lunedì 30 luglio 2018

Repubblica 30.7.18
Quando Freud abbandonò l’amico geniale
“Fratello animale” di Paul Roazen, che nei primi anni ’70 riportò alla luce la figura tragica di Victor Tausk, allievo poi ripudiato del padre della psicoanalisi
di Marco Belpoliti


Dal patrimonio culturale nascosto nei saggi finiti (a torto) fuori catalogo spunta “Fratello animale” di Paul Roazen, che nei primi anni ’70 riportò alla luce la figura tragica di Victor Tausk. Allievo, poi ripudiato, del padre della psicoanalisi
Fondando la psicoanalisi all’inizio del XX secolo Sigmund Freud aveva proposto il mito di Edipo, l’uccisione del Padre, come uno dei complessi fondamentali della cultura occidentale. Nella sua biografia c’è un episodio che sembra smentire quel mito e anche rovesciarlo: il Padre uccide il Figlio. Una storia semisconosciuta che riguarda un suo allievo, forse il migliore: Victor Tausk. Tausk si suicidò a 51 anni nel 1919, e di lui non resta quasi traccia nelle biografie di Freud. Il suo maestro l’ha cancellato, nonostante l’avesse apprezzato e sostenuto per dieci anni sino a pagargli gli studi in medicina e farne uno dei membri di rilievo della sua Società di psicoanalisi di Vienna. Tausk, dal canto suo, l’aveva ricompensato divenendo il suo paladino nella contesa con Adler e Jung, i primi scissionisti del movimento psicanalitico.
Nei 54 anni seguiti alla sua morte Tausk è stato un fantasma nella storia della nuova scienza dell’anima, fino a che uno studioso di scienze politiche, docente a Harvard, Paul Roazen, in un libro scomparso, Fratello animale (traduzione di M. Manzari, Rizzoli 1973), l’ha tratto dall’oblio raccontandone la storia. Che s’intreccia con quella di Lou Andreas-Salomé, una delle donne fatali vissute tra il XIX e il XX secolo. Di Lou Victor Tausk fu amante.
Ma andiamo con ordine. Tausk nasce nel 1879 a Zsilina in Slovacchia. È un suddito dell’Impero Austroungarico. Si sposa giovane, studia giurisprudenza e ha due figli.
Inizia come scrittore, commediografo e giornalista a Berlino, dopo la separazione dalla moglie. Ha una depressione ed è ricoverato.
Scopre i testi di Freud e gli scrive. Questi, credendolo un medico, l’invita a recarsi da lui a Vienna. Si iscrive alla facoltà di medicina della città e diventa psichiatra. Comincia a frequentare le riunioni della Società di psicoanalisi. Lo stesso anno, il 1909, vi presenta la sua prima relazione: Teoria della conoscenza e psicoanalisi.
Roazen racconta la vita di Tausk in modo dettagliato, ma anche rapido, mettendo a fuoco il rapporto tra questo brillantissimo e talentuoso personaggio e Freud. Attinge da un libro, il diario di Lou Andreas-Salomé, intitolato I miei anni con Freud. Dalla stima e ammirazione verso Tausk — uomo alto, bello, affascinante — Freud passa presto all’insofferenza. Cosa non gli va del medico e psichiatra Victor Tausk? Roazen spiega che mentre per Freud la funzione creativa è un processo digestivo, lento e pieno di ripensamenti, in Tausk è invece esplosivo. Il capo degli psicoanalisti s’è accorto che nel momento in cui formula un’idea, Tausk è già arrivato alle conseguenze. Dotato di una grande intuizione, sembra precederlo in molti passaggi.
Freud è molto possessivo nei confronti delle proprie idee, pur avendo detto una volta che le idee non si possono brevettare.
Inoltre il bel Victor ha intessuto una relazione con Lou, più vecchia di lui, arrivata a Vienna dopo essere stata chiesta in sposa da Nietzsche, e dopo una relazione con Rilke di cui è stata la musa. A Freud Lou piace, la stima, come si capisce dall’epistolario che si scambiano. La relazione tra lei e Victor dura dal 1912 e al 1913. Poi Tausk viene chiamato sotto le armi come tenente medico: è scoppiata la Prima guerra mondiale. In quel periodo l’allievo di Freud scrive molti saggi, di cui esiste un’edizione italiana ( Scritti psicoanalitici, tr.
it. di L. Agresti, Astrolabio). A conflitto terminato Tausk si trova in grande difficoltà: non ha pazienti nella Vienna sconquassata dalla crisi economica; ha cambiato tre volte mestiere ma versa ancora in condizioni indigenti. Va da Freud e gli chiede di essere preso in analisi da lui: sei sedute alla settimana. Freud rifiuta, e lo manda da una sua allieva, Helene Deutsch, più giovane e inesperta di Tausk, in analisi da Freud. Si tratta del secondo triangolo in cui lo psicoanalista si trova invischiato dopo Lou.
Nelle sedute con la Deutsch, Tausk parla di Freud, mentre lei parla di Tausk nelle sedute con Freud. Il Signor Sa-tutto, come appare a Freud, si trova al centro di un doppio scambio.
Anche la situazione sentimentale di Tusk non è molto stabile. Ha lasciato a Belgrado durante la guerra una bella e affettuosa vedova, Kosa Lazarevic, con cui ha convissuto. Nella primavera del 1919 si fidanza con una sua paziente, Hilde Loewi, che pensa di sposare; all’epoca la relazione tra psicoanalista e paziente è uno scandalo.
Secondo Roazen, Freud e Tausk muovono l’uno l’altro il medesimo rimprovero: ciascuno ritiene che l’altro non tributi il giusto riconoscimento alle proprie idee. Freud è anche convinto che le idee di Tausk appartengano di diritto a lui.
Entrambi temono di essere distrutti dall’altro. Per il medico accettare l’analisi con un’allieva più inesperta di lui è senza dubbio un’umiliazione.
Verso la fine di marzo del 1919 Freud impone alla Deutsch d’interrompere l’analisi con il suo allievo, perché costituisce un ostacolo all’analisi con il maestro.
Tutto precipita di colpo. Tausk si rende conto che il matrimonio non risolve i suoi problemi con le donne, che le annose questioni economiche non sono superate e che Freud l’ha davvero abbandonato. Il 3 luglio si annoda un cordone della tenda e usando la pistola di ordinanza alla tempia preme il grilletto. Si spara in testa e nel cadere rimane strangolato.
Freud scrive il discorso funebre e lo loda, tuttavia in una lettera a Lou confessa subito dopo di non rimpiangerne la morte. Lou, a sua volta, nel suo diario scrive di ammirare nel suo ex amante la lotta straziante per servirsi dell’intelletto allo scopo di dominare le passioni: «Fin dal primo momento ho capito che era proprio questa lotta di Tausk a suscitare in me la commozione più profonda… la lotta della creatura umana. Fratello Animale, tu». Si può considerare questa vicenda tra Freud e Tausk emblematica del rapporto tra maestro e allievo?
In una certa misura sì. Quando l’allievo è dello stesso livello del maestro — non inferiore, non superiore, bensì pari — si apre un conflitto che nel caso del medico psichiatra diventa fatale. Tausk è stato il primo psicoanalista a misurarsi con la paranoia e con la schizofrenia, quando Freud scandagliava ancora il continente della nevrosi. Se trovate in una biblioteca o su una bancarella il libro di Tausk, leggete Sulla genesi della “ macchina influenzante” nella schizofrenia.
Ci sono in nuce Deleuze e Guattari e il loro “anti-Edipo”, molti decenni prima.
– 2. Continua


