migranti, l’Ue non trova alternative ai porti italiani
di Emanuele Bonini


Ancora nessuna alternativa ai porti italiani. Gli ambasciatori degli Stati membri dell’Ue non hanno saputo proporre modifiche alle regole sugli sbarchi tali da alleviare il peso dei migranti che finora ha gravato sulla Penisola. Il governo Conte ha chiesto una modifica di Sophia, l’operazione europea di contrasto al traffico di esseri umani in mare dalla Libia verso l’Europa. Si vuole che altri Paesi, in particolare quelli bagnati dal Mediterraneo, autorizzino l’attracco delle imbarcazioni. L’apertura dei moli però va presa su base volontaria, ma nel documento messo a punto a Bruxelles di questa volontà non c’è traccia, neppure abbozzata.
Il compito di ridefinire le modalità di gestione dei migranti è per ora affidato a tecnici e diplomatici, in particolare quello del Comitato politico e di sicurezza dell’Ue (Csp), l’organismo responsabile di politica estera, di sicurezza e di difesa comune. Non è un consesso politico, e sorprende fino a un certo punto, dunque, che gli ambasciatori, nella bozza di revisione del mandato dell’operazione Sophia, abbiano lasciato uno spazio bianco laddove si deve parlare di punti di sbarco per i migranti intercettati in mare. In assenza di dichiarate decisioni politiche non spetta agli ambasciatori colmare il vuoto. Così il problema rimane.
C’è però il tempo per dare seguito alle promesse di solidarietà fatte all’Italia all’ultimo vertice dei leader. La prossima settimana si riunirà il gruppo di lavoro del Servizio esterno dell’Ue, gli uffici della Commissione europea che rispondono all’Alto rappresentante Federica Mogherini. Poi si ritroverà il Cops in almeno tre occasioni (31 agosto, 4 settembre e 6 settembre, a cui potrebbero aggiungersi riunioni informali). I ministri invece si confronteranno a fine mese (consiglio Difesa informale il 29 agosto) e a settembre (conferenza sull’immigrazione il 13 settembre a Vienna). Quindi sarà la volta dei leader (vertice informale di Vienna, 20 settembre), mentre la conferenza sulla Libia quasi sicuramente sarà a novembre e il governo pensa di organizzarla in Sicilia. Nulla è perduto, ma l’Italia al momento non può dirsi contenta. 
La Spagna intanto è diventata protagonista nella gestione dei flussi. Dopo essersi presa carico di Aquarius, a cui l’Italia lo scorso giugno aveva negato approdo, Madrid ha deciso di non chiudere i porti andalusi alle imbarcazioni in arrivo. La Commissione europea ha quindi stanziato 3 milioni a sostegno delle operazioni, assicurando che «continuerà a dimostrare solidarietà» al governo di Pedro Sanchez, che «ha dimostrato uno spirito europeo esemplare di fronte alle sfide migratorie».

il manifesto 4.8.18
Carceri, il ministro Bonafede azzera la riforma Orlando
Ordinamento penitenziario. Sul filo di lana, il Cdm riscrive il decreto legislativo. Cancellati i percorsi individuali di trattamento e riabilitazione
di Eleonora Martini


È al grido di «certezza della pena» che il governo giallo-verde ha di fatto sterilizzato la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal precedente ministro di Giustizia, Andrea Orlando, e concepita dalla Commissione coordinata dal giurista Glauco Giostra al termine di un lungo lavoro di studio nell’ambito degli Stati generali del carcere.
Giovedì sera, infatti, sul traguardo dei termini di scadenza, il Consiglio dei ministri ha riscritto il decreto legislativo, in attuazione della delega ottenuta dal parlamento il 23 giugno 2017, che in via preliminare era stato adottato dal precedente governo il 16 marzo scorso. E lo ha svuotato completamente di senso, cancellando in particolare quel decreto attuativo che ampliava le possibilità di ricorso alle pene alternative al carcere e, soprattutto, eliminava gli automatismi nell’esecuzione della condanna affidando invece maggiore discrezionalità alla magistratura di sorveglianza di decidere caso per caso il percorso punitivo/rieducativo di ciascun condannato.
