Repubblica 2.8.18
L’amaca
di Michele Serra
Gli omoni tatuati e rasati, quasi tutti ultras di calcio, quasi tutti con paginette Facebook inneggianti al Duce, che vanno a fare i mercenari in Ucraina, faranno parte del fenomeno detto "fuga dei cervelli", così penalizzante per la nostra amata Patria?
Nel caso sia così, le nuove leggi italiane sulla liberalizzazione delle armi (Lega in prima fila) riusciranno a riportare a casa, più vicini alla mamma, i nostri ragazzi, trovando impiego presso ronde o milizie private? La figura dell’armigero, fin qui piuttosto rara nel paesaggio italiano, è destinata a proliferare anche da noi, come negli States, con bravi padri di famiglia che appoggiano lo schioppo sul tavolino del fast-food o nel portaombrelli della trattoria?
Il successo della Lega e di tipi come il Salvini, e delle destre nazionaliste virilmente atteggiate, è anche lo sbocco naturale per caterve di maschi alfa, beta e gamma gonfi di testosterone, e con un gran bisogno di sfogarsi.
Settant’anni senza una guerra come si deve, per noi europei abituati a farne almeno una per ogni generazione, hanno lasciato il segno. Per le strade e nelle spiagge è pieno di potenziali miliziani, già con la faccia, lo sguardo, l’abbigliamento dell’attaccabrighe. Una guerricciola in Ucraina (derby sovranista) conta poco. C’è un fabbisogno di sopraffazione e di violenza che prima o poi deve trovare una risposta: è una delle tante risposte, questa, che la sinistra radical-chic non è stata capace di dare al popolo.
Il Fatto 2.8.18
Strage di Bologna, il depistaggio era partito prima della bomba
2 agosto 1980 - Il disegno separatista, l’eversione nera e quella di Stato, la criminalità comune. Quante domande ancora aperte
di Antonella Beccaria e Giovanni Spinosa
Negli atti della Commissione Anselmi sulla P2 c’è traccia di una riunione svoltasi nell’estate del 1978 sul panfilo Trident al largo di Ustica. Si sa poco di quell’incontro cui avrebbero partecipato esponenti della massoneria internazionale e tale Joseph Miceli Crimi, il medico di Michele Sindona, che espose l’obiettivo di dare vita in Sicilia a “club” anticomunisti e filoseparatisti. In effetti, per dirla con le parole della commissione Sindona, si voleva “mettere in moto un tentativo separatista della Sicilia in una chiave che si ricollegasse agli ideali massonici, antiateisti e anticomunisti, per estendere quindi questi ideali a tutta l’Italia”.
Il progetto separatista ha attraversato l’Italia per decenni facendosi più incalzante tra il 1978 e le riunioni di Cosa Nostra nelle campagne di Enna nel febbraio 1992 che avrebbero portato alle bombe di Capaci, via D’Amelio e del ’93. Se dovessimo dare la palma del primo premio al nome più ricorrente fra i protagonisti di quegli anni, Licio Gelli lo vincerebbe a mani basse. Ad esempio, secondo alcuni pentiti sarebbe fra quanti, fra la fine del ’91 e gli inizi del ’92, proposero alle grandi organizzazioni criminali del Paese l’adesione al progetto eversivo.
Nello stesso processo che ha condannato Valerio Fioravanti e Francesca Mambro come esecutori materiali della strage del 2 agosto alla stazione di Bologna (Luigi Ciavardini, all’epoca minorenne, è stato giudicato separatamente, mentre il processo a Gilberto Cavallini è attualmente in corso), Licio Gelli è stato riconosciuto colpevole dei reati di calunnia per un depistaggio attuato dal Sismi di cui lui stesso controllava i vertici, occupati da uomini della P2.
Il 13 gennaio 1981 gli uomini del servizio segreto misero sul treno Taranto-Milano armi ed esplosivo compatibile con quello utilizzato per la strage. Scopo: orientare le indagini verso una pista internazionale, meglio se di matrice palestinese. Per questo la Corte d’Assise di Roma condannò gli ufficiali del Sismi per il porto e la detenzione delle armi. A Bologna la condotta del servizio piduista fu giudicata assieme a quella degli esecutori materiali della strage e la Corte d’Assise, l’11 luglio 1988, riconobbe colpevoli Gelli, Francesco Pazienza, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte, mentre il generale Giuseppe Santovito, capo del Sismi, morì nel 1984, prima della sentenza di primo grado. Come mai Gelli e il Sismi piduista organizzarono un simile depistaggio?
Forse c’è una ragione già scritta nelle sentenze degli anni Ottanta. La Corte d’Assise di Roma espresse il fondato dubbio che i calunniatori di Stato, per mettere la valigia con le armi sul treno, si fossero avvalsi della collaborazione di un gruppo di terroristi neri che proprio in quei giorni si nascondeva in un covo di Taranto. Si trattava di Valerio Fioravanti, l’autore della strage, di Giorgio Vale e di Gilberto Cavallini.
La Corte d’Assise di Bologna ha fatto propri quei dubbi e ha aggiunto un particolare importante: secondo i giudici felsinei, il Sismi piduista avrebbe iniziato a preparare il depistaggio ancora prima della strage. Forse sarebbe stata opportuna una riflessione sulle responsabilità di chi, in anticipo rispetto all’esplosione del 2 agosto 1980, si metteva nelle condizioni di operare un depistaggio che poi, secondo le sentenze di Roma e di Bologna, potrebbe aver realizzato con la collaborazione degli autori della strage stessa.
Come mai non è successo? Forse ha nuociuto un diffuso approccio culturale basato su una rigida compartimentazione fra eversione politica e criminalità organizzata. In realtà tale impostazione viene superata dalla figura di un neofascista siciliano, Ciccio Mangiameli, che nelle vicende della strage di Bologna ha un ruolo rilevante.
Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, infatti, trascorsero nella sua abitazione in Sicilia un periodo di “vacanze” nel luglio 1980. Poi, verso la fine di quel mese, mentre i due estremisti dei Nar partivano per la loro missione di morte, Mangiameli andava a Taranto, dove, assieme a Mauro Addis, un ex componente del gruppo capeggiato dal bandito della Comasina Renato Vallanzasca, affittava un appartamento. In quel covo, occupato dai terroristi neri in concomitanza con il depistaggio piduista, Mambro e Fioravanti andarono a nascondersi nei giorni dopo la strage.
