Il Sole 30.7.18
Dopo l’aggressione a Daisy Osakue
Razzismo, ora al Viminale guidato da Salvini si teme l’effetto emulazione
di Marco Ludovico
qui
Il Sole 30.7.18
L’atleta Daisy Osakue aggredita, il Pd: Governo riferisca in Parlamento
di Andrea Marini
Rischia
di non partecipare agli Europei di atletica Daisy Osakue. La primatista
italiana under 23 di lancio del disco, nata a Torino da genitori
nigeriani, è stata colpita in pieno volto da un uovo lanciato da un’auto
in corsa, nella notte a Moncalieri. Trasportata all’ospedale Oftalmico
di Torino, ha riportato una lesione alla cornea e dovrà essere operata
per rimuovere un frammento di guscio dell’uovo. Gli aggressori sono
ricercati dai carabinieri, secondo cui l’azione non è riconducibile a
motivi razziali. Tuttavia, il Pd ha subito attaccato il ministro
dell’Interno Matteo Salvini.
Salvini: a fianco di chi subisce violenza, no emergenza razzismo
Il
titolare del Viminale, Matteo Salvini, in tarda mattinata è intervenuto
sull’episodio: «Spero di incontrarla e vederla gareggiare il prima
possibile. Ogni aggressione - ha aggiunto - va punita e condannata, sono
e sarò sempre a fianco di chi subisce violenza». Poi Salvini ha
ribadito: «Emergenza razzismo in Italia? Non diciamo sciocchezze,
ricordo che solo negli ultimi tre giorni, nel silenzio generale, la
Polizia ha arrestato 95 immigrati, mentre altri 414 sono stati
denunciati. L’immigrazione di massa permessa dalla sinistra negli ultimi
anni non ha aiutato, per questo sto lavorando per fermare scafisti e
clandestini».
I carabinieri: già altri lanci di uova
Daisy Osakue
stava rientrando a casa con un gruppo di amiche. In corso Roma, angolo
via Vico, l’atleta è stata colpita dalle uova lanciate da alcune persone
a bordo di un Fiat Doblò, che si è poi dileguato. La giovane è stata
soccorsa da personale del 118 e trasportata all'Ospedale Oftalmico di
Torino. Secondo i carabinieri, era già stato segnalato nei giorni
scorsi, a Moncalieri, il Fiat Doblò da cui è partito il lancio di uova
che ha ferito al volto Daisy Osakue.
Osakue: volevano colpire me come ragazza di colore
«L’hanno
fatto apposta. Non volevano colpire me come Daisy, volevano colpire me
come ragazza di colore» ha commentato Osakue: «In quella zona ci sono
diverse prostitute, mi avranno scambiata per una di loro - ha aggiunto -
Mi era già capitato di essere vittima di episodi di razzismo, ma solo
verbali. Quando però si passa all’azione, significa che si è superato un
altro muro. Per fortuna è soltanto una abrasione. Qualche giorno di
riposo, qualche goccia e dovrei star bene».
Pd: Governo riferisca in Parlamento
«Il
ministro dell’interno Salvini non può continuare a minimizzare, o a
dare responsabilità immaginarie alla sinistra. Il Parlamento ha bisogno
di sapere subito che cosa intenda fare il Governo, aspettiamo che un
ministro si degni a venire in Aula a riferire», ha affermato il
capogruppo del Pd a Palazzo Madama Andrea Marcucci. All’attacco anche
l’ex segretario Matteo Renzi: «Gli attacchi contro persone di diverso
colore della pelle sono una EMERGENZA. Ormai è un’evidenza, che NESSUNO
può negare, specie se siede al Governo», ha scritto su Twitter.
Il Sole Domenica 29.7.18
La solitudine di Heidegger
Carteggi.
Morcelliana pubblica un’edizione fedele ai manoscritti delle lettere di
Martinal fratello Fritz che aiuta a smentire le illazioni
sull’antisemitismo personale del filosofo
di Francesco Alfieri
Quando
nel 2016 la casa editrice Herder stampò il carteggio intercorso negli
anni 1930-1949 tra Martin Heidegger e suo fratello Fritz, in Germania
come in Italia tale pubblicazione diventò un pretesto per tenere viva la
polemica sull’antisemitismo del filosofo tedesco e sulla sua
compromissione con il nazismo. In tal caso la polemica si fece accanita,
perché in due lettere Heidegger consigliava al fratello Fritz di
leggere il Mein Kampf di Hitler. Tutto l’epistolario era stato ridotto a
questo passaggio testuale e, per i suoi detrattori, la pubblicazione
della Herder recava la prova certa che le accuse mosse al filosofo
trovavano qui la loro conferma.
Fu così che, insieme a Friedrich von
Herrmann, ch iedemmo a Arnulf Heidegger, amministratore del lascito, di
curare l’edizione italiana dell’epistolario in questione. Partimmo
naturalmente dal testo della Herder, ma avevamo libero accesso
all’intero carteggio conservato presso l’archivio di Marbach.
Il
lettore italiano, con la pubblicazione di Morcelliana, avrà quindi a
disposizione un’edizione di queste lettere fedele ai manoscritti;
inoltre, in nota, sono state ricostruite le fonti. Tutto questo è stato
possibile grazie alla consultazione delle due biblioteche private di
Heidegger a Freiburg e a quanto è conservato a Marbach.
Se quanto
detto riguarda l’edizione del carteggio, subito ci siamo però accorti
che per la prima volta era restituita la difficile esistenza di un
pensatore che, dopo l’errore commesso per aver accettato l’incarico di
rettore a Freiburg, si trovò completamente isolato. Una solitudine
dovuto al fatto che le aspettative del partito nazista erano state da
lui puntualmente non assecondate durante gli anni alla guida
dell’Università, tanto da arrivare a doversi dimettere, ben sapendo che
da quel momento in poi sarebbe stato osteggiato dal regime e tenuto
sotto controllo.
Basta leggere questo carteggio per accorgersi come
Heidegger, nonostante fosse stato rifiutato sia dal mondo accademico sia
dallo stesso partito nazionalsocialista, continuasse a portare avanti
la sua missione: seguire - e sarà il primo - una via di pensiero che
servirà nella fase della ricostruzione della Germania. È Heidegger a
incoraggiare e sostenere suo fratello Fritz e tutti i componenti della
famiglia, invitandoli a restare calmi e a continuare a lavorare. Le
incomprensioni, l’emarginazione e le facili insinuazioni non lo
sorprendono ed egli rimane concentrato nel suo lavoro di ricerca.
Nelle
ultime lettere di questo carteggio stupisce come il filosofo affronti i
comportamenti malevoli del mondo accademico, iniziando a vivere quel
senso di «abbandono» (Gelassenheit) che lo caratterizzerà fino agli
ultimi istanti della sua vita.
Con Heidegger apprendiamo che le
ostilità hanno radici molto profonde: spesso le accuse di antisemitismo a
lui mosse, solo apparentemente sembrano voler combattere un’ideologia.
In realtà la attaccano con lo scopo di crearne un’altra: l’asservimento
della cultura per scopi politici. In sostanza, è stata strumentalizzata
la tragedia subita dal popolo ebraico cercando, a tutti i costi e con
mezzi molto spesso discutibili, di far derivare dalle opere di Heidegger
uno stretto legame del suo percorso teoretico con il destino di questo
popolo.
Per porre fine a un simile gioco, insieme a von Herrmann ho
voluto farmi carico di curare l’edizione italiana del carteggio. Non
volevamo che accadesse per queste lettere quanto è capitato con
l’edizione italiana dei Quaderni neri, editi da Bompiani. Sono sotto gli
occhi di tutti le «Avvertenze» della traduttrice, giacché nelle prime
pagine dichiara che per i «passi più oscuri» si è servita dell’aiuto di
un’interprete che ha manifestato una sorta di pregiudiziale verso i
testi di Heidegger.
Ora, con un pensatore di tale levatura, tra i
massimi della filosofia moderna e contemporanea, non è possibile
utilizzare un metodo che può travisare il lascito dell’autore di Essere e
tempo con alcune private esegesi. Il lettore deve poter leggere gli
scritti in modo autonomo e il lavoro del traduttore dovrebbe essere uno
strumento per accedere alle fonti, senza condizionamenti.
Il
carteggio che ora vede la luce è anche corredato da un’Appendice, dove
per la prima volta è pubblicata una raccolta fotografica inedita,
proveniente da quattro Archivi, raffigurante scene della famiglia di
Heidegger. Inoltre dirò che questo libro si è potuto realizzare grazie
alla fiducia che ci è stata accordata da Arnulf Heidegger e dal
reverendo Heinrich Heidegger di Messkirck (figlio di Fritz), dal quale
abbiamo appreso preziose informazioni che si sono rivelate molto utili
durante la fase di lavorazione del carteggio.
Delle foto in Appendice
una in particolare merita attenzione: la numero 16, presa dall’Archivio
Heinrich Heidegger, scattata il 29 maggio 1957 presso il Lago di
Costanza in occasione di un incontro privato tra Martin Buber e lo
stesso Heidegger. L’occasione era in vista di un simposio presso la
«Bayerischen Akademie der Wissenschaften» di Monaco da tenersi nel 1958,
al quale però Buber non poté partecipare a causa della scomparsa della
moglie Paula. L’incontro tra i due ebbe dunque luogo in privato, e fino
alla morte di Buber quelle foto non furono pubblicate e non si
conoscevano.
Al dialogo tra i celebri personaggi prese parte Carl
Friedrich von Weizsäcker, il quale redasse un verbale meticoloso, un
vero e proprio «Protocollo», che per molti anni si pensava fosse stato
perduto: è nostra intenzione pubblicare anch’esso presso l’editrice
Morcelliana. Lo faremo perché questo confronto tra Buber e Heidegger può
ritenersi «epocale» per gli argomenti affrontati. D’altra parte, i loro
discorsi gettano ulteriore luce sui rapporti che Heidegger continuò ad
avere con i suoi allievi ebrei, quali Karl Löwith e Hannah Arendt.
Servirà
a smentire le continue illazioni sull’antisemitismo personale di
Heidegger. Le quali non si possono utilizzare come interpretazioni
portanti della sua filosofia.
Carteggio 1930-1949
Martin Heidegger, Fritz Heidegger
Morcelliana, Brescia, pagg. 240, € 25
Il Sole Domenica 29.7.18
Filosofia politica
Democrazia fragile e in pericolo
di Sebastiano Maffettone
Quando
immaginiamo la fine della democrazia ci viene in mente Mussolini e la
marcia su Roma, la faccia truce di Hitler, o gli scherani di Pinochet.
Non è sempre così. Le democrazie possono anche finire per consunzione
interna. È quanto sostengono Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, due
scienziati politici di Harvard, in un libro di successo su quello che è
tristemente il tema del giorno, sarebbe a dire la crisi della
democrazia.
