martedì 31 luglio 2018

il manifesto 31.7.18
«Volevano colpire una donna nera». Aggredita Osakue
Odio cieco. Daisy Osakue, torinese di 22 anni, figlia di genitori nigeriani: «Andrò fino in fondo». Ma per i carabinieri il razzismo non c’entra
di Mauro Ravarino


«La situazione è già al limite, una persona dovrebbe essere libera di camminare la sera senza aver paura che qualcosa possa “volarle” in faccia. È stato un atto da codardi».
DAISY OSAKUE, torinese di 22 anni, figlia di genitori nigeriani, non sta né starà zitta. «Hanno preso la persona sbagliata, perché io andrò fino in fondo e spero che trovino presto i responsabili». Giovane promessa azzurra dell’atletica leggera (primatista nazionale under 23 del lancio del disco), Daisy è stata vittima, nella notte tra domenica e lunedì, di un’aggressione razzista a Moncalieri, mentre rincasava.
L’atleta è stata colpita da uova lanciate da un’auto in corsa a tutta velocità. «A mezzanotte e un quarto, tornavo a casa a piedi, dopo una visita a una persona di famiglia che si trova in ospedale e stavo attraversando sulle strisce pedonali, a Moncalieri dove vivo. Quando ho visto un’auto puntare verso di me, a bordo c’erano due ragazzi, ho accelerato l’andatura e sono corsa sul marciapiede, poco dopo ho sentito un forte dolore all’occhio. Ero stata colpita e mi sono accorta del liquido. Ero terrorizzata e ho urlato, perché pensavo fosse acido. Poi, sono stata soccorsa da alcuni passanti e mi sono tranquillizzata quando ho visto che si trattava di un uovo».
No, non siamo in Alabama, bensì a Moncalieri, nel circondario di Torino, profondo nord Italia. Fortunatamente, le sue condizioni fisiche sono meno gravi di quanto sembrassero inizialmente. «Non dovrò operarmi all’occhio: l’uovo lanciatomi questa notte ha provocato solo un’abrasione alla cornea con versamento di liquido sulla retina che guarirà con un po’ di cortisone. Ora sono molto più serena», ha detto all’uscita dall’ospedale oftalmico di Torino. Comunque, è pronta a partire per gli Europei di Atletica, che inizieranno il 6 agosto: «Cascasse il mondo, ma a Berlino vado assolutamente».
CORAGGIOSA, FORTE E LUCIDA Daisy, con la benda all’occhio sinistro, spiega: «L’hanno fatto apposta. Non volevano colpire me come Daisy, volevano colpire me come ragazza di colore. In quella zona ci sono diverse prostitute, mi avranno scambiata per una di loro. Mi era già capitato di essere vittima di episodi di razzismo, ma solo verbali. Quando però si passa all’azione, significa che si è superato un altro muro».
L’AUTO dalla quale sono state lanciate le uova, sarebbe stata già segnalata alle forze dell’ordine da alcuni residenti, che avevano assistito altre volte a scene analoghe. Per questo motivo i carabinieri, che indagano sull’accaduto, non propendono sul movente razziale, perché è il terzo episodio negli ultimi giorni e con bersagli sempre diversi. Non si può, però, minimizzare. Quello di Daisy Osakue è l’ultimo episodio di una lunga striscia di violenza e razzismo che quest’anno si è evoluta dal primo caso, quello di Macerata dello scorso 3 febbraio (quando Luca Traini ha ferito sei stranieri per «vendicare» Pamela Mastropietro) e che conta ben undici episodi nelle ultime sette settimane.
L’ATLETA dà indirettamente una lezione di civiltà al salvinismo dilagante: «Il razzismo è in tutto il mondo e se c’è un problema nella nazione, non capisco perché dare la colpa a questo o quell’altro. Ci sono buoni e cattivi ovunque e generalizzare su una minoranza è sbagliato. È la stessa cosa che faceva Hitler con gli ebrei: cosa successe poi?».
Daisy ha respirato sport sin da piccola: papà judoka, mamma giocatrice di pallamano. Prima di cimentarsi con l’atletica, ha iniziato con il tennis, per sei anni. Solo a 12 anni si è spostata sull’atletica, alla Sisport di Torino, sua città natale. La sua carriera agonistica è stata a lungo impostata sulle prove ad ostacoli, che le hanno regalato un titolo italiano cadette nel 2011. Nel tempo emergono, però, le sue attitudini da lanciatrice: nel peso e nel disco. Daisy cresce come atleta sotto l’ala dell’ex discobola azzurra Maria Marello. Nel gennaio 2017, si è anche trasferita alla Angelo State university, in Texas, dove studia criminologia, mostrando notevoli progressi sportivi fino alla migliore prestazione italiana under 23 nel disco: 57.49 metri ad Abilene, a marzo. Un limite portato, il 7 aprile 2018, a 59.72, record italiano promesse e quarta migliore prestazione di sempre tra le discobole italiane. A Berlino dimostrerà il suo talento: «Sono di colore, fiera delle mie origini, ma mi sento italianissima.
PER ARRIVARE A INDOSSARE la maglia azzurra si deve fare una gran fatica. Quelli, a cui non va giù che lo facciano atleti di colore parlano di solito dal divano». Osakue è anche iscritta ai Giovani Democratici del Pd, con i quali porta avanti la battaglia per lo ius soli. Resta convinta che l’Italia «non sia razzista, solo che certe volte fa sfogare il suo lato peggiore». Il consiglio comunale di Torino ha espresso solidarietà all’atleta. I consiglieri regionali di LeU hanno partecipato al presidio spontaneo antirazzista in piazza Castello.

Il Fatto 13.7.18
Daisy, campionessa colpita al volto: “Miravano a me”
A Moncalieri - L’atleta azzurra ferita all’occhio sinistro da un uovo lanciato da un’auto. Cautela degli inquirenti sul movente xenofobo
Daisy, campionessa colpita al volto: “Miravano a me”
di Ferruccio Sansa


“Divento cieca, ho pensato sentendo quel colpo all’occhio. Ma dopo un secondo mi è venuto un flash: oddio, perdo i campionati Europei di atletica! Li sogno da quando avevo sedici anni… per me, per la mia famiglia e per l’Italia. E in un attimo rischiava di andare tutto in fumo: anni di allenamento, ore e ore, tutti i giorni. Per colpa di un razzista”. Daisy Osakue lunedì sera camminava per strada a Moncalieri, dove Torino e la periferia si incontrano tra incroci e superstrade. È stata colpita da un uovo in faccia, dritto nell’occhio. Poi la corsaall’ospedale oftalmico, il terrore che la primatista italiana di lancio del disco under 23 perdesse i campionati di Berlino tra dieci giorni. Alla fine un soffio di ottimismo: ci sono lesioni alla cornea e alla retina, ma dovrebbe guarire. Adesso è nella sua casa di Moncalieri con una benda sull’occhio tumefatto.
La guardi e capisci perché è una campionessa: il fisico forte, ma agile; l’energia dei 22 anni. Ma soprattutto l’entusiasmo che apre il volto in un sorriso bianchissimo. Accanto a lei ci sono i due fratelli e i genitori. E decine di medaglie, coppe, ritagli di giornale. “Li ha messi lei… cuore di mamma”, usa un’espressione che più italiana non si può. Racconta: “C’era quel Doblò, o forse una Multipla. Appena mi ha vista, ha puntato verso di me. Poi ho sentito un dolore forte, ho pensato fosse acido”.
Adesso, però, non è l’occhio che le fa più male, ma il pensiero di essere stata colpita perché nera. “Non ho dubbi. In quella strada ci sono ragazze africane che si prostituiscono. Mi hanno scambiata per una di loro”. Ora tutti temono che la ferita spezzi l’alchimia perfetta di corpo e testa che ha portato Daisy ai vertici dell’atletica. Pare di no: la rabbia è diventata sana ‘cattiveria’. “Se avessero colpito una di quelle povere ragazze nessuno avrebbe saputo di questo schifo – sorride Daisy –, ma hanno preso me, non li mollerò finché non li prenderanno”. Papà Iredia fa gli scongiuri strofinando una medaglia. Lui che era campione di judo, mentre la moglie giocava a pallamano. Sono ancora nigeriani, come i due figli minorenni. Daisy no, a 18 anni è diventata italiana. Ma ha dovuto sudarselo, racconta Maria Marello, la sua allenatrice: “È un’atleta nata, prima il tennis, poi la corsa, infine il lancio del disco. Ma a 16 anni, nonostante i risultati eccezionali, non ha potuto gareggiare nei campionati internazionali perché non aveva il passaporto”.
Sport, riscatto e identità che si intrecciano. “La mia famiglia viene dalla Nigeria, ma io sono nata in Italia. Respiro Italia, mangio Italia. Questo è il mio Paese”. Nonostante tutto: “Mi hanno già insultata per strada. Mai, però, un’aggressione. Non ci rendiamo conto che stiamo per superare un confine. C’è gente che dice cose terribili in tv e qualcuno si sente autorizzato ad agire”.
Daisy non ha dubbi, è stato razzismo. Ma i carabinieri sono molto più cauti nel parlare di movente razzista: nella stessa zona c’erano già stati due lanci di uova, contro la casa di un pensionato e un gruppo di donne italiane che uscivano da un ristorante. Senza contare altri episodi che, riferiscono i carabinieri, non sarebbero stati denunciati. Ma secondo Daisy l’auto aspettava lei. E alla fine quei tizi hanno rischiato di far male anche all’Italia. Perché l’atletica tricolore si sta risvegliando grazie a loro: delle 17 medaglie conquistate ai mondiali juniores del 2017, 8 hanno origini straniere.
Ora indagherà la Procura di Torino guidata da Armando Spataro, che ha disposto un giro di vite contro i reati razziali. Quello di Daisy non è l’unico caso di potrebbero occuparsi: ieri Laura Pompeo, assessore di Moncalieri, ha denunciato un altro episodio. In un ufficio pubblico, con decine di persone in coda, si è sentita la suoneria di un cellulare. Era una preghiera araba. E una donna italiana ha cominciato a urlare e insultare: “Tornatene a casa tua”.
Ma Daisy sulla porta ti saluta sorridendo: “Il 9 agosto guardatemi tutti”. Contro chi lancia le uova ai neri, lei tirerà un disco per l’Italia.

