Il Sole 30.7.18
Dopo l’aggressione a Daisy Osakue
Razzismo, ora al Viminale guidato da Salvini si teme l’effetto emulazione
di Marco Ludovico
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Il Sole 30.7.18
L’atleta Daisy Osakue aggredita, il Pd: Governo riferisca in Parlamento
di Andrea Marini
Rischia di non partecipare agli Europei di atletica Daisy Osakue. La primatista italiana under 23 di lancio del disco, nata a Torino da genitori nigeriani, è stata colpita in pieno volto da un uovo lanciato da un’auto in corsa, nella notte a Moncalieri. Trasportata all’ospedale Oftalmico di Torino, ha riportato una lesione alla cornea e dovrà essere operata per rimuovere un frammento di guscio dell’uovo. Gli aggressori sono ricercati dai carabinieri, secondo cui l’azione non è riconducibile a motivi razziali. Tuttavia, il Pd ha subito attaccato il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Salvini: a fianco di chi subisce violenza, no emergenza razzismo
Il titolare del Viminale, Matteo Salvini, in tarda mattinata è intervenuto sull’episodio: «Spero di incontrarla e vederla gareggiare il prima possibile. Ogni aggressione - ha aggiunto - va punita e condannata, sono e sarò sempre a fianco di chi subisce violenza». Poi Salvini ha ribadito: «Emergenza razzismo in Italia? Non diciamo sciocchezze, ricordo che solo negli ultimi tre giorni, nel silenzio generale, la Polizia ha arrestato 95 immigrati, mentre altri 414 sono stati denunciati. L’immigrazione di massa permessa dalla sinistra negli ultimi anni non ha aiutato, per questo sto lavorando per fermare scafisti e clandestini».
I carabinieri: già altri lanci di uova
Daisy Osakue stava rientrando a casa con un gruppo di amiche. In corso Roma, angolo via Vico, l’atleta è stata colpita dalle uova lanciate da alcune persone a bordo di un Fiat Doblò, che si è poi dileguato. La giovane è stata soccorsa da personale del 118 e trasportata all'Ospedale Oftalmico di Torino. Secondo i carabinieri, era già stato segnalato nei giorni scorsi, a Moncalieri, il Fiat Doblò da cui è partito il lancio di uova che ha ferito al volto Daisy Osakue.
Osakue: volevano colpire me come ragazza di colore
«L’hanno fatto apposta. Non volevano colpire me come Daisy, volevano colpire me come ragazza di colore» ha commentato Osakue: «In quella zona ci sono diverse prostitute, mi avranno scambiata per una di loro - ha aggiunto - Mi era già capitato di essere vittima di episodi di razzismo, ma solo verbali. Quando però si passa all’azione, significa che si è superato un altro muro. Per fortuna è soltanto una abrasione. Qualche giorno di riposo, qualche goccia e dovrei star bene».
Pd: Governo riferisca in Parlamento
«Il ministro dell’interno Salvini non può continuare a minimizzare, o a dare responsabilità immaginarie alla sinistra. Il Parlamento ha bisogno di sapere subito che cosa intenda fare il Governo, aspettiamo che un ministro si degni a venire in Aula a riferire», ha affermato il capogruppo del Pd a Palazzo Madama Andrea Marcucci. All’attacco anche l’ex segretario Matteo Renzi: «Gli attacchi contro persone di diverso colore della pelle sono una EMERGENZA. Ormai è un’evidenza, che NESSUNO può negare, specie se siede al Governo», ha scritto su Twitter.
Il Sole Domenica 29.7.18
La solitudine di Heidegger
Carteggi. Morcelliana pubblica un’edizione fedele ai manoscritti delle lettere di Martinal fratello Fritz che aiuta a smentire le illazioni sull’antisemitismo personale del filosofo
di Francesco Alfieri
Quando nel 2016 la casa editrice Herder stampò il carteggio intercorso negli anni 1930-1949 tra Martin Heidegger e suo fratello Fritz, in Germania come in Italia tale pubblicazione diventò un pretesto per tenere viva la polemica sull’antisemitismo del filosofo tedesco e sulla sua compromissione con il nazismo. In tal caso la polemica si fece accanita, perché in due lettere Heidegger consigliava al fratello Fritz di leggere il Mein Kampf di Hitler. Tutto l’epistolario era stato ridotto a questo passaggio testuale e, per i suoi detrattori, la pubblicazione della Herder recava la prova certa che le accuse mosse al filosofo trovavano qui la loro conferma.
Fu così che, insieme a Friedrich von Herrmann, ch iedemmo a Arnulf Heidegger, amministratore del lascito, di curare l’edizione italiana dell’epistolario in questione. Partimmo naturalmente dal testo della Herder, ma avevamo libero accesso all’intero carteggio conservato presso l’archivio di Marbach.
Il lettore italiano, con la pubblicazione di Morcelliana, avrà quindi a disposizione un’edizione di queste lettere fedele ai manoscritti; inoltre, in nota, sono state ricostruite le fonti. Tutto questo è stato possibile grazie alla consultazione delle due biblioteche private di Heidegger a Freiburg e a quanto è conservato a Marbach.
Se quanto detto riguarda l’edizione del carteggio, subito ci siamo però accorti che per la prima volta era restituita la difficile esistenza di un pensatore che, dopo l’errore commesso per aver accettato l’incarico di rettore a Freiburg, si trovò completamente isolato. Una solitudine dovuto al fatto che le aspettative del partito nazista erano state da lui puntualmente non assecondate durante gli anni alla guida dell’Università, tanto da arrivare a doversi dimettere, ben sapendo che da quel momento in poi sarebbe stato osteggiato dal regime e tenuto sotto controllo.
Basta leggere questo carteggio per accorgersi come Heidegger, nonostante fosse stato rifiutato sia dal mondo accademico sia dallo stesso partito nazionalsocialista, continuasse a portare avanti la sua missione: seguire - e sarà il primo - una via di pensiero che servirà nella fase della ricostruzione della Germania. È Heidegger a incoraggiare e sostenere suo fratello Fritz e tutti i componenti della famiglia, invitandoli a restare calmi e a continuare a lavorare. Le incomprensioni, l’emarginazione e le facili insinuazioni non lo sorprendono ed egli rimane concentrato nel suo lavoro di ricerca.
Nelle ultime lettere di questo carteggio stupisce come il filosofo affronti i comportamenti malevoli del mondo accademico, iniziando a vivere quel senso di «abbandono» (Gelassenheit) che lo caratterizzerà fino agli ultimi istanti della sua vita.
Con Heidegger apprendiamo che le ostilità hanno radici molto profonde: spesso le accuse di antisemitismo a lui mosse, solo apparentemente sembrano voler combattere un’ideologia. In realtà la attaccano con lo scopo di crearne un’altra: l’asservimento della cultura per scopi politici. In sostanza, è stata strumentalizzata la tragedia subita dal popolo ebraico cercando, a tutti i costi e con mezzi molto spesso discutibili, di far derivare dalle opere di Heidegger uno stretto legame del suo percorso teoretico con il destino di questo popolo.
Per porre fine a un simile gioco, insieme a von Herrmann ho voluto farmi carico di curare l’edizione italiana del carteggio. Non volevamo che accadesse per queste lettere quanto è capitato con l’edizione italiana dei Quaderni neri, editi da Bompiani. Sono sotto gli occhi di tutti le «Avvertenze» della traduttrice, giacché nelle prime pagine dichiara che per i «passi più oscuri» si è servita dell’aiuto di un’interprete che ha manifestato una sorta di pregiudiziale verso i testi di Heidegger.
Ora, con un pensatore di tale levatura, tra i massimi della filosofia moderna e contemporanea, non è possibile utilizzare un metodo che può travisare il lascito dell’autore di Essere e tempo con alcune private esegesi. Il lettore deve poter leggere gli scritti in modo autonomo e il lavoro del traduttore dovrebbe essere uno strumento per accedere alle fonti, senza condizionamenti.
Il carteggio che ora vede la luce è anche corredato da un’Appendice, dove per la prima volta è pubblicata una raccolta fotografica inedita, proveniente da quattro Archivi, raffigurante scene della famiglia di Heidegger. Inoltre dirò che questo libro si è potuto realizzare grazie alla fiducia che ci è stata accordata da Arnulf Heidegger e dal reverendo Heinrich Heidegger di Messkirck (figlio di Fritz), dal quale abbiamo appreso preziose informazioni che si sono rivelate molto utili durante la fase di lavorazione del carteggio.
Delle foto in Appendice una in particolare merita attenzione: la numero 16, presa dall’Archivio Heinrich Heidegger, scattata il 29 maggio 1957 presso il Lago di Costanza in occasione di un incontro privato tra Martin Buber e lo stesso Heidegger. L’occasione era in vista di un simposio presso la «Bayerischen Akademie der Wissenschaften» di Monaco da tenersi nel 1958, al quale però Buber non poté partecipare a causa della scomparsa della moglie Paula. L’incontro tra i due ebbe dunque luogo in privato, e fino alla morte di Buber quelle foto non furono pubblicate e non si conoscevano.
Al dialogo tra i celebri personaggi prese parte Carl Friedrich von Weizsäcker, il quale redasse un verbale meticoloso, un vero e proprio «Protocollo», che per molti anni si pensava fosse stato perduto: è nostra intenzione pubblicare anch’esso presso l’editrice Morcelliana. Lo faremo perché questo confronto tra Buber e Heidegger può ritenersi «epocale» per gli argomenti affrontati. D’altra parte, i loro discorsi gettano ulteriore luce sui rapporti che Heidegger continuò ad avere con i suoi allievi ebrei, quali Karl Löwith e Hannah Arendt.
Servirà a smentire le continue illazioni sull’antisemitismo personale di Heidegger. Le quali non si possono utilizzare come interpretazioni portanti della sua filosofia.
Carteggio 1930-1949
Martin Heidegger, Fritz Heidegger
Morcelliana, Brescia, pagg. 240, € 25
Il Sole Domenica 29.7.18
Filosofia politica
Democrazia fragile e in pericolo
di Sebastiano Maffettone
Quando immaginiamo la fine della democrazia ci viene in mente Mussolini e la marcia su Roma, la faccia truce di Hitler, o gli scherani di Pinochet. Non è sempre così. Le democrazie possono anche finire per consunzione interna. È quanto sostengono Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, due scienziati politici di Harvard, in un libro di successo su quello che è tristemente il tema del giorno, sarebbe a dire la crisi della democrazia.