Intitolato How Democracy Die, il libro in questione è
stato ritenuto uno dei libri dell’anno dal «New York Times» e tradotto
in 15 lingue. Levitsky è uno specialista di Sud-America e Ziblatt di
studi europei, ma il loro libro parla essenzialmente degli Stati Uniti,
di Trump, e dell’impatto che la decadenza politica americana può avere
sul resto del mondo. Per cui, il sottotitolo «ciò che la storia rivela
sul nostro futuro» sarebbe stato meglio sostituirlo con un meno
ambizioso «in che modo la crisi della politica americana mette a
repentaglio le basi della democrazia».
Perché il cuore del libro è
proprio su questo aspetto della vicenda democratica: come la democrazia
presupponga un delicato equilibrio di check and balances, un equilibrio
che non è e non può essere solo costituzionale ma dipende dal rispetto
per i competitors e dalla tolleranza. Levitsky e Ziblatt hanno, da
questo punto di vista, buon gioco a mostrare come la polarizzazione e la
radicalizzazione politica siano i veri pericoli che mettono a rischio
la vita stessa della democrazia. Storicamente parlando, polarizzazione e
radicalizzazione sono se così di può dire due elementi «normali» della
politica, e per esempio -ai tempi della nascente Repubblica americana- i
Federalisti mal sopportavano i loro avversari politici, considerati
nemici veri e propri. Ma poi, poco alla volta, aveva preso piede
l’attitudine al rispetto dell’altro, alla competizione equa, soprattutto
al fatto che - vinca o perda il mio partito- la repubblica manterrà il
suo stile costituzionale e il rispetto delle regole. Proprio ciò che -a
detta dei due autori, ed è difficile dargli torto- non sta avvenendo al
giorno d’oggi. Come il comportamento di Donald Trump mostra con trista
abbondanza di dettagli. Ci sarebbero comunque quattro indicatori di
rischio, soglie dell’autoritarismo, cui dobbiamo badare se vogliamo
proteggere quel bene prezioso che è la democrazia. Sono: rifiuto
sistematico delle regole del gioco democratico, negazione della
legittimità degli oppositori politici, incapacità a essere tolleranti,
disponibilità a limitare le libertà civili a cominciare da quelle che
riguardano i media. Leader come Putin, Erdogan, Chavez hanno tutti
sfruttato vittorie elettorali per poi mettere a repentaglio questi
standard da tutelare. Così sta facendo Trump. E la cosa qui è più grave
perché piaccia o meno gli Stati Uniti si sono sempre presentati come gli
alfieri della democrazia. E ora che sembrano non esserlo più mettono a
repentaglio non è solo la libertà loro ma quella dell’intero globo.
Conclusione questa ahimé deprimente, contro cui l’unica raccomandazione
consiste nell’alzare il livello di guardia e proteggere noi stessi dai
peggiori sentimenti. Sperando che basti…
How Democracies Die. What History Reveals about Our Future,
Steven Levitsky, Daniel Ziblatt
Viking (Penguin), New York (USA)
pagg. 312, £16.99
Il Sole Domenica 29.7,18
L’esperimento
di Stanford. Nel 1971 alcuni studenti vennero reclutati dallo psicologo
Philip Zimbardo per simulare una detenzione. Ora se ne mette in dubbio
l’autenticità. Sbagliando
Prigionieri per finta?
di Gian Vittorio Caprara e Gilberto Corbellini
Due
riferimenti sperimentali della psicologia dei comportamenti umani in
contesti costrittivi sono in questi anni sotto attacco: l’esperimento di
Stanley Milgram del 1961 sull’autorità, e quello di Philip Zimbardo del
1971 sugli effetti del contesto carcerario nel causare
deresponsabilizzazione personale e disumanizzazione. L’esperimento di
Milgram è inattaccabile, essendo stato replicato in diversi contesti:
persone del tutto comuni possono essere portate dalla soggezione
all’autorità a far del male ad altri.
La psicologa australiana Gina
Perry sembra avere un conto personale con Milgram e da anni cerca di
smontarne il lavoro e la dignità scientifica: in realtà manipola i
documenti ma soprattutto le interviste, per far apparire il più
importante studioso di psicologia dell’autorità un imbroglione. Il suo
libro (Behind the shock machine, 2012) trasuda pregiudizi che prevalgono
sull’obiettività storico-scientifica.
L’esperimento della prigione
di Stanford, condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Zimbardo è
stato più volte criticato, ma negli ultimi mesi in modi particolarmente
accaniti. Un libro in francese (Thibault Le Textier, Histore d’un
mensogne) e un lunghissimo blog (Ben Blum, The Lifespan of a Lie,
https://medium.com/s/trustissues/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62)
sostengono che si sarebbe trattato di una menzogna. L’uso di toni
insultanti e definire fake news quell’esperimento, implicherebbe la
scoperta di fatti assolutamente nuovi e incontrovertibili. Dato che sono
diretti a uno psicologo dai modi forse un po’ da primadonna, ma che
attraverso le ricerche, l’insegnamento e i manuali è stato un
protagonista della psicologia, al di là dell’esperimento della prigione
di Stanford.
Trattandosi di un esperimento che è parte integrante del
processo di naturalizzazione delle scienze sociali, diventato ancor più
famoso dopo la testimonianza di Zimbardo al processo per gli abusi
nelle prigioni irachene di Abu Grhaib e dopo la pubblicazione del libro
L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa? (Raffaello Cortina 2008), è
utile capire quanto le critiche siano giustificate, in modo da evitare
confusioni culturali. L’esperimento dimostra che episodi di abusi e
violenze in contesti carcerari o bellici non sono dovuti a poche «mele
marce»individui già tarati che perpetrano angherie o torture), ma
avvengono in quanto particolari situazioni fanno marcire mele altrimenti
sane.
L’esperimento consisteva nella simulazione di una detenzione.
Un gruppo di 24 studenti reclutati con annunci e pagati 15$ al giorno
per partecipare, era sottoposto a test psicologici e controlli per
attestare che non fossero mentalmente instabili o con precedenti penali,
e quindi in modo casuale una parte fu assegnata al ruolo di prigionieri
e una parte al ruolo di guardie carcerarie organizzate in turni di 8
ore. I partecipanti erano invitati a immergersi nei loro ruoli e
l’esperimento fu studiato in modo che tutti gli aspetti, i
comportamenti, i tempi, i riti, etc. della dinamica carceraria si
producessero in quel setting; tranne la violenza che era esplicitamente
vietata. L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane. Dopo circa 6
giorni fu interrotto perché nel frattempo un detenuto dovette essere
rilasciato per una grave crisi nervosa e altri ebbero crisi analoghe,
oltre che per i comportamenti delle guardie sempre più lesivi delle
dignità dei detenuti. Quell’esperimento non sarebbe approvato oggi, in
quella forma, da alcun comitato etico dal momento che non si accorda con
le linee guida che l’American Psychological Association ha stabilito
successivamente per evitare danni ai soggetti che partecipano a
esperimenti di psicologia. Potrebbe risultare disturbante trovarsi nella
parte della vittima, ma potrebbe essere destabilizzante scoprire in sé
una parte di aguzzino.
Peraltro, cosa discutibile metodologicamente e
abbastanza grave, Zimbardo scelse di non rimanere estraneo ritagliando
per sé il ruolo di soprintendente della “prigione”. È difficile
stabilire quanto ciò possa avere influenzato i comportamenti di guardie e
prigioniero ed ostacolato una più obiettiva comprensione di quanto
accadeva. Su questo Zimbardo rende merito a Cristina Maslach, la
fidanzata che sarebbe poi diventata sua moglie, di averlo indotto a
considerarne le conseguenze imprevedibili ed indesiderabili, e quindi a
sospendere l’esperimento.
Perché si dice che quell’esperimento
sarebbe stato una sceneggiata non scientifica? Fondamentalmente su tre
basi: a) alcuni dei partecipanti hanno rilasciato interviste dalla quali
si evincerebbe che Zimbardo disse loro, in particolare alle guardie,
cosa fare (questo significherebbe che i comportamenti di abuso non erano
spontanei e indotti dal contesto) e che la crisi nervosa di uno dei
detenuti era finta; b) i risultati dell’esperimento non furono
pubblicati su riviste scientifiche ma diffusi attraverso i media e in
particolare in un articolo sul «New York Times» nel 1973; c)
l’esperimento non fu mai replicato e l’unico tentativo fatto nel 2002
con il supporto della BBC, lo confuterebbe.
Nessuna di queste
critiche è fondata. Un “detenuto” che per oltre trent’anni ha detto che
la sua crisi psicologica era autentica, con tanto di registrazioni e
quindi prove, improvvisamente ha cambiato versione? Sarebbe più giusto
chiedersi il perché questo cambiamento. Quale interesse poteva avere
Zimbardo a manipolare un esperimento dal quale doveva ricavare
informazioni utili per diverse agenzie federali che l’avevano
finanziato? Da quel momento fu chiamato più volte come esperto e perito
da varie agenzie federali nel contesto di progetto di riforme carcerarie
o per spiegare le cause delle rivolte nelle prigioni.
Poiché
l’esperimento fu sospeso i risultati di cui si è dato conto sono stati
soltanto parziali. Essi tuttavia hanno avuto notevole risonanza anche su
diverse riviste specialistiche, prima e dopo l’articolo sul «New York
Times»: i fatti, l’impatto dell’esperimento e la bibliografia si possono
trovare in «American Psychologist» 1998; 7: pagg. 709-727. Da molti
l’esperimento è ritenuto un classico ed un modello esemplare della
ricerca psicologica che mostra quanto possano essere importanti le
circostanze nell’indurre a comportamento che violano la dignità delle
persone. Quanto alla replica, nel 1979 tre ricercatori australiani
pubblicavano i risultati di un esperimento analogo a quello di Zimbardo,
con tre diversi ambienti carcerari da cui emergevano gli stessi fatti, e
la prova che l’organizzazione sociale delle prigioni conta più delle
personalità dei partecipanti nel produrre le dinamiche di ostilità. La
BBC, infine, ha sponsorizzato un reality televisivo (ripreso da
telecamere e trasmesso) ispirato all’esperimento di Stanford (The
Experiment, 2002), ma è discutibile quanto possa essere ritenuto una
replica o soltanto confrontabile con quello di Zimbardo.
Per quali
ragioni l’esperimento di Zimbardo come altri esperimenti di psicologia
sociale sono sotto attacco? Probabilmente chi coltiva idee umanistiche
vaghe e soprattutto in tempi di postmodernismo e post-verità non si
accetta che il comportamento sociale umano sia predicibile su basi
psicologiche, sia pure entro certi e anche ampi limiti. In realtà la
ricerca ha fatto notevoli progressi nel mostrare che le circostanze che
inducono a comportamenti riprovevoli operano tramite processi di
depersonalizzazione, di disimpegno morale, e di esclusione che si
possono prevenire o contrastare.