Il ministro pentastellato Alfonso Bonafede in questo caso ha mantenuta la promessa fatta da tempo di azzerare il cuore di una riforma sbandierata urbi et orbi come «svuota-carceri» e «salva-ladri». Ma che invece, come dice al manifesto Andrea Orlando commentando la notizia, «ci avrebbe avvicinato a tutti gli altri Paesi europei, anche a quelli governati dalle destre».
Naturalmente, hanno una visione opposta, i due ministri di Giustizia. Per Bonafede il provvedimento giallo-verde «è un buon punto d’equilibrio dei due principi contenuti nel contratto di governo: certezza della pena e dignità della sua espiazione. Partendo da un presupposto irrinunciabile: il rispetto del Parlamento», come scrive su Fb riferendosi al parere negativo emesso dalla commissione Giustizia del Senato quando era presieduta dal centrista D’Ascola.
Invece per Orlando (che ora si dice ancora più «rammaricato di non aver trovato sempre sostegno, nel suo governo» e di aver dovuto così lasciare in balia del M5S e della Lega la riforma) il nuovo decreto legislativo «è un errore e rappresenta un’occasione persa». Perché, spiega l’ex Guardasigilli, ripristinando gli automatismi che impongono lo stesso trattamento penale a tutti i condannati, indipendentemente dalla loro condotta o dalla volontà di seguire un percorso di riabilitazione e reinserimento sociale, «non rimuove le cause che aumentano la probabilità di recidiva, e perciò non garantisce la tanto sbandierata sicurezza».
Sembrerebbero state invece mantenute le norme di minimo buon senso proposte dalla Commissione Giostra. Almeno stando al post del ministro Bonafede che parla di «assunzione di mediatori culturali e interpreti che agevolino la vita in carcere dei detenuti stranieri», di «formazione professionale, lavoro e partecipazione a progetti di pubblica utilità», di «accesso ad attività volontarie, culturali e all’istruzione», e di affermazione del «diritto all’affettività attraverso il principio per cui si debba scontare la pena in un luogo vicino alla propria famiglia».
Per il Garante dei diritti dei detenuti, che attende di leggere il testo del decreto prima di dare un giudizio definitivo, l’annullamento delle nuove norme sulle misure alternative non è un buona notizia. Per l’approvazione definitiva, il Garante spera ora che almeno siano stati salvati i punti di delega «riguardanti l’assistenza sanitaria, la cura del disagio mentale, la vita detentiva, il mantenimento delle relazioni affettive, i colloqui, il lavoro». Se così non fosse, scrive l’ufficio di Mauro Palma, «allora occorrerà il parere, consultivo ma obbligatorio, delle Camere e del Garante nazionale».

il manifesto 4.8.18
La controriforma gialloverde delle carceri
L'analisi. I contenuti del decreto legislativo in tema di ordinamento penitenziario approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto
di Riccardo De Vito


Negli Stati Uniti il romanzo di Agata Christie Dieci piccoli indiani circolava con il titolo E poi, non rimase nessuno. È sufficiente un piccolo restyling di quel titolo – e poi, non rimase niente – per farsi un’idea dell’autentica sostanza dello schema di decreto legislativo in tema di ordinamento penitenziario approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto.
SI TRATTA DI UN GUSCIO VUOTO che non conserva nulla dell’originario assetto della riforma – colpevolmente abbandonata dal Partito Democratico in ragione di calcoli elettorali e di scarso coraggio politico – e che, all’esito di un processo di vera e propria sterilizzazione del lavoro delle commissioni, lascia sul campo un inutile sbruffo di cipria sul sistema della pena del nostro Paese. Un ritocco che neppure può ambire al nome di aggiornamento normativo, ma che, tuttavia, porta impressa la cifra politica più giustizialista e inquietante di questa maggioranza politica.
