mercoledì 1 agosto 2018

il manifesto 1.8.18
Nave italiana riporta migranti in Libia. «È respingimento»
Respinti all'inferno. L’Asso 28 soccorre 101 persone. Fratoianni (Leu): «Intervento coordinato da Roma». Salvini: «No, dalla Guardia costiera libica»
di Leo Lancari


Se si tratta di un respingimento collettivo vietato dal diritto internazionale lo si capirà meglio nei prossimi giorni, una volta che saranno stati accertati i fatti. Di sicuro per ora ci sono solo due cose: per la prima volta una nave italiana ha riportato in Libia un gruppo di migranti tratto in salvo in acque internazionali, anche se riconosciute come zona Sar libica e – soprattutto – quanto accaduto rischia di essere il nuovo tassello della politica anti migranti del governo giallo verde. Un passaggio che preoccupa sia l’Unione europea che l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che ieri hanno ricordato all’Italia come la Libia non possa essere considerato un Paese sicuro per le continue violazioni ai diritti umani dei migranti.
I fatti. Lunedì il rimorchiatore Asso 28 dell’armatore napoletano Augusta Offshore è in servizio di assistenza alla piattaforma petrolifera «Sabratah», che l’Eni gestisce insieme alla società libica Noc a 57 miglia da Tripoli. Alle 14,30, secondo la ricostruzione fatta dallo stesso armatore, riceve la segnalazione di un gommone con 101 persone a bordo in difficoltà a 1,5 miglia di distanza.
E qui c’è un punto decisivo da chiarire. Da chi è partita la segnalazione di soccorso? Per il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, che in questi giorni si trova imbarcato sulla nave Open Arms dell’ong spagnola Proactiva, l’allarme sarebbe arrivato da Mrcc di Roma, il centro di coordinamento dei soccorsi della Guardia costiera italiana. «Sul sistema Navetx – spiega il deputato facendo riferimento al sistema utilizzato dalle navi per inviare le richieste di soccorso – abbiamo ricevuto un messaggio rilanciato da Imrcc Malta ma proveniente da Imrcc Roma in cui si segnalava un gommone blu in difficoltà in area libica. Poco dopo il Colibrì, un aereo da ricerca francese, dà comunicazione a tutti, dunque all’Italia, a Malta e ai libici di altri due gommoni bianchi in difficoltà a nord di Sabratah, nei pressi di una piattaforma petrolifera». Una versione smentita dal ministro degli Interni Salvini, secondo il quale a coordinare l’intervento sarebbe stata la Guardia costiera di Tripoli. «Le ong protestano e gli scafisti perdono affari? Bene, noi andiamo avanti così», scrive su Facebook con i soliti toni sprezzanti. Versione, quella del titolare del Viminale, confermata in seguito anche dall’armatore e dal ministro dei Trasporti Toninelli, secondo il quale la Guardia costiera italiana non sarebbe stata coinvolta nelle operazioni di salvataggio.
Fatta sta che una volta raggiunto il gommone l’Asso 28 prende i migranti a bordo dove si trovano anche rappresentanti non meglio identificati delle autorità libiche. E scortato da una motovedetta libica sopraggiunta nel frattempo fa rotta verso Tripoli dove arriva lunedì sera e dove il gruppo, del quale fanno parte anche cinque bambini e altrettante donne incinta- viene fatto sbarcare.
Sulla vicenda adesso l’Unhcr ha aperto un’indagine: «Stiamo raccogliendo tutte le informazioni necessarie – spiega su Twitter -. La Libia non è un porto sicuro e questo fatto potrebbe comportare una violazione del diritto internazionale». Ma la preoccupazione per quanto accaduto e per le possibili conseguenze è pressoché unanime. Intervengono Magistratura democratica, l’Arci, Amnesty international e l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, mentre il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma sottolinea come, se le notizie riportate dalle agenzie verranno confermate, «si tratterebbe di un episodio che si potrebbe configurare come respingimento collettivo».
Un parere condiviso anche da Marina Castellaneta, ordinario di diritto internazionale a Bari: «In base a tutte le convenzioni internazionali lo Stato deve fare in modo che chiunque faccia richiesta di asilo venga tutelato e seguito in questa richiesta – spiega la docente -. E dunque ha l’obbligo che le sue navi, quelle che battono la sua bandiera, non effettuino dei respingimenti».

