venerdì 3 agosto 2018

Repubblica 3.8.18
Anatomia di una scelta ingiusta
La legge che proclama Israele stato-nazione del popolo ebraico
Così Israele spezza l’uguaglianza
Una minoranza araba con una ferita aperta è più facile a manipolazioni, a essere sobillata, intimidita, divisa
È una lotta tra chi è disperato e chi ancora spera
Tra chi si è arreso e chi mantiene nel cuore un’idea
di David Grossman


Il potenziale di divisione e di distruzione contenuto nella legge che proclama Israele stato-nazione del popolo ebraico salta talmente all’occhio che l’ostinazione del Primo ministro a non introdurre nessun emendamento alla suddetta legge risveglia il sospetto che vi sia un’intenzione nascosta: quella di voler mantenere aperta la ferita dei rapporti tra Stato e minoranza araba. Una ferita infiammata e minacciosa. Da cosa potrebbe derivare l’intenzione di Netanyahu? Perché il governo e chi lo guida vorrebbero una cosa simile? Possiamo solo immaginarlo. Forse perché una minoranza con una ferita aperta è più vulnerabile e più facile a manipolazioni, a essere sobillata, intimidita, divisa. Forse perché è più propensa a subire una politica di "divide et impera".
È così che si mantiene aperta una ferita: di colpo, con una legge inutile, con la quale Netanyahu e il suo governo hanno fatto mancare la terra sotto ai piedi a un quinto della popolazione. E ancora una volta: perché? Perché possono.
Perché sono sicuri che nessuna forza abbia il potere di fermarli.
Perché vogliono che i cittadini arabi di Israele vivano in un costante senso di insicurezza esistenziale. Di incertezza sul futuro. Vogliono che ricordino sempre, in ogni momento, che dipendono dalla buona — o dalla cattiva — volontà del governo. Che la loro presenza qui è condizionata, e in qualsiasi momento potrebbero diventare una presenza invisibile.
E questa legge dice chiaramente un’altra cosa: il Primo ministro israeliano ha deciso di non mettere fine all’occupazione e allo stato di apartheid nei territori palestinesi, bensì il contrario: ha deciso di rinsaldarlo e di spostarlo entro i confini di Israele. In altre parole, questa legge è essenzialmente una rinuncia alla possibilità di porre fine al conflitto con i palestinesi. E per quanto riguarda la "retrocessione" dello status della lingua araba da "ufficiale" a "speciale" decretato dalla legge: un idioma è un mondo intero, una coscienza, un’identità, una cultura. È un canovaccio infinito che tocca i vasi capillari dell’esistenza. Un uomo — un politico — deve avere un’arroganza e una sfrontatezza incredibili per ferire e umiliare, anche soltanto in maniera formale (come si sono giustificati i legislatori) l’idioma di un altro popolo. L’ebraico e l’arabo sono lingue sorelle che si sono intrecciate nel corso della storia.
Milioni di ebrei israeliani hanno succhiato l’arabo col latte materno. Non ci sono parole sufficienti nella lingua ebraica per protestare e strepitare contro lo schiaffo inflitto alla sorella.
Per centinaia e migliaia di anni il popolo ebraico è stato una minoranza nei paesi in cui ha vissuto e questa esperienza ha plasmato la sua identità e ha acuito la sua sensibilità morale.
Ora siamo noi la maggioranza nel nostro Paese e questa è un enorme responsabilità, una grande sfida politica e sociale ma soprattutto umana che ci impone di capire che il comportamento nei confronti di una minoranza è una delle più grandi prove di democrazia. Questa settimana il governo israeliano ha fallito questa prova e il suo fallimento ha sollevato echi in tutto il mondo. In quel mondo che noi accusiamo ripetutamente di discriminare la minoranza ebraica che in esso vive. Sarebbe quindi deplorevole se la locale comunità drusa si accontentasse di ricevere un "compenso" economico o di altro tipo per l’offesa subita dalla legge che riconosce Israele come Stato della nazione ebraica. La situazione che si è creata in seguito alla giustificata ondata di proteste di questa comunità potrebbe essere l’inizio di un processo molto più ampio, con i drusi in prima linea nella lotta per l’uguaglianza di tutte le minoranze musulmane e cristiane in Israele. Il consenso — almeno per il momento — dei leader drusi ad accettare la proposta di Netanyahu di un compenso, dimostra che probabilmente anni di discriminazione e di promesse vuote hanno fatto dimenticare loro il vero sapore di una completa uguaglianza.
Nella torbida realtà israeliana sarebbe bene ricordare che l’uguaglianza non è una specie di "premio" assegnato ai cittadini per i servigi resi al Paese, e nemmeno per aver sacrificato la propria vita. Anche gli ultra-ortodossi che si rifiutano di arruolarsi nell’esercito sono cittadini con pari diritti.
L’uguaglianza è il punto di partenza della cittadinanza, non un suo prodotto. È il terreno su cui la cittadinanza cresce. È anche ciò che permette una rispettosa libertà — la libertà di essere diverso, dissimile dagli altri, eppure uguale, con gli stessi diritti.
Ritengo che le ultime leggi approvate dall’attuale governo siano in buona parte il risultato di un modo distorto di pensare prodotto da cinque decenni di occupazione e di un senso di superiorità etnico creatosi dopo avere sguazzato con entusiasmo in un qualche "noi" farisaico e nazionalista che vuole "buttar fuori di casa" tutto ciò che non ci appartiene — un altro popolo, un’altra religione, una diversa tendenza sessuale.
Ma forse questa legge in realtà ci fa un grosso favore perché mostra a tutti noi, di destra e di sinistra, senza illusioni e senza auto-inganni, a che punto siamo arrivati, dove è precipitato Israele. Forse questa legge darà finalmente una scossa a chi, tra noi, si preoccupa per il proprio Paese, per il suo spirito, la sua umanità, i suoi valori ebraici, democratici e umani.
Non ho dubbi che molte persone, di destra, di sinistra e di centro, oneste e disincantate, siano consapevoli che questa legge è un atto di barbarie e un tradimento dello Stato nei confronti dei suoi cittadini. Netanyahu, come al solito, lo descrive come uno scontro tra destra e sinistra. Ma è uno scontro molto più profondo e fatidico. È una lotta tra chi è disperato e chi invece ancora spera. Tra chi si è arreso alla tentazione del nazionalismo razzista e chi continua a opporvisi e a mantenere nel cuore un’immagine, un’idea, una speranza di come potrebbero essere le cose in un paese normale.
Traduzione di Alessandra Shomroni

il manifesto 3.8.18
In arrivo una bufera sulla Chiesa: 300 preti pedofili in 70 anni
Stati uniti. Decenni di abusi nel rapporto di un gran giurì. La diocesi di Harrisburg stavolta collabora. Intanto il papa compie una riforma storica: la pena di morte non è mai accettabile
di Marina Catucci


Negli Stati Uniti è in arrivo il rapporto di un gran giurì della Pennsylvania che esporrà decenni di casi di abuso sessuale avvenuti all’interno della chiesa cattolica romana statunitense. Prima della sua divulgazione, il vescovo Ronald Gainer di Harrisburg ha ordinato che i nomi degli ex vescovi, sin dagli anni Quaranta, vengano rimossi dagli edifici della chiesa.
«Credo fermamente che i leader della diocesi debbano mantenersi a un livello più alto e debbano rinunciare a simboli onorari nell’interesse della guarigione», ha detto il vescovo in conferenza stampa.
Non è la prima volta che i nomi di vescovi e sacerdoti coinvolti in scandali di abusi sessuali vengono cancellati dagli edifici delle chiese: è già accaduto in altre diocesi, ma è la prima volta che un vescovo attua una radicale epurazione dell’eredità dei predecessori.
La mossa arriva mentre i cattolici negli Stati uniti si trovano di fronte a una nuova ondata di accuse che fino a ora ha fatto crollare un cardinale, Theodore McCarrick, e reso noti possibili coperture e insabbiamenti da parte dei più alti livelli della chiesa: si parla di più di 300 preti accusati di abusi sessuali in sette decenni. C’è Harrisburg, una delle sei diocesi di una regione della Pennsylvania fortemente cattolica.
E proprio le diocesi di Harrisburg e Greensburg, lo scorso anno, avevano tentato di fermare le indagini del gran giurì, secondo quanto riportato dal The Pittsburgh Post-Gazette. All’interno della chiesa si sapeva da decenni delle accuse nei confronti dell’ex cardinale McCarrick, molestie sessuali su giovani che si stavano preparando a diventare sacerdoti, ma nessuno ha mai agito.
Ora il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston, ha rilasciato una dichiarazione: le accuse «rivelano un grave fallimento morale all’interno della chiesa». E ha assicurato: la conferenza episcopale sta valutando la linea d’azione, stavolta non sfocerà tutto in un nulla di fatto.
Il vescovo Gainer ha continuato in questo flusso di scuse e ammissioni di colpa, dicendo di provare «profondo dolore»: «Mi scuso con le vittime degli abusi sessuali, con i fedeli cattolici e con il pubblico in generale per gli abusi che hanno avuto luogo e per quei funzionari della chiesa che non hanno protetto i bambini».
In questo clima teso, è stata accolta con entusiasmo la dichiarazione di papa Francesco sull’inammissibilità della pena di morte: con uno «rescritto» firmato dal cardinale Luis Ladaria, il pontefice riforma il Catechismo stabilendo che, Vangelo alla mano, la pena capitale non è accettabile perché «attenta all’inviolabilità e dignità della persona».
Per questo, prosegue il testo, la chiesa «si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo». Anche se i cattolici Usa non sono compatti nel condannare la pena capitale che è ancora in vigore in molti Stati dell’Unione, l’esternazione di papa Francesco è arrivata come un provvidenziale diversivo in attesa che il rapporto del gran giurì venga divulgato.