La Stampa 3.7.18
La piaga dei giovani isolati
In 100 mila fuori dal mondo
di Lodovico Poletto


La porta della camera resta perennemente chiusa. E la luce accesa. Chi ha attraversato quel mondo, e ne è uscito, parla spesso di quell’uscio sbarrato come prima forma di rifiuto di un universo nel qual non ci si riconosce più. Li chiamano Hikikomori, e fino a che non ne incontri uno non sai bene cosa siano. Lo intuisci a malapena dai loro racconti sul web: «Non sopportavo più nessuno, il resto del mondo mi era estraneo».
Ma per entrarci davvero dentro quel mondo devi ascoltare la disperazione dei genitori: «Sapesse quanti tentativi abbiamo fatto per trascinare nostro figlio fuori da lì. Non c’era modo. Era chiuso verso tutto, e verso tutti».Eccolo qui il mondo degli Hikikomori.
La Rete come unico contatto
Non è fenomeno giovanissimo né per l’ Italia né, tantomeno, per il resto del mondo. Ciò che, oggi, però, preoccupa sempre di più sono le dimensioni di questa moderna forma di eremitismo volontario (descrizione ampiamente contestata da chi studia il fenomeno, ma che ben rende l’idea). In Italia sono oltre 100 mila i ragazzi dai 14 ai 25 anni, che non studiano, non lavorano, rifiutano ogni tipo di contatto con famiglia e amici, che vivono nel chiuso delle loro camera, spesso dormendo di giorno e mangiando la notte, quando nessuno li vede, che vivono sul web, che hanno nella Rete la loro unica forma di contatto con il mondo al di là delle pareti della loro camerette . In Giappone - dicono - sono almeno dieci volte tanto. E sono l’ultima frontiera dell’emergenza sociale. Trovare assonanze e similitudini con altri fenomeni sociali, di apatia o di rifiuto, è complicato.
L’urgenza di stare in disparte
C’è chi cerca assonanze con i «neet» - i ragazzi che non lavorano e non studiano, che stanno sospesi in uno spazio senza tempo e obiettivi - ma sbaglia perché essi, almeno, hanno una vita fatta di contatti e socialità. E non sono nemmeno eremiti, intesi nel senso classico del termine, cioè uomini e donne per cui l’isolamento fa rima con la meditazione. Gli Hikikomori (dal giapponese “stare in disparte”) sono altro. «Sono persone che hanno sperimentato su loro stessi cosa voglia dire la pressione sociale: non reggono quel mondo di aspettative che gli altri riversano su di loro. Edi conseguenza si isolano. «Rifiutano, in un percorso più o meno lento, i contatti con tutti: dalla famiglia, agli amici ai compagni di scuola» spiega bene Marco Crepaldi, l’uomo che, quando ha incontrato questo fenomeno, ha iniziato a studiarlo, fino a diventarne il massimo esperto in Italia. Studioso sì, ma anche qualcosa di più.
È nato grazie a lui il gruppo Facebook su questo tema. E sempre lui è il padre di Hikikomori Italia, l’associazione che ha poi filiato gruppi locali. Li frequentano i genitori degli Hikikomori. Si scambiano esperienze. Si confrontano e si aiutano. E si sostengono l’un l’altro perché essere un Hikikomori non è una malattia che puoi curare con una molecola scoperta e raffinata in un laboratorio. Uscirne richiede l’appoggio di tutti: genitori per primi. Una sola certezza: la psichiatria, e così pure la psicologia, non hanno protocolli certi per approcciare il fenomeno.
I ritmi di vita invertiti
Per capire i ragazzi in fuga da loro stessi e dal mondo può essere utile leggere una storia tratta dai forum di Hikikomori Italia:«Mi chiamo Aldo. Ho 21 anni. Oggi l’apatia è ciò che governa le mie giornate. Non c’è nulla che mi appassioni o mi spinga a far qualcosa. Spesso arrivo a stare sul letto e ad alzarmi solo per mangiare o andare in bagno. I miei ritmi di vita sono invertiti: sto sveglio la notte e dormo di giorno. Anche se razionalmente so di sbagliare, non riesco a fare altro, né riesco a volerlo. Qualche volta ho delle crisi, pensando ai sacrifici di mia madre, costretta ad assistere alla mia incapacità di fare qualcosa per il mio futuro. Ma sono crisi che nascono dalla consapevolezza di “stare bene” così, nonostante tutto. Sono sensi di colpa, ma non riescono a mettere in moto nessun ingranaggio per cambiare». Vincenzo Villari, docente alla facoltà di medicina dell’Università di Torino, e direttore del Servizio psichiatrico della Città della salute di Torino, non ha tentennamenti ad ammettere una mezza sconfitta: «Il fenomeno degli Hikikomori è l’esempio di come la psichiatria debba talvolta riconoscere i suoi limiti. Perché, ad oggi, non è chiaro se questo sia, o meno, un vero e proprio disturbo psichiatrico». Anche se, assicura «il confine tra la scelta individuale e il disturbo stesso a volte è molto labile». Come dire che gli ambiti si possono confondere. E dal punto di vista medico diventa molto complicato tracciare un quadro. Ci sono professionisti, ad esempio, che trovano assonanze con l’autismo. Altri con patologie differenti, quali la depressione.