Scompaiono, rispetto al decreto approvato il 16 marzo 2018 dal governo Gentiloni, le norme che favorivano l’accesso alle misure alternative di comunità e che investivano su un’esecuzione penale alternativa al carcere in grado di prevenire con efficacia – gli studi più approfonditi stanno lì a dimostrarlo – il fenomeno della recidiva. Di pari passo, lo smantellamento della riforma implica anche l’eliminazione di tutte quelle disposizioni che ridimensionavano gli automatismi preclusivi e che avrebbero consentito alla magistratura di sorveglianza di tornare a valutare caso per caso i progressi effettivi di ogni detenuto.
LE STESSE FORZE POLITICHE che hanno spesso usato l’indipendenza della magistratura come vessillo della battaglia contro l’illegalità, ora, investite da responsabilità di governo, preferiscono giudici con le mani legate e una giurisdizione spogliata del trasparente esercizio della discrezionalità. Conosciamo già il refrain che saluterà il decreto legislativo, celebrativo della vittoria della certezza della pena e della sicurezza dei cittadini. È un ritornello vecchio e fasullo.
OLTRE A QUANTO APPENA DETTO a proposito di un’esecuzione penale che continuerà a rimanere legata ad automatismi e a preclusioni contraddittorie – basti dire che il decreto neppure si sforza di adeguare l’ordinamento alle importanti sentenze della Corte costituzionale del 2018 –, si deve rilevare che nel nuovo impianto legislativo rimangono, con tutt’altro valore rispetto al contesto nel quale erano nate, norme procedurali che gravano le spalle dei magistrati di sorveglianza di incombenze burocratiche e impediscono di guardare in faccia e conoscere il condannato al quale dovrà essere applicata o meno la misura. L’esatto contrario del giudice di prossimità e di una giurisdizione informata, dunque. E l’esatto contrario di ciò che dovrebbe auspicare chi agita la bandiera della sicurezza.
Ma c’è qualcosa di ancor più sgradevole nel processo di riscrittura della riforma, che scaturisce in parallelo con il clima di ostilità costruito attorno ai capri espiatori dei mali di questo Paese: gli stranieri e i soggetti deboli.
Mentre apprendiamo dal recente rapporto di Antigone che la detenzione degli stranieri in Italia è diminuita di oltre due volte negli ultimi dieci anni, il governo fa marcia indietro anche sulle reali possibilità di integrazione e risocializzazione dei detenuti stranieri, eliminando ogni riferimento alla possibilità di quest’ultimi di ottenere il permesso a fini di lavoro nel corso delle misure alternative.
UNA LACUNA che non ha giustificazioni, se non di natura discriminatoria. Del resto, la rimozione di ogni richiamo alle dimore sociali – vale a dire quei domicili dove i non abbienti, ritenuti meritevoli dalla magistratura, possono fruire di misure alternative invece di continuare a languire in carcere – costituisce il segno evidente di una giustizia che si stringe ancora una volta attorno a chi è ai margini del perimetro sociale e trascura le criminalità più strutturate, a partire da quella organizzata. In conclusione, siamo di fronte a un provvedimento inutile per un verso, dannoso per l’altro.
Chiaro, almeno, sulla reale natura della maggioranza politica.
*Magistratura democratica

il manifesto 4.8.18
Arrivato «lo sfratto» della sindaca Raggi alla Casa delle donne
Buon Pastore. La revoca della concessione comunale lo stesso giorno del riconoscimento di "luogo di interesse pubblico" dalla giunta regionale di Zingaretti
di Alessandra Pigliaru


La revoca della concessione del Buon Pastore alla Casa internazionale delle donne è arrivata ieri, in una determinazione dirigenziale del Dipartimento patrimonio e politiche abitative del Comune di Roma. Il documento è l’arido resoconto di uno scacco relazionale, quello intercorso tra il direttivo delle donne di via della Lungara e la giunta Raggi.