Il Fatto 31.7.18
Ci vuole orecchio per battere Salvini
di Tomaso Montanari


Caro direttore, Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini. Ho dedicato un piccolo libro (Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità, Edizioni del Gruppo Abele) al dovere di – sono parole di Bobbio – non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza: e lì ho indicato proprio in Saviano uno dei non molti intellettuali liberi, e disposti a schierarsi. Su Salvini, poi, ho preso la parola in ogni sede: scrivendo, tra l’altro, la prefazione al libro che Antonello Caporale e Paper First hanno dedicato al “ministro della paura”.
Ma rompere il silenzio non basta. Racconta Emilio Lussu di un comizio in cui, quando un ascoltatore reclamò: “voce!”, si sentì rispondere: “orecchio!”. Per battere questa destra orrenda serve più orecchio che voce. Ci vuole ascolto, per capire perché (oltre al tessuto ricco, e talvolta razzista, del Nord che da anni si riconosce nel potere della Lega) anche i poveri, gli ultimi, gli “scartati” (come li chiama papa Francesco) hanno votato in massa per le forze che si sono saldate in questo governo. E perché, nonostante tutto, continuano a sostenerle. Se non lo capiamo, rischiamo di maledire un sintomo (Salvini) senza curare la malattia. È un problema di credibilità, certo: nessuna voce contro Salvini è sincera se non ha detto, o non dice, che Marco Minniti ha fatto di peggio, anche se lontano dalle telecamere.
O se non dice che il Dario Nardella che si fa riprendere mentre spiana con le ruspe un campo rom a Firenze è un sintomo della stessa malattia. E così via. Ma c’è qualcosa di terribilmente più profondo. Come si fa a chiedere agli italiani sommersi e sfruttati di stringersi intorno ai valori della Costituzione proprio mentre Sergio Mattarella, massimo garante della Carta e del suo primo articolo, si genuflette di fronte a un Sergio Marchionne? Questi è stato un formidabile campione della anti-costituzione materiale per cui lavoro e diritti non sono compatibili: se vuoi il primo, devi rinunciare ai secondi. Come si fa a non vedere che tra la canonizzazione di Marchionne e il consenso a Salvini c’è un nesso strettissimo? Come possiamo pensare che gli italiani in difficoltà ascoltino i nostri appelli antifascisti se essi sono sostenuti dallo stesso establishment che esalta Marchionne, il quale non ha voluto restituire all’Italia, e a ciò che resta del suo stato sociale, nemmeno i soldi delle tasse sul proprio gigantesco patrimonio? Come sperare che vengano ascoltati giornali e partiti nei quali Marchionne è esaltato come un super-uomo, in vita e in morte lontano anni luce dai sotto-uomini che muoiono sul lavoro, il corpo oscenamente sfranto in pubblico, o affogano aggrappati al relitto di una barca, sotto l’occhio delle telecamere?
Tutto l’establishment che chiama al conflitto contro Salvini è quello che diceva e dice che non è possibile alcun conflitto sociale: che è invece lo strumento per creare giustizia sociale, ed è stato disinnescato proprio dal Partito Democratico e dai suoi sostenitori. Quando Salvini dice “prima gli italiani”, nessuna risposta è credibile se non afferma la necessità di un conflitto invece “tra gli italiani”: tra i poveri e i ricchi, che “non vogliono le stesse cose” (Tony Judt).
Alla sinistra dei politici, professori, giornalisti paghi di appartenere alla ristretta cerchia dei salvati, disinteressati a cambiare il mondo e capaci solo di parlare di “austerità” e “responsabilità”, è subentrata una destra con una visione terribile e propagandistica, sanguinosa e fasulla. Salvini sa benissimo che non potrà cambiare in meglio la vita degli italiani: ed è per questo che accende la miccia della caccia al nero.
Ma nessuna risposta capace di erodere questo disperato consenso può fermarsi alla proclamazione delle ragioni dell’umanità. Carlo Smuraglia ha di recente ricordato che “ben pochi giovani sarebbero stati disposti a prendere le armi e a cacciare i fascisti solo per tornare allo Statuto albertino: quello in cui il sovrano concedeva, di sua iniziativa, i diritti al popolo”. Ebbene, davvero pensiamo di convincere gli italiani a una nuova (e ovviamente diversa) resistenza, solo per tornare all’Italia del Pd (e che sia il Pd di Renzi o Zingaretti davvero poco cambia), dell’inutile e distruttivo Tav, del Jobs Act, e di tutto il resto?
Bisogna saper vedere, e saper dire, che Salvini è il sintomo terribile, e finale, della malattia che ha devastato questo Paese anche “grazie” a ciò che chiamavamo “sinistra”. Bisogna saper indicare un’altra strada per costruire giustizia, eguaglianza, inclusione. Rompiamo il silenzio con tutta la forza che abbiamo, d’accordo: ma, per capire cosa davvero dobbiamo dire, bisogna prima saper ascoltare il Paese. Mai come oggi “ci vuole orecchio”.

Corriere 31.7.18
Confini e Conflitti
Il patriottismo è un prodotto culturale che può diventare un pericoloso veleno se portato all’esasperazione
L’unica nazione è l’umanità
Bisogna opporsi a chi usa le identità particolari per alimentare i conflitti
di Carlo Rovelli