Così si modellano i sintomi
L’unica certezza è ciò che sostiene il professor Villari: «I tratti individuali e socioculturali hanno funzione patoplastica sulle persone, cioè ne modellano carattere e modo di essere». In pratica, l’ambiente nel quale sei cresciuto ti ha condizionato. E le tue caratteristiche personali sono state in quale modo più - o meno - ricettive. Sintetizzare le peculiarità caratteriali di un Hikikomoro è complesso. Osserva Crepaldi: «Sono ragazzi e ragazze che hanno una sensibilità maggiore rispetto ai coetanei ma anche una fragilità interna, dovuta ad un eccesso di sensibilità nei confronti dell’esistenza». Le pressioni sociali, la necessità di avere successo, lo spirito competitivo esasperato li portano ad un «volontario isolamento dal resto del mondo». E allora vien da pensare che lo studioso del fenomeno e lo psichiatra abbiano idee più o meno convergenti. E si torna così alla funzione patoplastica: diventi un Hikikomoro se l’ambiente attorno a te è fertile. Cioè, se di tuo sei fatto in un certo modo. E ancora, illuminanti sono le parole del medico, quando cercando di ridurre all’osso la questione, per spiegarla al meglio anche a chi ne ha sentito parlare poco e male, dice: «Un Hikikomoro non diventerà mai uno scugnizzo, come uno scugnizzo non sarà mai Hikimoro». Possibile?
Il labirinto delle ipotesi
Daniele, 17 anni, in chat scrive così: «La mia infanzia non è stata piacevole, ho sempre sofferto al pensiero che la gente potesse giudicarmi e questo mi ha portato a diventare molto maturo fin da piccolo. E se ci penso, ciò mi fa stare molto male. Non riesco a ricordare un solo momento in cui sono stato veramente felice in tutta la mia vita». A chi gli domanda per quale ragione un ragazzo che ha scelto volontariamente di isolarsi dal mondo, abbandonando scuola, amici, attività sportive, si rifugi nella rete, Crepaldi offre l’unica riposta possibile nel labirinto di ipotesi che i trovano sul web: «Internet è una forma di contatto col mondo. Ci sei. Ma chi c’è dall’altra parte non pretende nulla da te». Insomma: non è come una madre che urla per convincere il figlio a tornare a scuola. Non è come un padre che minaccia. È un contatto e basta. «Sono come uno a cui è stata amputata una gamba. Penso che mi sia stata amputata la volontà. Non riesco a volere nulla, non so nemmeno come si faccia. Quando mi vengono dette frasi del tipo “Devi solo volerlo”,provo lo stesso fastidio che proverebbe uno su una sedia a rotelle a cui si chiede di alzarsi», scrive Luca, 22 anni, su un forum di Hikikomori Italia. Ma qui siamo già molto avanti. Ogni storia comincia con una scelta di fuga dalla realtà. Chiudendo la porta della camera e vivendo a modo proprio.
Le sedie rivolte verso il muro
«Se l’isolamento è volontario, se non esistono cause patogene, allora sì, siamo in quel mondo» sentenzia Villari. «Ma se non si aiutano i genitori, i ragazzi da soli non troveranno mai gli strumenti per uscire da una simile condizione» replica Crepaldi. E forse non troverebbero neppure motivazioni sufficientemente forti per farlo. Già, una molla per provare a cambiare.
In Giappone dove il fenomeno pervade tutti gli strati della società, di Hikikomori si parla diffusamente. E a Tokyo sono nati dei bar riservati a loro. Entri e trovi sedie e sgabelli rivolti verso il muro. Chi ci va non parla con nessuno. L’originalità di questi luoghi è la presenza di ragazze, un po’ svestite, ma non troppo. Carine sempre. Servono il tè. E poi si fermano a parlare con i ragazzi: un approccio sensuale, se si vuole, ma neanche troppo. Non sono prostitute. Anzi. Sono una chiave per tentare di tirare fuori dalle loro stanze quei ragazzi. Villari quei bar li ha visti. Professore, funzionano? «Sono tentativi che potrebbero anche dare frutti».