Del resto questo capita quando si parlano due lingue diverse, le prime della politica, le rappresentanti della seconda della burocrazia. Con l’unica differenza che le seconde hanno il potere del proprio ruolo e non retrocedono di una virgola dalla diffida a pagare il debito, rimandando al mittente la memoria in cui si facevano presenti le numerose spese sostenute dal Consorzio della Casa in questi anni.
Nelle stesse ore in cui la giunta guidata da una sindaca ha pensato di porre fine a un’esperienza culturale, politica e sociale cruciale come quella della Casa delle donne di Roma, il presidente della Regione Lazio Zingaretti e l’assessora regionale al Turismo e alle Pari opportunità ne hanno stabilito l’unicità. Dal Comune è la sentenza di un «fallimento progettuale», dalla Regione è il riconoscimento di «luogo di interesse pubblico».
In un comunicato stampa diffuso in serata il direttivo del Buon Pastore ribadisce come si opporrà in tutte le sedi, per continuare a difendere libertà e autonomia. Il testo della revoca appare in linea con una logica restrittiva e miope di sfratti e sgomberi che in voga a Roma e altrove.
È il black-out dell’intelligenza politica, specchio fedele del governo in carica, giocato su legalismo e presunta moralità che vanno a sostituire la praticabilità degli spazi urbani, i beni comuni e le pratiche virtuose, spina dorsale, sia storica che culturale, del Paese.
La domanda che si impone a questo punto è: la Casa internazionale delle donne può essere una partita amministrativa, oppure c’è qualcosa di irriducibile in questa esperienza di libertà femminile? La risposta l’hanno data le migliaia di donne e di uomini che in questi mesi hanno espresso la propria solidarietà con lo slogan #lacasasiamotutte.
Raccontano di un abitare che è lontano dai bacini elettorali o identitari ma che dice di una giustizia e di una radicalità opposte al linguaggio soporifero della burocrazia e che, proprio per questo, ha ragione di sé. Che si moltiplichino gli appelli, le manifestazioni e le auspicabili occupazioni. Senza sconti, perché la Casa non si tocca.

il manifesto 4.8.18
Lavoro, come approdare all’ozio evitando sensi di colpa
Scaffale. Il monumentale «Il lavoro nel XXI secolo» di Domenico De Masi, per Einaudi
di Roberto Ciccarelli


Definire il lavoro oggi è il problema più importante. Esiste un uso lavorista del concetto che si presta al ricatto: ricevere una retribuzione, o un «reddito», a condizione di svolgere un lavoro qualsiasi, anche se questo è inutile o nocivo. Lavorare, ad ogni costo, attesta l’impegno morale dell’individuo a non farsi trattare un lazzarone, schizzinoso, free-rider o «neet».
ESISTE UN ALTRO USO del concetto di lavoro: quello neoliberale. In questo caso, l’emancipazione passa dalla valorizzazione del «merito» individuale sul mercato. I due approcci si intrecciano in combinazioni inattese sullo sfondo di una condizione comune: la crescita impetuosa del lavoro gratuito, sottopagato, iper-precario che con Marx si può definire «pluslavoro assoluto».
Si tratta dell’estrazione del valore da un’attività produttiva (anche su facebook) al di là del rapporto fondato sullo scambio tra salario e vendita della forza lavoro. Prospettive diverse che si accordano su un obiettivo: fare crescere a ogni costo l’occupazione – relitto della mentalità industrialista in un’economia finanziarizzata – affinché il governo di turno possa dire che una riforma del mercato del lavoro, o il marketing politico sull’ultimo decreto, funzionano.