La Stampa Vatican Insider 3.8.18
I vescovi Usa: “Rabbia per gli abusi, vergogna per le mancanze della Chiesa”
Nota della Conferenza episcopale statunitense dopo il caso McCarrick: «Le vittime si facciano avanti. In un modo o nell’altro siamo determinati a trovare la verità»
di  Salvatore Cernuzio

qui

La Stampa 38.18
Tornano in campo gli intellettuali
“Il governo diffonde risentimento”
Dal pianista Pollini all’architetto Gregotti, appello contro “il pensiero unico” del rancore
di Fabio Martini


Non è il solito appello degli intellettuali «fiancheggiatori», uno di quei documenti scritti dai partiti (di solito di sinistra) e puntualmente sottoscritti da registi, scrittori, pittori e architetti. Nei prossimi giorni inizierà a circolare qualcosa di molto diverso, un appello scritto da undici uomini di cultura, politicamente non sovrapponibili, nel quale si denuncia la «spirale distruttiva» nella quale si starebbe avvitando il Paese; il rischio di un nuovo «pensiero unico» all’insegna del rancore; la possibilità che sia proprio l’Italia a dare la spallata decisiva ad una costruzione europea in atto da più di mezzo secolo. In definitiva una chiamata alle armi intellettuali contro il rischio del «più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale», che potrebbe manifestarsi alle elezioni europee del 2019.
È un documento scritto da intellettuali di diverso orientamento culturale, Accademici dei Lincei come Massimo Cacciari, Michele Ciliberto, Biagio De Giovanni, Enrico Berti. Personalità che rappresentano l’eccellenza nei rispettivi campi. Come l’architetto Vittorio Gregotti. O come il pianista Maurizio Pollini. E ancora: il filosofo Giacomo Marramao, i compositori Giacomo Manzoni e Salvatore Sciarrino, lo storico Paolo Macry, l’artista Domenico Palladino.
L’appello dei «professori» rappresenta l’ultima espressione di un fenomeno recente e tutto italiano: l’emergere, in assenza di un efficace contrasto politico, di una variegata e trasversale «opposizione extraparlamentare» che non ha nulla a che vedere col movimentismo degli Anni Settanta, o con i Girotondi dei primi Anni Duemila.
Da alcune settimane contro le scelte del governo giallo-verde si stanno accendendo spontaneamente – e con le motivazioni più disparate – diversi soggetti: docenti universitari momentaneamente impegnati in incarichi pubblici come Tito Boeri, personaggi atipici come Roberto Saviano, ma anche gli industriali del Veneto o «Famiglia Cristiana», la più diffusa rivista cattolica italiana. L’appello dei «professori» – che «La Stampa» è in grado di anticipare - è iniziativa più pensata e strutturata di altre ed ha preso la forma in un documento volutamente breve, che condensa in pochi concetti-guida l’essenza della denuncia.
Contro il nuovo corso
Si parte da una prima istantanea sulla natura politico-culturale del nuovo corso: «La situazione dell’Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva. L’alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura - europea e occidentale - dell’Italia» e politiche «gravemente demagogiche».
Il rischio più consistente è che questi linguaggi e queste pratiche, «nella mancanza di una seria opposizione», configurino «una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento». Con un messaggio distorsivo: «Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi». La concentrazione sul problema dei migranti, «ingigantito oltre ogni limite e gestito con inaccettabile disumanità», acuisce in modo drammatico una crisi dell’Unione europea, che è «sull’orlo di una drammatica disgregazione», alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, «contrario ai suoi stessi interessi». Per questo è diventata «urgentissima» un’iniziativa che contribuisca a una discussione in vista delle elezioni europee del maggio 2019; in quella occasione si tratterà di contrastare il più vasto schieramento di destra dal 1945 ad oggi e «la responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande». Conclusione vibrante: «Non c’è un momento da perdere».

La Stampa 3.8.18
A Berlino l’asilo nido è gratuito
Primo passo per l’integrazione
di Letizia Tortello


Le famiglie di Berlino esultano e iniziano a riprogrammare il loro bilancio. Da mercoledì scorso, asili nido e scuole materne non costano più nulla. Il governo della capitale tedesca fa uno di quei balzi in avanti nel welfare che molti genitori sognano: «Kindergarten» e «Tagesmutter» non dovranno più essere pagati. Asili, cioè, e operatrici professionali che accolgono i bimbi nella loro casa saranno gratuiti, accessibili a tutte le fasce sociali. L’esperimento per ora riguarda solo la città di Berlino, ma molti dei 16 Länder promettono di seguire a ruota. Almeno con riduzioni delle rette e sconti su alcune ore alla settimana passate nel centro educativo. Berlino fa come sempre da avanguardia. Già nel 2007 aveva iniziato ad abbattere le tariffe. Ora che il muro del pagamento è stato distrutto, si calcola che, da settembre, almeno 16.000 bimbi in più frequenteranno i «Kita», come vengono chiamati comunemente i «Kindergarten». Qualcosa si dovrà ancora pagare: il pasto quotidiano, ma è poca cosa. E infatti le reazioni dei genitori sono entusiastiche: Angela, mamma di una bimba che va alla scuola materna nel distretto settentrionale di Prenzlauer Berg si dice «sbalordita. Questa notizia equivale per noi ad un risparmio di 400 euro al mese».
Le disparità tra le regioni
Lei e il compagno investivano poco meno del 2 per cento del loro reddito famigliare per mandare la bambina all’asilo. Potevano dirsi genitori «fortunati»: Berlino è una delle città meno care della Germania. A parità di guadagno di mamma e papà, la possibilità di accedere ai servizi educativi cambia a seconda di dove nasci. Nello Schleswig-Holstein, ad esempio, per le famiglie è dura far quadrare i conti: devono dedicare il 9% del reddito famigliare al Kindergarten. Il coraggio della capitale, però, promette di contagiare altre regioni. La prima a seguire sarà la Bassa Sassonia. In Brandeburgo, diventerà gratuito il primo anno di scuola. Sconti anche ad Amburgo e a Brema, mentre Turingia e Meclemburgo-Pomerania occidentale annunciano di voler raggiungere la «retta-zero» a lungo termine.
Su spinta dell’Spd
L’obiettivo di alleggerire le tasse scolastiche per i bimbi più piccoli è una promessa scritta nel contratto di governo della Grosse Koalition guidata da Angela Merkel. La proposta è stata avanzata dall’Spd, e infatti i socialdemocratici di Berlino sventola la bandiera della vittoria: «Molte famiglie percepiranno la differenza ogni mese - dice la senatrice Sandra Scheeres -, cambia la vita di molti bimbi, tutti devono avere la possibilità di frequentare il nido». Notizia a cui l’Italia non è molto abituata, il governo tedesco inietterà parecchi soldi per migliorare il servizio: la ministra della Famiglia, Franziska Giffey (Spd), ha di recente annunciato al Bundestag che arriveranno 5,5 miliardi di euro entro il 2022.
Un obbligo di legge
Eppure, la rivoluzione della gratuità non è esente da critiche. I primi sono stati i Verdi, a loro si sono accodati alcuni educatori, come Katharina Spiess, del Centro tedesco di ricerca economica, che teme che la gratuità peggiorerà la qualità dell’offerta e aumenterà ancora la carenza di posti disponibili. Anche nel paradiso dei «Kita», infatti, non mancano i problemi. A fronte dei nuovi ingressi di bimbi, Berlino dovrà trovare almeno 900 educatori in più, e in fretta. La speranza però è che molti genitori delle fasce più povere della società o immigrati si convincano a mandare i figli a scuola, per migliorare la lingua, nell’ottica di una più precoce integrazione. Per quanto, molte famiglie considerino il nido come un miraggio, inaccessibile per mesi di vita del piccolo. Dal 2013, grazie ad una legge, i comuni devono fornire un posto a chi fa richiesta, per i bimbi sotto i tre anni, pena la possibilità di fare ricorso. Di fatto, pochi vincono in tribunale. E si moltiplicano le storie di chi è costretto a fare domanda al nido quando il figlio è ancora un feto, e mamma e papà nemmeno gli hanno dato un nome (da inserire nella lista d’attesa).