L’unica nazione è l’umanità. Bisogna opporsi a chi usa identità particolari per alimentare i conflitti. Il patriottismo è un prodotto culturale che, esasperato, diventa veleno.
La Gran Bretagna è un vecchio Paese. Il mio Paese, l’Italia, è giovane. Entrambi sono orgogliosi del loro passato. Entrambi sono contrassegnati da marcati caratteri nazionali: è facile identificare gli italiani o gli inglesi, tra la folla di un aeroporto internazionale. Riconosco facilmente l’italiano in me: non riesco a dire nulla senza agitare le mani, ci sono antiche pietre romane nelle cantine della mia casa a Verona, e gli eroi nella mia scuola erano Leonardo e Michelangelo ...
Eppure questa identità nazionale è solo uno strato sottile, uno tra tanti altri, assai più importanti. Dante ha segnato la mia educazione, ma ancora più lo hanno fatto Shakespeare e Dostoevskij. Sono nato nella bigotta Verona, e andare a studiare nella libertina Bologna è stato uno shock culturale. Sono cresciuto all’interno di una determinata classe sociale, e condivido abitudini e preoccupazioni con le persone di questa classe in tutto il pianeta più che con i miei connazionali. Sono parte di una generazione: un inglese della mia età è molto più simile a me di un veronese dall’età diversa. La mia identità viene dalla mia famiglia, unica, come è unica ogni famiglia, dal gruppo dei miei amici d’infanzia, dalla tribù culturale della mia giovinezza, dalla rete degli sparsi amici della mia vita adulta. Viene soprattutto dalla costellazione di valori, idee, libri, sogni politici, preoccupazioni culturali, obiettivi comuni, che sono stati condivisi, nutriti, per i quali abbiamo combattuto insieme, e che sono stati trasmessi in comunità che sono più piccole, o più grandi, o completamente trasversali ai confini nazionali. Questo è ciò che siamo tutti noi: una combinazione di strati, incroci, in una rete di scambi che tesse l’umanità intera nella sua multiforme e mutevole cultura.
Non sto dicendo che cose ovvie. Ma allora perché, se questa è la variegata identità di ciascuno di noi, perché organizziamo il nostro comportamento politico collettivo in nazioni e lo fondiamo sul senso di appartenenza a una nazione? Perché l’Italia? Perché il Regno Unito?
La risposta, ancora una volta, è facile: non è il potere che si costruisce attorno a identità nazionali; è viceversa: le identità nazionali sono create dalle strutture di potere. Visto dal mio giovane e ancora un po’ disfunzionale Paese, l’Italia, questo è forse più facile da notare che non dall’interno dell’antico e nobile Regno di sua maestà la regina. Ma è la stessa cosa. Non appena emerso, generalmente con fuoco e furia, la prima preoccupazione di qualsiasi centro di potere — antico re o borghesia liberale del XIX secolo — è promuovere un robusto senso di identità comune. «Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani» è la famosa esclamazione di Massimo d’Azeglio, pioniere dell’unità d’Italia, nel 1861.
Sono sempre sorpreso di quanto diversa sia la storia insegnata in Paesi diversi. Per un francese, la storia del mondo è centrata sulla Rivoluzione francese. Per un italiano, eventi di dimensione universale sono il Rinascimento (italiano) e l’Impero romano. Per un americano, l’evento chiave per l’umanità, quello che ha introdotto il mondo moderno, la libertà e la democrazia, è la guerra di Indipendenza americana contro... la Gran Bretagna. Per un indiano, le radici della civiltà si trovano nell’era dei Veda... ciascuno sorride delle distorsioni degli altri, e nessuno riflette sulle proprie...
Leggiamo il mondo in termini di grandi narrazioni discordanti, che abbiamo in comune con i connazionali. Sono narrazioni create consapevolmente per generare un senso di appartenenza a famiglie fittizie, chiamate nazioni. Meno di due secoli fa c’era gente in Calabria che chiamava se stessa «greco», e non molto tempo fa gli abitanti di Costantinopoli chiamavano se stessi «romano»... e non tutti in Scozia o Galles hanno tifato Inghilterra nella coppa del mondo... Le identità nazionali non sono altro che teatro politico.
Non fraintendetemi. Non voglio suggerire che ci sia qualcosa di male in tutto questo. Al contrario: unificare popolazioni diverse — veneziani e siciliani, o diverse tribù anglosassoni — perché collaborino a un bene comune, è saggia e lungimirante politica. Se lottiamo tra noi stiamo ovviamente molto peggio che se lavoriamo insieme. È la cooperazione, non il conflitto, che giova a tutti. L’intera civiltà umana è il risultato della collaborazione. Qualunque sia la differenza tra Napoli e Verona, le cose vanno meglio per tutti senza frontiere fra l’una e l’altra. Lo scambio di idee e merci, sguardi e sorrisi, i fili che tessono la nostra civiltà, ci arricchisce tutti, in beni, intelligenza e spirito. Fare convergere persone diverse in uno spazio politico comune è vantaggio per tutti. Rafforzare poi questo processo con un po’ di ideologia e teatro politico, per tenere a bada i conflitti istintivi, montare la farsa di una Sacra Identità Nazionale, per quanto sia operazione fasulla, è comunque operazione utile. È prendere il giro le persone, ma chi può negare che la cooperazione è meglio del conflitto?
Ma è proprio qui che l’identità nazionale diventa un veleno. Creata per favorire la solidarietà, può finire per diventare l’ostacolo alla cooperazione su scala più larga. Creata per ridurre conflitti interni, può finire per generare conflitti esterni ancora più dannosi. Le intenzioni dei padri fondatori del mio Paese erano buone nel promuovere un’identità nazionale italiana, ma solo pochi decenni dopo questa è sfociata nel fascismo, estrema glorificazione di identità nazionale. Il fascismo ha ispirato il nazismo di Hitler. La passionale identificazione emotiva dei tedeschi in un singolo Volk ha finito per devastare la Germania e il mondo. Quando l’interesse nazionale promuove il conflitto invece che la cooperazione, quando alla ricerca di compromessi e regole comuni si preferisce mettere la propria nazione davanti a tutto, l’identità nazionale diventa tossica.
Politiche nazionaliste o sovraniste stanno dilagando nel mondo, aumentando tensioni, seminando conflitto, minacciando tutti e ciascuno di noi. Il mio Paese è appena ricaduto preda di questa insensatezza. Penso che la risposta sia dire forte e chiaro che l’identità nazionale è falsa. È buona se aiuta a superare interessi locali per il bene comune, è miope e controproducente quando promuove l’interesse di un gruppo artificiale, «la nostra nazione», invece che un più ampio bene comune.
Ma localismo e nazionalismo non sono solo errori di calcolo; traggono forza dal loro appello emotivo: l’offerta di una identità. La politica gioca con il nostro istintivo insaziabile desiderio di appartenenza. «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo hanno i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il suo capo...» offrire una casa fittizia, la nazione, è risposta fasulla, ma costa poco e paga politicamente. Per questo la risposta alla perniciosa ideologia nazionale non può essere solo un appello alla ragionevolezza, ma deve trovare l’anelito morale e ideologico che merita: glorificare identità locali o nazionali e usarle per ridurre la cooperazione su scala più ampia non è solo un calcolo sbagliato, è anche miserabile, degradante, e moralmente riprovevole.
Non perché non abbiamo identità nazionali — le abbiamo. Ma perché ognuno di noi è un crocevia di identità molteplici e stratificate. Mettere la nazione in primo luogo significa tradire tutte le altre. Non perché siamo tutti eguali nel mondo, ma perché siamo diversi all’interno di ciascuna nazione. Non perché non abbiamo bisogno di una casa, ma perché abbiamo case migliori e più nobili che non il grottesco teatro della nazione: la nostra famiglia, i nostri compagni di strada, le comunità di cui condividiamo i valori, che sono diffuse nel mondo; chiunque siamo, non siamo soli, siamo in tanti. E abbiamo un posto meraviglioso da chiamare «casa»: la Terra, e una meravigliosa, variegata tribù di fratelli e sorelle con i quali sentirci a casa e con i quali identificarci: l’umanità.

il manifesto 31.7.18
Razzismo, in Italia dodici aggressioni in cinquanta giorni
L’elenco delle aggressioni compiute di recente in Italia


L’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, si è detto ieri preoccupato per «il crescente numero di attacchi» compiuti in Italia contro cittadini stranieri. Di seguito l’elenco delle aggressioni.

11 giugno, Caserta: due ragazzi maliani, ospiti di un centro Sprar, vengono avvicinati da una Fiat Panda, a bordo della quale viaggiavano tre giovani italiani i quali hanno sparato alcuni colpi con una pistola ad aria compressa, al grido “Salvini Salvini”.

20 giugno, Napoli: Bouyangui Konate, cuoco maliano di 21 anni, rifugiato, viene colpito da due ragazzi con un fucile a piombini.

3 luglio, Forlì: una donna nigeriana viene avvicinata da un motorino, con due persone a bordo, dal quale parte un colpo da una pistola ad aria compressa che la ferisce a un piede.

5 luglio, Forlì: un uomo di 33 anni originario della Costa d’Avorio viene colpito all’addome con colpi esplosi da pistola ad aria compressa.

11 luglio, Latina: due uomini di origine nigeriana vengono raggiunti da proiettili di gomma esplosi da un’Alfa 155 nei pressi della fermata dell’autobus.

17 luglio, Roma: una bambina rom di poco più di un anno, viene raggiunta da un colpo di pistola ad aria compressa. Rischia di rimanere paralizzata.

26 luglio, Partinico: un richiedente asilo senegalese di 19 anni viene aggredito e picchiato mentre stava lavorando al bar da tre uomini che gli gridano: “Tornatene al tuo paese, sporco negro”.

26 luglio, Vicenza: un operaio di origine capoverdiana che lavorava su un ponteggio viene colpito alle spalle dai colpi di una carabina.

26 luglio, Aversa: un richiedente asilo della Guinea viene avvicinato da due ragazzi in moto, che gli sparano con un’arma ad aria compressa, colpendolo al volto.

28 luglio, Milano: un uomo di origine cingalese viene aggredito in un parco. L’agressore pretendeva che parlasse in italiano al telefono e lo ha minacciato con un taglierino sulla gola davanti alla figlia terrorizzata.

29 luglio, Aprilia: un uomo di origine marocchina viene picchiato a sangue da due uomini e muore, abbandonato sulla strada.

29 luglio, Moncalieri: Daisy Osakue, nazionale di atletica leggera, aggredita a Moncalieri mentre rincasava: da un’auto in corsa le sono state lanciate contro delle uova. L’atleta è stata colpita a un occhio ed è stata operata per una lesione alla cornea.

il manifesto 31.7.18
Hady Zuady, marocchino, 43 anni: la prima vittima dell’estate dell’intolleranza
Aprilia. Agro Pontino, tra ronde e sfruttamento della manodopera migrante. L'uomo perde la vita dopo un inseguimento in auto. Due italiani denunciati: «Non lo abbiamo picchiato»
di Giuliano Santoro