Intitolato How Democracy Die, il libro in questione è stato ritenuto uno dei libri dell’anno dal «New York Times» e tradotto in 15 lingue. Levitsky è uno specialista di Sud-America e Ziblatt di studi europei, ma il loro libro parla essenzialmente degli Stati Uniti, di Trump, e dell’impatto che la decadenza politica americana può avere sul resto del mondo. Per cui, il sottotitolo «ciò che la storia rivela sul nostro futuro» sarebbe stato meglio sostituirlo con un meno ambizioso «in che modo la crisi della politica americana mette a repentaglio le basi della democrazia».
Perché il cuore del libro è proprio su questo aspetto della vicenda democratica: come la democrazia presupponga un delicato equilibrio di check and balances, un equilibrio che non è e non può essere solo costituzionale ma dipende dal rispetto per i competitors e dalla tolleranza. Levitsky e Ziblatt hanno, da questo punto di vista, buon gioco a mostrare come la polarizzazione e la radicalizzazione politica siano i veri pericoli che mettono a rischio la vita stessa della democrazia. Storicamente parlando, polarizzazione e radicalizzazione sono se così di può dire due elementi «normali» della politica, e per esempio -ai tempi della nascente Repubblica americana- i Federalisti mal sopportavano i loro avversari politici, considerati nemici veri e propri. Ma poi, poco alla volta, aveva preso piede l’attitudine al rispetto dell’altro, alla competizione equa, soprattutto al fatto che - vinca o perda il mio partito- la repubblica manterrà il suo stile costituzionale e il rispetto delle regole. Proprio ciò che -a detta dei due autori, ed è difficile dargli torto- non sta avvenendo al giorno d’oggi. Come il comportamento di Donald Trump mostra con trista abbondanza di dettagli. Ci sarebbero comunque quattro indicatori di rischio, soglie dell’autoritarismo, cui dobbiamo badare se vogliamo proteggere quel bene prezioso che è la democrazia. Sono: rifiuto sistematico delle regole del gioco democratico, negazione della legittimità degli oppositori politici, incapacità a essere tolleranti, disponibilità a limitare le libertà civili a cominciare da quelle che riguardano i media. Leader come Putin, Erdogan, Chavez hanno tutti sfruttato vittorie elettorali per poi mettere a repentaglio questi standard da tutelare. Così sta facendo Trump. E la cosa qui è più grave perché piaccia o meno gli Stati Uniti si sono sempre presentati come gli alfieri della democrazia. E ora che sembrano non esserlo più mettono a repentaglio non è solo la libertà loro ma quella dell’intero globo. Conclusione questa ahimé deprimente, contro cui l’unica raccomandazione consiste nell’alzare il livello di guardia e proteggere noi stessi dai peggiori sentimenti. Sperando che basti…
How Democracies Die. What History Reveals about Our Future,
Steven Levitsky, Daniel Ziblatt
Viking (Penguin), New York (USA)
pagg. 312, £16.99
Il Sole Domenica 29.7,18
L’esperimento di Stanford. Nel 1971 alcuni studenti vennero reclutati dallo psicologo Philip Zimbardo per simulare una detenzione. Ora se ne mette in dubbio l’autenticità. Sbagliando
Prigionieri per finta?
di Gian Vittorio Caprara e Gilberto Corbellini
Due riferimenti sperimentali della psicologia dei comportamenti umani in contesti costrittivi sono in questi anni sotto attacco: l’esperimento di Stanley Milgram del 1961 sull’autorità, e quello di Philip Zimbardo del 1971 sugli effetti del contesto carcerario nel causare deresponsabilizzazione personale e disumanizzazione. L’esperimento di Milgram è inattaccabile, essendo stato replicato in diversi contesti: persone del tutto comuni possono essere portate dalla soggezione all’autorità a far del male ad altri.
La psicologa australiana Gina Perry sembra avere un conto personale con Milgram e da anni cerca di smontarne il lavoro e la dignità scientifica: in realtà manipola i documenti ma soprattutto le interviste, per far apparire il più importante studioso di psicologia dell’autorità un imbroglione. Il suo libro (Behind the shock machine, 2012) trasuda pregiudizi che prevalgono sull’obiettività storico-scientifica.
L’esperimento della prigione di Stanford, condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Zimbardo è stato più volte criticato, ma negli ultimi mesi in modi particolarmente accaniti. Un libro in francese (Thibault Le Textier, Histore d’un mensogne) e un lunghissimo blog (Ben Blum, The Lifespan of a Lie, https://medium.com/s/trustissues/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62) sostengono che si sarebbe trattato di una menzogna. L’uso di toni insultanti e definire fake news quell’esperimento, implicherebbe la scoperta di fatti assolutamente nuovi e incontrovertibili. Dato che sono diretti a uno psicologo dai modi forse un po’ da primadonna, ma che attraverso le ricerche, l’insegnamento e i manuali è stato un protagonista della psicologia, al di là dell’esperimento della prigione di Stanford.
Trattandosi di un esperimento che è parte integrante del processo di naturalizzazione delle scienze sociali, diventato ancor più famoso dopo la testimonianza di Zimbardo al processo per gli abusi nelle prigioni irachene di Abu Grhaib e dopo la pubblicazione del libro L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa? (Raffaello Cortina 2008), è utile capire quanto le critiche siano giustificate, in modo da evitare confusioni culturali. L’esperimento dimostra che episodi di abusi e violenze in contesti carcerari o bellici non sono dovuti a poche «mele marce»individui già tarati che perpetrano angherie o torture), ma avvengono in quanto particolari situazioni fanno marcire mele altrimenti sane.
L’esperimento consisteva nella simulazione di una detenzione. Un gruppo di 24 studenti reclutati con annunci e pagati 15$ al giorno per partecipare, era sottoposto a test psicologici e controlli per attestare che non fossero mentalmente instabili o con precedenti penali, e quindi in modo casuale una parte fu assegnata al ruolo di prigionieri e una parte al ruolo di guardie carcerarie organizzate in turni di 8 ore. I partecipanti erano invitati a immergersi nei loro ruoli e l’esperimento fu studiato in modo che tutti gli aspetti, i comportamenti, i tempi, i riti, etc. della dinamica carceraria si producessero in quel setting; tranne la violenza che era esplicitamente vietata. L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane. Dopo circa 6 giorni fu interrotto perché nel frattempo un detenuto dovette essere rilasciato per una grave crisi nervosa e altri ebbero crisi analoghe, oltre che per i comportamenti delle guardie sempre più lesivi delle dignità dei detenuti. Quell’esperimento non sarebbe approvato oggi, in quella forma, da alcun comitato etico dal momento che non si accorda con le linee guida che l’American Psychological Association ha stabilito successivamente per evitare danni ai soggetti che partecipano a esperimenti di psicologia. Potrebbe risultare disturbante trovarsi nella parte della vittima, ma potrebbe essere destabilizzante scoprire in sé una parte di aguzzino.
Peraltro, cosa discutibile metodologicamente e abbastanza grave, Zimbardo scelse di non rimanere estraneo ritagliando per sé il ruolo di soprintendente della “prigione”. È difficile stabilire quanto ciò possa avere influenzato i comportamenti di guardie e prigioniero ed ostacolato una più obiettiva comprensione di quanto accadeva. Su questo Zimbardo rende merito a Cristina Maslach, la fidanzata che sarebbe poi diventata sua moglie, di averlo indotto a considerarne le conseguenze imprevedibili ed indesiderabili, e quindi a sospendere l’esperimento.
Perché si dice che quell’esperimento sarebbe stato una sceneggiata non scientifica? Fondamentalmente su tre basi: a) alcuni dei partecipanti hanno rilasciato interviste dalla quali si evincerebbe che Zimbardo disse loro, in particolare alle guardie, cosa fare (questo significherebbe che i comportamenti di abuso non erano spontanei e indotti dal contesto) e che la crisi nervosa di uno dei detenuti era finta; b) i risultati dell’esperimento non furono pubblicati su riviste scientifiche ma diffusi attraverso i media e in particolare in un articolo sul «New York Times» nel 1973; c) l’esperimento non fu mai replicato e l’unico tentativo fatto nel 2002 con il supporto della BBC, lo confuterebbe.
Nessuna di queste critiche è fondata. Un “detenuto” che per oltre trent’anni ha detto che la sua crisi psicologica era autentica, con tanto di registrazioni e quindi prove, improvvisamente ha cambiato versione? Sarebbe più giusto chiedersi il perché questo cambiamento. Quale interesse poteva avere Zimbardo a manipolare un esperimento dal quale doveva ricavare informazioni utili per diverse agenzie federali che l’avevano finanziato? Da quel momento fu chiamato più volte come esperto e perito da varie agenzie federali nel contesto di progetto di riforme carcerarie o per spiegare le cause delle rivolte nelle prigioni.
Poiché l’esperimento fu sospeso i risultati di cui si è dato conto sono stati soltanto parziali. Essi tuttavia hanno avuto notevole risonanza anche su diverse riviste specialistiche, prima e dopo l’articolo sul «New York Times»: i fatti, l’impatto dell’esperimento e la bibliografia si possono trovare in «American Psychologist» 1998; 7: pagg. 709-727. Da molti l’esperimento è ritenuto un classico ed un modello esemplare della ricerca psicologica che mostra quanto possano essere importanti le circostanze nell’indurre a comportamento che violano la dignità delle persone. Quanto alla replica, nel 1979 tre ricercatori australiani pubblicavano i risultati di un esperimento analogo a quello di Zimbardo, con tre diversi ambienti carcerari da cui emergevano gli stessi fatti, e la prova che l’organizzazione sociale delle prigioni conta più delle personalità dei partecipanti nel produrre le dinamiche di ostilità. La BBC, infine, ha sponsorizzato un reality televisivo (ripreso da telecamere e trasmesso) ispirato all’esperimento di Stanford (The Experiment, 2002), ma è discutibile quanto possa essere ritenuto una replica o soltanto confrontabile con quello di Zimbardo.
Per quali ragioni l’esperimento di Zimbardo come altri esperimenti di psicologia sociale sono sotto attacco? Probabilmente chi coltiva idee umanistiche vaghe e soprattutto in tempi di postmodernismo e post-verità non si accetta che il comportamento sociale umano sia predicibile su basi psicologiche, sia pure entro certi e anche ampi limiti. In realtà la ricerca ha fatto notevoli progressi nel mostrare che le circostanze che inducono a comportamenti riprovevoli operano tramite processi di depersonalizzazione, di disimpegno morale, e di esclusione che si possono prevenire o contrastare.