Repubblica 3.8.18
Estranei alla storia
di Alberto Asor Rosa


Fra le molteplici ambiguità, contraddizioni, zone oscure, pericolosità nascoste dichiarate, minacce distribuite urbi et orbi, che contraddistinguono il Movimento 5 Stelle e la Lega, e che la loro partecipazione al governo centuplica ed esalta, c’è n’è una che a me sembra sottovalutata e che invece potrebbe risultare decisiva. Movimento 5 Stelle e Lega hanno in comune, anche se con qualche differenziazione, la totale estraneità alla storia dell’Italia repubblicana, dalle origini ( 1945- 1946) fin quasi a vent’anni fa, quando il sopravanzare di Silvio Berlusconi contribuì potentemente a mettere in crisi quel sistema, pur tuttavia senza arrivare a cancellarlo del tutto (per l’esistenza di un’opposizione ancora forte, culture antagonistiche diffuse, ecc. ecc.).
Voglio dire, in parole povere: per grillini e leghisti, lotta di resistenza al fascismo e al nazismo, nascita altamente conflittuale della Repubblica, "invenzione" della Costituzione repubblicana, e l’immagine, la "forma", che in seguito a tutto questo ha assunto lo Stato repubblicano italiano, con i suoi peculiari attributi, e di conseguenza ha caratterizzato la nostra storia nazionale per cinquant’anni, non significano più nulla: nulla.
Questo è un collante poderoso per chi sta attualmente nel governo: i due sono diversi, ma stanno dalla stessa parte. Difficile pensare che si dividano su questioni anche importanti, visto che condividono questo tratto comune.
Non è difficile allargare a questo punto il discorso. Si può dire che per grillini e leghisti l’ignoranza più totale, anzi il più o meno dichiarato rifiuto, di riallacciarsi a quella tradizione resistenziale, antifascista e costituzionale, significhi anche il più o meno dichiarato rifiuto di quella forma politico- istituzionale che solitamente si definisce " democrazia rappresentativa"? Certo. Si può dire: anzi, questo è il punto. Le ultime dichiarazioni in proposito dei due inamovibili " proprietari" del Movimento 5 Stelle, Grillo e Casaleggio, non lasciano dubbi. Ogni sparata di Salvini va in questa direzione. Naturalmente, la "democrazia rappresentativa" è in crisi un po’ dappertutto nel mondo. Questo però non fa che aumentare il valore del bene di cui stiamo parlando, e l’esigenza di una risposta nel merito tutta italiana. Per pensarla e predisporla, bisogna secondo me prendere coscienza del fatto che ciò di cui stiamo parlando non è puramente e semplicemente quel che si definisce un normale "conflitto politico": è un "conflitto di sistema", che contrappone — o dovrebbe contrapporre — antagonisti che sentono d’ispirarsi a due diverse, anzi contrapposte, "visioni del mondo".
Cioè: non basta più, per tornare a contare, mostrare i muscoli o ridurre l’opposizione a un confronto punto per punto (necessario, certo, ma utile e produttivo, solo se inserito in quel quadro più generale). A questo ha già pensato Matteo Renzi, riducendo in frantumi il partito da lui diretto (è un fatto positivo che qualcosa se ne sia salvato, se cambia radicalmente il proprio orientamento). Con queste metodologie, grillini e leghisti sono inattaccabili. Hanno tutti e due il grande vantaggio di muoversi su di un terreno ( più) amico. Ciò di cui stiamo parlando non avrebbe alcun senso, se le condizioni sociali del paese fossero rimaste quelle della "vecchia" Repubblica, alla quale una certa identità popolare forniva un chiaro sostegno a quel tipo di scelte politico-istituzionali, di cui abbiamo parlato. Ora questa identità popolare, questo " popolo", sono scomparsi, vittime incolpevoli della grande crisi nazionale: ed è subentrato un nuovo assetto sociale, il cui protagonista fondamentale è la cosiddetta " massa". Non si può non riconoscere il rapporto che lega "massa" e partiti di governo, e quindi anche la loro fortuna elettorale. Questo vuol dire che anche presso la " massa" la " democrazia rappresentativa" è ignorata, vilipesa e accantonata?
Affrontare questa nuova dinamica è, sarà difficilissimo. Con un vantaggio di chiarezza, almeno in prospettiva. In un "conflitto di sistema" chi sta di là sta di là; chi sta di qua sta di qua. Per intenderci, sindacati e Confindustria in questo momento stanno in Italia dalla stessa parte: perché rappresentano interessi democratici, contro l’onda che cancella tutto. Insieme con il confrontarsi e contendere, bisogna che la linea di confine sia, da tutte le forze che rispondono a quella logica e a quel passato, difesa e tenuta. E intanto cominciare seriamente a discutere e pensare cosa sia e cosa sia augurabile che sia una "democrazia rappresentativa di massa".

Repubblica 3.8.18
Prepariamoci alle Europee
di Massimo Cacciari


La situazione dell’Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva. L’alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura — europea e occidentale — dell’Italia. Le politiche progettate sono lontane da qualsivoglia realismo e gravemente demagogiche. Nella mancanza di una seria opposizione, i linguaggi e le pratiche dei partiti di governo stanno configurando una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento. Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno.
L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi. Visegrad nel cuore del Mediterraneo: ogni uomo è un’isola, ed è ormai una drammatica prospettiva la fine della libera circolazione delle persone e la crisi del mercato comune. È diventata perciò urgentissima e indispensabile un’iniziativa che contribuisca a una discussione su questi nodi strategici. In Italia esiste ancora un ampio spettro di opinione pubblica, di interessi sociali, di aree culturali disponibile a discutere questi problemi e a prendere iniziative ormai necessarie. Perché ciò accada è indispensabile individuare, tempestivamente, nuovi strumenti in grado di ridare la parola ai cittadini che la crisi dei partiti e la virulenza del nuovo discorso pubblico ha confinato nella zona grigia del disincanto e della sfiducia, ammutolendoli. Per avviare questo lavoro — né semplice né breve — è indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa, denunciando il pericolo mortale per tutti i paesi di una deriva sovranista, che, in parte, è anche il risultato delle politiche europee fin qui condotte.
C’è una prossima scadenza, estremamente importante, che spinge a mettersi subito in cammino: sono ormai alle porte le elezioni europee. C’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere. Tutti coloro che intendono contribuire all’apertura di una discussione pubblica su questi temi, attraverso iniziative e confronti in tutte le sedi possibili, sono invitati ad aderire.
Gli altri firmatari: Enrico Berti Michele Ciliberto Biagio de Giovanni Vittorio Gregotti Paolo Macrì Giacomo Manzoni Giacomo Marramao Mimmo Paladino

il manifesto 3.8.18
Governo, la maggioranza ha consenso e durerà a lungo
Italia. Non è scontato che la durata dell’esperienza populista sia effimera. Potrebbe essere una fase durevole, perché inserita in una tendenza epocale: da Trump alla Brexit. Sono tornati anni difficili. Quelli che una volta avrebbero richiesto esercizi democratici di resistenza, nella teoria e nella prassi
di Michele Prospero


È cominciata una strana esercitazione: prevedere quando crollerà il governo. Già Gramsci ammoniva a non sognare ad occhi aperti. Sottovalutare l’avversario è sempre una debolezza in politica. E tale fragilità è ancora più marcata per chi ha dovuto subire l’affronto di essere sconfitto non da un grande leader, ma dal «capo politico» Di Maio.
Aspettare che il governo crolli è perciò rassicurante e illusorio. È rassicurante perché non si coglie il dato strutturale di cui l’esecutivo è espressione. Si tratta di un fenomeno assai più ampio del caso italiano e che autorizza a parlare di un «momento populista» come dimensione complessa che abbraccia culture, comportamenti di massa, linguaggi.
Non è scontato che la durata dell’esperienza populista sia effimera. Può ben capitare che si tratti di una fase durevole, perché inserita in una tendenza epocale destinata a lasciare tracce. Del resto il ciclo populista coinvolge l’Impero con il comandante in capo dai capelli arancioni, sua maestà britannica, mezza Europa un tempo oltre Cortina, l’Austria e l’Italietta.
NON È UNA STRANA COPPIA quella che oggi è insediata al comando. La convergenza è solida, su aspetti nodali la cultura politica di Salvini e Grillo è condivisa: il sovranismo, ovvero l’Europa come nemico e la vicinanza agli ordini di Trump (il governo accetta la tap, sollecita l’incremento delle spese militari per la ridefinizione dei costi della Nato).
La pretesa che dopo la febbre populista, con il culto dell’inesperienza innalzata a valore, si torni ad assaporare il gusto della normalità dell’azione dello statista è infondata. Chi ha votato di Maio non ragiona nei termini della politica chiamata a governare con capacità, responsabilità. Il buon governo, o l’efficacia e credibilità della condotta del politico, sono sfumate come condizioni per concedere il consenso.
Se ai Cinque stelle pervenisse una domanda di governo efficace e responsivo nelle sue politiche pubbliche, non si capirebbe la resistenza al potere del sindaco Raggi che non viene affondata dagli scandali, dall’incompetenza, dalle polizze intestate, dal degrado della capitale. Il fallimento dell’azione di governo, la convivenza con pratiche di gestione spartitoria, non comportano l’esaurimento elettorale del grillismo. Per chi sceglie il sostegno in nome dell’antipolitica e della punizione della casta, l’inadeguatezza del potere, anche di quello «nuovo», costituisce una paradossale conferma della bontà del voto di risentimento.
ANCHE LO SPREAD, evocato come sacro giustiziere dopo la vacanza della speculazione, potrebbe in realtà rafforzare il corto circuito del sovranismo che si nutre di un complesso del complotto. È già cominciata una denuncia continua delle manovre ardite dalle potenze arcane che ostacolano il governo del cambiamento. Del resto, il cavaliere a suo tempo non abbandonò palazzo Chigi per lo spread impazzito, ma si decise a passare la mano al tecnico per le minacce incombenti sulle sue aziende.
BISOGNA PER QUESTO ribaltare le letture che aspettano l’esplosione automatica del governo per il venire a galla della bella contraddizione. Sul piano degli interessi e dei valori la convergenza al potere è solida. Quando Di Maio esige la flat tax per aggredire un’«emergenza sociale», rivela che nel culto degli interessi micropadronali non esistono contraddizioni reali all’interno dell’esecutivo. Anche se il sindacato tace e non intende ancora fare i conti con il principio di realtà, la coalizione sociale al potere è organicamente ostile al lavoro. Il voto del M5S contro la reintroduzione dell’articolo 18 lo conferma.
Sul piano dei valori la convergenza gialloverde è senza traumi. La stessa convivenza con la banalità del male del razzismo e con le parole violente del Viminale, dimostra che il contratto non è un incontro occasionale. Le parole pronunciate da Grillo contro «l’indignazione di un uovo in faccia», il blog del comico le ha sempre sostenute. Contro lo jus soli, le invasioni dei neri, la bomba sociale dei rom, l’oracolo si è sempre spinto senza esitazioni.
Al potere si trovano due sovversivismi, il cui unico interesse è durare. Il lepenista spinge per una soluzione carismatica e plebiscitaria alla crisi della repubblica che può trovare appagamento affidandosi all’uomo forte che «se ne frega». Il grillino sogna la fine della repubblica parlamentare (sostituita con la piattaforma), la chiusura delle libere elezioni (soppiantate dal sorteggio), la cancellazione dei partiti del conflitto ideale e di classe (in nome della unità organica della «gente»).
LA COALIZIONE DI DESTRA, nella sua capacità di catturare con i simboli dell’antipolitica e l’etica triste del rancore, è l’espressione vincente e tragica di una caduta drastica della cultura politica di massa. La consapevolezza di essere una minoranza sconfitta ma non vinta deve essere il punto di partenza per riprendere il cammino.
Non bisogna coltivare l’illusione di recuperare il popolo scappato, quelli che hanno votato gialloverde in gran parte hanno maturato una scelta irreversibile. Non torneranno indietro, disprezzano ogni residuo di sinistra esistente. La lotta, il conflitto duro, con una forte carica etico-politica, per ricostruire un nuovo progetto deve essere l’assillo.
Soprattutto la sottrazione del mondo giovanile dal contagio gialloverde è il tema cruciale della battaglia delle idee. Se le donne di Garbatella, che affrontano i fascisti del terzo millennio cantando «bella ciao», si meritano il richiamo orale del questore, che le classifica «socialmente pericolose», vuol dire che sono tornati anni difficili. Quelli che una volta avrebbero richiesto esercizi democratici di resistenza, nella teoria e nella prassi.