IN QUESTO SCENARIO Domenico De Masi pubblica il monumentale Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi, pp. 819, euro 24), libero dalle malposte provocazioni sul lavoro gratuito contenute nel precedente Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati. Da questo volume emerge il profilo di un sociologo che si è formato sui libri di Alain Touraine, critico dell’industrialismo e dell’alienazione del lavoro salariato, consapevole del ruolo occupato oggi dalla soggettività nella produzione, sensibile alle ragioni dell’ecologia critica e alle trasformazioni del ruolo dei movimenti sociali, della rappresentanza politica e sindacale.
I PUNTI DI MAGGIORE interesse di questo affresco di storia dell’umanità sono due. Il primo è che il lavoro è un prodotto storico. Ciò che in un tempo è ritenuto produttivo, o improduttivo, in un altro può non esserlo. De Masi suffraga questa tesi con l’analisi della transizione del lavoro dalla società industriale a quella postindustriale.
Il secondo elemento di interesse emerge già dalla sintesi esposta sulla copertina del libro. «L come lavoro – si legge – Un fenomeno che da sempre accompagna gli esseri umani come una condanna. Ma che nel XXI secolo potrà finalmente diventare una gioia creativa». L’obiettivo è quello indicato da Marx, da alcuni dei suoi antesignani e da alcuni discepoli (il genero Paul Lafargue, ad esempio): la liberazione dal lavoro (salariato), la creazione di una società che non considera l’ozio come una colpa morale o attività riservata a una classe di ereditieri, ma come l’attività liberata dalle leggi del profitto.
Nel XXI secolo questa liberazione non si realizzerà grazie al capitalismo, ma attraverso la liberazione dal capitalismo. Non saranno le macchine a permetterlo, ma un loro uso diverso basato sulla cooperazione tra gli uomini e quella con le macchine al di là della proprietà.
PRODUZIONE, RIPRODUZIONE e redistribuzione del valore prodotto dalla «macchina combinata» composta dalla nostra forza lavoro e dall’algoritmo: questa è la tesi alternativa alla fede teologica nel positivismo tirato a lucido che percorre gran parte della copiosa produzione sul capitalismo digitale. E, in fondo, questo è il problema del comunismo in un mondo dove la produzione dei dati e la loro valorizzazione privatistica sono centrali
Il libro di De Masi è fiducioso nelle prospettive miracolistiche della rivoluzione digitale raccontate da una narrazione futurologica rilanciata anche dall’industria editoriale italiana.
CIÒ CHE SI CONSIDERA una realtà acquisita – il verbo dell’ideologia californiana per cui le macchine sostituiranno il lavoro umano – è in realtà una prospettiva molto sfumata e incerta messa in dubbio dalle ricerche più innovative. Il ruolo delle tecnologie capitaliste non è quello di assorbire lavoro, ma di sfruttarlo più intensamente, 24 ore su 24, senza nemmeno chiamarlo «lavoro». È una differenza enorme che può cambiare l’interpretazione della trasformazione in corso.
Il Lavoro nel XXI secolo non offre molti spunti sul modo in cui queste credenze vanno decostruite, anche se invita a immaginare un’esistenza non più centrata sul lavoro, o sulla sua mancanza. È già qualcosa in un momento in cui il lavoro è inteso come l’alternativa allo sfruttamento, mentre è una merce e, in quanto tale, la sua premessa e destinazione.