Histoire d’un mensonge. EnquÊte sur l’expérience de Stanford
Thibault Le Textier
Zones, Parigi, pagg.296, € 18
Il Sole Domenica 29.7.18
Yascha Mounk. Ungheria e Turchia, Trump e Grillo: analisi dei populismi
Così avanzano le democrazie illiberali
di Tommaso Edoardo Frosini
Tra i numerosi libri di recente pubblicati sul populismo e dintorni, questo di Mounk ha il pregio di andare a fondo del problema e cogliere una serie di aspetti riferibili alle democrazie illiberali. Innanzitutto, si lascia apprezzare per l’indagine comparata dei regimi politici, che stanno subendo un inquietante constitutional retrogression. Una sorta di arretramento del costituzionalismo e svuotamento della costituzione, che passa attraverso non una revisione della stessa ma piuttosto una azione politica anticostituzionale.
I casi della Ungheria e della Turchia, ma non solo, rappresentano una preoccupante testimonianza. Come dimostra Mounk, l’Ungheria, per esempio, è passata in pochi anni da una democrazia liberale in un nuovo «Stato illiberale basato su fondamenta nazionalistiche». È bastato che il presidente Orbán mettesse i suoi fedeli seguaci a capo della televisione di Stato, della commissione elettorale e della Corte costituzionale. Per poi cambiare il sistema elettorale a proprio vantaggio, cacciare le aziende straniere e imporre regole assai restringenti per le Ong. Dando così una torsione illiberale alla forma di Stato. La democrazia liberale, quella che pareva fosse la fine della storia e l’ultimo uomo, si sta disgregando, sostiene Mounk. Il concetto di popolo ha finito con l’essere manipolato in una declinazione populista, il valore della democrazia è privata dei diritti. La natura del populismo è sia democratico che illiberale, cerca cioè di esprimere le frustrazioni della gente da un lato, e di indebolire le istituzioni liberali dall’altro: la separazione dei poteri, tanto per cominciare.
Il populismo accentra non diversifica, concentra non pluralizza. Si manifesta come sintomo di una crisi di rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. La fusione novecentesca delle due dottrine politiche, la democrazia e il liberalismo, che è stata la formula costituzionale che ha garantito giustizia e libertà, si sta scollando, destabilizzando le fondamenta del costituzionalismo. C’è da preoccuparsi, e Mounk cita allarmato anche ciò che potrebbe succedere negli Usa durante la presidenza Trump e nell’Italia governata da Beppe Grillo e il suo movimento. Scrive Mounk, «Non ingannatevi: il sistema italiano è al tracollo. Ha un disperato bisogno di cambiamento [...] senza mettere in discussione i principi della democrazia liberale né distruggere il lascito della Costituzione italiana». Certo, la questione non è riferibile solo alle singole esperienze politiche, ma piuttosto al fenomeno nella sua dilatazione geografica. È come stesse nascendo, in giro per il mondo, una nuova dottrina politica, la democrazia illiberale. E stesse attecchendo, come un virus, nei Paesi dove vige, ancora per poco, la democrazia liberale. Un sistema di governo ritenuto immutabile sembra sul punto di andare a pezzi per essere sostituito da un sistema, meglio un metodo di governo, che vuole demolire l’idea di costituzione e costituzionalismo come tramandataci dalla storia.
C’è da chiedersi, allora, se siamo stati capaci di conservare le fondamenta della democrazia liberale, se tutto nasce dalla nostra incapacità di gestire in coppia diritti individuali e volontà popolare. Se abbiamo dissipato un patrimonio di regole e consuetudini improntate sulla fiducia e sul buon governo. È possibile che sia così e il dilagante fenomeno della corruzione in parte lo dimostra. Allora, cosa fare? Le proposte di Mounk sono ragionevoli ma fin troppo speranzose: scendere in piazza per opporci ai populismi; ricordare ai nostri concittadini le virtù della libertà e dell’autogoverno; spingere i partiti tradizionali ad abbracciare un programma ambizioso, capace di rinnovare la promessa della democrazia liberale di un futuro migliore per tutti. Vorrei aggiungere la necessità di promuovere anche una migliore istruzione pubblica e privata e un rafforzamento della cultura e della scienza. Perché l’ignoranza è il terreno di coltura dei populismi.
Popolo vs Democrazia.
Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale
Yascha Mounk
Feltrinelli, Milano, pagg. 334, € 18
Corriere 28.7.18
Quanti equivoci su Rousseau
Il tranello del cittadino totale
C’è chi propone di superare la rappresentanza politica ma la democrazia diretta è solo un’illusione. Soprattutto se si pretende di fondarla su internet e i social network
di Mario Garofalo
qui
si ringrazia Paola Gramigni e Elisabetta Amalfitano
Corriere La Lettura 29.7.18
1918 2018
La lezione dimenticata
Dopo la Prima guerra mondiale la prevalenza degli egoismi nazionali
dei vincitori pose le basi di un altro conflitto. Oggi si rivela deleterio l’ingresso nell’Ue dei Paesi ex satelliti di Mosca. Molto meglio una pacifica secessione
di Sergio Romano
Trenta isole lontane e trenta fantastiche (+ 1) Il senso storico dei poeti, saggisti per ispirazione Giulio, il figlio perfetto con un amore impossibile La guerra di Phil Stern torna (e resta) in Sicilia La trappola nel bosco e quelle nella coppia
Quando chiesero un armistizio, nell’autunno del 1918, i Paesi sconfitti della Prima guerra mondiale cercarono di sottrarsi alle misure punitive dei vincitori invocando i 14 punti che il presidente degli Stati Uniti aveva enunciato nel suo discorso al Senato americano l’8 gennaio precedente. Woodrow Wilson proponeva al mondo una diplomazia trasparente, libertà di navigazione, rimozione delle barriere commerciali, il ritiro delle truppe dai territori occupati, una maggiore sensibilità per i desideri e gli interessi delle popolazioni nei possedimenti coloniali, la restaurazione del Belgio, la rinascita della Polonia, l’applicazione del principio di nazionalità per la definizione di nuove frontiere, soprattutto negli imperi multi-nazionali, da quello austro-ungarico a quello ottomano. E terminava il suo appello invocando la creazione di una Società delle Nazioni, a cui sarebbe stato affidato il compito di regolare le controversie e punire le infrazioni del diritto internazionale.
La realtà, dopo la firma dei trattati di pace, fu alquanto diversa. La diplomazia dei vincitori spogliò l’Ungheria delle sue terre slave (Slovacchia e Croazia), ma regalò alla Romania gli ungheresi della Transilvania. Tolse la Slovenia all’Austria, ma impedì agli austriaci di formare con la Germania un più grande Stato di lingua tedesca e dette all’Italia, insieme a Trento e a Trieste, i sudtirolesi della provincia di Bolzano. Creò un nuovo Stato slavo, la Cecoslovacchia, ma mise sul piatto, per buona misura, i tre milioni di tedeschi del Sudetenland. Restaurò la Polonia, ma arrotondò i suoi confini con territori, lungo la frontiera occidentale, in cui risiedevano antiche comunità tedesche. L’Impero ottomano fu divorato, ancor prima della sua morte, da Francia e Gran Bretagna, con qualche boccone all’Italia. Le colonie tedesche furono spartite fra i tre maggiori imperi coloniali dell’Africa nera (Belgio, Francia e Gran Bretagna).
Quando si cominciò a parlare degli indennizzi che la Germania avrebbe dovuto pagare ai vincitori, i francesi prepararono un minuzioso elenco dei danni subiti dai territori occupati e dei costi umani. La cifra calcolata dal loro ministro delle Finanze fu di 134 miliardi di franchi, pari a 5 miliardi e 360 milioni di sterline. Un giovane e brillante economista inglese, John Maynard Keynes, scrisse un libro profetico (Le conseguenze economiche della pace) per spiegare quali effetti una cifra di tale grandezza avrebbe avuto per l’economia, non soltanto tedesca. Ma il problema delle riparazioni rimase una spina nel fianco della Germania e dell’intera Europa sino a quando, con l’avvento di Adolf Hitler al potere, il problema venne bruscamente accantonato.
Un’altra spina nel fianco fu la politica degli Stati Uniti. Non chiesero indennizzi, ma pretesero il pagamento dei debiti che gli Alleati, durante la guerra, avevano contratto con le loro banche. Qualcuno (Keynes fra gli altri) osservò che gli americani avevano speso per la guerra molto meno dei loro alleati e che la migliore delle soluzioni possibili sarebbe stata l’azzeramento di tutti i debiti. Ma l’America stava ridiventando isolazionista e il governo insistette per il rimborso di una parte considerevole dei suoi prestiti; mentre il Congresso degli Usa rifiutò di ratificare un trattato di pace, negoziato a Versailles, che prevedeva, tra l’altro, la creazione di quella Società delle nazioni che Wilson aveva auspicato nel suo quattordicesimo punto. Accadde così paradossalmente che gli Stati Uniti, dopo averne proposto la creazione, rifiutarono di partecipare alla gestione della loro creatura e voltarono le spalle all’Europa per più di vent’anni.
Alla fine della Seconda guerra mondiale molti avevano ormai idee chiare sulle origini e sulle responsabilità del conflitto. In Europa sapevamo che lo scontro dei nazionalismi contrapposti era stato per l’Europa stessa una sorta di suicidio collettivo; che il protezionismo e l’autarchia avevano drasticamente ridotto gli scambi internazionali e impoverito l’intero continente; mentre l’America non ignorava che la sua assenza aveva reso la maggiore organizzazione internazionale molto meno efficace di quanto sarebbe stata con la sua presenza.
Per riparare agli errori commessi nel primo dopoguerra, furono prese nel secondo iniziative utili e promettenti. Franklin D. Roosevelt si prodigò per la creazione di una nuova Società delle Nazioni che fu chiamata Onu e ottenne l’approvazione del Congresso. Anziché chiedere indennizzi e rimborsi, il suo successore, Harry Truman, finanziò con il piano Marshall la ricostruzione delle democrazie europee; e avrebbe finanziato anche quella della Cecoslovacchia se l’Unione Sovietica non lo avesse proibito. Per non cedere alla tentazione del protezionismo fu creato il Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade). Alcuni Paesi europei si unirono per condividere le principali risorse (carbone e acciaio) necessarie per la loro esistenza, e cominciarono un percorso che avrebbe avuto per effetto, all’inizio degli anni Novanta, la creazione di un mercato unico e una unione monetaria.