Senonché, il 9 settembre 1980 un commando dei Nar ammazza Mangiameli: era sospettato di aver parlato troppo della strage. Le sentenze non hanno mai avuto dubbi sull’importanza di quell’omicidio. Fu la sentenza dell’11 luglio 1989 scrisse parole cristalline sull’importanza di Ciccio Mangiameli, descritto allora come una sorta di snodo nella convergenza di interessi in Sicilia alla fine degli anni Settanta fra logge deviate, ambienti mafiosi ed estremisti di destra. È l’alleanza eversiva che, a suon di bombe, pur non riuscendo nel progetto separatista, ha accompagnato il tramonto della prima Repubblica e, pur in forma rivista, l’inizio della seconda.
Repubblica 2.8.18
2 agosto 1980 - 2018
Una luce sulla strage di Bologna
di Benedetta Tobagi
Molti non lo sanno, ma la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto di trentotto anni fa è di nuovo in tribunale. Un processo in cui purtroppo si riproducono i vizi peggiori del dibattito politico, dominato com’è dalle spettacolari provocazioni dei tre condannati in via definitiva coinvolti in veste di testimoni, ma che invece — o forse proprio per questo — merita particolare attenzione.
Con buona pace degli innocentisti che per decenni hanno sfruttato l’anniversario per rinfocolare “ piste” alternative (l’ultima, incentrata sul terrorista tedesco Kram, legato al famigerato Carlos, è stata archiviata nel 2015), il terzo processo, cominciato il primo giorno di primavera del 2018 (le udienze riprenderanno a settembre, dopo la pausa estiva), si iscrive nel solco delle condanne per strage passate in giudicato agli ex Nar Mambro, Fioravanti e Ciavardini. La Corte d’Assise bolognese deve infatti stabilire se Gilberto Cavallini, già condannato con loro per banda armata, abbia agito come supporto logistico degli stragisti, fornendo ospitalità, auto e documenti falsi.
Sebbene la Corte stia resistendo ai tentativi di trasformare il dibattimento nell’ennesimo revival del depistaggio palestinese, non può impedire ai condannati- testimoni di dirottare l’attenzione dei media, mostrando all’osservatore distratto una tragica farsa. Valerio Fioravanti, attore consumato (d’altro canto è stato un enfant prodige della fiction tv, prima della carriera da terrorista), ha tenuto banco riaffermando l’innocenza propria e dei camerati e negando di essere mai stato fascista. Francesca Mambro non è da meno: rifiuta persino la qualifica di « estremista di destra » ( ma, con buona pace di Almirante e dei suoi estimatori, entrambi rivendicano la militanza nel Msi) e, tra grottesche giustificazioni ideologiche, straparla di «pacificazione » e « riconciliazione » ( con chi?), nobile mantello sotto cui rigurgitano pretese d’innocenza e perduranti reticenze. Per i propri silenzi, Ciavardini rischia addirittura un’incriminazione: non vuole dire chi lo ospitò in quel di Treviso, ai tempi in cui il Veneto era una roccaforte dei terroristi neri, mica dettagli. In compenso, si compiange come «ottantaseiesima vittima» della strage ( per di più in prossimità del Giorno della Memoria del terrorismo): sarebbe ridicolo, se non fosse osceno. Ma cosa c’è dietro questo polverone?
Primo, gli eterni vizi dell’estrema destra: vittimismo e falsificazione della realtà. A parte un ristretto manipolo di collaboratori di giustizia, da decenni i neofascisti vecchi e nuovi negano strenuamente — a dispetto delle evidenze giudiziarie e storiche — ogni coinvolgimento nello stragismo e i legami con i servizi segreti. Si atteggiano a giustizieri, soldati in guerra, una minoranza vessata, coraggiosa, romanticamente solidale. Nel lessico di Fioravanti c’è un mondo, non solo tattica processuale. Attenzione, non sono i deliri di qualche vecchio rottame. Questa allure dei neofascisti seduce ancor oggi ragazzetti in tutta Italia: occorre smontarne puntualmente la retorica — come fanno pm e avvocati di parte civile.
Secondo, le sceneggiate distolgono l’attenzione dai dati importanti e molto gravi che il processo sta portando alla luce. Gilberto Cavallini, 28enne all’epoca della strage, ha un profilo “alto”. Grazie al contributo fondamentale delle parti civili, in aula stanno affiorando i suoi legami con la galassia di Ordine Nuovo (cui sono attribuibili le principali stragi dal 1969 al ’74), a sua volta legata a doppio filo con i servizi. Altre tracce documentali — ricavate da precedenti inchieste — portano verso Gladio.
A dispetto delle ciance degli ex Nar sulla loro “ purezza”, tutto questo rafforza il quadro delineato dalle condanne passate in giudicato al gran maestro della P2 Gelli, agli ufficiali del Sismi Musumeci e Belmonte e al faccendiere Pazienza ( non a caso la Corte ha rifiutato le dichiarazioni e i documenti da lui offerti) per il depistaggio “ internazionale”. Quadro corroborato anche da quanto va emergendo dall’indagine della Procura Generale di Bologna, avviata grazie a un dossier dell’Associazione dei famigliari delle vittime, il cui impegno continua nel segno del “ familismo morale”, basato su ricerche incrociate negli archivi digitalizzati dei molti processi per strage già celebrati: movimenti di denaro dal tesoro svizzero di Gelli in prossimità della strage.
Comunque finisca, questo processo amplia il patrimonio di conoscenze circa il fitto reticolo che univa terroristi neri, criminalità comune, servizi e massonerie deviate. Un reticolo molto romanzato ma studiato troppo poco, e invece importantissimo — visto che le sue metastasi continuano a riproporsi.
il manifesto 2.8.18
La grande fuga dal sud. In 16 anni emigrate due milioni di persone
La ripresa che non c'è. Nel Rapporto Svimez un quadro nero dell'occupazione nel Meridione. Nel 2019 Pil fermo allo 0,7%, la metà del 2017
di Adriana Pollice
L’economia al Sud rischia una «grande frenata» dopo un triennio di crescita, nel 2015-2017, che comunque non è servito a recuperare il patrimonio economico e sociale disperso dalla crisi: l’allarme l’ha dato Svimez, che ieri ha presentato le anticipazioni del Rapporto 2018. Continuano a mancare i fondi pubblici: a trainare la timida ripresa sono infatti gli investimenti privati, cresciuti nel Mezzogiorno del 3,9% (3,7% al Centro Nord), insufficienti a colmare il distacco dai livelli precrisi, rispetto a cui resta un meno 31,6% (mentre al Centro Nord è meno 20%). Emblematica la contrazione della spesa pubblica corrente nel periodo 2008-2017: meno 7,1% nel Mezzogiorno, mentre è cresciuta dello 0,5% nel resto del paese. Così, in base alle previsioni Svimez, nel 2018 il Pil del Centro Nord dovrebbe crescere dell’1,4% ma solo dell’1% al Sud. «In questa stagione di incertezze, le prospettive per il Sud peggiorano – ha spiegato Adriano Giannola, presidente Svimez -. I dati che iniziano a circolare sul rallentamento della crescita preoccupano, anche perché il Mezzogiorno continua a portarsi dietro tutte le sue arretratezze».