La Stampa 1.8.18
“La Libia non è un porto sicuro”
Dopo la lite Roma-Parigi torna in mare Aquarius: “Non riporteremo in Libia i migranti soccorsi”
Salpa da Marsiglia la nave di soccorso di Sos Mediterranée gestita in partnership con Msf. In 500 firmano un appello in suo sostegno, tra loro l’ex premier Letta. Si indaga su Asso 28


Torino A giugno, con i suoi 629 migranti lasciati alla deriva, era diventata un simbolo. L’emblema di una crisi migratoria e diplomatica. Da una parte la Francia che aveva definito «vomitevole» l’atteggiamento del nuovo governo giallo-verde. Dall’altra l’Italia che «chiudeva i porti», come annunciato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, e chiedeva maggiore solidarietà nell’accoglienza da parte degli altri Stati europei. Una lite che aveva messo a rischio il primo incontro a Parigi tra il presidente francese Emmanuel Macron e il premier Giuseppe Conte. Oggi, quasi due mesi dopo, la nave Aquarius riprende il mare con l’obiettivo dichiarato di essere «una sentinella civile del Mediterraneo».
“La Libia non è un porto sicuro”
L’imbaracazione di soccorso è noleggiata dalla Ong Sos Mediterranée e gestita in partnership con Medici senza frontiere (Msf). Questi ultimi hanno specificato, in un comunicato stampa, che Aquarius intende «continuare a salvare vite umane» ma «fino a quando la Libia non potrà essere considerato un porto sicuro, non farà sbarcare alcuna persona soccorsa in un porto libico». «Il nostro obiettivo - spiega Claudia Lodesani, presidente di Msf Italia - resta di salvare vite umane, impedire che uomini, donne, bambini anneghino e portarli in un porto sicuro dove i loro bisogni primari siano assicurati e i loro diritti tutelati». Anche Sos Mediterranée «ribadisce questi principi dopo le consulenze ricevute da parte di esperti legali». Frederic Penard, direttore delle operazioni di Sos Mediterranee, denuncia: «Oltre 1100 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale dallo scorso gennaio, di cui quasi due terzi (721) dall’inizio di giugno quando ai mezzi di soccorso civile è stato impedito di operare nelle acque internazionali a largo della Libia».
L’appello dei 500
Cinquecento persone del mondo della politica, della cultura e della società civile hanno firmato un appello, pubblicato su Le Monde, a favore della nave pronta a salpare questo pomeriggio da Marsiglia. Tra questi ci sono anche l’ex premier italiano Enrico Letta, l’attrice Juliette Binoche, il fotografo Yann-Arthus-Bertrand, lo scrittore premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio, l’economista Thomas Piketty, lo scrittore Daniel Pennac, l’ex calciatore campione del mondo Lilian Thuram e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. «Noi firmatari sosteniamo la missione dell’Aquarius», si legge nell’incipit della lettera in cui si denuncia come «esseri umani continuano a morire nel tentativo di fuggire dall’inferno libico».
Il giallo di Asso 28
Il ritorno in mare di Aquarius arriva all’indomani del giallo sull’operazione di Asso 28, un rimorchiatore battente bandiera italiana che ha riportato 101 migranti a Tripoli. L’ordine, secondo quanto riferito da Salvini e dal collega ai Trasporti Danilo Toninelli, sarebbe arrivato dalla Guardia costiera libica che avrebbe gestito in autonomia l’operazione. Fonti qualificate de La Stampa possono confermare che le autorità italiane sapevano cosa stava succedendo a largo della Libia, ma non sono intervenute per fermare Asso 28. L’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e il deputato Nicola Fratoianni hanno denunciato il primo «respingimento collettivo» da parte del governo. La Commissione europea e l’Unhcr stanno cercando di capire se ci sono state o meno violazioni del diritto internazionale da parte dell’Italia o del rimorchiatore che operava in supporto alla piattaforma estrattiva di Sabratah. Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, citata dal Guardian, sono almeno 350 le persone riportate in Libia durante la notte del 30 luglio.