La Stampa 3.7.18
Siti, social e associazioni
La rete di mutuo-aiuto


In Italia esiste una rete di genitori che si fanno forza a vicenda attraverso consigli ed esperienze condivise. Un mutuo-aiuto nello spazio di dialogo su Facebook in una pagina a gruppo chiuso, riservato ai genitori di ragazzi con problemi di isolamento sociale e difficoltà relazionali. Uno spazio protetto dalla curiosità di estranei a questo problema e a curiosi dove poter raccontare la propria esperienza, scambiarsi opinioni e sostenersi a vicenda. L’associazione “Hikikomori Italia Genitori”(fondata e presieduta da Marco Crepaldi) è nata nel giugno 2017, come estensione del gruppo Fb, con obiettivo di sensibilizzare le istituzioni per ottenere maggiori diritti e servizi.

La Stampa 3.7.18
Intervista “Nostro figlio irriconoscibile
Parla la mamma di un segregato. La fuga dalla scuola e le cure negate
Anche curarlo era impossibile ”
di L. Pol.


Vuol sapere cosa significa avere un figlio Hikikomori? Significa che da un momento all’altro ti trovi a mettere in discussione tutta la tua vita, le tue scelte, il tuo modo di essere. Lo fai perché sei un genitore e non puoi accettare di vedere tuo figlio ridotto così. Non è più il bambino che hai allevato, è un’altra persona che ti rifiuta, e rifiuta tutto e tutti». Parla la mamma di un diciannovenne torinese che per quattro anni è scappato dal mondo, diventando uno dei 100 mila ragazzi italiani precipitati in questo tunnel verso il nulla. I nomi sono finti, e qualche dettaglio è cambiato perché questa era la condizione per poter raccontare questa storia. Perché, anche se Domenico adesso sta meglio, l’inferno è ancora lì, in agguato.
Si ricorda quando è iniziato?
«Lui stava completando le scuole medie quando si sono manifestati i primi sintomi. L’esame di terza lo ha dato, e lo ha superato anche bene. Al liceo, invece, è stato un dramma. Fin dall’inizio».
In che senso?
«Ha cominciato col dire che stava male. Ogni mattina un problema diverso: una volta mal di pancia, un’altra un po’ di febbre, un’altra mal di testa. Malattie che miracolosamente sparivano non appena gli dicevo “stai a casa”».
E lui che cosa faceva?
«Se ne stava chiuso nella sua camera. Giocava dalla mattina alla sera con il computer».
Lei e suo marito come l’avete preso questo suo atteggiamento da eremita?
«All’inizio pensavamo fosse solo svogliato. E sa come vanno queste cose: prima gli abbiamo parlato, poi lo abbiamo sgridato. E intanto lui si chiudeva sempre più».
Un tormento per voi genitori, non è vero?
«Molto di più. Perché quando Domenico ha cominciato ad escludere anche gli amici, le frequentazioni solite, a vivere nel suo mondo, per noi è stato un trauma: litigavamo, ci accusavamo di tutto. Mio marito diceva “è tutta colpa tua che sei sempre stata troppo molle”.Ed io ero sempre contro di lui:siamo finiti così in un’orrenda spirale senza uscita».
Non avete mai pensato che potesse trattarsi di una malattia, di un problema risolvibile con uno psicologo o uno psichiatra?
«Centinaia di volte. Siamo andati da un sacco di medici e abbiamo sentito le cose più diverse. Ma all’inizio era un guaio: io fissavo l’appuntamento dallo psicologo e mio figlio non andava mai. Come si fa a trascinare un ragazzo di 15,16 anni dal medico se non vuole? Non è più un bambino».
E con la scuola come avete fatto?
«Neanche a metà anno ha smesso di frequentare. Gli insegnanti ci chiedevano notizie e non sapevamo cosa dire. Lui è sempre stato molto bravo in tutte le materie. Ne andavamo orgogliosi».
E con l’altro vostro figlio?
«Vedeva il fratello che stava sempre chiuso in camera a giocare tutto il giorno, che dormiva, che si alzava la notte. A volte diceva: “Perché lui può starsene a casa e io no?”. Un disastro sotto ogni profilo. Poi per fortuna le cose sono cambiate».
In che modo, scusi?
«Abbiamo cominciato a fare ricerche sul web. E lì abbiamo conosciuto dei gruppi di genitori che avevano figli con lo stesso problema di Domenico. Loro sapevano già che il figlio era un Hikikomo».
E vi sono stati d’aiuto?
«Di più. Ci hanno spiegato come comportarci. Come risolvere i momenti di crisi».
E come si fa?
«Attraverso il dialogo. Abbiamo imparato a non chiedere più, ma ad ascoltare il suo disagio. Le sue paure. Quella è stata la strada».
Oggi come sta Domenico?
«Oggi, dopo quattro anni, possiamo dire di essere finalmente fuori da quell’incubo: è tornato il ragazzo di sempre».
Ha abbandonato la stanza?
«Sì. Domenico è tornato a scuola. Non frequenta più il liceo ma un altro istituto».
Ha degli amici?
«Ora sì. Esce regolarmente con altri ragazzi. Alcune sono persone che ha conosciuto quando è tornato ad avere una vita sociale, com’è giusto che sia alla sua età. Altre sono vecchie conoscenze».
Ha anche una fidanzata?
«Beh, queste sono cose che i genitori sanno sempre dopo».
Non gliel’ha chiesto?
«Io non chiedo. Se vuole me lo dice. Da poco Domenico ha anche ripreso a parlare e a confidarsi con noi».L.POL.