Histoire d’un mensonge. EnquÊte sur l’expérience de Stanford
Thibault Le Textier
Zones, Parigi, pagg.296, € 18
Il Sole Domenica 29.7.18
Yascha Mounk. Ungheria e Turchia, Trump e Grillo: analisi dei populismi
Così avanzano le democrazie illiberali
di Tommaso Edoardo Frosini
Tra
i numerosi libri di recente pubblicati sul populismo e dintorni, questo
di Mounk ha il pregio di andare a fondo del problema e cogliere una
serie di aspetti riferibili alle democrazie illiberali. Innanzitutto, si
lascia apprezzare per l’indagine comparata dei regimi politici, che
stanno subendo un inquietante constitutional retrogression. Una sorta di
arretramento del costituzionalismo e svuotamento della costituzione,
che passa attraverso non una revisione della stessa ma piuttosto una
azione politica anticostituzionale.
I casi della Ungheria e della
Turchia, ma non solo, rappresentano una preoccupante testimonianza. Come
dimostra Mounk, l’Ungheria, per esempio, è passata in pochi anni da una
democrazia liberale in un nuovo «Stato illiberale basato su fondamenta
nazionalistiche». È bastato che il presidente Orbán mettesse i suoi
fedeli seguaci a capo della televisione di Stato, della commissione
elettorale e della Corte costituzionale. Per poi cambiare il sistema
elettorale a proprio vantaggio, cacciare le aziende straniere e imporre
regole assai restringenti per le Ong. Dando così una torsione illiberale
alla forma di Stato. La democrazia liberale, quella che pareva fosse la
fine della storia e l’ultimo uomo, si sta disgregando, sostiene Mounk.
Il concetto di popolo ha finito con l’essere manipolato in una
declinazione populista, il valore della democrazia è privata dei
diritti. La natura del populismo è sia democratico che illiberale, cerca
cioè di esprimere le frustrazioni della gente da un lato, e di
indebolire le istituzioni liberali dall’altro: la separazione dei
poteri, tanto per cominciare.
Il populismo accentra non diversifica,
concentra non pluralizza. Si manifesta come sintomo di una crisi di
rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. La fusione
novecentesca delle due dottrine politiche, la democrazia e il
liberalismo, che è stata la formula costituzionale che ha garantito
giustizia e libertà, si sta scollando, destabilizzando le fondamenta del
costituzionalismo. C’è da preoccuparsi, e Mounk cita allarmato anche
ciò che potrebbe succedere negli Usa durante la presidenza Trump e
nell’Italia governata da Beppe Grillo e il suo movimento. Scrive Mounk,
«Non ingannatevi: il sistema italiano è al tracollo. Ha un disperato
bisogno di cambiamento [...] senza mettere in discussione i principi
della democrazia liberale né distruggere il lascito della Costituzione
italiana». Certo, la questione non è riferibile solo alle singole
esperienze politiche, ma piuttosto al fenomeno nella sua dilatazione
geografica. È come stesse nascendo, in giro per il mondo, una nuova
dottrina politica, la democrazia illiberale. E stesse attecchendo, come
un virus, nei Paesi dove vige, ancora per poco, la democrazia liberale.
Un sistema di governo ritenuto immutabile sembra sul punto di andare a
pezzi per essere sostituito da un sistema, meglio un metodo di governo,
che vuole demolire l’idea di costituzione e costituzionalismo come
tramandataci dalla storia.
C’è da chiedersi, allora, se siamo stati
capaci di conservare le fondamenta della democrazia liberale, se tutto
nasce dalla nostra incapacità di gestire in coppia diritti individuali e
volontà popolare. Se abbiamo dissipato un patrimonio di regole e
consuetudini improntate sulla fiducia e sul buon governo. È possibile
che sia così e il dilagante fenomeno della corruzione in parte lo
dimostra. Allora, cosa fare? Le proposte di Mounk sono ragionevoli ma
fin troppo speranzose: scendere in piazza per opporci ai populismi;
ricordare ai nostri concittadini le virtù della libertà e
dell’autogoverno; spingere i partiti tradizionali ad abbracciare un
programma ambizioso, capace di rinnovare la promessa della democrazia
liberale di un futuro migliore per tutti. Vorrei aggiungere la necessità
di promuovere anche una migliore istruzione pubblica e privata e un
rafforzamento della cultura e della scienza. Perché l’ignoranza è il
terreno di coltura dei populismi.
Popolo vs Democrazia.
Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale
Yascha Mounk
Feltrinelli, Milano, pagg. 334, € 18
Corriere 28.7.18
Quanti equivoci su Rousseau
Il tranello del cittadino totale
C’è
chi propone di superare la rappresentanza politica ma la democrazia
diretta è solo un’illusione. Soprattutto se si pretende di fondarla su
internet e i social network
di Mario Garofalo
qui
si ringrazia Paola Gramigni e Elisabetta Amalfitano
Corriere La Lettura 29.7.18
1918 2018
La lezione dimenticata
Dopo la Prima guerra mondiale la prevalenza degli egoismi nazionali
dei
vincitori pose le basi di un altro conflitto. Oggi si rivela deleterio
l’ingresso nell’Ue dei Paesi ex satelliti di Mosca. Molto meglio una
pacifica secessione
di Sergio Romano
Trenta isole lontane e
trenta fantastiche (+ 1) Il senso storico dei poeti, saggisti per
ispirazione Giulio, il figlio perfetto con un amore impossibile La
guerra di Phil Stern torna (e resta) in Sicilia La trappola nel bosco e
quelle nella coppia
Quando chiesero un armistizio, nell’autunno del
1918, i Paesi sconfitti della Prima guerra mondiale cercarono di
sottrarsi alle misure punitive dei vincitori invocando i 14 punti che il
presidente degli Stati Uniti aveva enunciato nel suo discorso al Senato
americano l’8 gennaio precedente. Woodrow Wilson proponeva al mondo una
diplomazia trasparente, libertà di navigazione, rimozione delle
barriere commerciali, il ritiro delle truppe dai territori occupati, una
maggiore sensibilità per i desideri e gli interessi delle popolazioni
nei possedimenti coloniali, la restaurazione del Belgio, la rinascita
della Polonia, l’applicazione del principio di nazionalità per la
definizione di nuove frontiere, soprattutto negli imperi
multi-nazionali, da quello austro-ungarico a quello ottomano. E
terminava il suo appello invocando la creazione di una Società delle
Nazioni, a cui sarebbe stato affidato il compito di regolare le
controversie e punire le infrazioni del diritto internazionale.
La
realtà, dopo la firma dei trattati di pace, fu alquanto diversa. La
diplomazia dei vincitori spogliò l’Ungheria delle sue terre slave
(Slovacchia e Croazia), ma regalò alla Romania gli ungheresi della
Transilvania. Tolse la Slovenia all’Austria, ma impedì agli austriaci di
formare con la Germania un più grande Stato di lingua tedesca e dette
all’Italia, insieme a Trento e a Trieste, i sudtirolesi della provincia
di Bolzano. Creò un nuovo Stato slavo, la Cecoslovacchia, ma mise sul
piatto, per buona misura, i tre milioni di tedeschi del Sudetenland.
Restaurò la Polonia, ma arrotondò i suoi confini con territori, lungo la
frontiera occidentale, in cui risiedevano antiche comunità tedesche.
L’Impero ottomano fu divorato, ancor prima della sua morte, da Francia e
Gran Bretagna, con qualche boccone all’Italia. Le colonie tedesche
furono spartite fra i tre maggiori imperi coloniali dell’Africa nera
(Belgio, Francia e Gran Bretagna).
Quando si cominciò a parlare degli
indennizzi che la Germania avrebbe dovuto pagare ai vincitori, i
francesi prepararono un minuzioso elenco dei danni subiti dai territori
occupati e dei costi umani. La cifra calcolata dal loro ministro delle
Finanze fu di 134 miliardi di franchi, pari a 5 miliardi e 360 milioni
di sterline. Un giovane e brillante economista inglese, John Maynard
Keynes, scrisse un libro profetico (Le conseguenze economiche della
pace) per spiegare quali effetti una cifra di tale grandezza avrebbe
avuto per l’economia, non soltanto tedesca. Ma il problema delle
riparazioni rimase una spina nel fianco della Germania e dell’intera
Europa sino a quando, con l’avvento di Adolf Hitler al potere, il
problema venne bruscamente accantonato.
Un’altra spina nel fianco fu
la politica degli Stati Uniti. Non chiesero indennizzi, ma pretesero il
pagamento dei debiti che gli Alleati, durante la guerra, avevano
contratto con le loro banche. Qualcuno (Keynes fra gli altri) osservò
che gli americani avevano speso per la guerra molto meno dei loro
alleati e che la migliore delle soluzioni possibili sarebbe stata
l’azzeramento di tutti i debiti. Ma l’America stava ridiventando
isolazionista e il governo insistette per il rimborso di una parte
considerevole dei suoi prestiti; mentre il Congresso degli Usa rifiutò
di ratificare un trattato di pace, negoziato a Versailles, che
prevedeva, tra l’altro, la creazione di quella Società delle nazioni che
Wilson aveva auspicato nel suo quattordicesimo punto. Accadde così
paradossalmente che gli Stati Uniti, dopo averne proposto la creazione,
rifiutarono di partecipare alla gestione della loro creatura e voltarono
le spalle all’Europa per più di vent’anni.
Alla fine della Seconda
guerra mondiale molti avevano ormai idee chiare sulle origini e sulle
responsabilità del conflitto. In Europa sapevamo che lo scontro dei
nazionalismi contrapposti era stato per l’Europa stessa una sorta di
suicidio collettivo; che il protezionismo e l’autarchia avevano
drasticamente ridotto gli scambi internazionali e impoverito l’intero
continente; mentre l’America non ignorava che la sua assenza aveva reso
la maggiore organizzazione internazionale molto meno efficace di quanto
sarebbe stata con la sua presenza.
Per riparare agli errori commessi
nel primo dopoguerra, furono prese nel secondo iniziative utili e
promettenti. Franklin D. Roosevelt si prodigò per la creazione di una
nuova Società delle Nazioni che fu chiamata Onu e ottenne l’approvazione
del Congresso. Anziché chiedere indennizzi e rimborsi, il suo
successore, Harry Truman, finanziò con il piano Marshall la
ricostruzione delle democrazie europee; e avrebbe finanziato anche
quella della Cecoslovacchia se l’Unione Sovietica non lo avesse
proibito. Per non cedere alla tentazione del protezionismo fu creato il
Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade). Alcuni Paesi europei si
unirono per condividere le principali risorse (carbone e acciaio)
necessarie per la loro esistenza, e cominciarono un percorso che avrebbe
avuto per effetto, all’inizio degli anni Novanta, la creazione di un
mercato unico e una unione monetaria.