A Tripoli, intanto, sono stati rilasciati quattro giornalisti libici - che lavorano per Reuters e Afp - trattenuti dalle autorità da ieri sera. I quattro si occupavano di questioni legati all’immigrazione illegale.

il manifesto 1.8.18
Ahed Tamimi: l’occupazione ci prende anche la giovinezza
Intervista. Parla la 17enne di Nabi Saleh divenuta un simbolo della resistenza palestinese per gli schiaffi dati a due soldati lo scorso dicembre. ‎«Gli israeliani mi accusano di essere una ragazza violenta ma la vera violenza è quella che compie l'occupazione che ci ruba la terra, ci imprigiona e ci nega la libertà»‎
di Michele Giorgio


NABI SALEH  Il giardino di casa Tamimi nel villaggio cisgiordano di Nabi Saleh in questi giorni è ‎una enorme sala d’attesa per giornalisti, delegazioni, amici e parenti. Tutti, ‎rispettando una rigida agenda di incontri, attendono il proprio “turno” per salutare, ‎intervistare o semplicemente per stringere la mano ad Ahed Tamimi. Il simbolo ‎della resistenza palestinese, scarcerata domenica da Israele, è tornata a casa dopo ‎otto mesi in prigione assieme alla mamma Nariman, condannata alla stessa pena ‎detentiva per aver filmato e postato sui social gli schiaffi dati dalla figlia a due ‎soldati israeliani lo scorso dicembre. Basem Tamimi, padre di Ahed e noto attivista, ‎è il più attento ai bisogni dei presenti. Trova comunque il tempo di chiederci ‎informazioni sulla vicenda di Jorit Agoch, il writer napoletano detenuto dalla ‎polizia israeliana e poi rimandato in Italia (non potrà ritornare in Israele e nei ‎Territori occupati per i prossimi dieci anni) perché ha realizzato sul Muro che divide ‎Betlemme da Gerusalemme un bellissimo enorme ritratto di Ahed Tamimi. La ‎ragazza, 17 anni compiuti lo scorso gennaio, appare nel giardino qualche minuto ‎dopo. Sul volto porta la fatica tre giorni passati tra centinaia di persone e sotto i ‎riflettori di tutto il mondo. Dice di aver dormito poco. Però non rinuncia ad ‎rispondere alle domande dei giornalisti. ‎
Cominciamo dal giorno in cui hai preso a schiaffi i soldati israeliani.
Ero molto nervosa per quello che stava accadendo intorno a me. (Donald) Trump ‎qualche giorno prima proclamato Gerusalemme capitale di Israele e i soldati ‎israeliani avevano ucciso o ferito tanti palestinesi durante le proteste (seguite ‎all’annuncio del presidente Usa,ndr). In più mio cugino Mohammed, poco più di un ‎bambino, era stato ferito gravemente alla testa da un proiettile sparato dai soldati. ‎Cose avvenute tutte insieme che mi hanno portato a reagire in quel modo nei ‎confronti di chi occupa la nostra terra. Penso sia una reazione comprensibile da ogni ‎persona costretta vivere le mie stesse esperienze. Comunque anche se avessi saputo ‎che quel gesto mi avrebbe portato per mesi in prigione, avrei agito ugualmente in ‎quel modo.‎
Le autorità israeliane ti definiscono una ragazzina aggressiva e con una storia di ‎violenza.‎
Violenta piuttosto è l’occupazione israeliana che priva i palestinesi della libertà, ‎che prende le nostre terre, demolisce le nostre case, uccide ragazzini o li mette in ‎prigione. E ce ne sono tanti in carcere in questo momento in cui sto parlando che ‎scontano delle condanne molto severe e non dobbiamo dimenticarli. Gli israeliani ‎non hanno diritto di accusarmi e di accusare altri palestinesi di essere violenti. Allo ‎stesso tempo penso che la nostra lotta si possa esprimersi in varie forme, anche ‎diffondendo la nostra cultura, spiegando ai cittadini di altri paesi le ragioni e la ‎storia del popolo palestinese.‎
Torniamo ai giorni successivi all’arresto. Durante gli interrogatori ti è stata ‎assicurata la protezione che si deve ad una adolescente in stato di detenzione? ‎