Repubblica 3.8.18
Il diritto al rovescio
di Michele Ainis


La legge Mancino ( n. 205 del 1993) promette un anno e mezzo di galera a chi diffonde l’odio razziale. C’è un giudice, un pubblico ministero, un attendente del pubblico ministero che ne rammenti l’esistenza? Perché un fatto è sicuro: in Italia il razzismo soffia come il vento. Altrimenti non si spiegherebbero le 11 violenze in meno di due mesi. Dunque c’è chi attizza questa fiamma, chi vi avvicina le mani per scaldarle, chi ci sparge sopra incenso e mirra. Ma non si può, è vietato dalla legge. E se il diritto, nella patria del rovescio, fosse una cosa seria, i nuovi apostoli dell’odio sarebbero alla sbarra. Invece dichiarano, twittano, bloggano, sproloquiano senza che alcun gendarme li degni d’uno sguardo. La legge sul razzismo c’è, però nessuno vuole leggerla.
Da qui la doppia vittima di questa brutta storia: da un lato gli stranieri, dall’altro il senso stesso della legalità. Perché non è vero, non è affatto vero che manchino gli anticorpi normativi contro l’infezione. Semmai ne abbiamo troppi, col risultato che s’annullano a vicenda. La prima disciplina di contrasto fu la legge Scelba (1952), seguita poi dalla legge Reale (1975): entrambe puniscono l’apologia d’idee o metodi razzisti, attuando la XII disposizione finale della Costituzione, che vieta la riesumazione del fascismo. Dopo di che abbiamo battezzato la legge n. 654 del 1975, questa volta in attuazione della Convenzione internazionale del 1966 contro la discriminazione razziale; e da allora in poi il razzismo, in tutte le sue forme, incorre nel bastone del diritto.
Ma il bastone bastona anche il diritto, nel senso che gli cambia incessantemente i connotati. La prima modifica coincide, per l’appunto, con la legge Mancino, che nel 1993 aggiunge al reato di razzismo una specifica aggravante. In seguito la modifica viene modificata altre quattro volte ( nel 2006, nel 2016, nel 2017, nel 2018). Se non è tombola, è cinquina.
Sarà per questo che a consultare Normattiva, la banca dati ufficiale delle norme in vigore, la legge Mancino vi figura in un testo ormai superato: nemmeno la Repubblica italiana conosce gli atti della Repubblica italiana. E se non li conosce chi li ha scritti, figurarsi chi dovrebbe farne applicazione. Sta di fatto che il reato commesso dai razzisti è desaparecido dai nostri tribunali: rari processi, conclusi quasi sempre con un’assoluzione. Ai violenti viene spesso contestata l’aggravante dell’odio etnico o razziale; ai parlanti, a chi predica l’odio senza passare ai fatti, invece no. Come se le parole fossero innocue, come se l’istigazione non fosse già un delitto.
C’è qualche eccezione, tuttavia. Così, nel 2009 la Cassazione penale (sentenza n. 41819) ha applicato la legge Mancino per castigare manifesti contro i campi nomadi, basati sul presupposto che ogni zingaro sia un ladro; nel 2013 (sentenza n. 33179) ha condannato i gestori di un blog; mentre nel 2017 il Tribunale di Brescia è intervenuto contro alcuni post su Facebook che degradavano i richiedenti asilo a clandestini.
Ecco, sarebbe bene trasformare l’eccezione in regola. Del resto, se i giudici italiani non conoscono la legge Mancino, c’è invece chi la conosce a menadito: è il caso della Lega, che nel 2014 promosse un referendum per chiederne l’abrogazione. Certo, può darsi che gli abolizionisti abbiano a cuore la libertà di manifestazione del pensiero, può darsi che il nostro ordinamento ospiti troppi reati d’opinione. Ma c’è un diritto per il tempo di pace e un diritto per il tempo di guerra, quando ogni libertà s’affievolisce in nome della salvezza collettiva. E adesso siamo in guerra, l’odio razziale è già una guerra.

il manifesto 3.8.18
L’universale alle prese con l’identità
Storia delle idee. «Gli Universali» di Etienne Balibar (Bollati Boringhieri) e «L’identità culturale non esiste» di François Jullien (Einaudi). Un percorso per riflettere sui nuovi nazionalismi e le sedimentazioni dei saperi
di Marco Bascetta


Max Stirner sosteneva, torcendo ruvidamente la lezione hegeliana, che anche l’Umanità è egoista poiché antepone il suo interesse particolare a quello dei singoli. Sarebbe l’egoismo, dunque, il solo principio che realmente pervade il tutto. Gli fa eco l’economia politica che pretende di equiparare le sue leggi, fondate sull’interazione degli interessi particolari, a quelle di natura che dell’universale incarnano, fin dalle origini, l’espressione più ferma, rigorosa e generalmente riconosciuta. Traendone così l’illusione, e il relativo prestigio, di aver realizzato una sintesi pratica tra universale e particolare. Qualcosa di più di quella estensione planetaria della ripetizione dell’«uniforme» che domina il regno delle merci e degli scambi, poiché alla «naturalità» dell’agire economico si ricollega la vigenza di un intero sistema di valori investito del compito di garantire nientemeno che il «progresso della civiltà».
È A QUESTA SINTESI che Marx oppone quella antagonista e contraria, fondata sulla classe e la sua potenzialità di emancipazione generale dalla «preistoria dell’umanità» e dall’universalismo predatorio e mendace della borghesia. Sul piano storico è qui che le disavventure concettuali e politiche dell’Universale entrano nella fase più critica e scottante. Ed è da qui che il discorso identitario, non certo scevro a sua volta da pretese universalistiche, muove alla riscossa.
Dei paradossi, degli equivoci e delle derive che intorbidano e corrodono gli «universali», dei quali, tuttavia, neanche il più deciso difensore del particolare riesce del tutto a liberarsi, Etienne Balibar tenta una accurata ricognizione nella raccolta di saggi e conferenze ora tradotta per i tipi di Bollati Boringhieri (Gli Universali, pp.160, euro 20).
Il nucleo del problema, già messo a fuoco dalla filosofia classica tedesca, è il fatto che l’universale può «realizzarsi soltanto nella forma di una identificazione discriminatoria che contraddice il suo stesso principio». Cosicché è destinato, come nella formula provocatoria adottata da Stirner, a funzionare come «una particolarità contro altre». Da questa contraddizione originaria discendono le esclusioni, le discriminazioni, le gerarchie, i rapporti di potere che costellano il cammino storico e teorico degli «universali» e che Balibar affronta appunto in quella pluralità che ne invalida le pretese totalizzanti e ne determina il conflitto.
La conseguenza più diretta che si deve trarre sul piano politico da questa constatazione è che l’Universale non può essere ascritto interamente né a una strategia di liberazione, né a una strategia di dominio. Dalle teorie della differenza al cosmopolitismo di matrice illuminista, tutti devono fare i conti con questa ambivalenza, con la possibilità sempre incombente che il concetto si rovesci nel suo contrario. Anzi, che inevitabilmente lo contenga.
A PARTIRE DA QUI muovono le diverse strategie che si propongono di salvare gli «universali» da sé stessi, più o meno direttamente discendenti da quella matrice hegeliana che proietta la contraddizione nel processo dialettico dello spirito. Rinunciando però ad ogni tentazione hegeliana di compimento, queste strategie preferiscono interpretare gli universali come un confine mobile, un «tendere a», un campo di tensioni, una «cosa in sé» mai interamente attingibile, un processo mai definito. Tutti elementi che poggiano sulla distinzione tra l’Universale che si staglia come un fine e le prepotenti «verità» affermate dai diversi universalismi.
Il discorso del filosofo francese sugli «universali» mostra gli stessi caratteri erratici, mobili e inconclusi (ma tutt’altro che politicamente inconcludenti) di quello che dedica alla democrazia intesa come un continuo spostamento della sua estensione, della sua intensità e della sua articolazione. Laddove l’analisi critica delle diverse interpretazioni si apre su campi di ricerca inesplorati e ulteriori interrogativi. Dunque universali e particolarità funzionerebbero come reciproci strumenti di critica utili a mettere in luce ambivalenze e contraddizioni che segnano gli uni e le altre. Non sempre, tuttavia, conviene attenersi al prudente equilibrio di un’analisi critica attenta alle ragioni di tutti. È infatti il campo delle «particolarità» confliggenti quello che desta nel tempo presente le maggiori preoccupazioni.
Il particolare, soprattutto nelle versioni identitarie, nazionaliste o comunitarie, oggi in espansione, si mostra ben più feroce nel reprimere le diverse singolarità che lo abitano degli «universali» accusati di astrattezza e lontananza. Omogeneità, purezza, e imposizione di una tavola indiscutibile dei «valori» costituiscono la cifra dominante e oppressiva di quella «totalità» identitaria che il popolo dei populismi viene incaricato di rappresentare e nel cui corpo la libertà dei singoli tende a scomparire. Cosmopolitismo assume così i tratti di una bestemmia se non quelli dell’ideologia che maschera gli appetiti inestinguibili della finanza globale, contrapposta sbrigativamente all’interesse nazionale.
L’argine correntemente chiamato a contrastare il potere uniformante del mercato è l’«identità culturale», che un breve testo di François Jullien, recentemente tradotto, si dedica a smontare (L’identità culturale non esiste, Einaudi, pp. 87, euro 12). La tesi del sinologo e grecista francese (un connubio che ha sempre prodotto risultati sorprendenti) è abbastanza lineare. Anche Jullien muove dalla condizione di difficoltà in cui versa quel concetto di universale che ha fatto da motore allo sviluppo culturale d’Europa nelle espressioni che si sono storicamente succedute e fuse (l’universale greco del concetto, quello romano del diritto e quello cristiano della fede) e che hanno reso il Vecchio continente, anche in quanto preteso depositario e custode dell’universale, un potere egemonico che si riteneva legittimato a imporre con la forza i suoi propri «valori».
QUESTA EGEMONIA è andata evidentemente perduta negli attuali assetti planetari e con essa la forma dell’universale che si voleva totalizzante e compiuta. Come nell’argomentazione di Balibar, anche qui l’invito è a pensare l’universale in contrapposizione all’universalismo, come processo aperto e mai appagato. Come un campo nel quale il «Comune», inteso come sfera politico-culturale della libera condivisione, possa allargarsi. Anche il «Comune», infatti, non è indenne, come il particolare e l’universale, dalla patologia dell’esclusione, dalla chiusura nei confronti di un fuori ritenuto minaccioso e alieno. Dal rischio, insomma, di precipitare nella dimensione oppressiva e delimitante del comunitarismo. Esso implica e coltiva tuttavia un elemento di soggettività operosa, di costruzione politica collettiva, non sempre e necessariamente sotto il segno dell’armonia, che lo mette in attrito tanto con lo spirito ereditario e proprietario dell’«identità» quanto con l’imperativo categorico dell’Universale.
Ma non vi è dubbio che è solo in quest’ultimo campo, appunto, quello dell’Universale incompiuto, che la costruzione del Comune può trovare uno spazio politico condiviso ed espansivo che rispetti l’autonomia delle singolarità. Per dirla in termini politici la costruzione del comune non può che avere caratteri antinazionali in quanto rottura della falsa unitarietà della nazione.
PER ACCEDERE A QUESTA dimensione Jullien propone un riposizionamento concettuale nella contrapposizione tra «differenza» e «identità», riconducendo la prima alla nozione di «scarto» (distanza invece di distinzione, esplorazione invece di identificazione) e la seconda a quella di «risorsa», intendendo con questo l’insieme di elementi culturali e concettuali che si sono prodotti in un determinato luogo e nella storia, fitta a sua volta di scarti e contaminazioni, di una determinata collettività. Ma di quest’ultima essi non costituiscono il possesso o il segno di distinzione in una qualche gerarchia delle culture, bensì una sedimentazione di saperi e di esperienze alla quale, in tutto o in parte, chiunque può fare ricorso, attivandola e mettendone in movimento le potenzialità. Come nel caso della conoscenza si esce qui dal campo dell’appropriazione per entrare in quello dell’apprendimento, dell’uso comune.
L’INTERPRETAZIONE della pluralità culturale nei termini di uno scarto o di una distanza mira ad istituire quella dimensione del «tra» che mette in tensione e in movimento le diverse prospettive culturali impedendone il ripiegamento e inducendo una relazione nei confronti dell’altro. In questo Jullien ravvisa la vocazione etica e politica dello scarto. Questo spazio del «tra» può essere facilmente ricondotto a quell’Universale aperto, incompiuto e dinamico, nel quale il Comune può espandere la sua sfera di condivisione.
MA IN UN TEMPO dominato dal ripristino delle identità nella forma più vanagloriosa, aggressiva e impermeabile ad ogni argomentazione razionale, quale quello che stiamo vivendo, questo allargamento non può che compiersi nella forma di una dissidenza radicale. Di un punto di vista che, in nome della comprensione, non può però comprendere tutto. François Jullien conclude il suo pamphlet invitando a tenersi fuori «dalla sottomissione e, in primo luogo, dalla sottomissione alla Storia». Resistere all’uniformazione e all’identitario che ci minacciano. Ma «tenersi fuori» non è mossa sempre pacificamente concessa. La porta della gabbia non è aperta e per uscirne può essere necessario passar sopra la «particolarità» dei guardiani che la sorvegliano.
QUELLA DELLE CULTURE non è solo una storia di scarti, ma anche di violenze e sopraffazioni. Tra le «risorse» che esse hanno prodotto nel corso della storia vi sono anche numerose armi letali, materiali e immateriali, alle quali oggi vediamo fare abbondante e spregiudicato ricorso. Forse non basterà a combattere questa violenza, ma la demistificazione dell’ideologia identitaria resta un punto di partenza decisivo per contrastarne la diffusione tra quanti credono di trovarvi protezione. E il testo di Jullien vi riesce davvero egregiamente.