Ma contemporaneamente i
vincitori, veri o presunti, della Seconda guerra mondiale ricominciavano
a comportarsi come vincitori. La Russia di Stalin si servì della sua
ideologia per meglio estendere la propria influenza. Nel 1953 Gran
Bretagna e Stati Uniti organizzarono un colpo di Stato in Iran per
meglio controllare le risorse petrolifere del Paese. Francia e Gran
Bretagna cercarono di togliere al governo egiziano, con la spedizione di
Suez del 1956, il controllo della sua maggiore via d’acqua. La
decolonizzazione fu ritardata dalla riluttanza dei vecchi dominatori in
Vietnam, Algeria, Malesia, Rhodesia, Angola. Per meglio esercitare la
loro leadership gli Stati Uniti crearono alcune centinaia di basi
militari nel mondo e si impegnarono in numerosi conflitti, dalla Corea
al Vietnam, dall’Afghanistan all’Iraq, quasi sempre con risultati
mediocri, se non addirittura negativi. Per almeno tre generazioni
l’Europa ha ospitato due organizzazioni militari — la Nato e il Patto di
Varsavia — che si guardavano in cagnesco, ma ebbero almeno il merito di
garantire la pace nel continente. Ciascuna delle due sapeva che ogni
tentativo di prevalere sull’altra avrebbe scatenato un conflitto
nucleare. Le guerre scoppiavano altrove e regalarono all’Europa la più
lunga pace della sua storia.
La fine della guerra fredda e il
collasso dell’Unione Sovietica hanno reso l’Europa molto più insicura.
Le sue nazioni hanno dimenticato quasi tutte le lezioni che la storia
aveva impartito al loro continente durante il XX secolo. La lista dei
disastri è lunga. È scomparso il Paese (la Jugoslavia) che negli anni
della guerra fredda aveva recitato la parte dell’utile cuscinetto fra i
due blocchi. Il fallimento delle modernizzazioni di tipo occidentale nei
Paesi musulmani del Mediterraneo e del Levante ha provocato un
risveglio religioso che ha generato il terrorismo islamista. La
incontrollabile fantasia finanziaria di Wall Street ha creato mostri (i
derivati) che hanno contagiato le nostre economie per un decennio.
La
globalizzazione ha salvato dalla povertà molte centinaia di milioni di
esseri umani, soprattutto in Asia, ma è responsabile, insieme alle nuove
tecnologie, del malessere di gruppi sociali che avevano conquistato un
decoroso livello di vita nel Paese in cui erano nati e vivevano di un
mestiere destinato a divenire, di lì a poco, obsoleto. L’immigrazione
dall’Africa e dall’Asia (forse la sola risposta razionale al declino
demografico di molte democrazie occidentali) ha provocato la nascita di
un ribellismo piagnucoloso e vittimista, che raccoglie consensi
soprattutto là dove alcuni ceti sociali hanno sviluppato una patologica
paura del futuro.
La principale vittima di queste nuove paure è stata
l’immagine dell’Europa. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la
sua unità è stata percepita, per alcune generazioni, come il migliore
rimedio agli errori che avevamo commesso dopo la fine del primo
conflitto. Il Manifesto di Ventotene, insieme ad altri scritti di
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Luigi Einaudi, ha avuto, non soltanto
per l’Italia, una importanza comparabile a quella dei 14 punti di Wilson
per l’intera comunità internazionale. Grazie all’unità dell’Europa,
avremmo smesso di litigare per le nostre frontiere. Avremmo unito le
nostre forze per affrontare insieme il problema del nostro sviluppo
economico. Avremmo fatto leggi valide per l’intero continente. Avremmo
garantito ai nostri figli e alle nostre imprese il diritto di muoversi
liberamente per studiare, lavorare e intraprendere là dove avrebbero
meglio valorizzato le loro capacità. Avremmo creato un Parlamento per
studiare e approvare politiche comuni. E la forza dell’unità ci avrebbe
permesso di negoziare migliori condizioni per commerciare in un mondo
dominato da potenze continentali. I progressi non sarebbero stati
immediati, ma ogni rinuncia alla nostra sovranità sarebbe stata ripagata
dalla crescita di una più grande sovranità comune.
Tutti questi
principi sono stati messi in discussione, all’interno della Unione
Europea, da due fenomeni paralleli. Il primo è l’avversione all’Ue di
movimenti e partiti nazional-populisti. Avevano bisogno di un nemico per
meglio mobilitare i loro elettori e lo hanno trovato nella burocrazia
di Bruxelles. Come ogni fenomeno politico anche questo ha avuto effetti
che potrebbero rivelarsi positivi. L’uscita della Gran Bretagna dall’Ue
dopo il referendum del giugno 2016 ci ha liberati di un partner che non
voleva l’unità dell’Europa e che ne avrebbe fatto, se le sue idee
avessero prevalso, una semplice zona di libero scambio. Ma l’ingresso
nell’Unione dei Paesi che erano appartenuti al blocco sovietico ha
avuto, nel frattempo, conseguenze ancora più negative.
Mentre i Paesi
fondatori (i sei della Ceca e dei trattati di Roma) ricordavano la
tragedia dei nazionalismi ed erano pronti, anche se con frequenti
esitazioni, a sacrificare la propria sovranità per la creazione di una
Europa federata, gli ex satelliti ricordavano soprattutto il loro
asservimento allo Stato sovietico e avevano salutato la fine della
guerra fredda come un ritorno alla sovranità nazionale sotto l’ombrello
protettore degli Stati Uniti. Con tutte le differenze del caso siamo in
una situazione non troppo diversa da quella in cui si trovarono gli
Stati Uniti quando il Paese si divise fra unionisti e confederati. Vi fu
allora una guerra che dette la vittoria agli unionisti. Nel nostro caso
basterebbe una pacifica secessione.
Corriere La Lettura 29.7.18
In Europa serve una nuova Resistenza
L’intervista.
Edgar Morin, 97 anni, ritrova negli anni dell’adolescenza
antifranchista e antinazista e negli slanci ideali seguiti alla Seconda
guerra mondiale i motivi per una rinascita continentale
di Nuccio Ordina
«Il
mondo si evolve in una direzione spaventosamente regressiva. La norma
voluta da Netanyahu e appena approvata dalla Knesset (Israele concepito
come uno Stato solamente ebraico) è un durissimo colpo ai diritti civili
e agli sforzi per favorire la pace. Bisogna creare delle oasi di
resistenza fondate sulla fraternità, sulla solidarietà umana, sul
rifiuto dell’egoismo trionfante. Adesso denunciare non basta: è
necessario soprattutto enunciare un nuovo pensiero in grado di
rispondere alla complessità del presente». Edgar Morin — Nahoum, il vero
cognome, viene sostituito dal suo nome di battaglia durante la
Resistenza — a 97 anni compiuti l’8 luglio, non getta la spugna. Anzi,
con grandissima passione, lancia un grido di allarme: il destino
dell’Europa e del mondo non può essere lasciato in mano ai
fondamentalismi religiosi, ai nazionalismi, agli «imprenditori della
paura» che vincono le elezioni, agli spregiudicati interessi economici
delle superpotenze.
Di origini toscane («Sono molto fiero che i miei
antenati, ebrei sefarditi, provengano da Livorno»), il filosofo non
nasconde il suo grande amore per l’Italia. «La Lettura» incontra Morin a
Fontfroide, splendida abbazia nei Pirenei, dove da tredici anni il
musicista e filologo catalano Jordi Savall organizza un festival di
musica, quest’estate dedicato al tema Musica e storia. Per un dialogo
interculturale. Qui, nel meraviglioso giardino del convento, il filosofo
francese ha tenuto una conferenza proprio sul tema della guerra e della
pace.
Professore, quali sono i conflitti più preoccupanti in questo momento?
«L’area
mediorientale è senza dubbio quella più turbolenta. C’è il problema
della ricostruzione della Siria, c’è la necessità di ricreare un’unità
nazionale in un Paese multiculturale destabilizzato come l’Iraq e
l’antico spinoso problema dei rapporti tra palestinesi e israeliani, ora
aggravato da questa pericolosa norma appena votata che discrimina le
minoranze e pregiudica i processi di pace».
Partiamo dalla Siria...
«Ho
sempre pensato che una politica più accorta avrebbe potuto evitare la
distruzione della Siria (pensi a città meravigliose come Aleppo o al
patrimonio archeologico sparso in tutto il territorio) e soprattutto le
stragi che, a più riprese, hanno decimato la popolazione. Si è scatenato
un conflitto internazionale all’interno di una guerra civile. Ma ancora
la cosa più importante e preliminare è favorire la pace con la garanzia
delle grandi potenze internazionali. A poco a poco la resistenza
antiregime si è identificata con un aggregato molto disomogeneo: gli
autentici oppositori della dittatura e poi pericolosissime frange
fondamentaliste che hanno, con l’uso della violenza, ridotto quasi
all’impotenza le altre componenti. Con il duro intervento militare della
Russia, adesso i nemici del regime sono stati neutralizzati».
Come si può risolvere questo conflitto così contradditorio e ingarbugliato?
«Non
è facile prospettare una soluzione. Però l’esperienza del Libano credo
possa essere illuminante: una coesistenza pacifica ed equilibrata tra
cristiani, sciiti, sunniti. Una confederazione del Medio Oriente in cui
le grandi potenze giochino il ruolo di garanti».
Però non è facile dar vita a un compromesso tra i gruppi in conflitto e, soprattutto, tra le stesse grandi potenze.
«Certo.
Il quadro si è ulteriormente complicato negli ultimi anni. Le monarchie
arabe, per esempio, hanno avuto per lungo tempo a cuore la questione
palestinese. Oggi sono ossessionate più dal conflitto religioso interno
con gli sciiti che con Israele: l’Iran è diventato il primo nemico e i
sionisti vengono addirittura visti come possibili alleati per
sconfiggere le forze sciite. Questo cambio di strategia ha provocato un
disinteresse per il destino dei profughi palestinesi e, nello stesso
tempo, un rafforzamento delle posizioni fondamentaliste all’interno di
Israele. In queste condizioni, trovare un compromesso è molto più
difficile. Così come, dopo i grossi errori commessi in Iraq, non sarà
facile trovare un nuovo equilibrio in un territorio completamente
destabilizzato. E lo stesso discorso vale per il Maghreb: Paesi fratelli
come il Marocco e l’Algeria, anziché essere solidali, sono in perenne
conflitto. Le nazioni si rinchiudono sempre più in sé stesse scatenando
aggressività e odio. Mancano una coscienza politica araba confederativa e
una coscienza planetaria universalista».
Questo vale anche per l’Europa...