ANCHE I CONSUMI pesano sulla differente dinamica territoriale (più 1,2% nel Centro Nord, più 0,5% nel Sud). Quelli della Pubblica amministrazione, in particolare, segnano più 0,5% nel Centro Nord e meno 0,3% nel Mezzogiorno. Alle ultime politiche gli elettori meridionali hanno votato in blocco i 5S anche per dare una scossa alle politiche economiche e adesso attendono risposte.
Senza una svolta, infatti, si rischia nel 2019 un forte rallentamento dell’economia meridionale: la crescita del Pil sarà dell’1,2% da Roma in su e solo dello 0,7% al Sud con «un sostanziale dimezzamento del tasso di sviluppo» rispetto al 2017. Nel 2019 il livello degli investimenti pubblici al Sud rischia di essere inferiore di circa 4,5 miliardi rispetto al picco del 2010. Eppure per annullare il differenziale di crescita tra le aree basterebbe finanziare le infrastrutture meridionali «con un beneficio per l’intero paese. Centro Nord e Mezzogiorno crescono o arretrano insieme» ricorda Svimez. Infatti, nel periodo 2000-2016 le due macro aree hanno condiviso la stessa dinamica del Pil: più 1,1% in media annua. Inoltre, 20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle regioni meridionali dal bilancio pubblico è ritornano al Centro Nord sotto forma di domanda di beni e servizi.
L’ALTRA FACCIA della debole rispresa è l’aumento del disagio sociale tra famiglie in povertà assoluta e lavoratori poveri, con la limitazione dei diritti di cittadinanza e il divario nei servizi pubblici rispetto al Nord. Due le conseguenze: meno giovani e meno Sud. «Negli ultimi 16 anni hanno lasciato il Mezzogiorno 1 milione 883mila residenti: la metà di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati, il 16% dei quali si è trasferito all’estero. Quasi 800mila non sono tornati» si legge nel rapporto. E ancora: «Il numero di famiglie meridionali con tutti i componenti in cerca di occupazione è raddoppiato tra il 2010 e il 2018, da 362 mila a 600 mila (nel Centro Nord sono 470 mila)». Gli effetti al Sud ci sono stati anche nella struttura degli occupati: sono cresciuti gli ultra cinquantenni (più 470mila unità) mentre è diminuita la fascia 15-34 anni (meno 578 mila).
SI SONO FORMATE così «sacche di crescente emarginazione, che scontano anche la debolezza dei servizi pubblici». Il numero di famiglie senza alcun occupato è cresciuto nel 2016 e 2017 in media del 2% all’anno, concentrate prevalentemente nelle grandi periferie urbane. Nonostante una pressione fiscale pari se non superiore a quella del Nord, sono carenti diritti fondamentali come vivibilità, sicurezza, istruzione, sanità. Preoccupante anche il fenomeno dei working poors: «La crescita del lavoro a bassa retribuzione, dovuto alla dequalificazione delle occupazioni e all’esplosione del part time involontario, è una delle cause, in particolare al Sud, per cui la crescita occupazionale durante la ripresa non ha inciso su un quadro di emergenza sociale sempre più allarmante». Neppure l’immigrazione è servita a colmare il gap con il Nord. La popolazione diminuisce malgrado aumentino gli stranieri: nel 2017 il calo è stato di 203 mila unità a fronte di un aumento di 97 mila stranieri residenti.
NEL 2017 il Pil è aumentato al Sud dell’1,4% rispetto allo 0,8% del 2016. Un risultato in linea con il Centro Nord (1,5%), dovuto al recupero del settore manifatturiero (5,8%). L’occupazione però è rimasta debole e soprattutto precaria. Calabria, Sardegna e Campania hanno fatto registrare il più alto tasso di sviluppo, rispettivamente 2, 1,9 e 1,8%. Al Nord le regioni trainanti hanno fatto segnare 2,6% in Valle d’Aosta, 2,5% in Trentino Alto Adige, 2,2% in Lombardia.
Il Fatto 2.8.18
Fuga dall’Italia, siamo tornati ai livelli record degli Anni 50
Nuova emigrazione - Secondo le elaborazioni Idos, le cifre sono più del doppio di quelle ufficiali
di Marco Maroni
Se la cosiddetta “emergenza immigrazione”, con i suoi drammi umani e le sue polemiche politiche, occupa le prime pagine dei giornali e le aperture dei Tg, c’è un altro fenomeno migratorio in Italia più consistente ma più trascurato: l’emigrazione degli italiani. Secondo i dati elaborati dal centro studi Idos (organizzazione indipendente sponsorizzata tra gli altri da Unar, Caritas e Chiesa Valdese) nel 2017 se ne sono andati dall’Italia circa 285 mila cittadini. È una cifra che si avvicina al record di emigrazione del Dopoguerra, quello degli anni ‘50, quando a lasciare il Paese erano in media 294 mila Italiani l’anno.
L’Ocse segnala come l’Italia sia tornata ai primi posti nel mondo per emigrati, per la precisione all’ ottavo, dopo il Messico e prima di Viet nam e Afghanistan.