Repubblica 30.7.18 Cisgiordania
Tamimi, paladina controversa
Ahed, il ritorno della ragazza ribelle eroina dei palestinesi
Aveva picchiato un soldato israeliano, da ieri è libera:“Temevo di saltare la maturità”
di Lourdes Baeza


GERUSALEMME L’adolescente palestinese di 17 anni Ahed Tamimi ha lasciato ieri mattina il carcere israeliano di Hasharon — che si trova a Even Yehuda, nel centro di Israele — dove ha trascorso gli ultimi otto mesi, e ha raggiunto la sua casa in Cisgiordania circondata da una folla festante e dai suoi parenti, che non smettevano più di abbracciarla e di baciarla. «La resistenza continuerà fino alla fine dell’occupazione», sono state le sue prime parole sulla soglia di casa. Al polso un braccialetto con la bandiera palestinese e al collo una kefiah che si è messa non appena è scesa dal veicolo dell’esercito che l’ha accompagnata a nord ovest di Ramallah (Cisgiordania), dove l’aspettavano i suoi.
Nel pomeriggio, più tranquilla, dopo aver posato sorridente mentre mangiava un gelato, la ragazza ha risposto ai giornalisti con accanto i suoi genitori. «Sono felice, ma sarò ancora più felice quando tutte le donne palestinesi saranno liberate dalle prigioni dell’occupazione israeliana», ha detto nel cortile della sua casa.
Tamimi ha raccontato che una delle sue più grandi paure, durante la prigionia, era quella di non poter sostenere gli esami di maturità. «L’idea di non potermi diplomare mi provocava un grande stress e molta tensione», ha detto. Per questo, in prigione, ha dedicato tutto il suo tempo a studiare. La ragazza ha detto tra gli applausi che «la gente è padrona del suo destino e del suo futuro». Ahed si è rifiutata di rispondere alle domande dei media israeliani presenti.
Sua madre ha sottolineato che bisogna sostenere i giovani palestinesi perché sono il futuro.
«In Palestina, i bambini muoiono dentro casa loro», ha detto Nariman Tamimi. Anche lei ha scontato gli otto mesi di detenzione a cui un tribunale israeliano le aveva condannate, lo scorso marzo, per aver aggredito un soldato e incitato alla violenza. La ragazza è diventata famosa in tutto il mondo dopo essere apparsa in un video in cui schiaffeggiava un soldato israeliano, il 15 dicembre scorso, sulla porta di casa sua. Il fatto avvenne durante una retata dell’esercito israeliano a Nabi Saleh, il villaggio palestinese in cui vive la famiglia Tamimi, in Cisgiordania. La scena, in cui si vedeva anche sua cugina, Noor Tamimi, fu trasmessa in diretta attraverso i social network da sua madre, anche lei arrestata e condannata alla stessa pena.
Entrambe sono state ricevute dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, nella Mukata, la sede del governo palestinese a Ramallah.
Hanno anche reso omaggio alla tomba di Yasser Arafat, lo storico leader palestinese.
Da quando è stata rinchiusa in una struttura militare, nel dicembre del 2017, la ragazza è diventata un simbolo della resistenza palestinese, ma già da molto piccola era stata protagonista di scontri con le forze di sicurezza israeliane. In un altro video, girato quando aveva appena 12 anni, si vede Ahed che redarguisce i soldati israeliani e gli dà delle manate nel tentativo di evitare l’arresto di suo fratello, che ieri non si è separato mai da lei.
I media palestinesi hanno contribuito a forgiarne l’icona, esaltando il coraggio. Per la maggior parte degli israeliani, invece, il famoso video non è stato altro che un tentativo intenzionale delle Tamimi di provocare i soldati mentre venivano filmati. Accuse che la ragazza ha respinto durante il processo. Ha spiegato, invece, che aveva scaricato la sua ira contro i militari perché avevano sparato un proiettile di gomma in faccia a suo cugino: la sua faccia rimarrà deformata per tutta la vita.
La famiglia Tamimi è molto nota per il suo nazionalismo e la sua lotta attiva «contro l’occupazione israeliana». Il suo villaggio, Nabi Saleh, si trova nella cosiddetta zona C, la parte della Cisgiordania sotto il controllo amministrativo e militare israeliano. Diversi membri della famiglia Tamimi sono morti durante scontri con l’esercito israeliano — l’ultimo, lo scorso gennaio a Ramallah — e sono rari quelli che non sono passati per la prigione o in qualche centro di detenzione.
Anche suo padre, Bassem, è stato messo in prigione più volte.
Secondo fonti della famiglia, nelle prigioni israeliane ci sono ancora 15 membri del loro clan.