«Che
tristezza! L’idea di Europa era nata su basi encomiabili. Dopo il
disastro della Seconda guerra mondiale, dopo l’aggressione tra nazioni
sorelle, molti spiriti nobili avevano pensato di dar vita a un’unione
europea per favorire la pace, la solidarietà e far fronte alla minaccia
sovietica. Oggi l’Europa è ostaggio di tecnocrati, banchieri,
finanzieri. È uno scandalo che uno dei continenti più ricchi non sia
capace di esprimere una politica umanitaria solidale per favorire
l’accoglienza di fratelli disperati che fuggono da guerre,
fondamentalismi e miseria».
Dilagano egoismi nazionalisti alimentati dalla retorica della paura dell’altro...
«La
rinascita, in diversi Paesi europei, dell’odio razziale,
dell’antisemitismo, dell’antislamismo, è veramente preoccupante. Anche i
governi più aperti sono paralizzati dalla paura di una sconfitta
elettorale. Sono intimoriti dagli slogan della destra contro migranti e
rifugiati. La Francia, che ha una storica tradizione umanitaria, avrebbe
potuto benissimo accogliere la nave Aquarius, ma non l’ha fatto temendo
la reazione dei lepenisti. Lo stesso vale per la Merkel in Germania: ha
duramente pagato alle ultime elezioni le sue aperture».
E allora che cosa si può fare?
«Bisogna
cambiare l’attitudine mentale. Far comprendere ai giovani che gli
egoismi e i nazionalismi creano conflitti e, nello stesso tempo, rendono
più misera la nostra esistenza. Solo un universalismo fondato sulla
solidarietà e sulla fraternità potrà far fronte a questa deriva. Bisogna
partire dalle scuole, dall’educazione delle nuove generazioni. E, per
far questo, è necessaria una classe insegnante che abbia una coscienza
civile: non si va a scuola per imparare un mestiere, ma per diventare
cittadini colti e solidali».
Ma oggi scuole e università sono sempre più al servizio del mercato: non è un’utopia?
«Al
contrario: l’“utopia” dilagante è quella di far credere che il mercato
risolva tutti i problemi. Il vero realismo sta nella resistenza a questa
“utopia”. La mia lunga vita mi ha insegnato che non bisogna mai
abbassare le braccia. A 15 anni lavoravo per aiutare i combattenti
spagnoli e poi ventenne ho militato nella Resistenza francese. In quegli
anni sembrava impossibile frenare la tragica avanzata dei nazisti.
Eppure, all’improvviso, una luce è apparsa nel tunnel. Ci sono momenti
della storia in cui basta uno scarto inatteso per cambiare le cose:
Gorbaciov nell’Urss o Papa Francesco nella Chiesa. Ma soprattutto
Mandela (qualche giorno fa era il centenario della sua nascita): anni di
prigione e di lotta, per mutare radicalmente il destino di una società
che sembrava immutabile. Bisogna resistere e continuare a combattere per
rendere possibile l’impossibile».
Corriere La Lettura 29.7.18
L’esempio evocato invano da Hitler
di Marcello Flores
L’11
dicembre 1944, alla vigilia dell’offensiva sulle Ardenne — che sarebbe
iniziata il 16 all’alba —, Adolf Hitler illustra ai suoi generali i
motivi dell’attacco: occorre mantenere alta la speranza nella vittoria e
convincere i nemici che non prevarranno, ridando vigore a una guerra
offensiva. Non era la prima volta che il Führer accompagnava con
considerazioni «psicologiche» i propri orientamenti strategici: la
volontà di vincere come elemento imprescindibile. Perciò fece nuovamente
riferimento a Federico II il Grande, re di Prussia dal 1740 al 1786: un
capo determinato a ribaltare le previsioni di una sconfitta annunciata.
Il
26 dicembre, con lo sfondamento del fronte tedesco da parte del
generale Patton, diretto a salvare Bastogne dall’assedio nazista,
l’operazione Herbstnebel (Nebbia d’autunno) è ormai fallita, ma Hitler
ordina un nuovo attacco verso il nord dell’Alsazia. Il 28 dicembre parla
ancora una volta ai suoi comandanti, ammonendo che una vittoria alleata
avrebbe portato alla fine della Germania e alla bolscevizzazione
dell’intera Europa. La razza ariana tedesca rischiava di estinguersi per
sempre. Il richiamo alla volontà di Federico II, capace di trionfare in
condizioni avverse giocando d’anticipo e tornando all’attacco, viene di
nuovo richiamato con un esplicito accenno alla «guerra dei Sette anni,
nella quale già il terzo anno in innumerevoli organi di carattere
militare e politico prevaleva la convinzione che la guerra non si
sarebbe mai potuta vincere». Il 1° gennaio 1945 iniziava l’ultima,
fallimentare offensiva di Hitler.
Corriere La Lettura 29.7.18
La primissima guerra mondiale
In realtà Berlino voleva impadronirsi della Sassonia
di Davide Maffi
Quando
il 29 agosto 1756 oltre 70 mila soldati prussiani varcarono il confine
sassone marciando compatti verso Dresda, dando così avvio alla guerra
dei Sette anni, il re Federico II Hohenzollern chiaramente si stava
giocando il tutto per tutto in una lotta contro il tempo: avviare una
campagna preventiva per anticipare i suoi avversari.
Sin dai primi
mesi dell’anno, l’abile cancelliere imperiale austriaco, il principe
Kaunitz, era riuscito a cucire una serie di alleanze con la Francia e
con la Russia, stringendo così in una morsa di ferro la Prussia.
L’avvicinamento tra gli Asburgo di Vienna e i Borbone di Francia aveva
dato il là al cosiddetto rovesciamento delle alleanze, dato che due
potenze sino a quel momento nemiche si erano ora, per la prima volta
nella loro lunga storia, unite in un solido patto che prevedeva il
ridimensionamento, se non l’annientamento, della potenza prussiana. Quel
Regno di Prussia che solo pochi anni prima aveva strappato la ricca
regione della Slesia a Maria Teresa d’Austria, provocando un forte
desiderio di rivincita all’interno delle forze armate e della corte di
Vienna e i timori delle altre potenze, sbigottite alla nascita di una
nuova potenza militare nel cuore del continente europeo. Al connubio
franco-austriaco si era presto aggiunta anche la Russia della zarina
Elisabetta, desiderosa di espandere la sfera d’influenza dell’Impero
russo verso Occidente.
La decisione di assalire proditoriamente
l’elettorato di Sassonia rispondeva così al desiderio di Federico di
anticipare gli avversari: attaccare e sconfiggere sassoni e austriaci
prima che i russi, ma anche i francesi, avessero portato a termine i
loro preparativi offensivi. Una guerra preventiva contro la minaccia di
un conflitto su tre fronti che alla lunga era destinato a schiacciare la
Prussia. Solo contro tutti, con il solo appoggio della Gran Bretagna,
il re filosofo di Sanssouci si imbarcò così in una nuova avventura
militare convinto di poter avere la meglio dei suoi avversarsi e di
sconfiggerli separatamente. Una pia illusione, dato che l’azzardo
fridericiano era destinato a trasformarsi nel più sanguinoso conflitto
dell’Ancien Régime, con oltre un milione di morti, con la monarchia
prussiana che sopravvisse al disastro finale solo grazie a una serie di
fortunate circostante.
La divisione tra i ranghi degli avversari, che
mostrarono spesso di seguire strategie contraddittorie e divergenti fra
loro, la prudenza dei generali imperiali e russi, mai pronti a
rischiare troppo per cogliere quella vittoria finale che in più di una
occasione apparve a portata di mano, e, soprattutto, l’inaspettata morte
della zarina Elisabetta, agli inizi del 1762, il famoso «miracolo della
casa di Brandeburgo», salvarono la Prussia dalla sconfitta finale e
permisero a Federico II di conservare la Slesia e mantenere il suo regno
nei ranghi delle grandi potenze europee.
Un conflitto ricordato per
il genio del monarca prussiano, in grado di battere in più occasioni
eserciti rivali enormemente superiori. I nomi di Rossbach, Leuthen,
Zorndorf, Torgau, solo per citare alcune delle grandi vittorie
dell’esercito fridericiano, dettero nuova linfa alla figura del re
filosofo quale primo vero padre della patria germanica. Un mito creato
dalla storiografia nazionalista protestante tedesca ottocentesca,
destinato a durare sino al secondo conflitto mondiale, che vedeva nella
guerra dei Sette anni, chiamata a lungo in Germania Terza guerra
slesiana, dal nome della regione il cui possesso fu tra le cause
principali del conflitto, nulla più di una lotta per l’egemonia sul
territorio tedesco tra la Prussia, destinata alla fine a risultare
trionfatrice con la creazione del Secondo Reich tedesco nel 1871, e
l’Austria, vista quale potenza decadente ormai non più al passo con i
tempi. Per i grandi storici tedeschi del XIX secolo il rilievo della
guerra si esauriva dunque nel quadro dell’area germanica, con la Prussia
costretta a difendersi con le unghie e i denti dalle mire dei suoi
rivali coalizzati contro di lei.
Si tratta di una visione
anacronistica, perché la recente storiografia ha profondamente rivisto
il ruolo di questo conflitto non solo sullo scenario europeo, ma anche a
livello mondiale.
In primo luogo è stata messa in dubbio la visione
di un sovrano prussiano costretto al conflitto dalle mire dei rivali,
obbligato a invadere la Sassonia per prevenire la minaccia dei nemici.
Oggigiorno sono molti coloro che pensano che dietro l’invasione del
ricco elettorato vi fossero ben altre motivazioni e in particolare il
desiderio di Federico II di annettere il territorio alla Prussia, come
era riuscito a fare un quindicennio prima con la Slesia. Di fatto, in
varie occasioni il monarca prussiano aveva indicato nello Stato
confinante una preda di tutto rispetto in caso di conflitto ed è certo
che la Sassonia venne sottoposta nei sette anni seguenti a una rigida
occupazione militare e a una sistematica spoliazione delle sue
ricchezze, preludio a una futura annessione. Una politica di estorsione
legalizzata che fruttò alla Prussia oltre 50 milioni di talleri, somma
che permise al tesoro reale di coprire la terza parte di tutte le spese
di guerra.
Secondo questa visione, pertanto, Federico avrebbe
semplicemente sfruttato l’occasione propizia per ghermire una facile
preda con il desiderio di farne bottino di guerra, giustificando
l’aggressione con le impellenti necessità di prevenire un attacco
austro-russo. Il fallimento delle successive campagne e lo stato di
estrema prostrazione delle forze prussiane alla fine del conflitto
impedirono, però, al sovrano di portare a termine i suoi progetti, dato
che con la pace di Hubertusburg dovette restituire l’elettorato sassone
alla casa di Wettin.