Del fenomeno dell’espatrio degli italiani, ha parlato a inizio luglio il presidente dell’Inps, Tito Boeri, presentando il rapporto annuale dell’Istituto. “Nel confronto pubblico degli ultimi mesi si è parlato tanto di immigrazione e mai dell’emigrazione dei giovani, del vero e proprio youth drain
cui siamo soggetti”, ha detto Boeri, “la fuga all’estero di chi ha tra i 25 e i 44 anni non sembra essersi arrestata neanche con la fine della crisi. Nel 2016, l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati dell’Anagrafe italiani residenti all’estero, abbiamo perso altre 115.000 persone, l’11% in più dell’anno precedente. E potrebbe essere una sottostima”. È proprio sull’ipotesi di sottostima a cui ha accennato Boeri che hanno lavorato i ricercatori dell’Idos. “I dati ufficiali, quelli dell’Istat”, spiega il presidente Luca Di Sciullo, “si riferiscono alle cancellazioni anagrafiche registrate dall’Aire, ma la cancellazione dal comune di residenza non è un obbligo, molti italiani si trasferiscono senza spostare la residenza, anche se poi la fissano nel nuovo Paese”. Per ottenere dati più realistici si è guardato agli archivi dei principali paesi d’accoglienza, relativi ad adempimenti obbligatori come la registrazione di residenza o la copertura previdenziale. Mettendo insieme questi dati viene fuori che la cifra registrata dall’Istat, circa 114 mila italiani espatriati nel 2017 (in linea con il 2016) va moltiplicata per 2,5, portando il dato a 285 mila persone, un flusso che è aumentato del 50% negli ultimi 10 anni.
Dal lato dei rimpatri, l’incidenza negli ultimi anni è scesa a meno di un terzo, circostanza che, se abbinata al recente calo dell’immigrazione (16 mila sbarcati nel primo semestre 2018, contro i 76 mila del primo semestre 2017), e al costante calo della natalità, è destinata, a impoverire il Paese e metterne sotto pressione il sistema previdenziale.
I nuovi emigranti non aderiscono al cliché anni ‘50 del bracciante del Sud che lascia il paesello con la valigia di cartone. Oltre la metà espatria dalle regioni del Nord; circa un quarto dal Centro, mentre quelli che espatriano dal Sud e dalle Isole sono meno di un quarto del totale. Il grosso dell’emigrazione dal Sud, come indica il rapporto Svimez (articolo sopra), si trasferisce nelle regioni del Centro Nord italiano.
Chi espatria, va principalmente in Europa (Germania e Gran Bretagna in testa). E se fino al 2002 il 51% degli emigrati con più di 25 anni aveva al massimo la licenza media, ora quasi un terzo sono laureati. Questa “fuga di cervelli” per il Paese rappresenta una perdita in tutti i sensi. Ogni emigrato istruito è infatti come un investimento che se ne va: mediamente 164 mila euro per un laureato, 228 mila un dottore di ricerca, secondo i dati dell’Ocse. Circostanza che però non ne fa necessariamente i candidati per lavori più qualificati.
Secondo il “Rapporto italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, la maggior parte continua a trovare impiego in occupazioni poco qualificate, ristoranti e pizzerie in cima alla lista.
Scelta comunque preferibile a quella di rimanere con le mani in mano, o accettare quei lavori a intermittenza e sottopagati che nel mercato del lavoro italiano sembrano essere diventati la principale prospettiva per i giovani.
Repubblica 2.8.18
La diaspora del sud
di Sergio Rizzo
Dal Sud ormai si scappa. Scappano i giovani, scappa chi cerca lavoro. Scappano, soprattutto, i laureati: negli ultimi sedici anni se ne sono andati via in cerca di fortuna, verso il Nord o all’estero, 218.771. I numeri dell’ultimo rapporto Svimez riportano l’orologio del Mezzogiorno indietro agli esodi biblici del dopoguerra. Con una differenza: che non fuggono più i disperati con la valigia di cartone. Stavolta se ne va il capitale umano. In tutte le regioni del Sud i laureati che si trasferiscono nel Centro Nord superano il 27%. In Abruzzo sono il 33,6. In Basilicata, quasi il 34. «Una perdita inesorabile», sentenziano gli studiosi della Svimez, che «ha provocato un grave depauperamento della struttura demografica e del tessuto sociale » . Dal 2002 al 2016 hanno lasciato il Sud un milione 883.872 residenti, e di questi 783.511 non sono più tornati. Come se una città poco più piccola di Napoli fosse stata cancellata dalle mappe. Il bello è che i tre quarti degli emigrati sono giovani di età compresa fra i 15 e i 34 anni: 564.796, numero pari agli abitanti dell’intera Basilicata. E siccome il fenomeno non accenna a diminuire, le previsioni sono terrificanti. Anche perché se nel dopoguerra l’emigrazione era più che compensata dalle nascite, adesso nemmeno più quello. Con il risultato che il “ peso demografico del Sud” è in caduta libera: siamo ormai al 34,2% della popolazione italiana, due punti meno d’inizio secolo. Ormai dal 2012 il numero dei morti, anno dopo anno, supera quello dei nati vivi: nel 2017 la differenza è stata di 51.483 unità. Prima d’ora, nella storia dell’Unità d’Italia si era verificato solo due volte dopo le epidemie di colera del 1866 e di influenza spagnola del 1918. Anche il contributo dell’immigrazione è sempre più flebile, tanto da far stimare che nel 2065 le Regioni meridionali avranno perso quasi un quarto degli abitanti. Da 20,7 a 15,7 milioni: 5 milioni 22.083 persone volatilizzate. Di conseguenza, ammonisce la Svimez, il Mezzogiorno diventerà l’area più vecchia d’Italia e sarà fra le ripartizioni più anziane d’Europa, con un’età media che crescerà dagli attuali 43,3 anni a 51,6 anni. Con le ripercussioni economiche e sociali del caso.
Il Sud sta dunque morendo. Il dramma è che ciò accade nell’indifferenza più totale della politica, della burocrazia, della finanza, degli apparati produttivi e di potere: dell’intera classe dirigente. “ Il Sud sprofonda”, titolava la Repubblica il 25 novembre 1980, dopo il devastante terremoto dell’Irpinia. Il fatto è che dopo essere sprofondato non si è mai risollevato. Il prodotto interno lordo cresce meno che nel resto del Paese, ed è una costante quasi da sempre. A dispetto della retorica. Così oggi la ricchezza media di un meridionale rispetto a quella di un suo concittadino del Centro-Nord è più o meno la stessa di settant’anni fa: intorno al 60%, se va bene. Come se nulla fosse accaduto. Invece in mezzo c’è stata la Cassa del Mezzogiorno, poi i soldi dell’Intervento straordinario, i mostruosi finanziamenti per il sisma irpino e il diluvio di denari alle Regioni. Che insieme hanno finito spesso per alimentare sprechi e ruberie: vero. Senza però dimenticare il decennio di governi a trazione leghista con il Sud eliminato del tutto dall’agenda se non per rastrellare voti e consenso. La Svimez dice ora che « la riunificazione » fra il Mezzogiorno e il resto d’Italia «reclama azioni non convenzionali ». Ha ragione da vendere. Peccato che non siano state avvistate neppure quelle convenzionali. Diversamente lo stato dei servizi pubblici non sarebbe così avvilente.