il manifesto 4.8.18
Silvano Agosti: «Sono le immagini a scegliere me»
Cinema. «Ora e sempre riprendiamoci la vita», il film del regista a Locarno 71, dieci anni italiani dal 1968 al 1978. Scene di massa e interviste a testimoni e protagonisti fra cui: Dario Fo, Franco Piperno, Pietro Valpreda
Scena dal documentario «Ora e sempre riprendiamoci la vita» di Silvano Agosti
di Mariangela Mianiti


LOCARNO Non celebrare, ma far rivivere. Non ricordare, ma mostrare l’infinito possibile. Non seminare nostalgia, ma spingere a dirsi si può fare ancora, e ancora, e ancora finché l’umano vincerà sul non umano. Questa è l’essenza di Ora e sempre riprendiamoci la vita, l’ultimo film di Silvano Agosti presentato nella sezione Fuori concorso al Festival di Locarno, prodotto da Edizioni l’Immagine e distribuito dall’Istituto Luce Cinecittà che da fine settembre lo porterà in tutte le sale italiane. Composto da uno straordinario montaggio di immagini girate per la maggior parte dallo stesso autore, Ora e sempre è più di un documentario, è un racconto del desiderio realizzato e di nuovo realizzabile.
Regista, montatore, autore, esercente, scrittore, a 80 anni Silvano Agosti continua a essere, e definirsi, agitatore culturale ed è proprio il suo sguardo sensibile il filo conduttore di questo film che racconta i dieci anni dal 1968 al 1978. «In futuro – ha detto Agosti – se ci sarà uno storico onesto, sentirà come legittima la necessità di avvicinare quel periodo ai grandi eventi che hanno saputo cambiare il mondo come la rivoluzione francese e la rivoluzione russa».
Seduto davanti a un bicchiere di spremuta d’arancia e uno di acqua, che beve alternati, Agosti racconta che questo lavoro lo ha impegnato per due anni vedendo e rivedendo i materiali del suo immenso archivio. «Non sono stato io a selezionare le immagini – dice – ma loro a scegliere me. Per il montaggio in sé sarebbero bastate due settimane, ma bisogna dare all’immagine il tempo di emergere perché solo ciò che è forte torna in mente anche a distanza, ti resta, si imprime. Quando una scena, un viso, una testimonianza continuano a comparirti davanti, significa che lì c’è qualcosa che chiama. Il resto, ciò che si dimentica, lo si può tralasciare».
Silvano Agosti
Gli scontri di Valle Giulia, i cortei e gli slogan degli studenti, le occupazioni di facoltà e abitazioni, le aggressioni fasciste dentro la facoltà di giurisprudenza a Roma, il lavoro alienante, gli scioperi e le assemblee degli operai della Fiat e di porto Marghera, le rivolte dei braccianti in Sicilia con le mani dei contadini esplose per la durezza del lavoro, l’adesione della lotta fra studenti e operai, le prime rivolte femministe, il parco Lambro, il grande convegno degli studenti a Bologna nel ’77, le scene delle stragi di stato non raccontano semplicemente una cronologia dei fatti, ma mostrano l’energia e il desiderio di cambiamento che univa tutte le classi sociali in una rivolta vibrante. L’Italia è l’unico Paese al mondo dove tutto ciò durò un decennio e dove più che altrove la lotta di operai e studenti si fuse. Le scene delle masse in movimento sono inframmezzate da interviste a protagonisti e testimoni fra cui Oreste Scalzone, Franco Piperno, Mario Capanna, Alberto Grifi, Dario Fo, Franca Rame, Bernardo Bertolucci, Massimo Cacciari, Bruno Trentin, Nuto Revelli, Pietro Valpreda e che Agosti ha girato negli anni successivi, senza un fine immediato. «Mi interessava continuare a scavare dentro quel periodo, anche se non sapevo che cosa avrei poi fatto di quei documenti».
L’effetto a volte è straniante perché molti di quei testimoni sono parecchio invecchiati, altri sono scomparsi e ti viene da dire ’Accidenti, Agosti, come hai visto lontano’. Oppure si resta ammutoliti vedendo la commozione di Dario Fo mentre riguarda lo spettacolo in cui Franca Rame mette in scena lo stupro subito come vendetta per le sue lotte, o la bellezza di Alberto Grifi con quegli occhi di pece e luce. C’è infine una previsione importante fatta da alcuni testimoni e che nasce anche da una tecnica di colloquio tipica di Agosti. «Chiedo sempre, anche agli amici che conosco da anni, di presentarsi con nome, cognome, professione. Questo fa crollare le sovrastrutture ed emergere l’essenza, la verità». Sebbene le interviste siano raccolte in periodi diversi, quasi tutti gli intervistati dicono qualcosa che ricorre e dà speranza. E cioè che la vibrazione collettiva che portò a quella rivoluzione non è morta, ma continua a scorrere come un fiume sotterraneo che prima o poi, non si sa dove, non si sa ancora come né quando, riemergerà e farà scoppiare di nuovo il vulcano.