In secondo luogo, la visione eurocentrica di una
guerra scoppiata solo a causa delle rivalità fra le case di
Hohenzollern e d’Asburgo ha perso ogni ragion d’essere. Il primo vero
colpo di fucile di questo conflitto non venne sparato su una polverosa
strada tedesca alla fine dell’estate del 1756, ma due anni prima, il 28
maggio 1754, quando nel folto delle foreste della vallata dell’Ohio un
manipolo di miliziani della Virginia, al comando del colonnello George
Washington, tese una imboscata a una pattuglia di soldati francesi in
quello che sembrava uno dei classici scontri di frontiera che
saltuariamente vedevano impegnate le varie potenze coloniali tanto in
America, quanto in Asia. Invece quella manciata di colpi dette il là a
quel conflitto che giustamente anni or sono Winston Churchill definì
quale prima vera guerra mondiale.
Il confronto anglo-francese per
l’egemonia nelle Americhe e nelle Indie, e di concerto per il controllo
dei mari, iniziato nel 1688 e destinato a concludersi nel 1815 a
Waterloo, in quella che viene ormai comunemente indicata come la seconda
guerra dei Cent’anni, fu per molti la causa principale della successiva
conflagrazione europea, con il conflitto austro-prussiano per la Slesia
che fu solo un ingrediente secondario, benché estremamente sanguinoso,
della lotta. In cerca di alleati per poter contrastare l’azione della
rivale, sia la Francia, sia la Gran Bretagna si gettarono a capofitto
nelle questioni europee, provocando un vero cataclisma nel sistema
diplomatico e dando il via a quella rivoluzione delle alleanze che finì
per trascinare gran parte del vecchio continente in guerra.
Inoltre
se è altresì vero che già durante i vari conflitti del secolo XVII e
XVIII le potenze coloniali europee si erano scontrate al di fuori
dell’Europa per il predominio di alcune zone strategiche, e la corona
francese e quella inglese non avevano fatto eccezione, la grande novità
rappresentata dalla guerra dei Sette anni sta nella sua dimensione
planetaria. Sui mari, nelle Americhe, in India e in Africa, oltre che
ovviamente sul continente, la lotta interessò praticamente ogni dove
senza esclusione di colpi, trascinando nella lotta la Spagna al fianco
della Francia e il Portogallo a lato dell’Inghilterra, senza contare gli
Stati dell’India e le tribù dei nativi americani alleati di volta in
volta con una delle potenze rivali.
Una lotta accanita nella quale,
dopo un inizio poco brillante per le armi britanniche, la sagace guida
del ministro degli Esteri William Pitt il Vecchio seppe ribaltare la
situazione, smantellando pezzo dopo pezzo l’impero rivale. Dopo aver
immobilizzato gran parte delle forze di terra francesi nella Germania
occidentale, impegnate in una sterile lotta contro le truppe al comando
del duca di Brunswick, Pitt iniziò a lanciare una serie di devastanti
offensive che videro la distruzione della flotta nemica nella baia di
Lagos, ma soprattutto in quella di Quiberon, in Bretagna, nel mezzo di
uno scenario da inferno dantesco durante una tempesta. Nel giro di pochi
anni caddero in mani britanniche il Canada, le colonie caraibiche della
Martinica e della Guadalupa, la ricca base dell’Avana e, dall’altro
capo del mondo, Manila, il Carnatico e il Bengala. Così fu eliminata
completamente dal subcontinente indiano la compagnia francese delle
Indie.
La pace di Parigi (1763) non fece null’altro che porre nero su
bianco la supremazia ormai incontrastata della Gran Bretagna con la
fine dell’America francese e la creazione di una nuova India asservita
alla East India Company, ma soprattutto la nascita della prima vera
potenza militare globale: la vittoria conseguita durante la guerra dei
Sette anni consegnava di fatto i mari del mondo nelle mani di una sola
potenza europea, una situazione che sarebbe durata fino al secondo
conflitto mondiale.
Corriere La Lettura 29.7.18
Io sono lunico, la rivolta di Stirner
di Donatella Di Cesare
qui
Corriere La Lettura 29.7.18
L’Homo sapiens arriva dall’Asia
La tesi più accreditata individua nell’Africa la culla della specie umana
Ma i nostri antenati vivevano nell’attale Cina ben prima di quanto si pensasse
di Anna Resmini
Lo studio
L’articolo
riguardante i reperti disponibili dell’Uomo di Pechino è uscito sulla
rivista «Journal of Human Evolution» nel numero 116 di quest’anno, a
firma di Clément Zanolli, Lei Pan, Jean Dumoncel, Ottmar Kullmer, Martin
Kundrát, Wu Liu, Roberto Macchiarelli, Lucia Mancini, Friedemann
Schrenk, Claudio Tuniz. Il titolo dello studio è Inner tooth morphology
of Homo erectus from Zhoukoudian. New evidence from an old collection
housed at Uppsala University, Sweden («Morfologia dentale interna
dell’Homo erectus di Zhoukoudian. Nuovi dati da una vecchia collezione
conservata all’Università di Uppsala, in Svezia»)
La teoria
L’ipotesi
delle «fonti» e dei «pozzi» per interpretare gli antichi insediamenti
umani in Asia è stata esposta in un articolo apparso sulla rivista
francese «Comptes Rendus Palevol» nel numero 17 di quest’anno. Gli
autori sono María Martinon-Torres, Song Xing, Wu Liu, José María
Bermúdez de Castro. S’intitola A «source and sink» model for East Asia?
Preliminary approach through the dental evidence
(«Un modello fonte e pozzo per l’Asia orientale? Un approccio preliminare sulla base dei reperti dentali»)
Bibliografia
Claudio
Tuniz e Patrizia Tiberi Vipraio hanno dedicato quest’anno alle origini
della nostra specie il saggio La scimmia vestita (Carocci, pagine 272, e
21), mentre Telmo Pievani ha proposto una nuova edizione del suo libro
Homo Sapiens e altre catastrofi (Meltemi, pagine 352, e 22). Nel 2017 è
uscito Ultime notizie sull’evoluzione umana (il Mulino) di Giorgio
Manzi, autore anche del libro strenna Il grande racconto dell’evoluzione
umana (il Mulino, 2013). Da segnalare anche: Henry Gee, La specie
imprevista (a cura di Caterina Visco, traduzione di Domenico Giusti, il
Mulino, 2016); Gianfranco Biondi, Olga Rickards, Senza Adamo (Carocci,
2014); Robin Dunbar, La scimmia pensante (traduzione di Domenico Giusti,
il Mulino, 2009); Franco Prattico, La tribù di Caino (Raffaello
Cortina, 1996)
Tre
anni fa mi presi la soddisfazione di fare il turista letterario a
Stoccolma, visitando Lundagatan e Bellmansgatan, dove vivevano Lisbeth
Salander e Mikael Blomkvist. Il motivo principale per il mio viaggio non
era però quello di perdermi nelle strade di Millennium, la saga di
Stieg Larsson, ma quello di incontrare Benjamin Kear, il curatore del
Museo dell’Evoluzione di Uppsala, e restituirgli i quattro preziosissimi
denti fossili dell’Uomo di Pechino. Ma cosa c’entravano con la Svezia
un canino, un molare e due premolari di un umano cinese di un milione di
anni fa? E cosa c’entravo io, un fisico, con tali reperti?
Cominciamo
dall’inizio. Era un giorno di dicembre del 1941, poco dopo l’attacco a
Pearl Harbor e l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Giappone.
In una stanza del Peking Union Medical College, nella Cina in gran
parte occupata dai nipponici, il paleontologo Hu Changzhi aveva
imballato tutti i resti dell’Uomo di Pechino — centinaia di denti e ossa
fossilizzate, compresi alcuni crani — che dovevano essere imbarcati per
gli Stati Uniti ed essere custoditi in attesa di tempi migliori. Da
allora nessuno ha più rivisto il contenuto di quelle casse. All’epoca
erano i più antichi resti umani conosciuti. Scoperti nel 1923 a
Zhoukoudian, villaggio a 50 chilometri da Pechino, avevano creato
scalpore internazionale poiché ambivano a indicare la Cina come culla
dell’umanità. Nei decenni successivi l’attenzione si rivolse all’Africa,
e l’opinione prevalente fu che spettasse a questo continente l’onore
delle nostre origini ancestrali.
Dopo la separazione dei nostri
antenati da quelli degli scimpanzé, circa 7 milioni di anni fa, in
Africa proliferarono molte specie di ominidi fra cui Australopitechi,
Ardipitechi e Parantropi. Le prime specie Homo, che sanno costruire
strumenti e controllare il fuoco, appaiono fra tre e due milioni di anni
or sono. Homo ergaster sarebbe stato il primo a uscire dall’Africa,
spingendosi fino in Indonesia, 1,8 milioni di anni fa, e poi in Cina, un
milione di anni dopo. Durante il suo lungo viaggio si andava
trasformando in Homo erectus. Insieme all’Uomo di Giava, il nostro Uomo
di Pechino era un rappresentante di questa specie. In seguito l’Asia si
arricchì di altre specie umane, tra cui i Neanderthal, i Denisovani e i
piccoli e bizzarri Homo floresiensis: le ultime due specie rinvenute
solo pochi anni fa. Tutte queste specie, sopravvissute in Eurasia a
mille traversie climatiche, sarebbero state soppiantate dai Sapiens
usciti dall’Africa 60 mila anni fa, armati di pensiero simbolico e
linguaggio complesso. Le scoperte che non confermavano questa storia non
venivano prese in considerazione. Fu ad esempio accantonata l’idea che
esistessero in Cina forme «di transizione» tra Erectus e Sapiens,
risalenti a centinaia di migliaia di anni fa. Eppure resti di specie
umane ibride furono rinvenute negli anni Ottanta e Novanta, a Dali e a
Yunxian, nella Cina centrale, e i relativi studi vennero pubblicati. Ora
nuove scoperte impongono di riconsiderare l’ipotesi di un incrocio fra
Sapiens ed Erectus e le date di arrivo di Sapiens in Asia e Oceania.
Nel
2015 vengono scoperti una cinquantina di denti di Homo sapiens in una
caverna della Cina meridionale, a Daoxian, in strati geologici di oltre
100 mila anni fa. Crolla quindi l’ipotesi che l’esodo dall’Africa della
nostra specie sia iniziato 60 mila anni fa. Nel 2017 si dimostra che 65
mila anni fa i Sapiens erano già arrivati in Australia. E nel 2018
veniamo a sapere che essi vivevano in Medio Oriente già 180 mila anni
fa. In India si scoprono anche loro strumenti litici risalenti a quel
periodo. Infine, tre mesi fa è stata trovata una falange fossilizzata di
Sapiens, in Arabia Saudita, che risale ad almeno 85 mila anni fa. Si
sta quindi affermando l’idea che i nostri antenati diretti uscirono
dall’Africa almeno 120 mila anni fa, disperdendosi a ondate in diverse
parti dell’Asia. Il loro arrivo anticipato in Asia aumentava le
probabilità di incroci con altre specie asiatiche, ma come spiegare gli
ibridi Erectus/Sapiens cinesi più antichi? È possibile che alcuni
Sapiens si siano evoluti dall’Erectus locale? Questo significherebbe
ammettere la possibilità di una evoluzione multipla di Sapiens, in
contrasto con le teorie accettate. Anche se il Dna degli attuali
Sapiens, inclusi i cinesi, suggerirebbe una linea di discendenza da
un’antica popolazione africana.