Dopo colpi di fucile che sparano piombini, pestaggi, aggressioni, è arrivato il morto. Potrebbe essere la prima vittima certificata dell’estate dell’intolleranza. Hady Zuady, cittadino marocchino di 43 anni con piccoli precedenti, è spirato nella notte tra sabato e domenica sulla via Nettunense, nel comune di Aprilia, località Campo di Carne.
Verso le due, la macchina su cui viaggiava ha sbandato. Poi, per qualche minuto, è stata raggiunta da tre uomini italiani, uno di questi è una guardia giurata.
C’è un video raccolto da una telecamera di sorveglianza che mostra i tre che affiancano la vittima ma poco si riesce a vedere di quanto è avvenuto quando l’hanno raggiunta. Gli inseguitori avevano intercettato l’automobile di Zuady a pochi minuti di distanza dal punto dell’incidente, parcheggiata nel loro condominio in atteggiamento considerato sospetto.
«Non abbiamo picchiato nessuno, non c’è stato alcun pestaggio, tantomeno a sfondo razziale», si difendono in lacrime. Negano anche che fossero organizzati in ronde.
«Eravamo sotto casa, saremo state una quindicina di persone tra cui alcuni bambini – è la versione della difesa – Abbiamo visto una macchina appostata al buio e qualcuno di noi si è avvicinato per capire chi ci fosse all’interno. Appena ci siamo mossi l’auto è partita a razzo e ha cercato di investirci».
Siamo nell’agro pontino, provincia di Latina. Imperversa l’abusivismo edilizio e lo sfruttamento nei campi della manodopera migrante. Qui la Lega nella sua veste sovranista ha promosso le «passeggiate» del decoro e della legalità. «Le facciamo anche in quella zona, ma non ci risulta in quel quartiere», dice il coordinatore provinciale Matteo Adinolfi, che viene dalla destra postfascista di Alleanza nazionale.
Due persone sono state individuate e denunciate in stato di libertà per omicidio preterintenzionale. Uno dei due in un primo momento era fuggito, poi si è consegnato ai carabinieri. Si è arrivati a loro dall’esame delle immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona e sulla base di alcune testimonianze.
I militari, per bocca del comandante provinciale, riterrebbero che almeno uno degli inseguitori avrebbe avuto un contatto fisico con la vittima. Ma fanno sapere di escludere che Zuady sia stato vittima di un «pestaggio prolungato» anche se ammettono che la situazione potrebbe essere «sfuggita di mano».
Quando trapela che si starebbe escludendo l’aggravante razziale la sezione locale di CasaPound esulta: «Anche stavolta vi è andata male!».
Qualcuno festeggia, ma si attendono gli esiti delle indagini. Decisiva sarà soprattutto l’autopsia sul corpo della vittima. «Se dovesse essere confermato quanto emerso dalle prime ricostruzioni, ci troveremmo di fronte a un fatto gravissimo. I cittadini devono limitarsi a denunciare i reati, non devono farsi giustizia da soli», dice il sindaco Antonio Terra, che un mese fa col sostegno di una coalizione di liste civiche contro il centrodestra è stato eletto per il secondo mandato.
Aprilia conta 75mila abitanti, tra questi circa 10mila migranti. Per la gran parte si tratta di comunitari, per lo più rumeni. Poi ci sono gli indiani, che lavorano nelle campagne. I nordafricani sono una minoranza esigua. «Solo l’altro giorno avevamo organizzato nel parco principale della città il Festival del cous cous», racconta Terra.
Ora quasi tutti dicono che in via Guardapasso, il comprensorio in cui è iniziato il tragico inseguimento che ha portato alla morte dell’uomo, la situazione non è affatto fuori controllo. C’erano stati solo quattro episodi di furto in alcune auto. Poca roba. «La gente è un po’ esasperata ma siamo in una situazione di normalità», riporta ancora il sindaco.
Dieci anni fa ad Aprilia un tabaccaio aveva colpito alle spalle con un fucile da caccia e ucciso un rapinatore rumeno. In primo grado il pm aveva chiesto 14 anni per omicidio volontario, poi era arrivata la condanna a nove anni, ridotta a tre per semplice omicidio colposo in appello. Dopo anni di allarmismo, ronde proposte e forse realizzate, emergenze dichiarate e ansie mediatiche, la morte di Zuady riporta il territorio a un tragico principio di realtà.

il manifesto 31.7.18
«Hanno sdoganato umori malsani, e queste sono le conseguenze»
La leader radicale. Emma Bonino: «Grazie al linguaggio di questo governo qualcuno si sente legittimato ad aggredire chiunque abbia la pelle scura»
Intervista con Emma Bonino
di Carlo Lania


«Le politiche e il linguaggio di questo governo, e in particolare del ministro Salvini, hanno sdoganato umori malsani che finora erano più controllati, e le aggressioni di queste settimane contro persone dalla pelle scura lo dimostrano». Emma Bonino è una testimone diretta del clima di intolleranza che attraversa l’Italia. La settimana scorsa la senatrice di +Europa è intervenuta in aula in difesa dei migranti e le sue parole sono state coperte dagli insulti di parte della maggioranza. «Pensavo che il mio intervento potesse essere accolto con maggiore rispetto e attenzione, senza tanti “buu, buu” da curva sud. Così non è stato», commenta.
Dodici aggressioni in due mesi. Cosa pensa stia accadendo al Paese?
Credo sia qualcosa che covava sotto la cenere, anche se abbastanza evidente da mesi, e adesso sta esplodendo. Ovviamente questo sentimento di intolleranza viene da lontano, ma l’accelerazione delle ultime settimane è impressionante e mi auguro che finalmente qualcuno si preoccupi e non lo attribuisca alle visioni di qualche buonista di passaggio, possibilmente radical chic. E’ evidente che il nuovo vocabolario, e non solo, di questa compagine governativa, e in particolare del ministro Salvini, ha sdoganato umori malsani che finora erano un po’ più controllati.
Sta dicendo che ora c’è qualcuno che si sente legittimato a compiere aggressioni?
Esattamente, assistiamo alle conseguenze non solo di politiche che non approvo, ma anche di linguaggi che sono volgarmente crudeli e gratuiti. Dire che i migranti sono in crociera è più di un insulto, è un’ingiuria perché sappiamo tutti cosa si lasciano alle spalle questi signori. E’ un liberi tutti, uno sdoganamento degli impulsi peggiori che fino a poco tempo fa c’erano ma erano più controllati.
Però Salvini nega l’emergenza e cita Mussolini, mentre per Di Maio non si tratta di razzismo.
Ognuno può raccontarsi quello che vuole e mettersi la benda sugli occhi, sta di fatto che gli episodi delle ultime settimane sono tutti, dico tutti contro persone dalla pelle scura e contro una bambina rom. Per altro sarà anche vero che tanti nemici tanto onore, come scrive il ministro Salvini, ma posso permettermi di ricordare che quella fase politica non è finita in modo brillante?
Si è passati dal “E’ finita la pacchia” riferito ai migranti che provano ad arrivare in Italia, alle aggressioni a chi in Italia vive e lavora.
Una volta che sdogani un tabù poi non hai più modo di controllarlo, ed è quello che sta succedendo. Se poi a questo vogliamo aggiungere l’arrivo dell’ipotetico decreto sicurezza, capisci bene dove stiamo andando.
Non si attaccano solo i migranti: nel mirino ci sono anche diritti acquisiti come le unioni civili, l’aborto…
C’è un trend reazionario, più che conservatore, sui diritti civili e gratuitamente crudele contro i migranti che serve solo a ottenere il consenso dell’opinione pubblica, ma nessun risultato politico. La miscela comincia a diventare esplosiva, se vogliamo anche per quanto riguarda la violazione dello stato di diritto. Per esempio sulla competenza dei ministeri e dei ministri. Abbiamo il vicepremier e ministro degli Interni che di volta in volta è padre di famiglia, ministro degli Esteri, delle Infrastrutture e dei porti. Spero davvero che tutto questo cominci a preoccupare qualcuno.
Di questa miscela esplosiva fa parte anche la retorica sulle legittima difesa?
Certo, la difesa di ciascuno di noi deve essere garantita dalle istituzioni, altrimenti il ministro degli Interni che ci sta a fare? Più armi circolano, più vengono usate e più incidenti ci sono.
E’ d’accordo con Ilvo Diamanti quando sostiene che in giro c’è voglia di un uomo forte?
Ma non è una tendenza nuova, basta pensare agli ultimi venti anni. Da Berlusconi in poi abbiamo avuto l’uomo forte o l’uomo rottamatore, cambia la volgarità e la durezza ma il concetto è quello. Dopo di che c’è questa passione tutta italiana di salire sul carro del vincitore, salvo poi che gli italiani sono anche velocissimi a scendere.
L’ex premier Paolo Gentiloni propone di creare un’alleanza per l’alternativa e tra i possibili partecipanti ha fatto anche il suo nome. La convince questa proposta?
Non so bene cosa voglia dire, quando me ne parlerà starò a sentire. In questi mesi io non ho avuto contatti con il Pd né loro con me, quindi ho fatto le mie battaglia con l’associazione Coscioni, per i diritti civili, i migranti, la giustizia. Guardi che il capitolo giustizia del famoso contratto è spaventoso. Ora cosa voglia fare il Pd non lo so, per il momento so cosa facciamo noi, cioè da una parte la campagna «L’Europa che accoglie», dall’altra cerchiamo di resistere per quello che possiamo a questa deriva. Io non sono una pessimista, ma credo veramente che la democrazia liberale, già imperfetta di suo, sia a rischio. Il tutto inserito in una fragilità europea piuttosto evidente.
Il segretario del Pd Martina propone per settembre una manifestazione contro il razzismo. Non rischia di essere troppo tardi?
Non ho capito perché a settembre, abbiamo già le infradito ai piedi e il pareo? E’ da un bel po’ che qualcuno doveva prendere coscienza di quello sta accadendo nel Paese, perché questo borboglìo sotto traccia, ma con tracce molto evidenti, viene da lontano. Penso alla Hannah Arendt de «La banalità del male»: tutte le volte che lanciavo l’allarme su quanto stava accadendo mi sentivo rispondere “Eh ma cosa vuoi che sia?” Salvo che poi, di scalino in scalino, siamo arrivati a un episodio violento al giorno. Allora senza aspettare settembre forse si può fare qualcosa prima.

il manifesto 31.7.18
Da dove riprendere la battaglia contro la disumanizzazione
di Guido Viale