Repubblica 29.7.18
Il conflitto israelo-palestinese
La ragazza ribelle
di Gigi Riva


Ahed Tamimi non ha un velo in testa, nemmeno una tunica nera lunga fino ai piedi. Ahed Tamimi ha una cascata di capelli ricci, occhi chiari, jeans e una maglietta attillata che valorizza le sue forme di diciassettenne. Ahed Tamimi potrebbe essere parigina, romana, americana. Una ragazza che va in piazza per protestare contro la riforma della scuola o i tagli al welfare. Invece è palestinese e per strada, accanto a casa sua, nel villaggio di Nabi Saleh, venti chilometri a nord di Ramallah, nel dicembre scorso aveva preso a schiaffi e pugni due soldati israeliani, per questo era stata condannata a otto mesi di prigione.
Con un piccolo sconto di pena ieri è tornata a casa, grazie a una “ valutazione speciale” dell’Autorità carceraria dello Stato ebraico in cui ha probabilmente pesato il valore simbolico che l’adolescente ha assunto per la causa del suo popolo. Perché d’incanto l’icona della resistenza non ha più il volto truce di miliziani di Hamas che lanciano missili contro la popolazione civile, o “martiri” con cinture esplosive e un versetto del Corano scritto su una bandana verde pronti a farsi esplodere in una discoteca dove ballano i loro coetanei. Ahed Tamimi è la figlia, la sorella minore. Il suo aspetto la rende familiare, riconoscibile come una del “nostro” mondo, che lotta a mani nude contro l’occupazione della sua terra. Non imbraccia un fucile, la violenza che esprime sta nella forza delle sue braccia. Ed è donna calata nel panorama maschile della guerra a rovesciare cliché. Ahed Tamimi è figlia di Bassem, militante di Fatah, il movimento laico che fu di Yasser Arafat e che dalla morte del leader è riuscito ad esprimere solo una nomenklatura invecchiata e corrotta. E che ora, grazie al volto pulito e arrabbiato di una ragazza, trova la linfa per rialzare la testa e la osanna valutando il suo gesto «più utile di quelli di mille combattenti». La postura con cui ha retto l’interrogatorio in cui ha ribadito di avere «il diritto di non rispondere alle domande» è la strategia legalista con cui guadagnare il consenso che nessun atto terroristico potrà mai portare.
Benché così giovane, Ahed è già una veterana dei cortei contro l’occupazione a cui partecipa da quando era bambina, costretta a diventare in fretta adulta, e non c’è membro della sua famiglia che non sia passato dalla prigione. Non ha avuto il tempo per godersi l’età dell’innocenza e certo è stata anche usata da chi ha capito che gli occhi infantili sono gli unici a poter commuovere un’opinione pubblica fattasi distratta. Ma nel giorno in cui si celebra la fine del carcere di Ahed sia concesso anche un pensiero per quei soldati da lei presi a schiaffi senza reagire. Non sempre nei Territori occupati i militari israeliani hanno mostrato tanto autocontrollo. Nemmeno davanti a dei bambini.

Il Fatto 29.7.18
Alla ricerca della Sinistra perduta
di Salvatore Cannavò


Dall’anomalia del dopoguerra quando l’Italia era il paese con il più grande partito comunista d’occidente, siamo all’anomalia opposta: quella del paese senza sinistra.
L’assenza di idee e di iniziativa di quella che è stata la sinistra italiana è sotto gli occhi di tutti. La cecità e l’arroganza del gruppo dirigente del Pd hanno dato il colpo di grazia a una situazione provocata dai gruppi dirigenti storici e che sembra irrecuperabile perché quello che è evidente a tutti – il Pd deve azzerare e cancellare le facce e le idee degli ultimi dieci-venti anni – è indigesto e osteggiato da chi sta assiso al vertice di quel partito.
A sinistra del Pd purtroppo si verifica una contraddizione ricorrente. Nata per essere l’alternativa al grande corpaccione riformista, la sinistra più radicale alla fine ne segue i destini quasi sempre rovinosi. È accaduto alla “Nuova sinistra” negli anni 70, poi a Rifondazione comunista negli anni 90 e 2000, è successo di nuovo agli improbabili leader di Liberi e uguali. Il problema è che perché esistano “due sinistre” ne serve almeno una. Oggi quella sinistra non esiste nelle idee – si guardino i commenti su Sergio Marchionne – e non esiste nella società, se non in forme parziali e sempre più esili.
La sinistra non si rappresenta nemmeno tramite il sindacato il quale, senza politica, appare muto e senza argomenti. Quando i sindacalisti hanno provato a fare il salto in politica hanno sostanzialmente fallito. L’unico che poteva realizzare un progetto di ampio respiro, Sergio Cofferati, non ci ha nemmeno provato, e dopo di lui stessa sorte è toccata a Maurizio Landini oggi impegnato nella corsa alla leadership della Cgil.
Eppure il sindacato sembrerebbe avere numeri e forza per svolgere almeno un ruolo di surroga sociale, visto che sarebbe innaturale la sua trasformazione in partito. In altri tempi la Cgil avrebbe indetto lo sciopero contro le “sparate” di Salvini. Oggi tace. L’anomalia italiana quindi è complessa e non sembra mostrare una via di uscita. Quello che possiamo fare e mostrare alcune esperienze “esemplari”, timide resistenze e tentativi di ripartenza. Fragili e generosi, ma che hanno bisogno di un evento costituente di cui oggi non si vede traccia.