Ancora la Svimez denuncia che in Campania l’efficienza della pubblica amministrazione tocca appena il 61% della regione più virtuosa, il Trentino- Alto Adige. Ed è il valore più alto. Poi si scende al 60 in Sardegna, al 53 in Abruzzo, al 43 in Puglia, al 42 in Basilicata, al 40 in Sicilia e al 39 in Calabria. Dice tutto lo stato di cose della sanità, con 33.922 cittadini calabresi e 32.098 campani costretti a trasferirsi al Nord nel 2016 per ricoveri acuti e una percentuale di famiglie impoverite a causa della spesa sanitaria privata tripla in Campania rispetto alla media italiana. Negli anni ne abbiamo sentite di tutti i colori. Per esempio, non c’è governo che non abbia propagandato il rilancio dei fondi europei che languono nei cassetti regionali ( l’ha detto ieri anche la nuova ministra del Sud Barbara Lezzi). Ma quello che è sempre mancato non sono certo le parole. È la volontà di affrontare con determinazione il problema: tanto da far sorgere il sospetto che tutto sommato vada bene così. E questo fa ancora più rabbia.
il manifesto 2.8.18
Il governo gialloverde veleggia verso il 60%, la Lega raggiunge e sorpassa l’M5S, la sinistra è un pianto, il Pd scende al 17., Ma alla sua sinistra Potere al popolo supera Liberi e uguali, 2,5 per cento contro 2,4. Questa la fotografia (si fa per dire) di un sondaggio di Swg per La7. Accolto con la consueta ironia dai ragazzi del centro sociale Je so’ pazzo Ex Opg di Napoli. «Come ho detto già altre mille volte, questi sondaggi valgono poco», ha scritto su facebook Salvatore Prinzi, uno degli attivisti della lista. «Inoltre non dobbiamo misurare mai il nostro stato di salute con i sondaggi», «Però quello che mi interessa di ieri è che siamo usciti su una televisione nazionale come realtà in crescita e dinamica, e milioni di persone ne stanno prendendo atto».
Analisi del voto di Potere al Popolo
di Franco Astengo
Il voto ottenuto dalla Lista Potere al Popolo nelle elezioni legislative generali del 4 marzo 2018.3% dei voti validi e allo 0,79% del totale degli aventi diritto.
Per il voto al Senato della Repubblica (25 anni d’età minimo) risultavano iscritti 42.778.821 elettrici ed elettori che hanno espresso 30.196.742 voti validi.
Potere al Popolo (voti compresi quelli dei candidati nell’uninominale) ha ottenuto 320.210 pari all’1,06% dei voti validi e allo 0,74% del totale degli aventi diritto.
Non si nota quindi un particolare scostamento tra il voto della Camera e quello del Senato, tale da far pensare ad una prevalenza di voto giovanile che pure si è espresso.
Il Fatto 2.8.18
“LeU è un po’ bollita e il Pd una storia chiusa”
Viola Carofalo - La portavoce di Potere al popolo e i buoni sondaggi: “Bersani & C? Ceto politico che si ricicla”
di Salvatore Cannavò
Può sembrare il sorpasso dei poveri, ma dentro la lista di Potere al popolo c’è soddisfazione per aver superato, nel sondaggio Swg di lunedì scorso, la lista di Liberi e Uguali. Un 2,5% contro il 2,4. La radicalità di PaP batte lo sguardo rivolto alle dinamiche del Pd. Viola Carofalo, portavoce di Potere al popolo, pur senza farsi illusioni tiene a incassare il risultato: “I sondaggi valgono quel che valgono e quindi non è detto che si traducano in voti. Ma è una soddisfazione vedere che stiamo crescendo”.
Che spiegazione ne date?
Dipende da noi e dipende dagli altri. Noi dopo il 4 marzo non ci siamo mai fermati, abbiamo avviato un processo costituente, fatto iniziative nelle città, nel silenzio totale dei media.
E gli altri?
La proposta di LeU è un po’ bollita, non attrattiva e non accattivante. È sempre lo stesso ceto politico che si ricicla e che porta responsabilità dirette e indirette delle politiche del centrosinistra. Quelle che hanno consentito la vittoria di Lega e M5S.
LeU sembra guardare alla possibile leadership di Zingaretti. Voi?
Al Pd non ci pensiamo nemmeno, è una storia chiusa perché appena si muovono fanno danni. Nessuna interlocuzione con loro, dobbiamo riprenderci la gente che si è astenuta o che ha votato M5S e Lega.
Ma cosa fate davvero, in concreto?
Se devo citare le cose importanti, penso alle aperture di nuove Case del popolo, ambulatori sociali, luoghi dove si fa davvero mutualismo e si risponde ai bisogni delle persone.
Farete anche un campeggio?
Sì, dal 23 al 26 agosto a Marina di Grosseto. Discussione politica per organizzarci in vista dell’autunno ma anche per conoscerci e rafforzare il progetto tra di noi.
E poi un congresso?
Preferiamo chiamarla assemblea costituente, il 6 e 7 ottobre.
Siete nati come coalizione di forze diverse, ma funziona ancora il patto tra di voi? Ho letto che il Pci se n’è andato.
Loro hanno valutato che vogliono rafforzare il proprio partito e hanno scelto di andare per la loro strada anche se manteniamo rapporti ottimi e di stima. Con il resto va tutto bene, si procede insieme.
È vero che state cercando di costruire una lista unitaria con Luigi De Magistris?
Abbiamo partecipato a due riunioni in cui si è parlato anche di questo. A ottobre stabiliremo le modalità con cui prendere questa decisione. Spero che lo faremo con una votazione su piattaforma online.
Non rischiate di esaltarvi troppo per un piccolo sorpasso?
Il sondaggio in sé non vale niente, ma siccome pensiamo di essere all’inizio di un progetto lo reputo un mezzo miracolo. E poi io sono esaltata di mio.