Mentre guardavamo altrove un’ondata di odio, sospinta dai leader delle destre europee e, in forma sia diretta che non, dai principali media, ha tracimato e invaso ogni angolo della società e delle nostre vite; un’onda moltiplicata dai social e da un linguaggio che degrada milioni di esseri umani a mere fonti di disturbo, di cui si può fare quello che si vuole – come spari seriali ad aria compressa contro neri e zingari, abusi sessuali su minorenni da parte di preti, passeur e chissà quanti altri – o a parassiti di cui occorre solo sbarazzarsi trattenendoli orespingendoli nei Lager libici.
Odio e disprezzo cadono su un terreno reso fertile dall’egoismo promosso da una cultura della competizione universale che è l’altra faccia del servilismo: perché per andare avanti o anche solo per non restare indietro occorre entrare nelle grazie di chi sta sopra di noi. Ma anche del cinismo: così ci si compiace perché l’arrivo di profughi è diminuito pur sapendo benissimo che ne è di coloro che non arrivano più.
Ormai si può smettere di collocare la paura alla radice delle reazioni che stanno rovesciando la geografia politica dell’Italia e dell’Europa. Nessuno o quasi ha veramente paura dei migranti, né quando ne vede uno sbarco alla televisione, né quando li incontra per strada. Tutti sanno che non sono nient’altro che pacchi da rimpallarsi da un paese all’altro.
Gli «imprenditori della paura» di un tempo, come Salvini, che su quel sentimento hanno costruito le loro fortune elettorali, hanno portato a termine la prima fase del loro lavoro e ora possono dedicarsi a predicare odio e seminare disprezzo. Disprezzo per un’umanità sofferente e miserabile, che proprio per questo merita di essere maltrattata. E odio riversato a piene mani contro chi ancora si oppone a questa ondata nera, cercando di salvare vite o attivando iniziative di solidarietà. Un compito sempre più difficile, anche perché il territorio istituzionale dell’accoglienza è stato in gran parte appaltato a schiere di ladri, liberi di maltrattare migliaia di disperati: gente scelta e protetta proprio da quei Prefetti che dovrebbero controllarli.
L’ascesa dell’odio a principio regolatore dei comportamenti sociali e dell’operato delle istituzioni impone di riconoscere anche nei sentimenti i motori di alcune delle trasformazioni politiche e sociali in corso; per questo le passioni devono tornare a essere oggetto di analisi, di confronto e di lotta, dentro una geografia dei sentimenti che non può certo scalzare quella delle classi e delle istituzioni, ma che nemmeno si sovrappone ad essa come mera «sovrastruttura».
Per ora la battaglia contro la disumanizzazione dei nostri simili è in gran parte persa. Per riprenderla e continuare a combatterla occorre costruire delle ridotte dove raccogliere le forze ancora impegnate su questo fronte; che sono molte, ma disperse e disorientate. Il punto di forza forse più importante che abbiamo è la rete in fieri delle città santuario – «aprite i porti!» – da cui potrebbe sorgere una leadership poco compromessa con le vicende che hanno portato alla scomparsa delle sinistre europee. Di lì si potrebbe lanciare un progetto che leghi il rispetto della dignità umana alla conquista o alla difesa di condizioni di vita decenti per tutte e per tutti; misure politiche ed economiche, ma anche comportamenti, stili di vita, pensieri e sentimenti replicabili ovunque.
I nostri per ora non lo sono: non lo sono quelli dei poveri, perché sono poveri; e quelli dei ricchi, perché sono ricchi: in entrambi i casi sono modelli di vita improponibili. Presentarle come soluzione – «Quando l’Africa si sarà sviluppata…», che è il corollario del famigerato «aiutiamoli a casa loro» – è solo una manifestazione di prepotenza o di ignoranza. Per entrare in quest’ordine di idee occorre però dismettere l’armamentario politico e teorico con cui si è cercato o fatto finta di contrastare l’avanzata dell’onda nera che ci sta travolgendo; e dismettere anche molti atteggiamenti che li accompagnano: arroganza, ipocrisia, presunzione; specie la pretesa di essere i più bravi nel costruire la «Fortezza Europa»: che è il cuore della disumanizzazione in corso.
Per imboccare una strada diversa da quella dell’establishment europeo bisognerà cominciare col rimettere al centro la ricerca di un rapporto più aperto con i nostri simili; per cercare di comprendere – che non vuol dire condividere – le «ragioni» degli altri; anche quando sono, e non potrebbero non essere, conflittuali con le nostre; per riconoscere e mettere a frutto quello che abbiamo in comune con tutti: sia con le persone da riscattare dalla disumanizzazione in cui le si vuole confinare, sia con quelle da liberare da una disumanità che rischia di inghiottire e travolgerci tutti. Ciò richiede – e l’enciclica Laudato sì ne è una sintesi insuperata – l’instaurazione di un rapporto altrettanto aperto anche con la Terra che ci ospita e con il vivente tutto: i cui cicli definiscono le regole della riproducibilità sia della specie umana che dell’ambiente da cui essa dipende.

il manifesto 31.7.18
Israele vieta a Jorit Agoch il ritorno in Palestina
Territori palestinesi occupati. Lo street artist napoletano, arrestato sabato a Betlemme dalla polizia israeliana e rientrato in Italia, per 10 anni dovrà fare i conti con un "denied entry". Intanto restano detenuti 20 dei 22 passeggeri e membri dell'equipaggio della al Awda, l'imbarcazione della Freedom Flotilla bloccata domenica in acque internazionali dalla Marina israeliana mentre faceva rotta per Gaza.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «La prossima volta che verrò in questa terra farò un murale con il volto di Yasser Arafat, ‎magari su una facciata intera di un palazzo». È questo il prossimo progetto che Jorit Agoch ‎vorrebbe realizzare nei Territori palestinesi occupati, in memoria dello scomparso presidente ‎palestinese di cui ha sentito parlare tanto quando lui era solo un ragazzino. Ma dovrà aspettare ‎anni per metterlo in pratica. Il writer napoletano, noto ormai ad ogni latitudine per il ritratto ‎della 17enne palestinese Ahed Tamimi che ha fatto sul Muro israeliano tra Betlemme e ‎Gerusalemme, dovrà attendere un decennio per poter entrare in Cisgiordania passando per ‎l’aeroporto israeliano di Tel Aviv. Le autorità israeliane, disponendo la sua liberazione 24 ore ‎dopo l’arresto avvenuto sabato pomeriggio – assieme a suoi amici, l’italiano Salvatore e il ‎palestinese Mustafa – hanno stabilito che Jorit Agosh (già tornato in Italia) non potrà entrare ‎in Israele per 10 anni. E se teniamo conto che, nel frattempo, le possibilità che possa nascere ‎uno Stato palestinese indipendente e sovrano, con il pieno controllo delle sue frontiere, sono ‎vicine allo zero, lo street artist non potrà far altro che aspettare la fine del lungo denied entry.
 La Farnesina e i rappresentanti diplomatici italiani in Israele e a Gerusalemme hanno svolto ‎un ruolo decisivo per la liberazione di Jorit. Tuttavia non si può non notare che il ministro ‎degli esteri Enzo Moavero Milanesi, commentando con soddisfazione il rilascio di Jorit, ha ‎parlato di arresto «in Israele» mentre è avvenuto a Betlemme. Il capo della diplomazia italiana ‎dovrebbe leggere qualche libro e qualche risoluzione internazionale in più. Betlemme è una ‎città autonoma palestinese secondo gli Accordi di Oslo, all’interno della Cisgiordania sotto ‎occupazione militare israeliana dal 1967. Uno status riconosciuto anche dall’Italia in sede ‎internazionale. Non vogliamo credere che Moavero Milanesi abbia già accettato la legge votata ‎di recente dalla Knesset che proclama la biblica Eretz Israel, ossia tutta la Palestina storica, ‎proprietà esclusiva di Israele e del popolo ebraico. Ieri sera in piazza Habima a Tel Aviv ‎centinaia di ebrei e palestinesi hanno partecipato a una grande lezione pubblica di arabo che la ‎nuova legge ha retrocesso da lingua ufficiale di Israele e lingua con uno “status particolare”.‎
 Nelle stesse ore in cui si negoziava la liberazione di Jorit Agoch e dei suoi amici, altri 20 ‎cittadini stranieri – provenienti da Usa, Australia, Svezia, Canada, Malesia, Indonesia, ‎Singapore e Algeria – a bordo della al Awda, una delle imbarcazioni della Freedom Flotilla ‎dirette a Gaza, rimanevano detenuti nel centro di Givon con l’accusa di ‎«ingresso illegale in ‎Israele» e violazione di norme di sicurezza. Accuse senza senso poiché sono stati fermati ‎dalla Marina militare israeliana, domenica, in acque internazionali, mentre erano a circa 47 ‎miglia nautiche dalla costa di Gaza. La al Awda è stata trainata a forza, contro la volontà di ‎passeggeri ed equipaggio, al porto israeliano di Ashdod. Per i detenuti si prevede una rapida ‎espulsione. I due passeggeri israeliani sono stati liberati su cauzione. Le altre imbarcazioni ‎della Freedom Flottila in arrivo subiranno con ogni probabilità la stessa sorte.
 A Nabi Saleh e nel resto della Cisgiordania i palestinesi continuano a festeggiare il ritorno ‎a casa della 17enne Ahed Tamimi che ha scontato di prigione circa otto mesi per aver ‎schiaffeggiato due soldati israeliani davanti alla sua abitazione. È stata liberata anche la madre ‎Nariman, incarcerata per aver postato sui social il filmato con il gesto della figlia. Ahed è un ‎simbolo della resistenza palestinese e lei stessa ieri, rispondendo alle domande dell’agenzia ‎Ap, ha annunciato di avere un ‎«futuro in politica». La ragazza allo stesso tempo in più ‎occasioni in queste ore ha ricordato che mentre lei è a casa, altri adolescenti palestinesi ‎restano nelle carceri israeliane. Punto sul quale batte anche Saleh Higazi, responsabile ‎dell’ufficio di Gerusalemme di Amnesty International. ‎«Centinaia di bambini palestinesi ‎continuano ad affrontare le dure condizioni e gli abusi del sistema penitenziario israeliano che ‎infrangono i principi della giustizia minorile e gli standard per il trattamento dei prigionieri‎», ha ‎sottolineato Higazi. Oltre 300 ragazzi palestinesi sono nelle carceri e nei centri di detenzione ‎israeliani, secondo i dati in possesso delle organizzazioni locali per i diritti umani‏.‏