Non mi hanno mai trattata come un’adolescente e neppure come una adulta o ‎come dovrebbe essere trattato qualsiasi essere umano. Mi hanno messo in cella con ‎detenute per reati comuni, criminali che mi rivolgevano offese volgari. Durante gli ‎interrogatori minacciavano di punire la mia famiglia. Non hanno mai permesso ai ‎miei familiari di essere presenti e nella stanza dove di volta in volta venivo portata ‎c’erano sempre solo uomini. In nessun caso una donna è stata presente agli ‎interrogatori. ‎
Sei molto giovane, la prigione ti avrà privata di tante cose.‎
Davvero molte. Prima di tutto gli affetti della famiglia. Mia madre era nella ‎stesso carcere ma non potevo vederla perché si trovava in una sezione dove non ‎potevo accedere. Mi è mancato passare del tempo e scherzare con mio fratello. Mi ‎sono mancate le mie amiche, passeggiare assieme a loro. Sono state tante le cose che ‎avrei voluto fare e non ho potuto. In carcere però ho studiato per non perdere ‎l’ultimo anno delle superiori e sono riuscita a sostenere gli esami della maturità ‎‎(dopo una serie di proteste negli anni passati, le autorità israeliane hanno concesso ‎ai detenuti politici palestinesi di poter continuare gli studi in cella, anche se con ‎modalità e condizioni molto particolari, ndr). ‎
Come vedi la tua vita di adolescente nell’immediato futuro e da giovane adulta ‎negli anni che verranno?‎
Sto vivendo una fase molto complessa. Ho vissuto un’esperienza dura dalla quale ‎sono uscita molto provata. In questi giorni mi sento stanca e provo un malessere ‎generale. Penso che l’occupazione israeliana e il carcere mi abbiamo preso una parte ‎della vita e della giovinezza. Ho perduto sul piano personale qualcosa che non ‎riuscirò a recuperare. Questo è il prezzo che tutti noi palestinesi siamo costretti a ‎pagare a causa dell’occupazione . Malgrado ciò sono pronta a pagarlo se alla fine di ‎questo tunnel c’è la liberazione del nostro popolo.‎
Credi che sia ancora possibile una soluzione giusta per i palestinesi?‎
La soluzione è tornare a prima dell’occupazione della Palestina quando gli ebrei e ‎i palestinesi cristiani e musulmani vivevano in pace rispettandosi tra di loro. I ‎problemi esistono a causa dell’ideologia sionista. I palestinesi non sono contro gli ‎ebrei e l’Ebraismo ma contestano il Sionismo e l’occupazione.‎
Intendi che la soluzione è tornare al prima del 1948?‎
Anche più indietro perché prima del 1948 c’erano il colonialismo e il Mandato ‎della Gran Bretagna. Prima di ciò, da quanto ho letto nei libri e ho ascoltato dai ‎nostri anziani, esisteva una clima di pace e di ottime relazioni tra tutte le ‎componenti della società.‎
Dopo la tua scarcerazione hai dichiarato che in futuro avrai un ruolo in politica, ‎resterai indipendente o pensi di entrare in un partito politico?‎
Continuerò a partecipare attivamente alla lotta per i diritti del mio popolo ma ‎non intendo unirmi ad alcuna forza politica. La Palestina e i palestinesi non ‎appartengono a un partito o a un movimento politico.‎
Come giudichi le divisioni tra le forze politiche palestinesi, tra Cisgiordania e ‎Gaza?‎
In modo del tutto negativo naturalmente. Queste divisioni e la rivalità non ‎aiuteranno un alcun modo la nostra causa. Solo l’unità potrà dare ai palestinesi la ‎libertà.‎
Proseguirai gli studi?‎
Senza dubbio. Non ho ancora deciso bene ma andrò all’università. Sono orientata ‎a studiare diritto internazionale, perché credo che la conoscenza delle leggi ‎internazionali potrà darmi gli strumenti per aiutare il mio popolo.‎
Quanto peserà sul tuo futuro la notorietà e il simbolo della resistenza ‎all’occupazione che oggi rappresenti per tutti i palestinesi.‎
Sono la ragazza di sempre, non sono cambiata ma sento il peso sulle mie spalle di ‎questa notorietà. Tuttavia è anche una grande opportunità che mi viene offerta, ‎quella di diffondere informazioni su quanto accade nella mia terra, al mio popolo, e ‎di parlare della condizione dei detenuti (palestinesi) nelle carceri israeliane. ‎