Corriere 3.8.18
Maggioranze
Il potere e il senso del limite
di Sabino Cassese


Finora, la nuova maggioranza ha usato a piene mani il potere di nomina di organi parlamentari, di amministratori di società con partecipazione pubblica, di componenti di autorità indipendenti, di consigli di garanzia delle diverse magistrature, seguendo un antico uso, ma mostrando la fretta di chi si mette alla tavola per la prima volta. Ora, però, essa corre il rischio di superare quella sottile linea che separa l’uso legittimo di poteri dalla violazione delle norme.
Sia la legge sul servizio televisivo del 2015, sia il successivo statuto della Rai dispongono che la nomina del presidente, fatta dal Consiglio di amministrazione, diventa efficace se ha il parere favorevole (in pratica, una approvazione) dei due terzi dei componenti della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi televisivi. Il Consiglio di amministrazione della Rai ha fatto una proposta che non ha avuto quella supermaggioranza. Esso avrebbe dovuto affrettarsi a fare un’altra proposta. Invece, presieduto dal consigliere più anziano di età, che era anche la persona designata (ed è, quindi, in conflitto di interessi), prende tempo. Antonio Polito ha lucidamente indicato le implicazioni politiche di questo stallo. Se questo si protraesse, diventerebbe anche una tensione tra maggioranza e minoranza parlamentare su una decisione per la quale la legge richiede un loro accordo.
I nsistere, ripresentando la stessa proposta, o, peggio, consentire che il candidato che non ha ottenuto la supermaggioranza continui nell’esercizio delle funzioni vicarie, come consigliere anziano, significa sfidare le regole della democrazia.
Un’altra forzatura è quella aperta, in sede parlamentare e in sede governativa, sulla nomina del presidente della Consob. Su di essa si è già pronunciata la Corte dei conti e l’atto di nomina è stato già da tempo firmato dal presidente della Repubblica. Porre in dubbio, a distanza di mesi, tale nomina e la sua correttezza, apre una strada senza fine, perché così ogni governo sarà tentato di ritornare indietro alle investiture già decise, aprendo conflitti — questa volta — non tra attuale maggioranza e attuale minoranza, ma tra maggioranza di oggi e maggioranze di ieri. Un appetito retrogrado di questo tipo conduce a una inedita competizione «across time».
Introducendo, nel 1984, una sua raccolta di saggi dal titolo «Il futuro della democrazia», Norberto Bobbio scriveva che «per regime democratico s’intende primariamente un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia degli interessati». Una di queste regole è quella che prescrive supermaggioranze. Un’altra è quella che impone il rispetto del principio «stare decisis».
Sulla scia di Madison e di Jefferson, Tocqueville, già nel 1835, metteva in guardia contro il dispotismo della maggioranza, a cui riteneva vi fossero solo due barriere, la giustizia e la ragione. Da allora, tutte le Costituzioni moderne e molte leggi dispongono che su questioni etiche, religiose, linguistiche, costituzionali, la maggioranza non debba pronunciarsi da sola, ma debba poter raccogliere anche il consenso di una minoranza. Da noi, questo è previsto, ad esempio, per le prime votazioni dirette alla elezione del presidente della Repubblica e per le modificazioni della Costituzione.
Un altro principio essenziale della democrazia è quello che non si modificano, durante il gioco, le relative regole, e che non si riaprono le partite chiuse, come farebbe chi mettesse in dubbio tutte le decisioni già raggiunte, anche per l’incertezza che questo produrrebbe circa il punto al quale ci si vuole fermare.
È singolare che la tentazione di limitazioni tanto rilevanti del tasso di democraticità del nostro ordinamento venga proprio da un governo che promette maggior democrazia.