La Stampa 2.8.18
Daisy rischia di saltare gli Europei di Berlino
L’atleta vuole partecipare alle gare ma la cura al cortisone è contro le regole del doping
qui
La Stampa 2.8.18
Al palo i rimpatri promessi da Salvini
I Paesi africani non firmano accordi
di Francesco Grignetti
Era la prima delle sue promesse elettorali. «Ci sono mezzo milione di irregolari in Italia. Con le dovute maniere vanno allontanati tutti. Altrimenti si alimenta la confusione». Così parlava Matteo Salvini da candidato. Divenuto ministro, però, si è reso conto che la questione non è affatto facile. E qualche giorno fa in Parlamento, all’esposizione delle linee programmatiche, si toccava con mano il disappunto, per non dire l’arrabbiatura, del ministro dell’Interno: «Bisogna ampliare il numero di accordi di riammissione con i Paesi terzi, anche finalizzati ad aumentare i rimpatri volontari assistiti». Già, perchè il Salvini ministro si è reso conto che c’è molto poco da fare se i Paesi d’origine non collaborano a riprendersi i suoi emigrati. E quasi nessuno collabora. Perciò aveva ruggito: «Espulsioni effettive dello scorso anno, tra le 6 e le 7000 persone».
Per incrementare i voli di rimpatrio, nelle settimane scorse il ministro aveva annunciato di avere spostato molti fondi: almeno 50 milioni di euro, recuperati da altre voci di bilancio. E 42 milioni di euro andranno ai rimpatri assistititi, che sono quella modalità su base volontaria per cui l’immigrato decide di tornare a casa ma con un piccolo fondo con cui avviare una propria attività economica. E qualche giorno fa, commentando la storia di un giovane del Ghana che torna in patria ad allevare mucche, deluso dall’Italia, con in tasca un bonus da 1400 euro, ha twittato: «Buona vita a questo ragazzo. E speriamo lo capiscano tanti altri giovani africani che, pur non avendo in patria nessuna guerra, sono pronti a mettersi nelle mani di trafficanti di schiavi pensando che in Italia ci siano lavoro e ricchezza per tutti».
La disponibilità
Per dare corpo alla promessa elettorale, insomma, occorre la disponibilità dei Paesi di origine dei migranti. A questo scopo, il governo italiano sta facendo pressione sulle autorità della Ue affinché si tenga conto del problema delle riammissioni prima di stringere nuovi accordi di libero scambio e libero commercio. Ha spiegato Salvini stesso in Parlamento: «Il presidente Juncker vuole chiudere al più presto un nuovo accordo di libero commercio con la Tunisia. Noi abbiamo chiesto che venga inserita la clausola della riammissione. Si deve statuire che la convenienza deve essere reciproca». Una posizione, in verità, che ha condiviso con il collega tedesco Horst Seehofer.
Nella medesima audizione, Salvini ha sbuffato diverse volte sul tema. Quando ha spiegato, ad esempio, che sono soltanto 4 gli accordi di riammissione che ha trovato operanti al ministero. «Ma solo la Tunisia accetta i charter. Gli altri Paesi ci impongono i voli di linea. E con 3 rimpatri a settimana, ci vorranno anni....». Lo aveva detto più o meno negli stessi termini qualche giorno prima a Innsbruck, a margine di una riunione dei ministri dell’Interno: «Negli ultimi anni sono arrivati dalla Nigeria 60mila migranti, nella stragrande maggioranza dei casi non-profughi e siamo riusciti ad espellerne 700. Quindi voi capite che l’Italia ha un pregresso di 500mila clandestini e se non riusciamo ad espellerne più di 10mila l’anno ci mettiamo cinquanta anni a recuperare il passato».
Il nodo, al solito, sono gli accordi di riammissione. Se non ci sono, niente espulsioni. Si era informato. «Nel 2016 c’è stata un’iniziativa di Federica Mogherini in cinque Paesi africani per accordi di riammissione. Non c’è traccia di risultati concreti a due anni da queste iniziative».
A questo punto ha promesso anche che ci penserà lui. Ha annunciato, dopo il viaggio in Libia, «stiamo parlando anche di altre missioni in altri Paesi nordafricani, ma per motivi di sicurezza non posso dire le date: entro la fine dell’estate, però, li copriremo tutti».
Repubblica 2.8.18
Esistenzialismi
La nostra Nausea dura da ottant’anni
di Massimo Recalcati
A ottant’anni dalla sua pubblicazione cosa può ancora insegnarci un’opera come La nausea di Jean-Paul Sartre? Apparsa nel 1938 quando l’Europa stava scivolando rapidamente nella catastrofe della seconda guerra mondiale, in tempi cupi dominati dagli appelli forsennati ad universali che travestivano feroci interessi sovranisti: il popolo, la nazione, la razza, il comunismo, il fascismo, il nazismo. Nelle sue pagine tanta letteratura (Kafka, Gide, Céline) e tanta filosofia (Nietzsche, Husserl, Heidegger).
Ma soprattutto una scoperta traumatica, quella dell’esistenza. Ci vuole un tremore, una vertigine, uno squarcio per riaprire i nostri occhi di fronte alla Cosa informe dell’esistenza. È questa la nausea che afferra Antoine Roquentin, il protagonista del romanzo.
L’impatto è ustionante: la nausea è la sensazione che emerge di fronte alla presenza senza senso — “di troppo” — dell’esistenza. Per quanto siamo “insabbiati” nell’esistenza, l’esistenza come tale è sempre nascosta. «È lì, intorno a noi, non si può dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca». Essa impegna ciascuno ad inventarsi un senso perché non esiste alcun senso a priori — nessun fondamento — dell’esistenza. Cominciamo da qui, ci chiede Sartre. Non dai grandi valori, dagli universali che ubriacavano in quegli anni le masse. Iniziamo dall’incontro perturbante con la nostra esistenza singolare.