il manifesto 31.7.18
Girolamo Li Causi
Il dirigente del Pci che tallonava Togliatti
«Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977» di Massimo Asta, per Carocci. L'avventurosa vita del politico siciliano
di Manfredi Alberti


Come ha affermato Plechanov in un noto scritto di fine Ottocento, le grandi personalità della storia sono tali nella misura in cui riescono a interpretare al meglio e con determinazione le forze e le tendenze in atto nella società, indirizzandole in modo coerente.
L’INESTRICABILITÀ del rapporto fra le biografie individuali e le forze collettive è particolarmente evidente nel caso del comunismo novecentesco, i cui grandi dirigenti hanno sempre avuto alle spalle un grande partito, una forza organizzata in grado di creare, nel contesto dato, virtuose sinergie fra i singoli e il gruppo di riferimento. Sotto questo profilo non fa eccezione la vicenda del comunismo italiano, come si può evincere dal rigoroso e documentato lavoro di ricerca di Massimo Asta, dedicato all’avventurosa vita di Girolamo Li Causi, uno dei dirigenti più popolari del Pci nella prima metà del Novecento, negli anni ’50 il candidato comunista più votato dopo Togliatti; un uomo capace di infiammare le masse non solo grazie alle parole, ma anche con il linguaggio del corpo (Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento. 1896-1977, Carocci, pp. 328, euro 33).
NATO A TERMINI IMERESE nel 1896, Li Causi si forma durante l’età giolittiana, osservando dal Sud l’incapacità dello Stato liberale di realizzare una reale inclusione dei lavoratori nella vita politica nazionale. Dopo aver ottenuto il diploma di ragioneria, si sposta a Venezia dove si iscrive alla Scuola superiore di commercio di Ca’ Foscari. Il suo approdo al socialismo avviene subito dopo le elezioni politiche del 1913, segnate da un avanzamento senza precedenti del Psi. Incontra allora il leader massimalista Serrati, di cui diviene il più stretto collaboratore. L’interesse di Li Causi per l’analisi economica si rivela sin dalla sua tesi di laurea, dedicata al nesso fra protezionismo, nazionalismo e guerra. Li Causi non è un comunista della prima ora: entra infatti nel Pci solo nel 1924, mettendo presto a frutto, anche dalle colonne dell’Unità, le sue capacità di analisi economica. Come molti oppositori del fascismo Li Causi è arrestato nel 1928.
INIZIA UNA LUNGA FASE di carcere e confino: nelle diverse tappe della prigionia – l’isola d’Elba, Lucca, Civitavecchia, Ponza, Ventotene – ha modo di confrontarsi con altri antifascisti, tra cui Altiero Spinelli. Insieme a Pietro Grifone, suo compagno di partito e di prigionia nelle isole pontine, si dedica agli studi sul capitale finanziario in Italia, con un’attenzione particolare al ruolo svolto dall’Iri nelle politiche economiche del fascismo.
Dopo la caduta del fascismo Li Causi diventa un protagonista della Resistenza, essendo uno dei quattro membri della Direzione del Pci destinati al Centronord. In seguito il suo partito decide per lui un impegno politico nella sua regione d’origine, la Sicilia, dove è chiamato a riorganizzare il partito stesso e a coniugare l’autonomismo con la strategia togliattiana della democrazia progressiva.
Il contesto siciliano si rivela presto quanto mai turbolento: nel settembre del 1944, mentre tiene un comizio a Villalba, Li Causi viene colpito da un attentato mafioso, riportando un danno al ginocchio che lo avrebbe reso per sempre claudicante. È solo l’inizio di una lunga strategia terroristica volta a colpire il movimento contadino in ascesa; il primo maggio del 1947 si consuma la strage di Portella della Ginestra, primo esempio di «strategia della tensione». La drammaticità di questi eventi porta il Pci, sollecitato da Li Causi, a riaffermare il suo netto posizionamento contro la mafia e i poteri forti a essa legati. Oltre a svolgere un ruolo di primo piano nel partito a livello nazionale, dal 1945 al 1960 Li Causi è segretario del Pci siciliano, guidando il partito, tra successi e sconfitte, in anni cruciali per la costruzione di una cornice istituzionale democratica e per la conquista di basilari conquiste per i lavoratori.
NEI MESI CHE VEDONO la definizione del ruolo della Sicilia come regione autonoma, Li Causi è tra i promotori dell’industrializzazione dell’Isola, contrastando al contempo il ruolo dei grandi monopoli privati, come quello elettrico. Pochi anni dopo, nell’ambito dell’approvazione della riforma agraria, si impegna per ottenere soluzioni più avanzate a tutela dei contadini senza terra. Alla fine degli anni ’50, gestendo il controverso sostegno del Pci ai governi regionali di Milazzo, sarà tra i primi a trarne un giudizio fortemente negativo.
Tra i suoi ultimi impegni rilevanti vi è la partecipazione ai lavori della Commissione antimafia nata nel 1962, di cui diviene un protagonista per un decennio, alla costante ricerca di soluzioni innovative ed efficaci. Biografie come quella di Li Causi costituiscono un esempio di impegno politico in cui il rigore dell’analisi si coniuga con una passione e una vitalità inesauribili. Modelli che appaiono oggi difficilmente eguagliabili, in un tempo di inesorabile deterioramento della qualità dell’azione politica.

Repubblica 31.7.18
Alleanza gialloverde
Raggi non piace ai leghisti di Roma "Troppo marxista"
di Mauro Favale


Non è bastato, in appena una settimana, lo sgombero di un campo rom, la stretta annunciata contro le occupazioni abitative, la revoca della convenzione con la Casa internazionale delle donne: una sequenza di provvedimenti presi dall’amministrazione 5 Stelle di Roma subito dopo l’incontro e l’intesa sbocciata tra Virginia Raggi e Matteo Salvini. Per Maurizio Politi, capogruppo (e per ora unico rappresentante) della Lega in Aula Giulio Cesare, la sindaca guida una giunta «marxista», che da queste parti «non si era mai vista». Il motivo? «Ha messo i rom davanti ai romani, addirittura pagandoli per andare via da qui». Il riferimento è a una delle opzioni offerte dal piano nomadi della giunta M5S, a dire il vero non particolarmente efficace, finora. Soltanto una ventina di rom che vivevano nel Camping River (insediamento sgomberato lungo la via Tiberina, nonostante un iniziale stop della Corte dei diritti umani di Strasburgo) hanno accettato di fare rientro a Craiova, capoluogo dell’Oltenia, in Romania, promettendo di non fare ritorno in Italia per 5 anni e ricevendo un finanziamento di 3.000 euro a nucleo familiare.
Tanto basta per Politi per proclamare «marxista» la giunta della capitale alla quale lui, «nonostante il contratto di governo», continuerà a fare opposizione. E così faranno anche gli altri esponenti che ieri hanno annunciato la costituzione dei gruppi legati a Salvini in Comune, in 7 Municipi e nella Città Metropolitana. Ma la nuova Lega di Roma ha i vecchi colori della destra romana. Il nero, soprattutto, dei camerati che ieri si salutavano afferrandosi per l’avambraccio nella Sala del Carroccio in Campidoglio.
Location scelta non a caso da Fabrizio Santori e Federico Iadicicco, già esponenti di An e poi di Fratelli d’Italia che hanno traslocato nella Lega portando in dote il loro pacchetto di migliaia di preferenze e una corrente che adesso conta 11 consiglieri municipali, uno comunale e due della Città Metropolitana. «Il partito di Giorgia Meloni ci ha messo alla porta», spiega Santori. «Sono ideologici in un’era post ideologica», gli fa eco Iadicicco.
«Una faccenda di poltrone», la bollano in Fdi. Ma la Lega, ormai, dopo il boom delle elezioni del 4 marzo anche nella capitale, è diventata una calamita per gli altri partiti del centrodestra, drenando non solo consensi nelle urne ma anche eletti. «La Lega è entrata nel tessuto sociale di Roma», afferma Francesco Zicchieri, coordinatore regionale del partito di Salvini che non nasconde il suo obiettivo: «Alle prossime elezioni i romani eleggeranno un sindaco della Lega».