Ma contemporaneamente i vincitori, veri o presunti, della Seconda guerra mondiale ricominciavano a comportarsi come vincitori. La Russia di Stalin si servì della sua ideologia per meglio estendere la propria influenza. Nel 1953 Gran Bretagna e Stati Uniti organizzarono un colpo di Stato in Iran per meglio controllare le risorse petrolifere del Paese. Francia e Gran Bretagna cercarono di togliere al governo egiziano, con la spedizione di Suez del 1956, il controllo della sua maggiore via d’acqua. La decolonizzazione fu ritardata dalla riluttanza dei vecchi dominatori in Vietnam, Algeria, Malesia, Rhodesia, Angola. Per meglio esercitare la loro leadership gli Stati Uniti crearono alcune centinaia di basi militari nel mondo e si impegnarono in numerosi conflitti, dalla Corea al Vietnam, dall’Afghanistan all’Iraq, quasi sempre con risultati mediocri, se non addirittura negativi. Per almeno tre generazioni l’Europa ha ospitato due organizzazioni militari — la Nato e il Patto di Varsavia — che si guardavano in cagnesco, ma ebbero almeno il merito di garantire la pace nel continente. Ciascuna delle due sapeva che ogni tentativo di prevalere sull’altra avrebbe scatenato un conflitto nucleare. Le guerre scoppiavano altrove e regalarono all’Europa la più lunga pace della sua storia.
La fine della guerra fredda e il collasso dell’Unione Sovietica hanno reso l’Europa molto più insicura. Le sue nazioni hanno dimenticato quasi tutte le lezioni che la storia aveva impartito al loro continente durante il XX secolo. La lista dei disastri è lunga. È scomparso il Paese (la Jugoslavia) che negli anni della guerra fredda aveva recitato la parte dell’utile cuscinetto fra i due blocchi. Il fallimento delle modernizzazioni di tipo occidentale nei Paesi musulmani del Mediterraneo e del Levante ha provocato un risveglio religioso che ha generato il terrorismo islamista. La incontrollabile fantasia finanziaria di Wall Street ha creato mostri (i derivati) che hanno contagiato le nostre economie per un decennio.
La globalizzazione ha salvato dalla povertà molte centinaia di milioni di esseri umani, soprattutto in Asia, ma è responsabile, insieme alle nuove tecnologie, del malessere di gruppi sociali che avevano conquistato un decoroso livello di vita nel Paese in cui erano nati e vivevano di un mestiere destinato a divenire, di lì a poco, obsoleto. L’immigrazione dall’Africa e dall’Asia (forse la sola risposta razionale al declino demografico di molte democrazie occidentali) ha provocato la nascita di un ribellismo piagnucoloso e vittimista, che raccoglie consensi soprattutto là dove alcuni ceti sociali hanno sviluppato una patologica paura del futuro.
La principale vittima di queste nuove paure è stata l’immagine dell’Europa. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la sua unità è stata percepita, per alcune generazioni, come il migliore rimedio agli errori che avevamo commesso dopo la fine del primo conflitto. Il Manifesto di Ventotene, insieme ad altri scritti di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Luigi Einaudi, ha avuto, non soltanto per l’Italia, una importanza comparabile a quella dei 14 punti di Wilson per l’intera comunità internazionale. Grazie all’unità dell’Europa, avremmo smesso di litigare per le nostre frontiere. Avremmo unito le nostre forze per affrontare insieme il problema del nostro sviluppo economico. Avremmo fatto leggi valide per l’intero continente. Avremmo garantito ai nostri figli e alle nostre imprese il diritto di muoversi liberamente per studiare, lavorare e intraprendere là dove avrebbero meglio valorizzato le loro capacità. Avremmo creato un Parlamento per studiare e approvare politiche comuni. E la forza dell’unità ci avrebbe permesso di negoziare migliori condizioni per commerciare in un mondo dominato da potenze continentali. I progressi non sarebbero stati immediati, ma ogni rinuncia alla nostra sovranità sarebbe stata ripagata dalla crescita di una più grande sovranità comune.
Tutti questi principi sono stati messi in discussione, all’interno della Unione Europea, da due fenomeni paralleli. Il primo è l’avversione all’Ue di movimenti e partiti nazional-populisti. Avevano bisogno di un nemico per meglio mobilitare i loro elettori e lo hanno trovato nella burocrazia di Bruxelles. Come ogni fenomeno politico anche questo ha avuto effetti che potrebbero rivelarsi positivi. L’uscita della Gran Bretagna dall’Ue dopo il referendum del giugno 2016 ci ha liberati di un partner che non voleva l’unità dell’Europa e che ne avrebbe fatto, se le sue idee avessero prevalso, una semplice zona di libero scambio. Ma l’ingresso nell’Unione dei Paesi che erano appartenuti al blocco sovietico ha avuto, nel frattempo, conseguenze ancora più negative.
Mentre i Paesi fondatori (i sei della Ceca e dei trattati di Roma) ricordavano la tragedia dei nazionalismi ed erano pronti, anche se con frequenti esitazioni, a sacrificare la propria sovranità per la creazione di una Europa federata, gli ex satelliti ricordavano soprattutto il loro asservimento allo Stato sovietico e avevano salutato la fine della guerra fredda come un ritorno alla sovranità nazionale sotto l’ombrello protettore degli Stati Uniti. Con tutte le differenze del caso siamo in una situazione non troppo diversa da quella in cui si trovarono gli Stati Uniti quando il Paese si divise fra unionisti e confederati. Vi fu allora una guerra che dette la vittoria agli unionisti. Nel nostro caso basterebbe una pacifica secessione.
Corriere La Lettura 29.7.18
In Europa serve una nuova Resistenza
L’intervista. Edgar Morin, 97 anni, ritrova negli anni dell’adolescenza antifranchista e antinazista e negli slanci ideali seguiti alla Seconda guerra mondiale i motivi per una rinascita continentale
di Nuccio Ordina
«Il mondo si evolve in una direzione spaventosamente regressiva. La norma voluta da Netanyahu e appena approvata dalla Knesset (Israele concepito come uno Stato solamente ebraico) è un durissimo colpo ai diritti civili e agli sforzi per favorire la pace. Bisogna creare delle oasi di resistenza fondate sulla fraternità, sulla solidarietà umana, sul rifiuto dell’egoismo trionfante. Adesso denunciare non basta: è necessario soprattutto enunciare un nuovo pensiero in grado di rispondere alla complessità del presente». Edgar Morin — Nahoum, il vero cognome, viene sostituito dal suo nome di battaglia durante la Resistenza — a 97 anni compiuti l’8 luglio, non getta la spugna. Anzi, con grandissima passione, lancia un grido di allarme: il destino dell’Europa e del mondo non può essere lasciato in mano ai fondamentalismi religiosi, ai nazionalismi, agli «imprenditori della paura» che vincono le elezioni, agli spregiudicati interessi economici delle superpotenze.
Di origini toscane («Sono molto fiero che i miei antenati, ebrei sefarditi, provengano da Livorno»), il filosofo non nasconde il suo grande amore per l’Italia. «La Lettura» incontra Morin a Fontfroide, splendida abbazia nei Pirenei, dove da tredici anni il musicista e filologo catalano Jordi Savall organizza un festival di musica, quest’estate dedicato al tema Musica e storia. Per un dialogo interculturale. Qui, nel meraviglioso giardino del convento, il filosofo francese ha tenuto una conferenza proprio sul tema della guerra e della pace.
Professore, quali sono i conflitti più preoccupanti in questo momento?
«L’area mediorientale è senza dubbio quella più turbolenta. C’è il problema della ricostruzione della Siria, c’è la necessità di ricreare un’unità nazionale in un Paese multiculturale destabilizzato come l’Iraq e l’antico spinoso problema dei rapporti tra palestinesi e israeliani, ora aggravato da questa pericolosa norma appena votata che discrimina le minoranze e pregiudica i processi di pace».
Partiamo dalla Siria...
«Ho sempre pensato che una politica più accorta avrebbe potuto evitare la distruzione della Siria (pensi a città meravigliose come Aleppo o al patrimonio archeologico sparso in tutto il territorio) e soprattutto le stragi che, a più riprese, hanno decimato la popolazione. Si è scatenato un conflitto internazionale all’interno di una guerra civile. Ma ancora la cosa più importante e preliminare è favorire la pace con la garanzia delle grandi potenze internazionali. A poco a poco la resistenza antiregime si è identificata con un aggregato molto disomogeneo: gli autentici oppositori della dittatura e poi pericolosissime frange fondamentaliste che hanno, con l’uso della violenza, ridotto quasi all’impotenza le altre componenti. Con il duro intervento militare della Russia, adesso i nemici del regime sono stati neutralizzati».
Come si può risolvere questo conflitto così contradditorio e ingarbugliato?
«Non è facile prospettare una soluzione. Però l’esperienza del Libano credo possa essere illuminante: una coesistenza pacifica ed equilibrata tra cristiani, sciiti, sunniti. Una confederazione del Medio Oriente in cui le grandi potenze giochino il ruolo di garanti».
Però non è facile dar vita a un compromesso tra i gruppi in conflitto e, soprattutto, tra le stesse grandi potenze.
«Certo. Il quadro si è ulteriormente complicato negli ultimi anni. Le monarchie arabe, per esempio, hanno avuto per lungo tempo a cuore la questione palestinese. Oggi sono ossessionate più dal conflitto religioso interno con gli sciiti che con Israele: l’Iran è diventato il primo nemico e i sionisti vengono addirittura visti come possibili alleati per sconfiggere le forze sciite. Questo cambio di strategia ha provocato un disinteresse per il destino dei profughi palestinesi e, nello stesso tempo, un rafforzamento delle posizioni fondamentaliste all’interno di Israele. In queste condizioni, trovare un compromesso è molto più difficile. Così come, dopo i grossi errori commessi in Iraq, non sarà facile trovare un nuovo equilibrio in un territorio completamente destabilizzato. E lo stesso discorso vale per il Maghreb: Paesi fratelli come il Marocco e l’Algeria, anziché essere solidali, sono in perenne conflitto. Le nazioni si rinchiudono sempre più in sé stesse scatenando aggressività e odio. Mancano una coscienza politica araba confederativa e una coscienza planetaria universalista».
Questo vale anche per l’Europa...