Corriere 30.7.18
Identità e opposizione
una scelta di sinistra: conservare
di Ernesto Galli della Loggia


In una democrazia «stare all’opposizione», «essere opposizione», può significare due cose distinte. La prima e più ovvia, non condividere il programma politico della maggioranza e contrastarlo. La seconda, invece, avere un’identità — cioè un sistema di valori e di prospettive, una visione del mondo — diversa ed opposta rispetto agli orientamenti generali dominanti nella società.
I grandi partiti della sinistra — di una sinistra quasi sempre socialista — sono stati un esempio classico di sovrapposizione tra i due aspetti di cui ho appena detto. E a seconda delle circostanze e della capacità delle loro leadership tale sovrapposizione ha prodotto risultati politicamente buoni o no. Sta di fatto, comunque, che da quando la storia ha messo fuori gioco l’identità socialista, quella sovrapposizione ormai non esiste più: e in molti Paesi il suo venir meno ha coinciso con il fortissimo indebolimento di quei partiti stessi e in generale dell’opposizione. Non a caso. Infatti, essere opposizione disponendo esclusivamente di risorse politiche — e rinunciando d’altra parte a utilizzare le risorse della demagogia come invece fanno i populisti: anzi battendosi contro costoro — è quanto mai difficile. Specie perché oggi la libertà di scelta della politica è limitata drasticamente dai vincoli dell’economia e della finanza globalizzate oltre che della tecnica, e dunque, in sostanza, una medesima gabbia di ferro tiene prigioniere in uno spazio limitato la politica e con essa la maggioranza e l’opposizione.
Proprio questo è il problema attuale dell’opposizione anti populista di sinistra che ha perduto il suo antico retroterra identitario: decidere se cercare oppure no di rompere la gabbia di ferro costituita dalla politica tornando a rifarsi una sua identità. Cioè a rappresentare un sistema di valori e di prospettive, una visione del mondo, diversi da quelli vigenti; ad avere un’identità etico-politica contrapposta a quella maggioritaria. Come avveniva per la Sinistra di un tempo, per l’appunto, ma diversamente da allora perché quel tempo è andato via e non tornerà mai più.
Ma dunque diversamente da allora in che modo? Per chi non ha rinunciato a uno sguardo critico sulla nostra condizione storica attuale è principalmente una — almeno a me così pare — la direzione verso la quale dovrebbe oggi muoversi un’identità politica alternativa. La direzione orientata a conservare.
Sulle nostre società grava ogni giorno di più il peso minaccioso del cambiamento continuo, del mutamento incessante dei modi di produrre, di agire, di pensare. E sotto un tale peso il destino stesso della nostra civiltà sta cambiando definitivamente forma. Sotto un tale peso è in atto una lacerazione implacabile del tessuto della vita. Con la conseguente rottura di modelli talora consolidatissimi di relazioni interpersonali, di legami con cose, abitudini, ambienti umani che si dissolvono, di brutale necessità di riadattamento e di apprendimento di «ciò che è nuovo». Con la conseguente, sopravveniente inutilità di ciò che si sapeva fare e si è fatto per una vita. Con la scomparsa o la trasformazione radicale di luoghi antichi che racchiudevano biografie di persone e di comunità. Anche in conseguenza di tutto ciò una parte sempre maggiore della popolazione (crescente per via dell’aumento della durata della vita) è esclusa a causa dell’invecchiamento dal flusso della vita sociale, in cui non ha più possibilità di riconoscersi, consegnata spesso per decenni a un solitaria, desolata, inutilità.
Conservare dunque nel senso di arginare il «progresso». Di condizionare la «modernità». Di proporsi di selezionarne per quanto possibile gli esiti. Di strapparle la direzione totalitaria che essa si è conquistata sui meccanismi dell’esistenza producendo quell’oceano di disagio di cui si sono nutriti la demagogia antipolitica e il populismo. Soprattutto di contrastarne l’egemonia ideologica distruttiva esercitata sulla riproduzione antropologica e culturale delle nostre società: in specie da che negli ultimi decenni del Novecento il nostro sistema d’istruzione si è interamente piegato alle sue categorie. Non si tratta di proporsi una qualche fantastica «decrescita felice». Ci si può accontentare di ridurre ragio-nevolmente le molteplici infelicità della crescita. Chessò: lasciando aperti un ufficio postale o una stazione ferroviaria a dispetto dei costi, risanando le periferie e finanziando significativamente il trasporto pubblico, impedendo ogni diffusione e uso impropri dei dispositivi telematici, tutelando l’esistenza dei legami familiari, proteggendo dalla peste turistica centri urbani e paesaggi, dando la possibilità alle persone anziane di essere ancora socialmente utili. Non sono provvedimenti epocali, come si vede. Ma forse anche così s’inizia a costruire un’identità politica di opposizione alternativa al dominio distruttivo della «modernità».
È vero: ciò implica anche un rapporto positivo e attivo con il passato, con la tradizione, che come ha scritto Roberto Esposito sull’ Espresso «non è un peso morto di cui disfarsi». Invece, in questi ultimi tre decenni, specie in Italia, fatta esclusione di alcuni brandelli memoriali di tipo storico ad uso autocelebrativo dell’ufficialità politica (vedi la Resistenza), per il resto, obbedendo al comando dei tempi, la dimensione del passato e della tradizione è stata totalmente negletta. Permettendo in tal modo che se ne servissero le forze demagogico-populiste per collocarvi i richiami nostalgici emotivamente «caldi» (tipo «il presepe», per intenderci) utili al comunitarismo xenofobo. I loro avversari invece hanno tranquillamente dimenticato che il passato, la tradizione, sono fattori decisivi per l’auto-riconoscimento di qualunque collettività. E dunque sono la premessa necessaria per affermare la volontà di essere soggetto e non oggetto degli eventi, per essere protagonisti. L’antipolitica insomma non si combatte forse anche così: rafforzando la soggettività e la consapevolezza storica degli attori sociali?
Detto tutto questo mi pare già di sentire risuonare l’obiezione fatidica: ma conservare , cercare di arginare certi processi della modernità, rifarsi alla storia e alla tradizione, può far parte di un’identità di sinistra? Sono convinto che non sarebbe affatto difficile trovare ottimi argomenti per rispondere affermativamente. Ma non è certo il caso di farlo qui. Qui è solo il caso semmai di osservare che se la realtà del mondo non collima con una presunta «identità della sinistra», bene: tanto peggio per quest’ultima.