Corriere 4.8.18
Anche i drusi si ribellano a Netanyahu
di Davide Frattini


GERUSALEMME Quarantacinque anni fa ha combattuto nell’«Operazione uomini determinati», adesso mostra la stessa risolutezza mentre si oppone a una legge che — dice — da generale in pensione lo degrada a «cittadino di seconda classe». Quella di Yom Kippur nel 1973 è stata la prima guerra di Amal Asaad, non l’ultima: è rimasto ferito tre volte, suo fratello è morto vicino a lui in Libano, uno dei 420 drusi caduti in battaglia da quando Israele è stato fondato. È in nome di questi sacrifici che i leader della minoranza — 120 mila persone — hanno deciso di portare la protesta stasera in piazza Rabin a Tel Aviv. Invitano tutti a partecipare per spingere il governo a modificare la norma votata dal parlamento il 19 luglio: vuole rafforzare il carattere ebraico dello Stato e garantire che solo gli ebrei abbiano il diritto all’autodeterminazione in Israele. L’arabo — parlato dal 20 per cento della popolazione, tra cui i drusi — non è più riconosciuto come lingua ufficiale.
L’incontro con il premier Netanyahu — che cerca un compromesso, promette ai drusi benefici economici, ma ripete di non essere disposto a cambiare la legge — è saltato quando Asaad ha difeso un messaggio su Facebook in cui sosteneva che il Paese «rischiasse di imporre un regime di apartheid». L’ex generale milita nello stesso partito del primo ministro e ha ripetuto al Jerusalem Post di «volere che la maggioranza in Israele sia e resti ebraica, ma ritornando ai valori della Dichiarazione d’indipendenza, così posso stare sull’attenti sotto la bandiera israeliana e fare il saluto militare quando suona Hatikva». I drusi — presenti anche in Siria, Libano, Giordania — sono per tradizione leali alla nazione in cui vivono e l’80 per cento degli uomini serve nelle forze armate israeliane: tre ufficiali hanno già annunciato il congedo e raccolgono sostenitori. Gadi Eisenkot, il capo di Stato Maggiore, ha invitato a lasciare la politica fuori dall’esercito e assicurato che sotto la divisa non ci sono discriminazioni. Naftali Bennett, il ministro dell’Educazione a capo del partito dei coloni, è stato tra i primi a cercare di calmare «i fratelli drusi». Altri politici della destra non hanno nascosto il disprezzo: «Non vedo perché una piccola comunità dovrebbe ottenere privilegi», ha commentato David Bitan, deputato vicino a Netanyahu.

Corriere 4.8.18
L’ex moglie incastra l’uomo e svela gli affari dei Kirchner
In otto quaderni colorati tutte le mazzette dell’Argentina corrotta
Li nascondeva l’autista
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO L’autista era efficiente, puntuale e aveva un’ottima memoria. Portava le mazzette ai politici — più qualche regalino di contorno tipo casse di buon spumante argentino — e tornato a casa annotava la missione fino all’ultimo dettaglio su quaderni a quadretti con gli anelli. Cifre, nomi e indirizzi erano sottolineati, o evidenziati in giallo. Oscar Centeno era convinto che un giorno quei segreti gli potevano tornar buoni, magari per ricattare il suo capo, un potente della politica di Buenos Aires. Ma come parecchi corrotti e corruttori a tutte le latitudini, Centeno non aveva fatto i conti con la moglie, anzi l’ex moglie infuriata.