«Che tristezza! L’idea di Europa era nata su basi encomiabili. Dopo il disastro della Seconda guerra mondiale, dopo l’aggressione tra nazioni sorelle, molti spiriti nobili avevano pensato di dar vita a un’unione europea per favorire la pace, la solidarietà e far fronte alla minaccia sovietica. Oggi l’Europa è ostaggio di tecnocrati, banchieri, finanzieri. È uno scandalo che uno dei continenti più ricchi non sia capace di esprimere una politica umanitaria solidale per favorire l’accoglienza di fratelli disperati che fuggono da guerre, fondamentalismi e miseria».
Dilagano egoismi nazionalisti alimentati dalla retorica della paura dell’altro...
«La rinascita, in diversi Paesi europei, dell’odio razziale, dell’antisemitismo, dell’antislamismo, è veramente preoccupante. Anche i governi più aperti sono paralizzati dalla paura di una sconfitta elettorale. Sono intimoriti dagli slogan della destra contro migranti e rifugiati. La Francia, che ha una storica tradizione umanitaria, avrebbe potuto benissimo accogliere la nave Aquarius, ma non l’ha fatto temendo la reazione dei lepenisti. Lo stesso vale per la Merkel in Germania: ha duramente pagato alle ultime elezioni le sue aperture».
E allora che cosa si può fare?
«Bisogna cambiare l’attitudine mentale. Far comprendere ai giovani che gli egoismi e i nazionalismi creano conflitti e, nello stesso tempo, rendono più misera la nostra esistenza. Solo un universalismo fondato sulla solidarietà e sulla fraternità potrà far fronte a questa deriva. Bisogna partire dalle scuole, dall’educazione delle nuove generazioni. E, per far questo, è necessaria una classe insegnante che abbia una coscienza civile: non si va a scuola per imparare un mestiere, ma per diventare cittadini colti e solidali».
Ma oggi scuole e università sono sempre più al servizio del mercato: non è un’utopia?
«Al contrario: l’“utopia” dilagante è quella di far credere che il mercato risolva tutti i problemi. Il vero realismo sta nella resistenza a questa “utopia”. La mia lunga vita mi ha insegnato che non bisogna mai abbassare le braccia. A 15 anni lavoravo per aiutare i combattenti spagnoli e poi ventenne ho militato nella Resistenza francese. In quegli anni sembrava impossibile frenare la tragica avanzata dei nazisti. Eppure, all’improvviso, una luce è apparsa nel tunnel. Ci sono momenti della storia in cui basta uno scarto inatteso per cambiare le cose: Gorbaciov nell’Urss o Papa Francesco nella Chiesa. Ma soprattutto Mandela (qualche giorno fa era il centenario della sua nascita): anni di prigione e di lotta, per mutare radicalmente il destino di una società che sembrava immutabile. Bisogna resistere e continuare a combattere per rendere possibile l’impossibile».
Corriere La Lettura 29.7.18
L’esempio evocato invano da Hitler
di Marcello Flores
L’11 dicembre 1944, alla vigilia dell’offensiva sulle Ardenne — che sarebbe iniziata il 16 all’alba —, Adolf Hitler illustra ai suoi generali i motivi dell’attacco: occorre mantenere alta la speranza nella vittoria e convincere i nemici che non prevarranno, ridando vigore a una guerra offensiva. Non era la prima volta che il Führer accompagnava con considerazioni «psicologiche» i propri orientamenti strategici: la volontà di vincere come elemento imprescindibile. Perciò fece nuovamente riferimento a Federico II il Grande, re di Prussia dal 1740 al 1786: un capo determinato a ribaltare le previsioni di una sconfitta annunciata.
Il 26 dicembre, con lo sfondamento del fronte tedesco da parte del generale Patton, diretto a salvare Bastogne dall’assedio nazista, l’operazione Herbstnebel (Nebbia d’autunno) è ormai fallita, ma Hitler ordina un nuovo attacco verso il nord dell’Alsazia. Il 28 dicembre parla ancora una volta ai suoi comandanti, ammonendo che una vittoria alleata avrebbe portato alla fine della Germania e alla bolscevizzazione dell’intera Europa. La razza ariana tedesca rischiava di estinguersi per sempre. Il richiamo alla volontà di Federico II, capace di trionfare in condizioni avverse giocando d’anticipo e tornando all’attacco, viene di nuovo richiamato con un esplicito accenno alla «guerra dei Sette anni, nella quale già il terzo anno in innumerevoli organi di carattere militare e politico prevaleva la convinzione che la guerra non si sarebbe mai potuta vincere». Il 1° gennaio 1945 iniziava l’ultima, fallimentare offensiva di Hitler.
Corriere La Lettura 29.7.18
La primissima guerra mondiale
In realtà Berlino voleva impadronirsi della Sassonia
di Davide Maffi
Quando il 29 agosto 1756 oltre 70 mila soldati prussiani varcarono il confine sassone marciando compatti verso Dresda, dando così avvio alla guerra dei Sette anni, il re Federico II Hohenzollern chiaramente si stava giocando il tutto per tutto in una lotta contro il tempo: avviare una campagna preventiva per anticipare i suoi avversari.
Sin dai primi mesi dell’anno, l’abile cancelliere imperiale austriaco, il principe Kaunitz, era riuscito a cucire una serie di alleanze con la Francia e con la Russia, stringendo così in una morsa di ferro la Prussia. L’avvicinamento tra gli Asburgo di Vienna e i Borbone di Francia aveva dato il là al cosiddetto rovesciamento delle alleanze, dato che due potenze sino a quel momento nemiche si erano ora, per la prima volta nella loro lunga storia, unite in un solido patto che prevedeva il ridimensionamento, se non l’annientamento, della potenza prussiana. Quel Regno di Prussia che solo pochi anni prima aveva strappato la ricca regione della Slesia a Maria Teresa d’Austria, provocando un forte desiderio di rivincita all’interno delle forze armate e della corte di Vienna e i timori delle altre potenze, sbigottite alla nascita di una nuova potenza militare nel cuore del continente europeo. Al connubio franco-austriaco si era presto aggiunta anche la Russia della zarina Elisabetta, desiderosa di espandere la sfera d’influenza dell’Impero russo verso Occidente.
La decisione di assalire proditoriamente l’elettorato di Sassonia rispondeva così al desiderio di Federico di anticipare gli avversari: attaccare e sconfiggere sassoni e austriaci prima che i russi, ma anche i francesi, avessero portato a termine i loro preparativi offensivi. Una guerra preventiva contro la minaccia di un conflitto su tre fronti che alla lunga era destinato a schiacciare la Prussia. Solo contro tutti, con il solo appoggio della Gran Bretagna, il re filosofo di Sanssouci si imbarcò così in una nuova avventura militare convinto di poter avere la meglio dei suoi avversarsi e di sconfiggerli separatamente. Una pia illusione, dato che l’azzardo fridericiano era destinato a trasformarsi nel più sanguinoso conflitto dell’Ancien Régime, con oltre un milione di morti, con la monarchia prussiana che sopravvisse al disastro finale solo grazie a una serie di fortunate circostante.
La divisione tra i ranghi degli avversari, che mostrarono spesso di seguire strategie contraddittorie e divergenti fra loro, la prudenza dei generali imperiali e russi, mai pronti a rischiare troppo per cogliere quella vittoria finale che in più di una occasione apparve a portata di mano, e, soprattutto, l’inaspettata morte della zarina Elisabetta, agli inizi del 1762, il famoso «miracolo della casa di Brandeburgo», salvarono la Prussia dalla sconfitta finale e permisero a Federico II di conservare la Slesia e mantenere il suo regno nei ranghi delle grandi potenze europee.
Un conflitto ricordato per il genio del monarca prussiano, in grado di battere in più occasioni eserciti rivali enormemente superiori. I nomi di Rossbach, Leuthen, Zorndorf, Torgau, solo per citare alcune delle grandi vittorie dell’esercito fridericiano, dettero nuova linfa alla figura del re filosofo quale primo vero padre della patria germanica. Un mito creato dalla storiografia nazionalista protestante tedesca ottocentesca, destinato a durare sino al secondo conflitto mondiale, che vedeva nella guerra dei Sette anni, chiamata a lungo in Germania Terza guerra slesiana, dal nome della regione il cui possesso fu tra le cause principali del conflitto, nulla più di una lotta per l’egemonia sul territorio tedesco tra la Prussia, destinata alla fine a risultare trionfatrice con la creazione del Secondo Reich tedesco nel 1871, e l’Austria, vista quale potenza decadente ormai non più al passo con i tempi. Per i grandi storici tedeschi del XIX secolo il rilievo della guerra si esauriva dunque nel quadro dell’area germanica, con la Prussia costretta a difendersi con le unghie e i denti dalle mire dei suoi rivali coalizzati contro di lei.
Si tratta di una visione anacronistica, perché la recente storiografia ha profondamente rivisto il ruolo di questo conflitto non solo sullo scenario europeo, ma anche a livello mondiale.
In primo luogo è stata messa in dubbio la visione di un sovrano prussiano costretto al conflitto dalle mire dei rivali, obbligato a invadere la Sassonia per prevenire la minaccia dei nemici. Oggigiorno sono molti coloro che pensano che dietro l’invasione del ricco elettorato vi fossero ben altre motivazioni e in particolare il desiderio di Federico II di annettere il territorio alla Prussia, come era riuscito a fare un quindicennio prima con la Slesia. Di fatto, in varie occasioni il monarca prussiano aveva indicato nello Stato confinante una preda di tutto rispetto in caso di conflitto ed è certo che la Sassonia venne sottoposta nei sette anni seguenti a una rigida occupazione militare e a una sistematica spoliazione delle sue ricchezze, preludio a una futura annessione. Una politica di estorsione legalizzata che fruttò alla Prussia oltre 50 milioni di talleri, somma che permise al tesoro reale di coprire la terza parte di tutte le spese di guerra.
Secondo questa visione, pertanto, Federico avrebbe semplicemente sfruttato l’occasione propizia per ghermire una facile preda con il desiderio di farne bottino di guerra, giustificando l’aggressione con le impellenti necessità di prevenire un attacco austro-russo. Il fallimento delle successive campagne e lo stato di estrema prostrazione delle forze prussiane alla fine del conflitto impedirono, però, al sovrano di portare a termine i suoi progetti, dato che con la pace di Hubertusburg dovette restituire l’elettorato sassone alla casa di Wettin.