Corriere 3.8.18
Palazzo Chigi / Le carte
I voli solitari del super aereo
di Gian Antonio Stella


Solo. A un certo punto Angelino Alfano, nel vuoto, sarà stato trafitto da un assillo: che ci faccio qui, tutto solo, circondato da trecento posti vuoti? Era il 21 gennaio scorso e sul mega Airbus che lo riportava da Bruxelles a Roma c’era solo lui.
Sia chiaro: a leggere la stupefacente lista dei «voli effettuati col velivolo A-340» della flotta presidenziale ormai noto, a torto o a ragione, come l’«Air Force Renzi», lista emersa dagli spifferi di Palazzo Chigi, si tratta dell’unica «navigazione in solitaria». Sono proprio tante, però, le trasferte (e mancano quelle del presidente della Repubblica e di Gentiloni presidente del Consiglio) con un numero di passeggeri ridotto o ridottissimo rispetto alla capienza di un bestione metallico lungo 63 metri, (quasi tre volte un campo da tennis) e con un’apertura alare di 60 metri.
«L’aereo era stato scelto dalla Repubblica italiana», spiegava l’altro giorno su Facebook l’ex premier pd rispondendo alla nuova puntata del tormentone, il video messo online e subito virale del sopralluogo sull’Airbus di Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, «per valorizzare il nostro export, che nel 2017 valeva 448 miliardi di euro». Di più: «Secondo il business plan fatto dai tecnici, se utilizzato per le missioni si sarebbe ripagato il costo del leasing semplicemente con la presenza di almeno 2/3 dei posti per gli imprenditori» chiamati a pagare il biglietto.
Una stima ottimistica, se è vero che ogni ora di volo costa di solo carburante (poi c’è tutto il resto…) dai 2.500 euro in su, a seconda del carico. Fatto sta che i viaggi di questo tipo, stando alla tabella che gira a Palazzo Chigi, sono stati davvero pochi. Tre in tutto, pare, guidati dall’allora sottosegretario allo sviluppo Ivan Scalfarotto. Uno di tre giorni a l’Avana, con 70 passeggeri all’andata e 64 al ritorno (ah, Cuba!), un altro di tre giorni in Pakistan (32 da Roma a Islamabad e 60 da Lahore a Roma), un altro ancora a New Delhi e Mumbai con 120 viaggiatori. Il più affollato di tutti. Fino a riempire poco più di un terzo dei posti a disposizione.
Spiccano, nella tabella dei 47 voli annotati alla voce «A340», che potrebbe contenere solo i viaggi più significativi, alcune trasferte di Paolo Gentiloni (Tbilisi, Abidjan, Ankara, Beirut, Erevan...) quand’era ministro degli esteri. E uno di Roberta Pinotti a Riad. Tutti gli altri, dice la lista, li ha fatti l’allora ministro degli esteri Alfano. Con 31 persone a Lubiana, con otto a New York, con nove (ma solo due al ritorno) a Washington, dieci a Giakarta, sette ad Abu Dhabi...
Numeri che contrastano clamorosamente, se saranno confermati, con gli spazi a disposizione degli ospiti mostrati l’altro giorno dai due ministri nel reportage sul velivolo da tempo nel mirino dei pentastellati. File e file e file di sedili, vuoti come praticamente sono sempre stati in tutte le «escursioni» estere. «E tutto per cosa?», ha chiesto Danilo Toninelli, «Per riempire l’ego di Matteo Renzi». «L’aereo doveva stare a Ciampino ma non è stato possibile perché è troppo grande, come l’ego di Renzi», ha rincarato Luigi Di Maio, «Lui ci voleva mettere anche la vasca Jacuzzi…». Replica renziana: «Il cosiddetto Air Force Renzi è una delle più grandi bufale messe in campo dal M5S, un attacco personale, perché non hanno possibilità di fare un ragionamento sull’export».
Al di là delle reciproche beccate tra galli combattivi, tra i quali si è inserito Giuseppe Conte annunciando la disdetta del contratto («Parliamo di circa 150 milioni di euro spesi per soli 8 anni di noleggio, inclusi i 20 milioni per riconfigurarlo, per un velivolo quasi mai usato») un punto appare chiaro. Ego o non ego, si è trattato di un pessimo affare. L’airbus A340, presentato nel 1987, tanto tanto tempo fa, è un gran quadrimotore in grado di fare lunghi viaggi ma condannato da un errore iniziale: «tira carburante come un’idrovora», per dirla con «Il Fatto» che fu tra i primi a occuparsi della storia. Un limite che si è fatto via via più gravoso. Al punto che del più nuovo «340/600» (usato da Angela Merkel) avrebbero dovuto essere prodotti 200 esemplari ma a quota 97 la produzione decise: stop. La Singapore airlines, per dire, si era liberata dei suoi a fine 2010. Troppi costi.
Nell’ultimo anno in cui fu pubblicato il prezzo di listino ufficiale, 2011, costava 180,6 milioni. Da scontare, ovvio, come sempre in questi casi. Ma già il 26 ottobre 2016, pochi mesi dopo la firma del contratto tra la Direzione degli armamenti aeronautici (ARMAEREO) e l’Alitalia «per l’acquisizione in leasing dell’aeromobile Airbus A340-500 - riconfigurazione interna del velivolo», il nostro Leonard Berberi scriveva che stando a esperti di mercato, un aereo come quello preso da noi in leasing «si può comprare con non più di 18 milioni di euro». Cifra che sarebbe scesa oggi, sull’usato, a 8 milioni. Investimento iniziale basso, costi d’uso e di manutenzione stratosferici.
Valeva la pena di prenderlo in leasing per otto anni al prezzo che si è detto, con resa finale a Etihad? Lasciamo rispondere al coordinatore del Servizio per i voli di Stato, il colonnello Valerio Celotto. Che in una lettera al segretario generale di Palazzo Chigi, il 5 gennaio 2018, mentre infuria la campagna elettorale, riferisce che la «realizzazione di un’area dedicata all’autorità, suddivisa nella cabina letto con annesso bagno e doccia, nello studio privato nonché in un’area riunioni con lo staff» avrebbe «un costo massimo stimato» pari al 16,6 milioni di euro.
In ogni caso però, spiega, il cronoprogramma è saltato perché «nonostante i numerosi solleciti», l’Alitalia ha comunicato d’aver infine ricevuto sei preventivi solo il 22 dicembre 2017. Meglio dunque, dato l’anno perso per i preventivi e un altro anno (minimo) per i lavori da fare, lasciar perdere. «Risultando più corretto che sulla questione si pronunci il nuovo Esecutivo».
Nel frattempo la regina Elisabetta che ha girato per anni come una trottola i Paesi del Commonwealth, tira avanti con piccoli quadrimotori BAE 146, vecchiotti, fuori produzione ma ben mantenuti. Se proprio è necessario, per i viaggi all’altro capo del mondo, usa un B 747 di British Airways. Magari modificato negli spazi interni, ma preso a nolo volta per volta. Sparagnina…

il manifesto 3.8.18
Epifani: «Di Maio è contro il Jobs Act a parole, sull’articolo 18 è rimasto in silenzio»
Lo chiamavano dignità. Guglielmo Epifani, deputato di Liberi e Uguali, ex segretario della Cgil: «Sul decreto dignità la Lega ha un ruolo evidente nel governo. I Cinque Stelle hanno una debolezza un po’ cinica. Da soli non avrebbero modificato i voucher». «Nel dibattito non c’è attenzione verso la soggettività del lavoro, si considera solo il punto di vista delle imprese»
di Roberto Ciccarelli


Guglielmo Epifani, già segretario della Cgil, ora deputato di Liberi e Uguali (LeU), perché ha definito «un’occasione persa» la bocciatura del suo emendamento al decreto dignità che ripristinava l’articolo 18?
Il decreto è un’occasione persa, ha un titolo molto bello, la dignità del lavoro e dell’impresa, ma non riesce, o non vuole, raggiungere l’obiettivo che si propone. Il governo e la maggioranza hanno avuto la possibilità di raccogliere la nostra indicazione sulla reintegra in caso di licenziamento illegittimo, e comunque potevano modificare il Jobs Act cambiando le norme sul demansionamento, sul controllo a distanza. Sono questi i temi che riguardano la dignità dei lavoratori.
E invece?
Solo silenzio. La cosa che più mi colpisce è il loro silenzio. In campagna elettorale Di Maio ha usato parole nettissime contro il Jobs Act, ma sulla reintroduzione dell’articolo 18 non ha proferito parola, la stessa cosa gli altri ministri e sottosegretari. C’è un silenzio preparato, ma in questi casi bisogna spiegare cosa intende fare un governo. Invece niente di niente.
Quale effetto avrà la stretta sui contratti a termine?
Trovo condivisibile la riduzione del tempo del contratto a termine da 36 a 24 mesi, ma la causale dopo 12 mesi è troppo poco. Non si dà al lavoratore il tempo di apprendere un mestiere, farsi conoscere, per poi essere stabilizzato. La maggioranza e il governo non hanno voluto ascoltare quello che gli abbiano detto: la causale va messa subito, dal primo contratto. In più ci sarà un aggravio dei costi, le aziende non prolungheranno i contratti e sceglieranno altre persone per sostituire quelle che hanno superato i dodici mesi di lavoro. Aumenterà la turnazione sullo stesso posto di lavoro.
Di Maio non ha «licenziato il Jobs Act» perché la Lega non lo permette?
Sicuramente. L’accordo che hanno raggiunto è visibile. Da un lato, c’è la Lega che ha un ruolo evidente. Dall’altro lato, c’è la debolezza un po’ cinica dei Cinque Stelle. Abbiamo fatto una settimana di lavoro in commissione, quattro giorni di lavoro in aula, ma l’equilibrio che hanno raggiunto non ha permesso di modificare nessuna parte essenziale del decreto. Non hanno voluto mettere la fiducia, ma è come se lo avessero fatto. Il parlamento è diventato la sede di ratifica delle decisioni del governo, così non può essere nel nostro ordinamento .
L’influenza della Lega è visibile sui voucher. Cosa comporterà la loro modifica?
L’estensione in agricoltura e nel turismo dei voucher peggiora la situazione del lavoro nero e danneggia i contratti nazionali di lavoro. Oltre tutto il decreto non riduce il precariato perché non affronta il problema delle false cooperative, i contratti a nero, i riders senza diritti. Ma c’è una cosa che mi ha colpito ancora di più.
Quale?
Tranne quello di LeU, la stragrande maggioranza degli interventi delle forze politiche considera solo il punto di vista delle imprese. Non penso che sia possibilità tornare all’idea di centralità del lavoro di trent’anni fa, ma il fatto che nel dibattito non ci sia attenzione verso la soggettività del lavoro nei processi economici, produttivi e negli investimenti mi ha colpito molto. Prevale solo il punto di vista delle imprese, e mai anche quello del lavoro.
La debolezza dei Cinque stelle si riproporrà anche sul reddito di cittadinanza, sulla flat tax?
La cartina di tornasole sarà la legge di stabilità, a partire dal 10 settembre. Per il momento si può dire che, da soli, i Cinque Stelle non avrebbero mai esteso i voucher. Costretti alla mediazione li hanno dovuti accettare. Questa è la prospettiva in cui si sono messi. Lo stesso è avvenuto sulla Flat Tax. Finirà per aumentare le diseguaglianze. Il connotato sociale del governo è orientato verso scelte esplicitamente di destra. In queste condizioni anche il riequilibrio sociale che i Cinque Stelle si ripromettono di fare con il «reddito di cittadinanza», anche per non essere subalterni a Salvini, avrà margini più ridotti. La moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Lo vediamo nelle politiche sui migranti. Il clima è molto brutto. Le forze democratiche devono fare molta attenzione.
Cosa ha pensato quando ha visto sul tabellone della Camera che solo 13 deputati di LeU hanno votato l’articolo 18, mentre il Pd si è astenuto e continua a difendere il Jobs Act?
Se guardo al parlamento è l’immagine di una sinistra molto minoritaria nei numeri. Noi abbiamo fatto un vera e dura battaglia parlamentare. Non abbiamo abbassato la testa e i temi della sinistra sono emersi. Ma nella cultura dominante la soggettività del lavoro non sembra interessare a nessuno. Se deve rinascere un processo di rigenerazione della sinistra, sarebbe bene che fosse ancorata all’idea del lavoro. Va bene il civismo, le Ong, ma penso che il lavoro deve essere il nucleo essenziale attorno al quale ricostruire una rete sociale e economica più ampia, una grande opzione laburista di partito e di movimento. Da dove abbiamo perso, dobbiamo ripartire.