il manifesto 31.7.18
Sharon Fridman o della danza come arte dell’incontro
Incontri. «All Ways», lo spettacolo firmato dal coreografo israeliano di scena a Operaestate Festival Veneto38. «La situazione politica del mio paese è grave, non posso andare a casa e chiudere gli occhi di fronte a quello che accade»
di Francesca Pedroni


BASSANO DEL GRAPPA Una donna in nero si guarda attorno, sola, al centro della scena, sulle note di un pianoforte. Si muove nel buio rischiarato da piccole luci. Di corsa entrano altri danzatori. La musica cambia registro, sciabola per lo spazio, diventa battente, seduttiva. La donna al centro è quasi travolta dagli altri, ma è questione di poco. Il moto della danza da solitario e caotico diventa armonico, circolare, collettivo. I danzatori ruotano su se stessi come fossero dervisci per poi dare il via a una magnetica coreografia di contatto che trasformerà la scena in un’utopia sociale di condivisione. È la visione che consegna al pubblico All Ways, catartico spettacolo firmato dal coreografo israeliano Sharon Fridman su musica originale di Danski-Idan Shimoni, uno degli hit di Operaestate Festival Veneto38, in scena al Teatro Remondini di Bassano del Grappa dopo il debutto italiano a Vignale Monferrato Festival. Un titolo nato nel 2016 per festeggiare i dieci anni di fondazione della Compañia Sharon Fridman a Madrid, un lavoro che usa l’intreccio coreografico dei corpi per parlare alla gente degli incontri umani come possibilità di rinascita.
Classe 1980, alle spalle una carriera di danzatore professionista partita a 19 anni a Tel Aviv con la Tadmor Dance Company, Fridman ha iniziato a fare coreografia a 20. Un talento che lo ha visto tra gli autori prescelti nel 2008 da Wayne McGregor per il progetto Dance Lines tenutosi alla Royal Opera House di Londra, vincere nel 2012 a Cuba il Premio Alicia Alonso, fondare e dirigere con successo la Compañia Sharon Fridman, guidare numerosi progetti di comunità con amatori.
Sharon, non è la prima volta che lei viene a Bassano. Nel 2015 coinvolse cento danzatori e trecento coristi nel progetto «In memoriam» per il centenario del primo conflitto mondiale…
Il progetto del 2015, come altri miei, si legava al “rizoma”, concetto biologico e filosofico di rinascita in situazioni di difficoltà a cui ho dedicato anche un lavoro con la mia compagnia. La danza di comunità con le persone del luogo, non professionisti, è fondamentale nella mia visione. Si crea un ponte tra la scena e la platea, si dà la possibilità alle persone di sentire nel corpo cosa significa mettersi in contatto gli uni con gli altri per trovare nuove relazioni. A Bassano conosco molte persone ormai: si è creata una comunità. Per questo in una scena di All Ways ho coinvolto sette donne incontrate precedentemente qui. Non lo faccio in ogni replica, ma solo in quei luoghi dove si è creata tra me e la gente un rapporto attraverso la danza.
Tra il 7 e l’11 agosto lei proporrà un evento di comunità legato al conflitto mondiale anche al Festival Oriente Occidente di Rovereto, «A piedi nudi. 100 anni dalla fine della grande guerra»…
Sì, coinvolgerà sessanta persone, trenta uomini e trenta donne. Tutti non professionisti, salvo una danzatrice solista della mia compagnia, Melania Olcina. Il tema su cui lavoriamo è la figura della donna, la trasformazione che ha dovuto subire a causa della guerra, la perdita dei propri mariti, figli, il dolore come punto di partenza per ricostruire una nuova società.
Sharon Fridman
Il suo inizio nella danza è partito dalle danze popolari, quando era un bambino. Ha influito quell’esperienza nel suo modo di lavorare oggi?
Invitare qualcuno a danzare, dargli la mano è aprire le porte all’altro, è permettergli di entrare nella tua cultura. La danza folk, popolare, che fa parte del mio background, è qualcosa che trasformo in un concetto: parlo del potenziale che abbiamo come società di usare il passato per costruire un nuovo futuro.
Lei vive e lavora a Madrid. La sua ricerca sulla comunità ha a che fare con le sue origini israeliane?
Le mie origini sono a Tel Aviv. È un posto che amo, il migliore al mondo perché è la mia casa, ma lo odio allo stesso tempo. La situazione politica del mio paese è davvero difficile, non posso andare a casa e chiudere gli occhi di fronte a quello che accade. Ho fatto il soldato, ho combattuto, oggi sono un attivista. Ho con Israele un rapporto conflittuale, vorrei fare qualcosa per rendere il mio paese differente. Le mie danze di comunità esistono perché credo in generale nel valore di un’esperienza di condivisione, non mi sento un coreografo con le stigmate del coreografo israeliano».
La rivedremo nella stagione del Comunale di Ferrara in novembre per un progetto con la compagnia italiana Collettivo CineticO di Francesca Pennini.
Il pezzo si intitolerà Dialogo primo, lo firmo su di loro e con loro. Non lavorano sul contact come me, ma sono una famiglia e mi piacciono moltissimo. La comunicazione tra noi è profonda. Per ora abbiamo lavorato sulla tecnica, poi ci occuperemo della composizione. Riprenderemo a lavorare a settembre, vedremo cosa ne uscirà, ma certo è che sono innamorato di come sta andando il processo.

La Stampa 31.7.18
I mini-cervelli di Neanderthal ci aiuteranno a decifrare l’evoluzione della nostra mente
di Marta Paterlini


La complessità del cervello umano ci rende unici. Capire ciò che sta alla base del suo sviluppo è una sfida per i neuroscienziati che cercano di decodificare i segreti della nostra evoluzione cognitiva. Ora grazie al connubio di tre nicchie d’avanguardia - il Dna antico, il sistema di manipolazione genetica Crispr-Cas9 e gli organoidi ricavati da cellule staminali - ha visto la luce una serie di test senza precedenti.
Sono stati raccontati durante la conferenza «Imagination and human origins», tenutasi a San Diego, California: due team hanno ingegnerizzato le cellule staminali per includere alcuni geni del corredo dei Neanderthal e hanno cresciuto in laboratorio dei minicervelli che si sono sviluppati con quel Dna ancestrale.
Dalle staminali pluripotenti, che hanno la capacità di differenziarsi in diversi tipi di cellule, è infatti possibile generare degli organoidi, organi in forma semplificata. Per creare un cervello organoide c’è bisogno di cellule vive: se è impossibile riprodurne uno di Neanderthal (dato che le cellule non sono sopravvissute), è però possibile neanderthalizzare cellule umane con geni antichi, ricorrendo alla tecnica di editing, la Crispr.
Rispetto ai minicervelli corticali prodotti con cellule umane moderne, questi organoidi di Neanderthal risultano differenti nella forma e nelle reti neuronali, comprese quelle che possono aver influenzato la capacità di socializzare. «Per capire meglio noi stessi cerchiamo di ricreare la mente dei Neanderthal e scoprire che cosa sia successo nel passaggio dal loro mondo al nostro», spiega Muotri Alysson, genetista alla School of Medicine della University of California di San Diego.
In quella conferenza - ha riportato «Science» - era presente anche Svante Pääbo, direttore del Max Planck Institute per l’antropologia evoluzionistica di Lipsia. Lui ha descritto i propri organoidi neanderthaliani con parole più caute: «È difficile capire se le differenze genetiche siano funzionalmente rilevanti e gli organoidi, d’altra parte, rappresentano solo la fase iniziale di sviluppo del cervello». Pääbo, celebre per aver decifrato il Genoma dei Neanderthal, prevede ora di confrontare gli organoidi ancestrali con quelli derivati da cellule staminali di scimpanzé e di uomini moderni. Sebbene si tratti di modelli semplificati, questi organoidi ricapitolano alcuni aspetti-chiave del neurosviluppo, come la migrazione cellulare, l’organizzazione corticale, l’espressione genica e la funzionalità delle connessioni. Sono quindi considerati una struttura importante per studi d’avanguardia.
«Il risultato è sorprendente», ha detto Muotri. Ne esce un cervello con una struttura diversa. Se quello di controllo è tondo e sferico, quello di Neanderthal è più allungato e mostra un motivo che ricorda la forma dei popcorn. È una caratteristica che potrebbe essere spiegata con la diversa migrazione delle cellule neuronali progenitrici. «Abbiamo anche notato delle differenze nelle connessioni sinaptiche tra neuroni corticali e l’attività generale, che è ridotta o immatura, se confrontata con quella di riferimento».
Il gruppo si è focalizzato su Nova1, un regolatore di geni coinvolti nello sviluppo neuronale e poi in altri geni che regolano le sinapsi e controllano la proliferazione cellulare. È un risultato ancora aperto, sottolinea Pääbo. «Siamo di fronte a ciò che chiamo neuro-archeologia, dove lavoriamo con pezzi di evidenze per ottenere estrapolazioni sull’immagine completa, cioè su come funzionava la mente dei Neanderthal», commenta Muotri, il quale aggiunge che molte delle differenze rispecchiano le anomalie che ha individuato nello sviluppo del cervello dei bambini di oggi: quelli che soffrono di autismo. La maggiore socializzazione è stata uno dei vantaggi della nostra specie rispetto ai Neanderthal?