È stata lei, Hilda Horovitz, a raccontare i segreti del marito ai giudici, e poi a consegnare copie dei quaderni al giornalista della Nación, Diego Cabot, autore dello scoop. E così è scoppiato il finimondo in Argentina, più precisamente è crollato del tutto il sistema di potere e mazzette dei cosiddetti anni K. Quelli di Nestor Kirchner, presidente dal 2003 al 2007, e poi soprattutto della moglie Cristina, (2007-2015). Lui non c’è più, lei perso il potere ora prova a resistere dietro l’immunità parlamentare in quanto senatrice. «L’ho vista anche in pigiama alcune volte, tutta struccata e irriconoscibile», ha dichiarato Centeno ai giudici. Perché i soldi (dollari in contanti), l’autista li portava persino nella residenza presidenziale. Senza intermediari.
Il caso dei quaderni delle mazzette, sarebbero otto, ha fatto scattare negli ultimi giorni una dozzina di arresti tra politici e funzionari dell’entourage dei Kirchner, più alcuni imprenditori. A guidare le indagini il giudice Claudio Bonadio, da tempo alla guida della Mani Pulite argentina, e mai così vicino al disvelamento totale del sistema. Il quale, come un po’ ovunque nel mondo, viveva di tangenti passate da grandi imprese di costruzioni ai politici, in cambio di commesse.
Denaro in valigie e scatoloni, tutto in dollari, destinato alle campagne elettorali e soprattutto all’arricchimento personale. Tra gli arrestati c’è Roberto Baratta, braccio destro del più potente ministro del kirchnerismo, Julio de Vido (già in galera per un altro filone dell’indagine). Baratta era lo smistatore ufficiale delle mazzette, e girava per Buenos Aires per compiere le sue missioni su una anonima utilitaria guidata da Centeno.
La moglie dell’autista, arrestato anche lui, ha spiegato ai giudici che i quadernetti erano per Centeno una sorta di assicurazione sul futuro, «se per caso Baratta decidesse un giorno di lasciarlo per strada a fine mandato». «Alla fine sono serviti a me...», ha aggiunto la donna. I due sono separati da due anni, dopo sette di matrimonio. Non è dato sapere al momento cosa abbia fatto scattare la vendetta.
Poiché ai giudici e ai giornalisti sono arrivate copie dei manoscritti, ci si domanda adesso dove siano finiti gli originali. Particolare sul quale la difesa degli indagati punta molto per smontare le accuse.
Il giudice Bonadio, che indaga da anni sul patrimonio dei Kirchner, ha tentato invano di chiedere al Senato l’autorizzazione all’arresto di Cristina in altre occasioni. Ora ci riprova, chiedendo almeno la possibilità di perquisire le sue residenze, ammesso che ci si trovi ancora qualche prova. Comunque l’ex presidente dovrà deporre davanti al giudice il prossimo 13 agosto. La Kirchner è ancora in piena attività politica, intende candidarsi alle elezioni del 2019 sempre alla guida del peronismo, oggi all’opposizione del governo di Mauricio Macri, in difficoltà per la crisi finanziaria.
Attraverso il ministro della Pianificazione De Vido, i Kirchner hanno avuto per 13 anni le mani su colossali contratti per opere pubbliche del governo argentino, per un totale stimato dalla giustizia di 200 miliardi di dollari. Di questi una percentuale tra il 5 e il 10 per cento sarebbe finita nelle tasche dei politici.
Un altro caso di cronaca che rasenta il surreale è quello che ha visto come protagonista due anni fa l’ex ministro dei Lavori pubblici, José Lopez, anch’egli già arrestato. Il politico venne scoperto mentre nascondeva valigie contenenti milioni di dollari in contanti in un monastero alle porte di Buenos Aires, con la complicità di alcune suore.