In secondo luogo, la visione eurocentrica di una guerra scoppiata solo a causa delle rivalità fra le case di Hohenzollern e d’Asburgo ha perso ogni ragion d’essere. Il primo vero colpo di fucile di questo conflitto non venne sparato su una polverosa strada tedesca alla fine dell’estate del 1756, ma due anni prima, il 28 maggio 1754, quando nel folto delle foreste della vallata dell’Ohio un manipolo di miliziani della Virginia, al comando del colonnello George Washington, tese una imboscata a una pattuglia di soldati francesi in quello che sembrava uno dei classici scontri di frontiera che saltuariamente vedevano impegnate le varie potenze coloniali tanto in America, quanto in Asia. Invece quella manciata di colpi dette il là a quel conflitto che giustamente anni or sono Winston Churchill definì quale prima vera guerra mondiale.
Il confronto anglo-francese per l’egemonia nelle Americhe e nelle Indie, e di concerto per il controllo dei mari, iniziato nel 1688 e destinato a concludersi nel 1815 a Waterloo, in quella che viene ormai comunemente indicata come la seconda guerra dei Cent’anni, fu per molti la causa principale della successiva conflagrazione europea, con il conflitto austro-prussiano per la Slesia che fu solo un ingrediente secondario, benché estremamente sanguinoso, della lotta. In cerca di alleati per poter contrastare l’azione della rivale, sia la Francia, sia la Gran Bretagna si gettarono a capofitto nelle questioni europee, provocando un vero cataclisma nel sistema diplomatico e dando il via a quella rivoluzione delle alleanze che finì per trascinare gran parte del vecchio continente in guerra.
Inoltre se è altresì vero che già durante i vari conflitti del secolo XVII e XVIII le potenze coloniali europee si erano scontrate al di fuori dell’Europa per il predominio di alcune zone strategiche, e la corona francese e quella inglese non avevano fatto eccezione, la grande novità rappresentata dalla guerra dei Sette anni sta nella sua dimensione planetaria. Sui mari, nelle Americhe, in India e in Africa, oltre che ovviamente sul continente, la lotta interessò praticamente ogni dove senza esclusione di colpi, trascinando nella lotta la Spagna al fianco della Francia e il Portogallo a lato dell’Inghilterra, senza contare gli Stati dell’India e le tribù dei nativi americani alleati di volta in volta con una delle potenze rivali.
Una lotta accanita nella quale, dopo un inizio poco brillante per le armi britanniche, la sagace guida del ministro degli Esteri William Pitt il Vecchio seppe ribaltare la situazione, smantellando pezzo dopo pezzo l’impero rivale. Dopo aver immobilizzato gran parte delle forze di terra francesi nella Germania occidentale, impegnate in una sterile lotta contro le truppe al comando del duca di Brunswick, Pitt iniziò a lanciare una serie di devastanti offensive che videro la distruzione della flotta nemica nella baia di Lagos, ma soprattutto in quella di Quiberon, in Bretagna, nel mezzo di uno scenario da inferno dantesco durante una tempesta. Nel giro di pochi anni caddero in mani britanniche il Canada, le colonie caraibiche della Martinica e della Guadalupa, la ricca base dell’Avana e, dall’altro capo del mondo, Manila, il Carnatico e il Bengala. Così fu eliminata completamente dal subcontinente indiano la compagnia francese delle Indie.
La pace di Parigi (1763) non fece null’altro che porre nero su bianco la supremazia ormai incontrastata della Gran Bretagna con la fine dell’America francese e la creazione di una nuova India asservita alla East India Company, ma soprattutto la nascita della prima vera potenza militare globale: la vittoria conseguita durante la guerra dei Sette anni consegnava di fatto i mari del mondo nelle mani di una sola potenza europea, una situazione che sarebbe durata fino al secondo conflitto mondiale.
Corriere La Lettura 29.7.18
Io sono lunico, la rivolta di Stirner
di Donatella Di Cesare
qui
Corriere La Lettura 29.7.18
L’Homo sapiens arriva dall’Asia
La tesi più accreditata individua nell’Africa la culla della specie umana
Ma i nostri antenati vivevano nell’attale Cina ben prima di quanto si pensasse
di Anna Resmini
Lo studio
L’articolo riguardante i reperti disponibili dell’Uomo di Pechino è uscito sulla rivista «Journal of Human Evolution» nel numero 116 di quest’anno, a firma di Clément Zanolli, Lei Pan, Jean Dumoncel, Ottmar Kullmer, Martin Kundrát, Wu Liu, Roberto Macchiarelli, Lucia Mancini, Friedemann Schrenk, Claudio Tuniz. Il titolo dello studio è Inner tooth morphology of Homo erectus from Zhoukoudian. New evidence from an old collection housed at Uppsala University, Sweden («Morfologia dentale interna dell’Homo erectus di Zhoukoudian. Nuovi dati da una vecchia collezione conservata all’Università di Uppsala, in Svezia»)
La teoria
L’ipotesi delle «fonti» e dei «pozzi» per interpretare gli antichi insediamenti umani in Asia è stata esposta in un articolo apparso sulla rivista francese «Comptes Rendus Palevol» nel numero 17 di quest’anno. Gli autori sono María Martinon-Torres, Song Xing, Wu Liu, José María Bermúdez de Castro. S’intitola A «source and sink» model for East Asia? Preliminary approach through the dental evidence
(«Un modello fonte e pozzo per l’Asia orientale? Un approccio preliminare sulla base dei reperti dentali»)
Bibliografia
Claudio Tuniz e Patrizia Tiberi Vipraio hanno dedicato quest’anno alle origini della nostra specie il saggio La scimmia vestita (Carocci, pagine 272, e 21), mentre Telmo Pievani ha proposto una nuova edizione del suo libro Homo Sapiens e altre catastrofi (Meltemi, pagine 352, e 22). Nel 2017 è uscito Ultime notizie sull’evoluzione umana (il Mulino) di Giorgio Manzi, autore anche del libro strenna Il grande racconto dell’evoluzione umana (il Mulino, 2013). Da segnalare anche: Henry Gee, La specie imprevista (a cura di Caterina Visco, traduzione di Domenico Giusti, il Mulino, 2016); Gianfranco Biondi, Olga Rickards, Senza Adamo (Carocci, 2014); Robin Dunbar, La scimmia pensante (traduzione di Domenico Giusti, il Mulino, 2009); Franco Prattico, La tribù di Caino (Raffaello
Cortina, 1996)
Tre anni fa mi presi la soddisfazione di fare il turista letterario a Stoccolma, visitando Lundagatan e Bellmansgatan, dove vivevano Lisbeth Salander e Mikael Blomkvist. Il motivo principale per il mio viaggio non era però quello di perdermi nelle strade di Millennium, la saga di Stieg Larsson, ma quello di incontrare Benjamin Kear, il curatore del Museo dell’Evoluzione di Uppsala, e restituirgli i quattro preziosissimi denti fossili dell’Uomo di Pechino. Ma cosa c’entravano con la Svezia un canino, un molare e due premolari di un umano cinese di un milione di anni fa? E cosa c’entravo io, un fisico, con tali reperti?
Cominciamo dall’inizio. Era un giorno di dicembre del 1941, poco dopo l’attacco a Pearl Harbor e l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Giappone. In una stanza del Peking Union Medical College, nella Cina in gran parte occupata dai nipponici, il paleontologo Hu Changzhi aveva imballato tutti i resti dell’Uomo di Pechino — centinaia di denti e ossa fossilizzate, compresi alcuni crani — che dovevano essere imbarcati per gli Stati Uniti ed essere custoditi in attesa di tempi migliori. Da allora nessuno ha più rivisto il contenuto di quelle casse. All’epoca erano i più antichi resti umani conosciuti. Scoperti nel 1923 a Zhoukoudian, villaggio a 50 chilometri da Pechino, avevano creato scalpore internazionale poiché ambivano a indicare la Cina come culla dell’umanità. Nei decenni successivi l’attenzione si rivolse all’Africa, e l’opinione prevalente fu che spettasse a questo continente l’onore delle nostre origini ancestrali.
Dopo la separazione dei nostri antenati da quelli degli scimpanzé, circa 7 milioni di anni fa, in Africa proliferarono molte specie di ominidi fra cui Australopitechi, Ardipitechi e Parantropi. Le prime specie Homo, che sanno costruire strumenti e controllare il fuoco, appaiono fra tre e due milioni di anni or sono. Homo ergaster sarebbe stato il primo a uscire dall’Africa, spingendosi fino in Indonesia, 1,8 milioni di anni fa, e poi in Cina, un milione di anni dopo. Durante il suo lungo viaggio si andava trasformando in Homo erectus. Insieme all’Uomo di Giava, il nostro Uomo di Pechino era un rappresentante di questa specie. In seguito l’Asia si arricchì di altre specie umane, tra cui i Neanderthal, i Denisovani e i piccoli e bizzarri Homo floresiensis: le ultime due specie rinvenute solo pochi anni fa. Tutte queste specie, sopravvissute in Eurasia a mille traversie climatiche, sarebbero state soppiantate dai Sapiens usciti dall’Africa 60 mila anni fa, armati di pensiero simbolico e linguaggio complesso. Le scoperte che non confermavano questa storia non venivano prese in considerazione. Fu ad esempio accantonata l’idea che esistessero in Cina forme «di transizione» tra Erectus e Sapiens, risalenti a centinaia di migliaia di anni fa. Eppure resti di specie umane ibride furono rinvenute negli anni Ottanta e Novanta, a Dali e a Yunxian, nella Cina centrale, e i relativi studi vennero pubblicati. Ora nuove scoperte impongono di riconsiderare l’ipotesi di un incrocio fra Sapiens ed Erectus e le date di arrivo di Sapiens in Asia e Oceania.
Nel 2015 vengono scoperti una cinquantina di denti di Homo sapiens in una caverna della Cina meridionale, a Daoxian, in strati geologici di oltre 100 mila anni fa. Crolla quindi l’ipotesi che l’esodo dall’Africa della nostra specie sia iniziato 60 mila anni fa. Nel 2017 si dimostra che 65 mila anni fa i Sapiens erano già arrivati in Australia. E nel 2018 veniamo a sapere che essi vivevano in Medio Oriente già 180 mila anni fa. In India si scoprono anche loro strumenti litici risalenti a quel periodo. Infine, tre mesi fa è stata trovata una falange fossilizzata di Sapiens, in Arabia Saudita, che risale ad almeno 85 mila anni fa. Si sta quindi affermando l’idea che i nostri antenati diretti uscirono dall’Africa almeno 120 mila anni fa, disperdendosi a ondate in diverse parti dell’Asia. Il loro arrivo anticipato in Asia aumentava le probabilità di incroci con altre specie asiatiche, ma come spiegare gli ibridi Erectus/Sapiens cinesi più antichi? È possibile che alcuni Sapiens si siano evoluti dall’Erectus locale? Questo significherebbe ammettere la possibilità di una evoluzione multipla di Sapiens, in contrasto con le teorie accettate. Anche se il Dna degli attuali Sapiens, inclusi i cinesi, suggerirebbe una linea di discendenza da un’antica popolazione africana.