La tranquilla cittadina di Bouville era la prova dell’esistenza di Dio. I suoi abitanti credevano nell’ordine stabilito del mondo, nella sua identità senza fratture. Tutto appare addomesticato, regolato, purificato. La scabrosa eccedenza dell’esistenza non trovava posto in un mondo fatto di asettiche regole universali. Le figure degli abitanti di Bouville e dei loro antenati raccolte nel museo cittadino si trasfigurano così in un corteo di maschere di cera senza desiderio e senza scampo: erano tutti dei saluds, degli “sporcaccioni”. Mentivano. Credevano di avere diritto ad esistere. I ritratti che imbalsamavano i “capi” di questa piccola cittadina e che, in realtà, riempivano tutti i musei del mondo, erano semplici menzogne. È questa la nostra colpa più radicale: credere di essere qualcuno, di essere un Io, credere di avere un diritto speciale di esistere. La stessa retorica che trasuda dalle parole della triste figura dell’Autodidatta. Il suo criterio di lettura ci sorprende: non legge secondo un moto proprio di ricerca, ma seguendo il carattere arido della mera accumulazione enciclopedica, limitandosi seguire il semplice ordine alfabetico. Il suo intento è impossessarsi di tutto il sapere del mondo in quanto sapere dell’Uomo. Ecco una delle lezioni fondamentali de La Nausea che non andrebbe mai dimenticata. Credere nell’Uomo è un comportamento di malafede. Non esiste l’Uomo; l’Uomo è solo una invenzione artefatta degli uomini. Esistono, caso mai, gli uomini al singolare, uno per uno, coi loro corpi concreti e i loro nomi propri. E gli uomini — tutti gli uomini — non sono alle prese con la Natura astratta dell’Uomo — che non esiste — ma con il problema della loro esistenza singolare, senza modelli, senza alcuna essenza universale che la possa supportare e garantire. Sartre sferrava così, attraverso il suo Roquentin, dei colpi mortali ad ogni forma di retorica umanistica: l’umanitarismo comunista, socialista, cattolico, insomma ogni filosofia dei valori si schianta contro la Cosa dell’esistenza che la nausea rivelava bruscamente nella sua pura contingenza. Una marmellata di buoni sentimenti rischia di nutrire la cultura dei diritti e dei valori cosiddetti universali. L’infima particolarità dell’esistenza viene così sublimata in un umanesimo astratto che sembra capace di digerire ogni spina, salvo poi frantumarsi di fronte all’incontro reale con l’alterità dell’Altro e provocare politiche xenofoba del rifiuto e dell’odio.
Perseguendo il valore assoluto dell’Uomo, lo sguardo dell’umanismo retorico perde di vista le singolarità degli uomini.
Non si può, infatti, amare l’Uomo o la Vita in generale.
In una scena capitale del romanzo, Roquentin e l’Autodidatta sono seduti allo stesso tavolo. Di fianco a loro, in un altro tavolo, una coppia di giovani amanti stanno conversando. Guardandoli l’Autodidatta dichiara con entusiasmo di amare in loro l’ideale puro della Giovinezza. Il suo interlocutore gli fa notare che non li può amare perché non saprebbe distinguere i colori dei capelli della ragazza, perché non saprebbe nemmeno riconoscerli per strada. Questo significa che l’astratto amore per l’Uomo proclamato dall’Autodidatta prescinde completamente dai corpi e dai nomi propri dei due amanti travasandosi in un contenitore universale e totalizzante. Lo ammonisce allora duramente Roquentin: «Non è affatto per loro che si sta intenerendo; lei si intenerisce sulla Gioventù dell’Uomo, sull’Amore dell’Uomo e della Donna, sulla Voce umana, ma non per la loro esistenza singolare».
Questa lezione etica de La Nausea è tanto scabrosa quanto, a mio giudizio, attualissima. La scoperta del carattere senza senso dell’esistenza mostra che i valori non esistono in un cielo lontano, non sono essenze immutabili che prescindono dal nostro impegno nel mondo.
Ciascuno ha, infatti, la responsabilità di fare esistere i “valori”, ma solo a partire dal proprio essere nel mondo, dalla propria esistenza singolare, scostandosi da ogni celebrazione retorica delle virtù dell’Uomo. In questo modo La Nausea ci consegna un buon punto di partenza per non perdersi nella dimensione inevitabilmente impotente e patetica di ogni umanitarismo disincarnato. La solidarietà non può essere una bandiera universale — non è mai un diritto acquisto una volta per tutte — ma deve potersi rinnovare nella forma concreta della mia azione nel mondo.
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È nato in tempi cupi, dominati da appelli forsennati e universali che travestivano feroci interessi sovranisti
Ma sferra anche colpi mortali a ogni retorica di tipo ecumenico: comunista, socialista, cattolica
il manifesto 2.8.18
I drusi si scoprono uguali agli altri arabi in Israele
Ossia cittadini di serie B dopo l'approvazione della legge che definisce Israele-Stato nazionale del popolo ebraico. Gli "arabi modello" ripensano alla loro partecipazione nelle forze armate
di Michele Giorgio
GERUSALEMME «Questa legge colpisce i cittadini non ebrei di Israele. Mi sento discriminato, perciò lascio le Forze armate». Safa Mansour, druso e medico militare della 91esima divisione dell’esercito, ai microfoni della radio statale ha condannato pubblicamente legge approvata lo scorso 19 luglio dalla Knesset che definisce Israele come ”Stato nazione del popolo ebraico” e descrive la biblica “Eretz Israel”, la Palestina storica, come una terra appartenente agli ebrei. Il testo peraltro non contiene riferimenti espliciti all’uguaglianza tra ebrei e non ebrei e ha declassato l’arabo fino a qualche giorno fa lingua ufficiale di Israele come l’ebraico. Per un milione e mezzo di arabo israeliani, i palestinesi cittadini d’Israele, la legge non è una sorpresa. La contestano con forza, ne comprendono i suoi pericolosi risvolti futuri ma allo stesso tempo la vedono come un atto nero su bianco che ufficializza le discriminazioni alle quali sono soggetti sin dalla fondazione di Israele 70 anni fa. Per 130mila drusi, o gran parte di essi, invece è stato uno choc. Si sentono traditi, ingannati, messi sullo stesso piano degli arabo israeliani. Sono l’unica minoranza non ebraica che fa il servizio militare obbligatorio. I drusi combattono e talvolta muoiono per Israele. Nei Territori palestinesi occupati reprimono con violenza, arrestano, fanno il lavoro sporco e adesso scoprono di essere cittadini di serie B. Il brit damim, il “patto di sangue” che dal 1948 li legherebbe agli israeliani ebrei, si è rivelato una frase su un foglio di carta. Gli “arabi modello” a conti fatti sono soltanto degli arabi.