Repubblica 1.8.18
L’inchiesta
Ultrà e neofascisti i mercenari italiani al servizio di Putin
di Giuseppe Filetto e Marco Lignana

Genova Quella scritta comparsa sul muro di una chiesa di La Spezia — "Anna Frank non l’ha fatta Frank" — accompagnata da una svastica, poi le altre nei pressi di un centro per migranti sono state il filo rosso che ha portato i carabinieri del Ros a imbattersi su un gruppo di foreign fighter italiani, finiti a combattere per Vladimir Putin contro l’Ucraina. Il resto l’hanno fatto i social network, dove alcuni soggetti, tutti vicini all’ultradestra e alla Lega Nord, hanno postato le loro foto sui campi di battaglia, imbracciando mitra, accanto ai guerriglieri filo russi. Tant’è che la Procura di Genova ha indagato dieci persone. La magistratura al momento contesta il reato di arruolamento illecito di guerra al servizio di uno stato estero. Per la legge italiana sono mercenari. Per le autorità di Kiev, che hanno dato mandato al loro ambasciatore a Roma di presentare una denuncia, sarebbero almeno 25: una lista redatta dai servizi segreti ucraini.
Neofascisti italiani che scelgono di andare a combattere nell’esercito del Donbass, la regione che si è staccata dall’Urss ma la cui popolazione è ad alta percentuale russa e vorrebbe tornare sotto Mosca, tanto che la situazione politica ha portato alla guerra civile. Tra loro Andrea Palmeri, di 38 anni, storico capo degli ultrà della Lucchese. Già condannato in contumacia a due anni di carcere dalla Corte di Appello di Firenze per associazione a delinquere, latitante, sul suo profilo Facebook si definisce neo- fascista e posta le foto del Duce, perciò complimentato dagli amici. Per il pm Federico Manotti (pool antiterrorismo) e per il procuratore capo Francesco Cozzi sarebbe l’uomo su cui ruota il gruppo finito sul fronte Ucraino- Russo. Nella curva della Lucchese lo chiamano "Il Generalissimo", per i magistrati genovesi sarebbe l’arruolatore dei foreign italiani e l’anello di collegamento tra questi ed i Lupi di Putin.
Nel fascicolo genovese, come ha raccontato l’Espresso lo scorso anno, oltre Palmieri sono finiti altri due combattenti italiani e un ucraino. Si tratta di Antonio Cataldo, di 33 anni, nato a Nola, in Campania, e Gabriele Carugati, trentenne di Cairate. Quest’ultimo è un’ex guardia giurata di un centro commerciale lombardo e sua mamma è l’ex segretaria della Lega Nord della cittadina comasca. Sui social, oltre alle foto del raduno di Pontida 2015, pubblica anche la sua in tuta mimetica; dice di trovarsi a Donetsk, una delle due città più importanti della regione ( patria della squadra di calcio Shaktar).
Cataldo è invece un ex militare che vanta esperienze di guerra in Libia, sul suo profilo Facebook dice di essersi addestrato in Russia e di avere scelto il fronte separatista filorusso per soldi. In ambienti nazifascisti italiani si parla di 50mila euro per l’arruolamento in prima linea. La Procura di Napoli tempo addietro lo aveva indagato per terrorismo, ma poi ha archiviato il caso con una motivazione che esclude le finalità eversive.
Tra chi è finito sotto indagine dalla Procura e dal Ros vi è pure il moldavo Vladimir Verbitchii, nome di battaglia " Parma". Per un certo periodo ha abitato nella città emiliana e sostiene di aver partecipato come paracadutista ad addestramenti in Emilia Romagna, condotti da militari italiani.
L’inchiesta genovese potrebbe sembrare il culmine di un percorso investigativo iniziato tempo fa. In realtà è solo l’inizio: «Nelle prossime ore ci saranno altri importanti sviluppi», si è limitato a dire ieri il procuratore capo Cozzi.
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