La tesi di una origine multipla di Sapiens sta riprendendo quota dopo la recente scoperta, in Marocco, di resti risalenti a oltre 300 mila anni fa, che vanno ad aggiungersi a quelli di circa 200 mila anni fa del Sudafrica e dell’Africa orientale. Diventa sempre più credibile l’ipotesi che diversi gruppi e specie umane convivessero, sia in Africa che in Asia, durante i cambi climatici del Pleistocene, dedicandosi a sporadici incroci genetici. I fossili «di transizione» in Cina potrebbero quindi essere spiegati con l’elevata biodiversità umana che caratterizzava l’Asia del Pleistocene. Le analisi genetiche dei Neanderthal e dei Denisovani ci dicono che non mancavano gli incroci tra i Sapiens e altre specie umane. Perfino il minuscolo Homo floresiensis potrebbe essere il risultato di un incrocio fra Sapiens ed Erectus, dato che si è recentemente scoperto, studiando gli incroci fra diverse specie di babbuini, che i loro discendenti, lungi dall’assumere i caratteri degli antenati, possono variare le loro dimensioni anatomiche (per esempio rimpicciolendosi) e assumere caratteristiche del tutto nuove, anche patologiche.
In collaborazione con alcuni colleghi cinesi, María Martinón-Torres, direttrice del Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana di Burgos, ha proposto una nuova teoria che tiene conto del ruolo dell’Asia nelle nostre origini. Essa si basa su un approccio ecologico in cui si studiano le dinamiche tra popolazioni «sorgente» (source) e popolazioni «pozzo» (sink). Nelle prime si forma un surplus di individui, favorito da una maggiore disponibilità di risorse. Nelle seconde, la scarsità di risorse abbassa la natalità e riduce la popolazione. Durante i periodi glaciali, l’Asia centrale e le steppe del Nord diventavano poco abitabili, trasformandosi in «pozzi» per le specie umane, mentre le zone più meridionali offrivano rifugi adatti alla loro sopravvivenza.
Il Medio Oriente, secondo questa teoria, sarebbe divenuto un’occasione per gli incroci inter-specifici e una «sorgente» da cui germogliavano i rami di nuove specie umane. Una volta riaffermatesi condizioni climatiche più favorevoli, intorno a 400 mila anni fa, il ramo evolutivo dei Neanderthal avrebbe popolato tutta l’Eurasia occidentale, quello dei Denisovani l’Asia nordorientale e l’Oceania e le diverse forme «transizionali» non identificate la Cina. Uno di questi germogli avrebbe potuto raggiungere l’Africa, diventando il ramo dei Sapiens, che poi popolerà tutto il mondo. Ma si tratta di ipotesi, l’ultima delle quali sorprendente. Per confermare queste idee serve estrarre nuovi dati dai reperti fossili, usando anche i metodi scientifici avanzati messi a disposizione dalla fisica. Ecco spiegato il mio viaggio in Svezia.
Fortunatamente non tutti i resti dell’Uomo di Pechino erano andati perduti nel 1941. Agli scavi degli anni Venti partecipava anche il paleontologo austriaco Otto Zdansky, che scoprì i denti di cui parlavo in apertura. Alcuni furono inviati all’Università di Uppsala e uno fu di nuovo perso nei magazzini del museo, fino al 2015, quando Martin Kundrat, un paleontologo ceco che studiava in quella università, lo ritrovò. Martin contattò il nostro gruppo di Trieste per studiare gli ultimi quattro denti rimasti al mondo della specie dell’Uomo di Pechino. I denti sono reperti preziosi non solo perché si conservano attraverso le ere geologiche, ma anche perché forniscono informazioni critiche sull’evoluzione umana. La microtomografia ai raggi X permette di analizzare in tre dimensioni le microstrutture dello smalto, della dentina e della camera pulpare, senza interventi invasivi. Vengono prodotti così i Big Data della paleoantropologia virtuale e della morfologia quantitativa, da cui emergono nuove informazioni sul collegamento tra le diverse forme umane che popolavano l’attuale Cina e il resto dell’Asia durante il Pleistocene.
Il nostro progetto (firmato da «Abdus Salam» International Centre for Theoretical Physics di Trieste, Elettra/Sincrotrone Trieste, Museo storico della fisica e Centro studi e ricerche Enrico Fe Università di Tolosa e altre istituzioni europee, australiane e cinesi) si basa su un approccio interdisciplinare che coinvolge paleoantropologi come Clément Zanolli, archeologi come Federico Bernardini, esperti di luce di Sincrotrone come Lucia Mancini e perfino fisici nucleari che usano radioisotopi per viaggiare nel tempo profondo. Il nostro lavoro ha permesso di identificare le somiglianze evolutive dell’Erectus cinese con i primi Erectus indonesiani, ma serviranno molti altri studi genetici e morfologici per catalogare nel tempo e nello spazio tutti i diversi ominidi dell’Asia e trovare la loro parentela con noi Sapiens di oggi.
Fino a quando dovremo leggere i dati che continuano a spuntare come funghi sulle origini umane? Diceva il Re al Coniglio Bianco di Alice nel paese delle meraviglie: «Va avanti finché arrivi alla fine: a quel punto fermati». Forse un giorno arriveremo alla fine della storia, ma mai alla fine delle nostre meraviglie.
Corriere La Lettura 29.7.18
Studi Tra gli indios del Perù
Ecco il gene che stabilisce quanto siamo alti
di Giuseppe Remuzzi
Che l’altezza sia una questione di geni lo sanno tutti, e poi basta guardarsi in giro, avete fatto caso ai genitori di chi è molto alto o di chi non lo è affatto? E i geni che governano l’altezza sono tanti, centinaia, salvo che ciascuno di loro conta poco e contribuisce per meno di un millimetro all’altezza di ognuno di noi. Come lo sappiamo? Dai tanti lavori che sono stati pubblicati negli ultimi anni; uno in particolare, lo studio Giant pubblicato nel 2014 e realizzato su 250 mila persone.
Nessuno di questi studi però aveva mai preso in esame popolazioni isolate. L’hanno fatto adesso, alcuni ricercatori di Boston — Harvard Medical School — a dire il vero un po’ per caso; in un gruppo di indios delle montagne peruviane loro cercavano geni che influenzassero la severità della tubercolosi. E cosa mai ti trovano? Un nuovo gene (i medici lo chiamano FBN1) associato all’altezza, che, se mutato, ti accorcia di due centimetri in media.
«Chissà che non sia per questo — si chiedono — che i peruviani sono più bassi di statura di qualunque altro popolo (165 centimetri in media gli uomini e 153 le donne, che vuol dire dieci centimetri di media meno degli americani e quindici meno dei danesi)». Quello dei ricercatori di Harvard, Samira Asgari e Soumya Raychaudhuri — giovanissimi tra l’altro — non è stato un lavoro facile: era necessario comparare fra loro genomi di popolazioni dell’Africa, dell’Europa e dell’America Latina.
Nel fare questi complicatissimi studi di comparazione si sono accorti che il genoma degli indios peruviani è per l’80 percento nativo americano, per il 16 percento europeo e per il 3 percento africano e hanno visto che più sei geneticamente nativo americano più sei basso di statura. E qui entra in gioco la mutazione di FBN1: bastava aver ereditato una copia di questo gene (che altera per un solo aminoacido la corrispondente proteina, la fibrillina) per avere una statura inferiore alla norma di almeno due centimetri.
La fibrillina poi ha a che fare con molto altro oltre che con l’altezza; è uno dei componenti fondamentali del tessuto connettivo e se mutata si associa a diverse malattie rare che coinvolgono cuore, scheletro e pelle soprattutto, che in certi ammalati si ispessisce un po’ come una corazza. Inoltre quei peruviani che avevano ereditato due copie del gene mutato, una da ciascuno dei genitori, erano più bassi degli altri di almeno quattro centimetri.
Che significato ha tutto questo? Non avrà per caso a che fare con l’evoluzione? Probabilmente sì. È possibile che siano stati proprio la bassa statura e la cute un po’ più spessa del normale a consentire a queste popolazioni di sopravvivere a 3.000 metri e più di altezza dove di cibo di solito se ne trova pochino e i raggi del sole sono molto forti. Un po’ come succede agli animali, quelli che vivono in altura sono più piccoli e questo è stato nei millenni il loro modo di adattarsi a un ambiente così difficile. E la cute spessa? È una barriera creata dalla natura per consentire a quelle popolazioni di resistere ai danni dei raggi ultravioletti.
Quello che non sappiamo è se la mutazione del gene FBN1 abbia a che fare solo con l’altezza delle popolazioni andine o se sia lo stesso per chi vive sulle montagne dell’Asia o in Medio Oriente o in Giappone. In questi ultimi il gene FBN1 non l’ha studiato nessuno. Ma potete star sicuri che gli scienziati lo faranno molto presto, un po’ per capire di più della funzione di quel gene e poi dei rapporti fra questo gene e gli altri che determinano quanto ciascuno di noi è alto.
Il Sole Domenica 29.7.18
Eugenio Borgna. Nel percorso dei suoi libri, lo psichiatra esplora la temporalità e descrive le profonde radicidella nostalgia e della speranza. La scrittura finisce per coincidere con il vissuto, le emozioni, le letture
L’esistenza, un tempo senza fine
di Stefano Crespi
Un’occasione stimolante è rappresentata dalla lettura degli ultimi due libri di Eugenio Borgna, usciti nel 2018: La nostalgia ferita (Einaudi), L’arcobaleno sul ruscello. Figure della speranza (Raffaello Cortina Editore). Ritroviamo l’orizzonte tematico, psichico, un connotato acutamente testimoniale, la singolarità di una scrittura nel timbro, nel movimento, nel vissuto.
Eugenio Borgna, con un riscontro molto partecipe presso i lettori, è un riferimento di esemplarità nella psichiatria. Rispetto a una tendenza psichiatrica che si muove in confini «organicistici», farmacologici, Borgna è una punta significativa di una concezione psichiatrica nella profondità, nello specchio dell’esistenza. Certamente riconosce il momento patologico con cure relative. Ma nel percorso dei suoi numerosi libri, esplora la temporalità senza fine della condizione esistenziale.