Il Fatto 3.8.18
L’altra strada di Joan. “Il mondo si può cambiare”
A tu per tu - Furio Colombo e Baez, l’amica delle battaglie contro le guerre
di Furio Colombo


Qualcuno canterà di nuovo “We shall overcome” (“Noi ce la faremo”, il canto degli schiavi neri, che era diventato l’inno della lotta americana per i diritti civili negli anni 50 e 60)? Non so chi ha fatto la domanda per primo, se io a Joan Baez, che mi telefonava dalla Germania prima del suo prossimo concerto in Italia (l’ultimo, lei dice, il 6 agosto, a Roma, alle Terme di Caracalla) o lei a me. Strana vita la nostra.
Dico “la nostra” ripensando alle tante volte in cui ci siamo trovati vicini, fin da quando lei, diciannovenne, cantava per Martin Luther King, per la liberazione dei neri americani, in testa ai cortei e di fronte a una polizia minacciosa, e io ero nel gruppo di Andrew Young e Jesse Jackson, che organizzava le marce guidate da King, ne scriveva, le filmava per le televisioni del mondo.
Fin da quando Joan ha dedicato tutta se stessa all’impegno per la nonviolenza e contro la guerra nel Vietnam, e ha guidato masse di giovani e giovanissimi americani a dire no anche personalmente e fisicamente alla guerra (bruciavano le cartoline-precetto di un servizio militare allora obbligatorio, rischiando prigione e futuro), e io raccontavo e filmavo quegli eventi per la Rai e TV 7. Fin da quando eravamo ad Hanoi negli stessi giorni e ci siamo trovati sotto i bombardamenti americani perché si erano interrotte le trattative di pace a Parigi fra Kissinger e LeDuc Tho.
E adesso, mentre chiacchieriamo al telefono, prima di rivederci a Roma, ci rendiamo conto che ognuno di noi ha il suo Trump, la sua cattiveria di Stato, il gesto di qualcuno che si fa quattro risate sulle speranze di un mondo senza guerre e sul progetto di rendere meno pericolosa, meno oppressa la vita di tanti, quelli che invano tentano di fuggire. Il fatto strano, quasi una brutta fiaba, è che tutto ciò avvenga proprio in coda a una avventura che ci era sembrata bellissima.
“Ma è stata bellissima – lei dice – e poi la vita ricomincia da capo, col suo peggio e col suo meglio, è piena di gente che non noti, rispetto alla potente assemblea distruttiva che occupa il campo. Ma quella gente c’è, vive, respira e cambia il mondo (lo cambierà) solo per il fatto di esserci e di portarsi addosso un contagioso senso di contatto con gli altri, un rapporto di responsabilità con le altre vite”.
“Ti racconto una cosa – ha aggiunto –. Prima di questo giro finale in Europa ho deciso di fare una cosa che a prima vista è impossibile: un concerto a Istanbul. Quelli che mi volevano, a Istanbul, hanno ottenuto una piazza grande e io ho trovato quella piazza gremita di migliaia e migliaia di persone, moltissimi giovani (la grande sorpresa), moltissime donne. E ho sentito che tutta quella folla era lì per dare un senso allo stare insieme, per usare le mie canzoni come un legame comune. E allora ho potuto usare le parole – diventate canzone cantata in turco – del loro grande poeta Hikmet. La sua poesia si è unita a noi, amata da quella folla, creando una barriera fortissima contro ogni idea di vendetta e violenza. Vedi, c’era qualcosa che andava al di là della loro condizione del momento, qualcosa come un passaparola o una consegna, come una corda a cui tenersi forte in un momento di estrema turbolenza”. Poiché credo di conoscerla, so che non sta parlando di un fatto mistico o magico, ma di un tipo di cambiamento che non avviene per scontro, ma lungo il misterioso percorso (che era caro a Martin Luther King fino alla pallottola sul ballatoio del piccolo Hotel Lorraine di Memphis, a Marco Pannella nella confusa e avventurosa vita italiana, nel ricordo comune di Gandhi) della nonviolenza, che scarta l’odio e lo ignora, nonostante i tanti e attivissimi portatori di odio.
Joan detta Joanie, nella sua casa di legno in cima alle colline di Palo Alto, insiste nella sua visione di “un piano di sopra”.
“Nella piazza di Istanbul vedevo che agli accadimenti politici si sovrappone, come una pioggia invisibile, un altro strato di realtà. In apparenza ti copre, quasi ti nasconde, in realtà ti porta di là da quello che accade, dandoti un senso di libertà, persino se la libertà non è l’intenzione di chi manovra il potere. A Vienna, con quel che succede a Vienna, tra la folla del Wiener Konzerthaus che ci ospitava, ho sentito la stessa scossa, gente che va per una strada fatta di incontro e di vita condivisa, ignorando le frontiere chiuse manovrate dai governi. Mi sono detta che noi non facciamo abbastanza per trovare questa strada nascosta che è la via di fuga e di salvezza, non solo fisica, di tanti”.
Ma Joan Baez ha pronta una seconda vita. Dipinge, a un livello già conosciuto e apprezzato e cercato, in America. C’è già stata una mostra e un catalogo nella sua California. Ne progettava una a Roma. Ma a Roma è agosto. Succederà un’altra volta.
E sarà una sorpresa. Come tutta la vita, la voce, il canto di Joan Baez da Selma, ad Hanoi, a Istanbul.

La Stampa 3.8.18
Dittatori scrittori, l’altro massacro: dell’ortografia e della letteratura
di Caterina Soffici


Con un gioco di parole fin troppo scontato, la loro è stata definita una «prosa mortale». I dittatori amano scrivere e oltre a uccidere oppositori si sono dedicati a un’altra forma di massacro, meno grave ma sempre devastante: quello di ortografia e letteratura. Da Stalin a Enver Hoxha, da Gheddafi a Castro, sono stati grafomani compulsivi e hanno inondato il mondo con una sterminata e mortalmente noiosa produzione libraria. Volumi di memorie e poesie, trattati pseudo ideologici, persino romanzi, nessuno dei quali memorabile, che ebbero l’indubbio vantaggio di non venire stroncati, pena una condanna a morte certa.
Lenin da solo ha riempito 55 volumi. Mentre Mao, oltre al celebre Libretto rosso la cui produzione di massa mise a dura prova l’industria di stampa cinese e costò la vita a intere foreste di conifere sacrificate sull’altare della Rivoluzione per produrre cellulosa, ha scritto anche altri 43 titoli.
A raccogliere e catalogare questa galleria dell’orrore letterario è stato Daniel Kalder, autore scozzese, ex funzionario governativo al lavoro nell’unità di crisi della mucca pazza, quando nel 1997 decise di dimettersi e andare un po’ a vedere cosa succedeva nella Russia di Eltsin, affascinato dai rapidi cambiamenti in atto in un Paese allora poco spiegato in Occidente. Ha prodotto quindi un paio di saggi sulla Russia post sovietica e poi è stato folgorato dai dittatori scrittori (Dictator Literature. A History of Deposts Through Their Writing (Oneworld, pp. 379, £ 16,99).
In principio era Lenin
Nel libro racconta che viveva a Mosca nei primi anni 2000 e, facendo zapping, sulla televisione russa apparve un enorme monumento raffigurante un libro verde e rosa. Era un reportage sul Rukhnama, o I
l libro dell’anima, presentato come il capolavoro di Saparmurat Niyazov, allora presidente tiranno del Turkmenistan, segretario del partito comunista. I turkmeni era obbligati a leggerlo come prova per la patente di guida. Kalder si prese l’impegno di fare altrettanto e ci ha messo tre anni, perché era davvero mortale.
Da lì è iniziato il suo folle lavoro di lettura e raccolta compulsiva di scritti di tiranni. La partenza era obbligata: i russi. Lenin e la sua fascinazione per il Che fare? scritto da Nikolaj Černyševskij nel 1863, titolo che poi usò per il suo libro sulla strategia rivoluzionaria. Quindi Stalin e la sua prosa verbosa e ridondante, creatore involontario di una sorta di «canone dittatoriale» dove l’autore e la sua opera diventano un tutt’uno da idolatrare, come una parte per il tutto. Quindi il Mein Kampf di Hitler, che a 35 anni non padroneggiava né l’ortografia né la grammatica a un livello elementare: i suoi testi sono pieni di errori lessicali e di sintassi, per non parlare della punteggiatura e delle maiuscole. E poi Enver Hohxa, l’ayatollah Khomeini, Kemal Atatürk, Francisco Franco, Gheddafi, Saddam Hussein, Fidel Castro, per finire con la dinastia dei Kim di Corea.
Discorso a sé per Mussolini e il suo L’amante del cardinale, l’unico vero romanzo della lista, ispirato a una storia vera, dove sono mescolati tutti gli ingredienti del feuilleton, passione, perversione, delitto, macabro e torbide pulsioni sessuali. Kalder è più clemente con il Duce, a cui riconosce che, essendo stato un giornalista di successo, almeno sapeva tenere la penna in mano. E poi gli inglesi tendono ancora a guardare al fascismo come una dittatura da operetta e a Mussolini come un grande prepotente, più che un dittatore vero e proprio, almeno fino alle leggi razziali e all’entrata in guerra al fianco di Hitler.
La «Dic Lit»
Rimane aperta la questione del perché i dittatori abbiano voluto lasciare il segno nella storia anche con l’inchiostro sulla carta. C’è chiaramente la fascinazione per l’onnipotenza dello scrittore, vero despota delle sue pagine, sul quale esercita un potere assoluto. Ma i buoni scrittori, come sottolinea Kalder, hanno la capacità di accettare la natura complessa e le contraddizioni del mondo. Mentre i despoti, come i cattivi scrittori, fanno l’esatto opposto, e vogliono riportare tutto a una piatta uniformità.
Comunque un bel parco degli orrori, opere che potevano tranquillamente finire nella pattumiera della storia, insieme ai loro autori, ma che invece Kalder ha raccolto come monito per il futuro. Perché proprio ora? Perché il mondo, dice l’autore, sta attraversando un periodo particolare dove la figura del dittatore torna di attualità e c’è sempre il rischio che, annoiati da Twitter e dai social media, anche i tiranni contemporanei tirino fuori il capolavoro dal cassetto.
Ultima curiosità: a proposito di «Dictator Literature» i giornali inglesi non hanno resistito a parlare di «Dic Lit», che ha la stessa onomatopea di Dick Lit, dove «Dick» è l’organo sessuale maschile. Per uccidere un dittatore anche lo humor britannico si rivela un’arma vincente.