Repubblica 31.7.18
Bambine in Afghanistan
Uomo strangola la sposa di 9 anni I nuovi dati dell’Onu
di Giampaolo Cadalanu


In un Paese straziato dalla guerra civile, l’attenzione agli aspetti sociali è modesta. E in Afghanistan, con il governo concentrato nella resistenza ai Taliban, l’eredità della cultura tribale continua a pesare. Fra le conseguenze c’è l’abitudine ai matrimoni precoci: secondo una ricerca congiunta delle Nazioni Unite e del ministero di Lavoro, Affari sociali, Martiri e Disabili, in 42 famiglie afgane su cento almeno un membro si è sposato prima dei 18 anni. Il matrimonio infantile è "una terribile violazione dei diritti umani", dice Faizullah Zaki, ministro degli Affari sociali, «perché priva i bambini della loro istruzione, della loro salute e dell’infanzia».
Il fenomeno è in leggero calo, ma ancora oggi una ragazza su tre si sposa prima dei 18 anni. I matrimoni sono combinati: è il padre che decide, secondo il 78%degli intervistati nelle 5 province coinvolte dal ministero.
Solo il 55,7% sottolinea che bisogna consultare anche i giovani che si devono sposare.
Ma l’abitudine a "cedere" una figlia in matrimonio per saldare un debito o risolvere un contenzioso è ancora diffusa nelle zone rurali. Ieri la Tolo tv riportava la vicenda del villaggio di Kadanak, nel distretto di Qads, dove un uomo di 35 anni ha strangolato la sua seconda moglie, di appena nove anni. I motivi non sono noti. L’uomo è fuggito dopo l’omicidio, la polizia afgana ha arrestato il padre della bambina, che l’aveva ceduta in pagamento per chiudere una disputa. Tragedie come questa testimoniano la necessità di una pace diffusa, che passi attraverso la riconciliazione generale, con il ritorno dei Taliban nella dialettica politica. Un segnale positivo arriva da Doha, nel Qatar, dove rappresentanti degli "studenti coranici" hanno incontrato in segreto una delegazione Usa guidata da Alice Wells, responsabile dell’Asia centrale e meridionale al Dipartimento di Stato. Le indiscrezioni parlano di "buoni risultati", ma è presto per gioire: richiesta dei Taliban per posare le armi è la partenza degli stranieri e non è ben chiaro se gli Usa siano disponibili.

Repubblica 31.7.18
Riscoperte
E Lombroso raccomandò la figlia a Carducci
Sono stati pubblicati online 2650 documenti del discusso padre della criminologia. Le lettere non fanno soltanto luce sul suo "metodo", ma rivelano preoccupazioni private e l’ammirazione di autori come De Amicis
di Maurizio Crosetti


TORINO Quando non prendeva in mano trapano e sega per aprire il cranio dei delinquenti, Cesare Lombroso scriveva. Scriveva lettere e ancora di più ne riceveva, perché nel tempo in cui la scienza si era illusa di poter dare risposta a ogni domanda il professor Lombroso, quello che se sei un criminale ce l’hai scritto in faccia, era una star. Lo cercavano dall’America e dall’Europa, lo invitavano a convegni, gli chiedevano di illustrare le sue teorie sull’atavismo e sulla famigerata fossetta occipitale, una specie di piccolo avvallamento alla base del cranio: si scoperchia, si leva il cervello e si cerca l’incavo: se c’è, quella è la capoccia di un assassino o di un falsario, di uno stupratore o di un ladro. «Oggi possiamo dirlo, erano fesserie ma il suo metodo no, non quel modo di porre domande che nessuno aveva mai pensato o nominare scienze che ancora non esistevano, l’antropologia criminale, la criminologia, la psichiatria forense». E se lo dice il direttore del Museo Lombroso di Torino, il professor Silvano Montaldo, non un demonizzatore dei lombrosiani, sarà vero. La notizia è che l’epistolario di Cesare Lombroso è stato appena messo in rete: oltre 2.650 lettere, biglietti, cartoline postali, minute di bozze, persino fatture di rudimentali attrezzi chirurgici sono ora consultabili online ( htpp:// lombrosoproject. unito. it).
Un groviglio districato dopo due anni di lavoro necessari a raccogliere, interpretare e digitalizzare una massa cartacea («La fortunata epoca prima di Internet», scherza Montaldo) che permetterà di approfondire meglio il pensiero e il metodo del più controverso scienziato italiano, un protagonista del positivismo, razzista e umanista insieme, medico e "poeta".
«In realtà aveva quasi tutti i torti e allo stesso tempo aveva l’intuizione senza però gli strumenti per suffragarla o respingerla – dice il direttore –.
Lombroso ha fatto danni e ha portato allo stesso tempo un contributo fondamentale».
L’epistolario del professore è soprattutto un viaggio nel tempo, ma anche un modo per aprire finalmente il suo, di cranio, e sbirciarci dentro come affacciati su una balconata a precipizio. È ovviamente pieno di carteggi scientifici, un tumultuoso e appassionato grido contro il muro di scetticismo che già a metà Ottocento faceva rimbalzare indietro non poche ipotesi bislacche dell’autore de L’uomo delinquente (1876) e La donna delinquente (1893), testo terribile che tra svariate mostruosità teorizza la prostituzione come inscritta nel codice genetico e svelata, va da sé, dal volto e dalle misure del cranio. Ma andando in cerca di perle tra queste righe vergate con scrittura nervosa, zigzagante e a tratti indecifrabile (Lombroso era disgrafico, ma questo non gli impedì di scrivere un trattato di grafologia) si scoprono autentici tesori. Come la missiva che il professore inviò il 24 luglio 1888 a Giosuè Carducci, sommo poeta ma anche ispettore scolastico dopo che la figlia di Lombroso, Paola, era stata bocciata all’esame di ammissione liceale. Il medico si rivolge con sussiego al "collega e supremo giudice di Cassazione letteraria" spiegando che la ragazza era stata educata in casa, ma non per questo sprovvista di "notevole coltura letteraria". E qui parte la stucchevole richiesta di raccomandazione: "La prego di leggere il compito di italiano respinto come insufficiente e confuso (allego copia) dai commissari del liceo Cavour. Non vorrei che l’affetto paterno m’illudesse di trovarvi le traccie (con la i, n.d.r.) di pensieri veramente civili. Se io ho torto respingetemi questo foglio con un gran punto rosso interrogativo senza perdere altro tempo. Se no – provvedete". Purtroppo non abbiamo la risposta del Carducci né sappiamo se, alla fine, l’ispettore provvide.
Tra una fattura di lire 55 a Gilardoni Andrea, "arrotino e fabbricatore di strumenti chirurgici" e consigli d’arredamento alla moglie Nina (il professore metteva becco su tutto), ecco la meravigliosa lettera che gli inviò Edmondo De Amicis il 5 gennaio 1893. Si tratta di un appuntamento alla stazione ferroviaria di Porta Nuova, per recarsi insieme a un convegno a Milano. Scrive l’autore di Cuore: "Se non m’inganno, fatemi un favore: quando sarete alla stazione affacciatevi al finestrino del vagone: io vedrò subito i vostri simpatici occhiali e salirò con voi. Sarei lieto di fare il viaggio in vostra compagnia! Io procedo in seconda, ma voi fate il comodo vostro: il supplemento mi sarà leggiero, pur ch’io abbia il piacere di farvi discorrere per tre ore". Dal che si evince che un noto scrittore guadagnava, a fine Ottocento, molto meno di un controverso ma affascinante trapanatore di calotte craniche.
Ma chi era, infine, il Lombroso che temeva che i tagli di certe parti scabrose nella traduzione inglese (fatta da un prete) de La donna delinquente "mi facciano perdere di popolarità", e definiva "castrazioni" quelle pudiche censure? «Era uno scienziato di epoca primordiale», risponde il direttore del bellissimo museo riaperto nel 2009 a Torino. «Da umanista sono sconcertato, ma come studioso ne ho infinita curiosità. Indagare Lombroso non vuol mica dire essere lombrosiani. Certe sue contraddizioni affascinano sempre: era socialista, ebreo eppure razzista, avvertì il rischio dell’antisemitismo e prefigurò l’arrivo di un uomo forte e spietato. Sembra l’identikit di Hitler con 40 anni di anticipo».
Come sostiene Emanuele D’Antonio, il ricercatore che ha raccolto l’enorme massa di lettere, «molti libri di Cesare Lombroso verrebbe da gettarli nel fuoco, ma allo stesso tempo bisogna trattare con estremo rispetto alcuni passaggi sull’antisemitismo e sul delitto politico, o sul confine tra genio e follia. Con quel tipico linguaggio paradossale, Lombroso fu un apologeta dell’incontro tra culture e realtà storiche diverse come veicolo di progresso, e in questo lo trovo davvero moderno». Dunque il mistero s’infittisce perché su una cosa il professore aveva proprio torto: non esiste una risposta scientifica per ogni domanda. Però che voglia di aprire ancora quella testa come se fosse una scatola, adesso piena di vecchie lettere, e guardarci dentro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
MUSEO LOMBROSO