La tesi di una origine multipla di
Sapiens sta riprendendo quota dopo la recente scoperta, in Marocco, di
resti risalenti a oltre 300 mila anni fa, che vanno ad aggiungersi a
quelli di circa 200 mila anni fa del Sudafrica e dell’Africa orientale.
Diventa sempre più credibile l’ipotesi che diversi gruppi e specie umane
convivessero, sia in Africa che in Asia, durante i cambi climatici del
Pleistocene, dedicandosi a sporadici incroci genetici. I fossili «di
transizione» in Cina potrebbero quindi essere spiegati con l’elevata
biodiversità umana che caratterizzava l’Asia del Pleistocene. Le analisi
genetiche dei Neanderthal e dei Denisovani ci dicono che non mancavano
gli incroci tra i Sapiens e altre specie umane. Perfino il minuscolo
Homo floresiensis potrebbe essere il risultato di un incrocio fra
Sapiens ed Erectus, dato che si è recentemente scoperto, studiando gli
incroci fra diverse specie di babbuini, che i loro discendenti, lungi
dall’assumere i caratteri degli antenati, possono variare le loro
dimensioni anatomiche (per esempio rimpicciolendosi) e assumere
caratteristiche del tutto nuove, anche patologiche.
In collaborazione
con alcuni colleghi cinesi, María Martinón-Torres, direttrice del
Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana di Burgos, ha
proposto una nuova teoria che tiene conto del ruolo dell’Asia nelle
nostre origini. Essa si basa su un approccio ecologico in cui si
studiano le dinamiche tra popolazioni «sorgente» (source) e popolazioni
«pozzo» (sink). Nelle prime si forma un surplus di individui, favorito
da una maggiore disponibilità di risorse. Nelle seconde, la scarsità di
risorse abbassa la natalità e riduce la popolazione. Durante i periodi
glaciali, l’Asia centrale e le steppe del Nord diventavano poco
abitabili, trasformandosi in «pozzi» per le specie umane, mentre le zone
più meridionali offrivano rifugi adatti alla loro sopravvivenza.
Il
Medio Oriente, secondo questa teoria, sarebbe divenuto un’occasione per
gli incroci inter-specifici e una «sorgente» da cui germogliavano i rami
di nuove specie umane. Una volta riaffermatesi condizioni climatiche
più favorevoli, intorno a 400 mila anni fa, il ramo evolutivo dei
Neanderthal avrebbe popolato tutta l’Eurasia occidentale, quello dei
Denisovani l’Asia nordorientale e l’Oceania e le diverse forme
«transizionali» non identificate la Cina. Uno di questi germogli avrebbe
potuto raggiungere l’Africa, diventando il ramo dei Sapiens, che poi
popolerà tutto il mondo. Ma si tratta di ipotesi, l’ultima delle quali
sorprendente. Per confermare queste idee serve estrarre nuovi dati dai
reperti fossili, usando anche i metodi scientifici avanzati messi a
disposizione dalla fisica. Ecco spiegato il mio viaggio in Svezia.
Fortunatamente
non tutti i resti dell’Uomo di Pechino erano andati perduti nel 1941.
Agli scavi degli anni Venti partecipava anche il paleontologo austriaco
Otto Zdansky, che scoprì i denti di cui parlavo in apertura. Alcuni
furono inviati all’Università di Uppsala e uno fu di nuovo perso nei
magazzini del museo, fino al 2015, quando Martin Kundrat, un
paleontologo ceco che studiava in quella università, lo ritrovò. Martin
contattò il nostro gruppo di Trieste per studiare gli ultimi quattro
denti rimasti al mondo della specie dell’Uomo di Pechino. I denti sono
reperti preziosi non solo perché si conservano attraverso le ere
geologiche, ma anche perché forniscono informazioni critiche
sull’evoluzione umana. La microtomografia ai raggi X permette di
analizzare in tre dimensioni le microstrutture dello smalto, della
dentina e della camera pulpare, senza interventi invasivi. Vengono
prodotti così i Big Data della paleoantropologia virtuale e della
morfologia quantitativa, da cui emergono nuove informazioni sul
collegamento tra le diverse forme umane che popolavano l’attuale Cina e
il resto dell’Asia durante il Pleistocene.
Il nostro progetto
(firmato da «Abdus Salam» International Centre for Theoretical Physics
di Trieste, Elettra/Sincrotrone Trieste, Museo storico della fisica e
Centro studi e ricerche Enrico Fe Università di Tolosa e altre
istituzioni europee, australiane e cinesi) si basa su un approccio
interdisciplinare che coinvolge paleoantropologi come Clément Zanolli,
archeologi come Federico Bernardini, esperti di luce di Sincrotrone come
Lucia Mancini e perfino fisici nucleari che usano radioisotopi per
viaggiare nel tempo profondo. Il nostro lavoro ha permesso di
identificare le somiglianze evolutive dell’Erectus cinese con i primi
Erectus indonesiani, ma serviranno molti altri studi genetici e
morfologici per catalogare nel tempo e nello spazio tutti i diversi
ominidi dell’Asia e trovare la loro parentela con noi Sapiens di oggi.
Fino
a quando dovremo leggere i dati che continuano a spuntare come funghi
sulle origini umane? Diceva il Re al Coniglio Bianco di Alice nel paese
delle meraviglie: «Va avanti finché arrivi alla fine: a quel punto
fermati». Forse un giorno arriveremo alla fine della storia, ma mai alla
fine delle nostre meraviglie.
Corriere La Lettura 29.7.18
Studi Tra gli indios del Perù
Ecco il gene che stabilisce quanto siamo alti
di Giuseppe Remuzzi
Che
l’altezza sia una questione di geni lo sanno tutti, e poi basta
guardarsi in giro, avete fatto caso ai genitori di chi è molto alto o di
chi non lo è affatto? E i geni che governano l’altezza sono tanti,
centinaia, salvo che ciascuno di loro conta poco e contribuisce per meno
di un millimetro all’altezza di ognuno di noi. Come lo sappiamo? Dai
tanti lavori che sono stati pubblicati negli ultimi anni; uno in
particolare, lo studio Giant pubblicato nel 2014 e realizzato su 250
mila persone.
Nessuno di questi studi però aveva mai preso in esame
popolazioni isolate. L’hanno fatto adesso, alcuni ricercatori di Boston —
Harvard Medical School — a dire il vero un po’ per caso; in un gruppo
di indios delle montagne peruviane loro cercavano geni che
influenzassero la severità della tubercolosi. E cosa mai ti trovano? Un
nuovo gene (i medici lo chiamano FBN1) associato all’altezza, che, se
mutato, ti accorcia di due centimetri in media.
«Chissà che non sia
per questo — si chiedono — che i peruviani sono più bassi di statura di
qualunque altro popolo (165 centimetri in media gli uomini e 153 le
donne, che vuol dire dieci centimetri di media meno degli americani e
quindici meno dei danesi)». Quello dei ricercatori di Harvard, Samira
Asgari e Soumya Raychaudhuri — giovanissimi tra l’altro — non è stato un
lavoro facile: era necessario comparare fra loro genomi di popolazioni
dell’Africa, dell’Europa e dell’America Latina.
Nel fare questi
complicatissimi studi di comparazione si sono accorti che il genoma
degli indios peruviani è per l’80 percento nativo americano, per il 16
percento europeo e per il 3 percento africano e hanno visto che più sei
geneticamente nativo americano più sei basso di statura. E qui entra in
gioco la mutazione di FBN1: bastava aver ereditato una copia di questo
gene (che altera per un solo aminoacido la corrispondente proteina, la
fibrillina) per avere una statura inferiore alla norma di almeno due
centimetri.
La fibrillina poi ha a che fare con molto altro oltre che
con l’altezza; è uno dei componenti fondamentali del tessuto connettivo
e se mutata si associa a diverse malattie rare che coinvolgono cuore,
scheletro e pelle soprattutto, che in certi ammalati si ispessisce un
po’ come una corazza. Inoltre quei peruviani che avevano ereditato due
copie del gene mutato, una da ciascuno dei genitori, erano più bassi
degli altri di almeno quattro centimetri.
Che significato ha tutto
questo? Non avrà per caso a che fare con l’evoluzione? Probabilmente sì.
È possibile che siano stati proprio la bassa statura e la cute un po’
più spessa del normale a consentire a queste popolazioni di sopravvivere
a 3.000 metri e più di altezza dove di cibo di solito se ne trova
pochino e i raggi del sole sono molto forti. Un po’ come succede agli
animali, quelli che vivono in altura sono più piccoli e questo è stato
nei millenni il loro modo di adattarsi a un ambiente così difficile. E
la cute spessa? È una barriera creata dalla natura per consentire a
quelle popolazioni di resistere ai danni dei raggi ultravioletti.
Quello
che non sappiamo è se la mutazione del gene FBN1 abbia a che fare solo
con l’altezza delle popolazioni andine o se sia lo stesso per chi vive
sulle montagne dell’Asia o in Medio Oriente o in Giappone. In questi
ultimi il gene FBN1 non l’ha studiato nessuno. Ma potete star sicuri che
gli scienziati lo faranno molto presto, un po’ per capire di più della
funzione di quel gene e poi dei rapporti fra questo gene e gli altri che
determinano quanto ciascuno di noi è alto.
Il Sole Domenica 29.7.18
Eugenio
Borgna. Nel percorso dei suoi libri, lo psichiatra esplora la
temporalità e descrive le profonde radicidella nostalgia e della
speranza. La scrittura finisce per coincidere con il vissuto, le
emozioni, le letture
L’esistenza, un tempo senza fine
di Stefano Crespi
Un’occasione
stimolante è rappresentata dalla lettura degli ultimi due libri di
Eugenio Borgna, usciti nel 2018: La nostalgia ferita (Einaudi),
L’arcobaleno sul ruscello. Figure della speranza (Raffaello Cortina
Editore). Ritroviamo l’orizzonte tematico, psichico, un connotato
acutamente testimoniale, la singolarità di una scrittura nel timbro, nel
movimento, nel vissuto.
Eugenio Borgna, con un riscontro molto
partecipe presso i lettori, è un riferimento di esemplarità nella
psichiatria. Rispetto a una tendenza psichiatrica che si muove in
confini «organicistici», farmacologici, Borgna è una punta significativa
di una concezione psichiatrica nella profondità, nello specchio
dell’esistenza. Certamente riconosce il momento patologico con cure
relative. Ma nel percorso dei suoi numerosi libri, esplora la
temporalità senza fine della condizione esistenziale.