La Stampa 3.8.18
Tra faggi e castagni monumentali risuona la poesia di Dino Campana
di Tiziano Fratus


Da diverso tempo rifletto sul significato della restituzione. Cosa noi siamo in grado di restituire di tutto quel che ci viene donato istante dopo istante, incontro dopo incontro? Veniamo educati a prendere, ad accumulare. Quel modesto percorso di riconciliazione con la natura che conduco nella mia solitudine, e talora tento di condividere con articoli, poesie, libri - i silvari - e meditazioni accompagnate nei boschi, nei giardini storici, negli orti botanici, è un tentativo di adottare uno stile di vita sobrio, quasi monastico. In questi mesi ho innestato un nuovo rito, invero antico quanto le tavole delle Leggi: visitare un grande albero portando qualcosa - un seme, una foglia - e restare ad ascoltarlo, donando e restituendo, per quanto singolarmente possibile.
I castagneti di Marradi
Tornando in Toscana per l’ennesimo anno mi sono chiesto cosa avrei potuto fare e mi sono deciso: riportare la voce della poesia di Dino Campana nelle sue terre, le terre che l’hanno partorito, nutrito, dannato e accompagnato sull’orlo della pazzia. Ero già stato in visita ai castagneti di Marradi. Avevo avuto modo di sbirciare i luoghi rimasti legati alla storia umana del poeta. Oltre alle poesie, resta un diario di viaggio, una passeggiata meditativa che fece fino al santuario della Verna, uno dei luoghi francescani per antonomasia, laddove è conservato un saio del santo, forse l’ultimo indossato. Era l’inizio dell’autunno del 1910, un viaggio che prima o poi cercherò di ripercorrere, attraverso il Mugello.
Nel frattempo ho risalito i tornanti che conducono al passo del Muraglione, dove gli anziani giocano a carte tutto il pomeriggio, a tratti storditi dal canto risorgivo delle cicale. A Marradi riascolto il mormorio del Lamone che fende l’abitato come una spina dorsale; ecco la triste casa natale, ecco l’edificio che ospitò la tipografia Ravagli che nel 1914 pubblicò i Canti orfici. Risalgo a frazione Crespino, dove mi incammino nelle due ali di castagneto sopraelevato su cui incontro tanti diversi tronchi scolpiti e ritorti. Qui mi inginocchio, fra un merlo in amore e una folata di vento che scuote le chiome, apro la mia copia delle poesie e ne leggo alcune, ad alta voce.
L’arboreto sperimentale
Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi custodisce alcune delle nostre grandi selve sopravvissute, una natura rimescolata, dove la mano dell’uomo, tuttavia, ha disegnato, selezionato, rimescolato, coltivato. In Italia la natura primigenia è stata rimossa, forse permane in pochi luoghi remoti, minuscoli anfratti alpini, il cuore ombroso della Sardegna, forse in quel piccolo incanto vietato al cammino che è Sasso Fratino, riserva integrale dove per integrale si intende a protezione perpetua (il turismo è bandito).
Spesso mi ritrovo a pensare che parte della nostra natura conservata andrebbe resa inaccessibile, per consentire alla natura di ricominciare ad operare secondo natura. Nel Casentino riposano faggete ordinate, come accade attorno al Santuario della Verna, pochi anni fa colpito da una tromba d’aria che purtroppo ha compromesso l’unità sacra del bosco. Silenziosi i boschi che circondano il monastero di Camaldoli, un sentiero vi conduce ad uno dei grandi vegliardi arborei, il monumentale Castagno Miraglia, un tempo i frati vi pregavano, seduti al suo interno.
A Badia Prataglia, nel comune di Poppi, si trova il primo arboreto sperimentale dell’epoca moderna, fondato nel 1846 dall’ingegnere forestale boemo Karl Siemon; vi si incontrano curiosità botaniche, fra le quali una delle primissime, se non la prima, sequoia costale (Sequoia sempervirens) messa a dimora nel nostro Paese, probabilmente coetanea delle conifere del Parco Burcina, nel biellese, e delle sequoie che risalgono il monte su cui si trova il castello di Sammezzano, a Reggello.
Raggiungo un altro luogo visitato da Campana nel 1910, Castagno D’andrea, ultima stazione di una strada che porta da Pontassieve. I sentieri conducono al selvaggio Monte Falterona, vaste faggeta uniformi: pietre cariche di muschi, tronchi «a pelle d’elefante», piccoli sorseggi dal Dio delle cascate e dei ruscelli.

Repubblica 3.8.18
Silvano Agosti "Il fondamento del ’68 non si potrà cancellare"
Al Festival di Locarno il documentario "Ora e sempre" che il regista ha dedicato al decennio 1968-1978
di Roberto Nepoti


LOCARNO Il titolo Ora e sempre — riprendiamoci la vita non lascia dubbi: quello di Silvano Agosti, presentato fuori concorso a Locarno, è un film militante.
Come poteva non esserlo, del resto, conoscendone l’autore?
Classe 1938, Agosti ha partecipato agli eventi in prima persona, filmando i Cinegiornali del movimento studentesco, il documentario Brescia 74 strage di innocenti e tanto altro; compresa una fitta serie d’interviste a personaggi della politica e della cultura che, assieme a rari materiali d’epoca, contribuiscono a dar corpo al nuovo film. Diversamente dai programmi di storia per la tv, Agosti non si limita a elencare i fatti: dà loro una forma significante attraverso il montaggio (che a suo tempo studiò all’Istituto del cinema di Mosca), per sviluppare il discorso che gli sta a cuore.
«Dalle cronache ufficiali quel glorioso periodo di lotte è scomparso — argomenta l’autore — sepolto sotto il marchio di "anni di piombo". Ci sono voluti cinquant’anni di governi selvaggi per cancellare tutte queste importanti vittorie.
Ma il fondamento non potrà mai essere cancellato: i movimenti di quel decennio, coinvolgendo gran parte della società, ha visto lentamente infrangersi il principio di autorità».
Il ’68 e il decennio successivo videro un fiorire di movimenti (studentesco, dei lavoratori, delle femministe, di occupazione delle case…) che non si è poi ripetuto, malgrado alcune avvisaglie e le speranze di molti. Perché proprio in quel momento? «L’origine prossima fu la guerra del Vietnam. Però io credo anche che il corpo sociale, malgrado il potere faccia di tutto per rinchiuderci in celle individuali, sia un tutto unico e che in certi momenti storici si verifichino delle connessioni tra tantissimi individui (i giovani, in particolare) su obiettivi comuni». Quindi, come afferma Franco Piperno in un brano del film, la protesta è un fiume carsico, che prima o poi riemergerà? Però Clara Sereni (in un altro spezzone d’intervista) si stupisce che le femministe di ieri non siano riuscite a insegnare nulla alle loro figlie. «Penso che la protesta tornerà, anche se in altre forme», prosegue Agosti, «quanto alle femministe, erano troppo impegnate nell’ergastolo di essere mogli; e quando si è all’ergastolo si pensa solo alla fuga». Non c’è il rischio che Ora e sempre, uscendo nel cinquantenario del ’68, sia sospettato di effetto-nostalgia, data anche la presenza nella colonna sonora della Canzone del maggio di De André e dell’Anno che verrà di Dalla?
«Direi di no. Avevo già realizzato due "decennali": nel ’98 in tredici puntate per la Rai, che le trasmise alle quattro di mattina, e nel 2008; senza mai cadere nella celebrazione. Del resto il 68 fu solo la miccia: l’esplosione furono i nove anni seguenti».
Tra i tanti intervistati — Fo e Rame, Capanna, il filosofo Severino, Bernardo Bertolucci, Alberto Grifi… — appare anche, piuttosto inaspettato, l’archistar Massimiliano Fuksas.
«Sì, l’architetto miliardario.
Ho voluto infrangere la barriera socio-economica perché Fuksas parla della liberazione dal lavoro, che equivale alla schiavitù. Ben da prima che si parlasse di reddito di cittadinanza, o come lo si voglia chiamare, ho sempre pensato che cibo e casa siano un diritto inalienabile per tutti».