Un colpo al quale Safa Mansour e altri due ufficiali drusi hanno risposto annunciando di non voler più far parte delle Forze armate. Altri potrebbero seguire il loro gesto. Uno dei tre, Amir Jamal, è stato sospeso per 15 giorni e il capo di stato maggiore Eisenkot ha fatto la voce grossa esortando i militari drusi a mettere da parte la politica e a credere nella piena uguaglianza nei ranghi dell’esercito dove, a suo dire, non esisterebbero differenze tra fedi ed etnie diverse. Un appello analogo è giunto anche dal generale di brigata Ghassan Alian, l’ufficiale druso più alto in grado. Parole che forse non basteranno, è probabile che la legge approvata dalla Knesset favorisca l’aumento del numero degli obiettori tra i giovani drusi già in atto da alcuni anni. «Sono convinto che tanti nostri giovani adesso sceglieranno di non fare il servizio di leva, nonostante le sanzioni previste dalla legge – dice al manifesto Samer Sweid, un attivista della compagna per l’obiezione di coscienza – Da anni lavoriamo per questo e la nuova legge appena spingerà tanti ragazzi a ripensare al proprio status nella società israeliana e al loro ruolo nelle forze armate di Israele».
L’alleanza tra Israele e i drusi – fede religiosa di origine sciita-ismailita divenuta nel corso dei secoli di fatto anche una etnia, in ragione della spiccata tendenza nella comunità dell’endogamia – risale a prima della nascita dello Stato ebraico. Il movimento sionista e i più importanti leader religiosi drusi in Galilea avviarono rapporti stretti a danno del nazionalismo palestinese. Rapporti che dopo la fondazione di Israele sfociarono nella definizione di uno status speciale per i cittadini drusi, molti dei quali rimarcano la “differenza” dai palestinesi. Oggi diverse migliaia di drusi si proclamano “sionisti”. Un loro rappresentante, il ministro Ayoub Kara, è noto per i suoi toni sempre accesi contro gli arabi. Allo stesso tempo non tutta la minoranza drusa appoggia l’integrazione totale nel sistema israeliano e la partecipazione alle Forze armate. Due celebri intellettuali drusi, entrambi scomparsi qualche anno fa, come il poeta Samih al Qassem e lo scrittore Salman Natour, si sono sempre dichiarati parte della nazione palestinese. I drusi del Golan, territorio occupato da Israele nel 1967, a differenza dei loro fratelli in Galilea si proclamano con orgoglio cittadini siriani.
Sabato migliaia di drusi israeliani parteciperanno a Tel Aviv a una manifestazione in cui invocheranno un emendamento a loro favore della legge su Israele Stato nazionale del popolo ebraico che dovrebbe essere ripresa in esame l’8 agosto dalla Knesset. Il governo comunque resta compatto nella difesa della legge malgrado le critiche espresse dal capo dello stato Rivlin e da decine di artisti, intellettuali e scrittori ebrei. La giornalista di Haifa Nahed Dirbas crede che la protesta drusa sia destinata a scemare nelle prossime settimane. «Aumenteranno gli obiettori ma alla fine a decidere per tutta la comunità drusa saranno come sempre i capi religiosi» ci dice «e con ogni probabilità si accontenteranno delle rassicurazioni del governo».
Il Fatto 2.8.18
Armi “stampate”: è plastica, ma fa male
La sentenza - Un giudice di Seattle vieta la circolazione on line delle istruzioni per la pistola in 3d
di Massimo Filipponi
“Un’arma di plastica stampata in 3D è molto più pericolosa per chi ce l’ha in mano piuttosto che per l’eventuale bersaglio”. Terry Wohlers, presidente di una delle aziende più attive nella realizzazione e commercializzazione delle stampanti in tre dimensioni, è chiaro: “La mia più grande paura è che degli innocenti, credendo fico scaricare i dati per farsi una pistola, prendano come obiettivo quello di sparare finendo per ferire se stessi o qualcuno altro”.
Grazie a un accordo tra l’amministrazione Trump e Defense Distributed, la società produttrice dei file delle spiegazioni per pistole “fai da te”, da ieri negli Usa potevano essere distribuiti on line le istruzioni per ottenere armi da fuoco stampate in 3D. Ma il clima di generale cautela che accompagna l’argomento ha indotto 8 Stati più il District of Columbia a ricorrere alla giustizia. E il giudice distrettuale di Seattle, Robert Laskin, ha vietato temporaneamente la diffusione online degli schemi numerici con cui riprodurre le armi con stampanti 3D private e programmato un’udienza per il 10 agosto.
Persino lo stesso Trump aveva fatto marcia indietro sulle “pistola fantasma” (definite così perché, pur funzionando come un’arma tradizionale, non vengono rilevate dai metal detector) e in un tweet aveva dichiarato: “Ho parlato con la Nra (National rifle association, la principale lobby pro armi, ndr), non sembra avere molto senso” sottointendendo la diffusione delle istruzioni on line.
Barbara Underwood, procuratrice generale di New York, esulta: “È una grande vittoria per senso comune e pubblica sicurezza. Sarebbe una follia dare ai criminali gli strumenti per costruire armi stampate in 3D non tracciabili e non rilevabili”. Non la pensa così Cody Wilson, fondatore di Defense Distributed e del sito Defcad che avrebbe dovuto diffondere gli schemi. Per Wilson, che ha promesso di intentare battaglia legale contro la decisione del tribunale di Seattle, “l’accesso alle armi da fuoco è un diritto umano fondamentale. Tutto ciò che sto facendo è protetto per legge e ricorrerò in appello, andrò fino alla Corte suprema, dedicherò tutto il mio tempo”.
Intanto, mentre il sito è stato chiuso mercoledì, vari file con istruzioni per stampare le armi erano già stati pubblicati online prima dell’ordine del giudice e sono stati scaricati migliaia di volte. In rete circolano da molto tempo testimonianze di costruttori improvvisati che hanno documentato attraverso le immagini le loro “creature”.
Nel 2016 un carpentiere di 47 anni del West Virginia – noto con lo pseudonimo di Derwood – avrebbe realizzato “nel suo garage un’arma semiautomatica con una stampante 3D. Si tratta di un fucile funzionante e pienamente legale senza alcun tipo di licenza o numero di serie”. Lo stesso Derwood però avverte: “La plastica attorno alla canna del fucile, dopo 18 colpi, inizia a fondersi. Se continui a sparare, i proiettili non raggiungono l’obiettivo”.