Una condizione esistenziale (tra presenza, assenza, percezione di mistero) tanto più stringente, sofferta in quello che oggi viene riconosciuto come un cambiamento epocale. Un cambiamento epocale nell’espressione, nell’arte, nella comunicazione, nelle modalità della scrittura.
Valga un richiamo a Jean Clair che, lungo il percorso dei secoli, scrive di un cambiamento dal culto (arte sacra), alla cultura (il Rinascimento), al culturale (il contemporaneo nella perdita espressiva del volto umano). Già all'avvento della televisione, Pier Paolo Pasolini (muore nel 1975) parla di fine dell'umanesimo. Giovanni Testori (muore nel 1993) continuerà a ribadire la scomparsa dell’atto vivente della parola, dell’arte.
La significazione umana di Eugenio Borgna ripresenta nelle sue pagine momenti emblematici nel «silenzio» delle parole, nella trascendenza dello sguardo rispetto alla spazialità dei linguaggi, nel tempo interiore, nel tempo dell'io.
In questa circolarità della scrittura (silenzio, sguardo, tempo) entrano due aspetti nella riflessione degli ultimi due libri: La nostalgia ferita e Figure della speranza.
Tra la cenere dei giorni e un rinnovato «stupore del cuore», la nostalgia è una percezione esistenziale che riappare, ritorna anche nei momenti imprevedibili della vita.
Vaste sono le fonti originarie delle nostalgie. Eugenio Borgna, con tratti suggestivi, ricorda la nostalgia dell’adolescenza nei mesi trascorsi nel 1943 in un rifugio d’esilio: il piccolo paese dove si poteva scorgere il Lago d’Orta e l'Isola di San Giulio «trasognata nella sua grazia mistica e folgorata dal monastero benedettino», le passeggiate, le letture, il suono delle campane di una chiesa vicina.
Si ha nostalgia di una persona amata, del ricordo di una casa che si è lasciata, dei paesaggi vissuti. Si ha nostalgia di tutto ciò che è stato amato e che non è accaduto. C’è una nostalgia struggente «senza nome».
Sulla nostalgia ritrovata, leggiamo l’esemplarità delle parole dirette di Eugenio Borgna: «La nostalgia, l’immergersi nelle acque inquiete della nostra vita emozionale, è un’esperienza che talora siamo noi a ricercare, sfuggendo alle consuetudini e alle divagazioni della nostra vita quotidiana, e talora rinasce improvvisa sulla scia di un’immagine, di una lettera, di un libro, di una fotografia, di un ascolto musicale, di un paesaggio, di un incontro, e talora di una parola».
Si riconferma acutamente in questo libro il connotato espressivo di Eugenio Borgna nel coniugare il pensiero, la riflessione psichiatrica con il riferimento letterario, l’atto poetico. C’è una reciprocità, un’intermittenza interiore dove il confine letterario e poetico diventa quel punto di evento, di misura e dismisura, di grazia e spietatezza che infrange ogni schermo storicistico.
Figurano letterariamente nomi rappresentativi,emblematici (Proust, Rilke, Hofmannsthal). Vorrei richiamare il diario di Etty Hillesum per la quale Borgna scrive che «sentiva nostalgia della propria casa, e contemporaneamente delle baracche del campo di concentramento di Westerbork».
Nel cammino della vita c’è una consequenzialità tra nostalgia e speranza. La nostalgia si iscrive nel passato, la speranza si apre al futuro. Nella speranza rivivono risonanze emotive, desideri infranti, attese. Rivivono figure dell’esistenza fuori dai confini dell’io, ma aperte verso relazioni, evocazioni, domande, ricerca nei moti dell’umano, nello spazio dell’interiorità.
Nella speranza, intense suggestioni ci vengono suggerite dall’atto vivente delle lacrime, del sorriso. Il linguaggio delle lacrime ci parla della tristezza, dello smarrimento, della «nostalgia ferita», della tenerezza inquieta, della speranza indicibile. Le lacrime, nella labilità di qualche attimo, sciolgono la trama della solitudine, della lontananza, della memoria fragile. Scrive Eugenio Borgna che le lacrime «sono in fondo screziate da insondabile speranza».
Il sorriso è la luce di uno sguardo e (nella bella citazione di Borgna per Montale) «un’acqua limpida / scorta per avventura tra le petraie d'un greto».
Nelle pagine del libro Figure della speranza, scorrono testimonianze delle pazienti. Sono parole strazianti, dolorosamente ultimative: «Non ho la speranza della morte. Non ho questa speranza. Non ho più questa speranza».
Nell’insieme di queste considerazioni si ritrova il connotato della scrittura di Eugenio Borgna che coincide con la temporalità: la vita, le emozioni, gli studi, le letture, la parole rotte delle pazienti accanto a testi folgoranti della letteratura e della filosofia.
La nostalgia ferita
Eugenio Borgna
Einaudi, Torino, pagg. 114, € 12
L’arcobaleno sul ruscello. Figure della speranza
Eugenio Borgna
Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 130, € 11
Il Sole Domenica 29.7.18
Matthew Restall. L’imperatore aspirava a una conoscenza universale
Montezuma, l’identità del collezionista
di Ermanno Bencivenga
Nella Storia degli animali, Aristotele definisce il polipo stupido, perché quando un uomo lo avvicina gli va incontro e l’uomo può facilmente catturarlo. L’intelligenza di cui il polipo sarebbe privo, dunque, non è quella avvolgente che cerca di familiarizzarsi con il diverso ma quella distruttiva che il diverso lo fa a pezzi, e i risultati sembrano dar ragione al Filosofo: gli uomini mangiano regolarmente i polipi. Poi si guarda a come gli uomini si distruggono e si mangiano fra loro, e sorge qualche perplessità.
When Montezuma Met Cortés, di Matthew Restall, professore di Storia latinoamericana alla Pennsylvania State University, è giocato su una simile perplessità. L’8 novembre 1519, a Tenochtitlan, l’odierna Città del Messico, l’imperatore degli aztechi incontrò Hernando Cortés, che si proponeva come emissario di un altro imperatore, lo spagnolo Carlo V. Due civiltà stabilivano per la prima volta un contatto al vertice; di quell’occasione è stato detto (da Francis Brooks, altro storico) che «se esiste il momento mitico in cui è nata la storia moderna, è accaduto allora».
Ma che cosa esattamente accadde in quel momento? Per renderne conto, Restall si destreggia con sapienza fra memorie dei protagonisti, reperti archeologici e una tradizione culturale maestosa e controversa che comprende poemi, quadri, opere liriche e di narrativa, graphic novels e videogiochi. E libri di storia: cinque secoli di ricerca storiografica che lo storico Restall si dedica a smontare e contestare.
Esiste una versione ufficiale degli eventi, originata dallo stesso Cortés con una lettera a Carlo V. Inopinatamente, Montezuma si sarebbe dichiarato soggetto a Cortés e ai circa 250 spagnoli che lo accompagnavano. I quali avrebbero proceduto a farlo prigioniero, occupare il suo palazzo e trascorrervi mesi di strana, e stranamente quieta, coesistenza. Fino al giugno 1520, quando il palazzo venne attaccato dal popolo che voleva eliminare gli stranieri; Montezuma si sarebbe affacciato a una finestra per riportare la calma e sarebbe stato colpito da una pietra. Ne sarebbe morto, compianto dagli spagnoli, che sarebbero stati scacciati dalla città ma vi sarebbero ritornati, l’avrebbero posta sotto assedio e presa, conquistando un impero.
Questa versione è centrata su Cortés, eroe insieme omerico e machiavellico, prode in battaglia ma anche abile nel manipolare i nemici e sfruttarne le divisioni interne, realizzando infine il miracolo di soggiogare milioni di «indiani» con un modesto squadrone di soldati. Dall’altra parte, si colloca un Montezuma codardo fino al ridicolo, che nel pieno dei suoi poteri, circondato da decine di migliaia di fedeli, sceglie di consegnarsi nelle mani dell’invasore. Stupido, come un polipo; e se uno è stupido si merita la sua sfortuna.
Restall ritiene che questa versione sia un falso. Il più affascinante capovolgimento da lui compiuto riguarda lo zoo di Montezuma, un complesso straordinario che ospitava tigri e leoni, rettili e uccelli, e non aveva uguali in Europa. Né il sovrano si limitava agli animali: raccoglieva piante, oggetti artistici, libri e perfino esseri umani. Era insomma un collezionista, e «collezionare era il fondamento della sua identità di imperatore». Rivelava il suo «ambizioso desiderio di controllare il mondo»: di ottenere una conoscenza universale che era per lui l’aspirazione suprema.
Secondo Restall, Montezuma accolse i nuovi arrivati nel suo palazzo perché voleva collezionare anche loro. Per mesi dopo il loro sbarco li aveva sorvegliati da lontano, li aveva messi alla prova, adescati con ambascerie e doni, e ora, con un discorso in cui, in ossequio alle convenzioni della sua lingua, tanto più manifestava umiltà quanto più intendeva esaltarsi, li aggiungeva allo zoo. Contrariamente a quel che capì, o volle capire, Cortés, «il discorso di Montezuma non era la sua resa, era la sua accettazione della resa degli spagnoli».
Il resto fu caos. Quando il palazzo fu assalito, Cortés e i suoi uccisero Montezuma e pochi di loro si salvarono dalla strage che ne seguì. Ritrovatisi all’esterno, ricevettero cospicui rinforzi da Cuba ma, soprattutto, furono coinvolti in una guerra fratricida tra popolazioni diverse, approfittando della quale rientrarono in Tenochtitlan. Da allora in avanti, la loro fu una guerra di massacro, condotta perlopiù contro civili inermi sui quali le loro armi di ferro mostravano una spaventosa efficacia. Una serie di eventi bizzarri, casuali e spietati, in cui Cortés fu non un capo visionario ma la pallina impazzita di un flipper.
Installatosi nei suoi possedimenti, avrebbe tentato a lungo incursioni ovunque, in altre zone dell’America Centrale e anche al di là del Pacifico; ma senza nessun successo. Game over: la pallina era tornata nella buca. E rimane il rimpianto di quel che sarebbe potuto succedere se questo incontro fra due civiltà avesse imparato dall’intelligenza avvolgente del polipo invece che da quella brutale del suo cacciatore.
When Montezuma Met Cortés:
The True Story of the Meeting that Changed History
Matthew Restall
HarperCollins, New York,
pagg. xxxiv+526, $ 35