Una condizione
esistenziale (tra presenza, assenza, percezione di mistero) tanto più
stringente, sofferta in quello che oggi viene riconosciuto come un
cambiamento epocale. Un cambiamento epocale nell’espressione, nell’arte,
nella comunicazione, nelle modalità della scrittura.
Valga un
richiamo a Jean Clair che, lungo il percorso dei secoli, scrive di un
cambiamento dal culto (arte sacra), alla cultura (il Rinascimento), al
culturale (il contemporaneo nella perdita espressiva del volto umano).
Già all'avvento della televisione, Pier Paolo Pasolini (muore nel 1975)
parla di fine dell'umanesimo. Giovanni Testori (muore nel 1993)
continuerà a ribadire la scomparsa dell’atto vivente della parola,
dell’arte.
La significazione umana di Eugenio Borgna ripresenta nelle
sue pagine momenti emblematici nel «silenzio» delle parole, nella
trascendenza dello sguardo rispetto alla spazialità dei linguaggi, nel
tempo interiore, nel tempo dell'io.
In questa circolarità della
scrittura (silenzio, sguardo, tempo) entrano due aspetti nella
riflessione degli ultimi due libri: La nostalgia ferita e Figure della
speranza.
Tra la cenere dei giorni e un rinnovato «stupore del
cuore», la nostalgia è una percezione esistenziale che riappare, ritorna
anche nei momenti imprevedibili della vita.
Vaste sono le fonti
originarie delle nostalgie. Eugenio Borgna, con tratti suggestivi,
ricorda la nostalgia dell’adolescenza nei mesi trascorsi nel 1943 in un
rifugio d’esilio: il piccolo paese dove si poteva scorgere il Lago
d’Orta e l'Isola di San Giulio «trasognata nella sua grazia mistica e
folgorata dal monastero benedettino», le passeggiate, le letture, il
suono delle campane di una chiesa vicina.
Si ha nostalgia di una
persona amata, del ricordo di una casa che si è lasciata, dei paesaggi
vissuti. Si ha nostalgia di tutto ciò che è stato amato e che non è
accaduto. C’è una nostalgia struggente «senza nome».
Sulla nostalgia
ritrovata, leggiamo l’esemplarità delle parole dirette di Eugenio
Borgna: «La nostalgia, l’immergersi nelle acque inquiete della nostra
vita emozionale, è un’esperienza che talora siamo noi a ricercare,
sfuggendo alle consuetudini e alle divagazioni della nostra vita
quotidiana, e talora rinasce improvvisa sulla scia di un’immagine, di
una lettera, di un libro, di una fotografia, di un ascolto musicale, di
un paesaggio, di un incontro, e talora di una parola».
Si riconferma
acutamente in questo libro il connotato espressivo di Eugenio Borgna nel
coniugare il pensiero, la riflessione psichiatrica con il riferimento
letterario, l’atto poetico. C’è una reciprocità, un’intermittenza
interiore dove il confine letterario e poetico diventa quel punto di
evento, di misura e dismisura, di grazia e spietatezza che infrange ogni
schermo storicistico.
Figurano letterariamente nomi
rappresentativi,emblematici (Proust, Rilke, Hofmannsthal). Vorrei
richiamare il diario di Etty Hillesum per la quale Borgna scrive che
«sentiva nostalgia della propria casa, e contemporaneamente delle
baracche del campo di concentramento di Westerbork».
Nel cammino
della vita c’è una consequenzialità tra nostalgia e speranza. La
nostalgia si iscrive nel passato, la speranza si apre al futuro. Nella
speranza rivivono risonanze emotive, desideri infranti, attese. Rivivono
figure dell’esistenza fuori dai confini dell’io, ma aperte verso
relazioni, evocazioni, domande, ricerca nei moti dell’umano, nello
spazio dell’interiorità.
Nella speranza, intense suggestioni ci
vengono suggerite dall’atto vivente delle lacrime, del sorriso. Il
linguaggio delle lacrime ci parla della tristezza, dello smarrimento,
della «nostalgia ferita», della tenerezza inquieta, della speranza
indicibile. Le lacrime, nella labilità di qualche attimo, sciolgono la
trama della solitudine, della lontananza, della memoria fragile. Scrive
Eugenio Borgna che le lacrime «sono in fondo screziate da insondabile
speranza».
Il sorriso è la luce di uno sguardo e (nella bella
citazione di Borgna per Montale) «un’acqua limpida / scorta per
avventura tra le petraie d'un greto».
Nelle pagine del libro Figure
della speranza, scorrono testimonianze delle pazienti. Sono parole
strazianti, dolorosamente ultimative: «Non ho la speranza della morte.
Non ho questa speranza. Non ho più questa speranza».
Nell’insieme di
queste considerazioni si ritrova il connotato della scrittura di Eugenio
Borgna che coincide con la temporalità: la vita, le emozioni, gli
studi, le letture, la parole rotte delle pazienti accanto a testi
folgoranti della letteratura e della filosofia.
La nostalgia ferita
Eugenio Borgna
Einaudi, Torino, pagg. 114, € 12
L’arcobaleno sul ruscello. Figure della speranza
Eugenio Borgna
Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 130, € 11
Il Sole Domenica 29.7.18
Matthew Restall. L’imperatore aspirava a una conoscenza universale
Montezuma, l’identità del collezionista
di Ermanno Bencivenga
Nella
Storia degli animali, Aristotele definisce il polipo stupido, perché
quando un uomo lo avvicina gli va incontro e l’uomo può facilmente
catturarlo. L’intelligenza di cui il polipo sarebbe privo, dunque, non è
quella avvolgente che cerca di familiarizzarsi con il diverso ma quella
distruttiva che il diverso lo fa a pezzi, e i risultati sembrano dar
ragione al Filosofo: gli uomini mangiano regolarmente i polipi. Poi si
guarda a come gli uomini si distruggono e si mangiano fra loro, e sorge
qualche perplessità.
When Montezuma Met Cortés, di Matthew Restall,
professore di Storia latinoamericana alla Pennsylvania State University,
è giocato su una simile perplessità. L’8 novembre 1519, a Tenochtitlan,
l’odierna Città del Messico, l’imperatore degli aztechi incontrò
Hernando Cortés, che si proponeva come emissario di un altro imperatore,
lo spagnolo Carlo V. Due civiltà stabilivano per la prima volta un
contatto al vertice; di quell’occasione è stato detto (da Francis
Brooks, altro storico) che «se esiste il momento mitico in cui è nata la
storia moderna, è accaduto allora».
Ma che cosa esattamente accadde
in quel momento? Per renderne conto, Restall si destreggia con sapienza
fra memorie dei protagonisti, reperti archeologici e una tradizione
culturale maestosa e controversa che comprende poemi, quadri, opere
liriche e di narrativa, graphic novels e videogiochi. E libri di storia:
cinque secoli di ricerca storiografica che lo storico Restall si dedica
a smontare e contestare.
Esiste una versione ufficiale degli eventi,
originata dallo stesso Cortés con una lettera a Carlo V.
Inopinatamente, Montezuma si sarebbe dichiarato soggetto a Cortés e ai
circa 250 spagnoli che lo accompagnavano. I quali avrebbero proceduto a
farlo prigioniero, occupare il suo palazzo e trascorrervi mesi di
strana, e stranamente quieta, coesistenza. Fino al giugno 1520, quando
il palazzo venne attaccato dal popolo che voleva eliminare gli
stranieri; Montezuma si sarebbe affacciato a una finestra per riportare
la calma e sarebbe stato colpito da una pietra. Ne sarebbe morto,
compianto dagli spagnoli, che sarebbero stati scacciati dalla città ma
vi sarebbero ritornati, l’avrebbero posta sotto assedio e presa,
conquistando un impero.
Questa versione è centrata su Cortés, eroe
insieme omerico e machiavellico, prode in battaglia ma anche abile nel
manipolare i nemici e sfruttarne le divisioni interne, realizzando
infine il miracolo di soggiogare milioni di «indiani» con un modesto
squadrone di soldati. Dall’altra parte, si colloca un Montezuma codardo
fino al ridicolo, che nel pieno dei suoi poteri, circondato da decine di
migliaia di fedeli, sceglie di consegnarsi nelle mani dell’invasore.
Stupido, come un polipo; e se uno è stupido si merita la sua sfortuna.
Restall
ritiene che questa versione sia un falso. Il più affascinante
capovolgimento da lui compiuto riguarda lo zoo di Montezuma, un
complesso straordinario che ospitava tigri e leoni, rettili e uccelli, e
non aveva uguali in Europa. Né il sovrano si limitava agli animali:
raccoglieva piante, oggetti artistici, libri e perfino esseri umani. Era
insomma un collezionista, e «collezionare era il fondamento della sua
identità di imperatore». Rivelava il suo «ambizioso desiderio di
controllare il mondo»: di ottenere una conoscenza universale che era per
lui l’aspirazione suprema.
Secondo Restall, Montezuma accolse i
nuovi arrivati nel suo palazzo perché voleva collezionare anche loro.
Per mesi dopo il loro sbarco li aveva sorvegliati da lontano, li aveva
messi alla prova, adescati con ambascerie e doni, e ora, con un discorso
in cui, in ossequio alle convenzioni della sua lingua, tanto più
manifestava umiltà quanto più intendeva esaltarsi, li aggiungeva allo
zoo. Contrariamente a quel che capì, o volle capire, Cortés, «il
discorso di Montezuma non era la sua resa, era la sua accettazione della
resa degli spagnoli».
Il resto fu caos. Quando il palazzo fu
assalito, Cortés e i suoi uccisero Montezuma e pochi di loro si
salvarono dalla strage che ne seguì. Ritrovatisi all’esterno,
ricevettero cospicui rinforzi da Cuba ma, soprattutto, furono coinvolti
in una guerra fratricida tra popolazioni diverse, approfittando della
quale rientrarono in Tenochtitlan. Da allora in avanti, la loro fu una
guerra di massacro, condotta perlopiù contro civili inermi sui quali le
loro armi di ferro mostravano una spaventosa efficacia. Una serie di
eventi bizzarri, casuali e spietati, in cui Cortés fu non un capo
visionario ma la pallina impazzita di un flipper.
Installatosi nei
suoi possedimenti, avrebbe tentato a lungo incursioni ovunque, in altre
zone dell’America Centrale e anche al di là del Pacifico; ma senza
nessun successo. Game over: la pallina era tornata nella buca. E rimane
il rimpianto di quel che sarebbe potuto succedere se questo incontro fra
due civiltà avesse imparato dall’intelligenza avvolgente del polipo
invece che da quella brutale del suo cacciatore.
When Montezuma Met Cortés:
The True Story of the Meeting that Changed History
Matthew Restall
HarperCollins, New York,
pagg. xxxiv+526, $ 35