il manifesto 29.7.18
Cannabis terapeutica. «Solo un miraggio per i nostri malati»
L'era voglio. La denuncia del Comitato dei pazienti. La ministra Grillo (5Stelle) annuncia acquisti dall’Olanda. Ma per la Lega è «l’erba della morte». La legge prevede che sia fornita dal sistema sanitario, ma in molte regioni manca del tutto
di Giovanni Stinco


«La cannabis medica tornerà in tutte le farmacie? Bene, i malati di tutta Italia saranno felici certo, ma tanto io i soldi per comprarla non ce li ho». Ugo, 40 anni, è uno dei tanti pazienti che non possono accedere alle cure a base di cannabis terapeutica.
IL MOTIVO È MOLTO SEMPLICE: non tutte le Regioni garantiscono a chi ne ha bisogno le cure gratuite. E così, dopo la soddisfazione dovuta ai recenti annunci della ministra della sanità Giulia Grillo («compreremo altri 250 kg di prodotto dai Paesi Bassi»), tutti sono ritornati con i piedi per terra. Perché se è vero che con gli sforzi del Ministero le farmacie dovrebbero evitare nel futuro di non poter rifornire i malati armati di regolare ricetta – come successo a gennaio e nel 2017 -, è anche vero che sono centinaia in Italia le persone che, anche con la prescrizione del medico in mano, alla tanto agognata cannabis terapeutica non potrebbero comunque mai arrivarci. Perché, molto semplicemente, non possono permettersela.
Capita al signor Ugo, con una grave patologia circolatoria, e così a tanti altri. C’è chi si espone, e sono pochi, tanti altri per pudore e dignità non vogliono esporsi. Chi ci mette la faccia racconta sempre la stessa storia, dal Trentino alla Sicilia.
«Ho una fibromilagia che mi impedisce di lavorare e per tenere sotto controllo i sintomi tra cui il dolore acuto avrei bisogno della cannabis, ma per avere la cannabis dovrei lavorare. E’ un cane che si morde la coda», spiega la signora Debora Minutella, 49 anni della provincia di Trento. Situazione simile per Simona Pagano, trentenne messinese con una diagnosi di artrite psoriasica. Simona per seguire la terapia a base di cannabis medica dovrebbe spendere circa 400 euro al mese. «In famiglia abbiamo un solo stipendio e dobbiamo mantenere nostra figlia», spiega. Il risultato, spesso, sono terapie interrotte, il dolore che si rifà sotto e con lui la stanchezza, l’insonnia e la mancanza di appetito. Oppure la cannabis medica che dovrebbe durare un mese la si fa durare un mese e mezzo, o due, a seconda dei soldi disponibili per l’acquisto e della capacità di sopportazione del dolore.
«E dire che c’è una legge nazionale chiara, purtroppo per il momento nessuna Regione la sta applicando davvero», dice Simonetta Biavati, portavoce del Comitato pazienti cannabis medica. La legge a cui fa riferimento Biavati è la n. 172 del 4 dicembre 2017 con il suo articolo 18 quater, una sorta di miraggio per i malati italiani. Al comma 6 si dice chiaramente che per «la terapia contro il dolore» e per una serie di altri casi «la cannabis sarà a carico del Servizio Sanitario Nazionale». Ma al momento nessuna Regione si è preoccupata di reagire alle indicazioni nazionali e così la situazione resta a macchia di leopardo.
Ci sono le Regioni che hanno approvato un proprio testo (Puglia, Toscana, Veneto, Liguria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Sicilia, Umbria, Emilia-Romagna e Lombardia), ma le varie leggi sono disomogenee e a volte con lacune e gravi problemi, e così ogni paziente ha diritti e possibilità differenti a seconda della sua residenza. Non va benissimo in Lombardia (che con i suoi 10 milioni di abitanti fa da sola un sesto della popolazione italiana), senza una legge che permetta di curarsi gratuitamente se non passando prima dagli ospedali. Situazione simile in Sicilia. Il Comitato Pazienti Cannabis Medica segnala grandi difficoltà per i pazienti di Marche, Abruzzo e Veneto. In Emilia-Romagna, invece, le cose sembrano funzionare bene.
Claudia Facchinetti ha 50 anni ed è di Bologna. Per anni ha dovuto affrontare la sclerosi multipla (e altre patologie) con terapie a base di farmaci tradizionali. Nulla di risolutivo, un calvario di dolore durato tre anni. «Poi con l’aiuto di uno specialista e del mio medico di base che si è informato assieme a me – racconta – ho iniziato una terapia a base di cannabis terapeutica e ora posso vivere degnamente». Il che vuol dire, per persone a volte costrette dal dolore a rimanere per giorni a letto, mangiare e dormire quanto più normalmente possibile, e la possibilità magari di cercare di nuovo un lavoro.
PER CLAUDIA, la decisione della ministro Grillo di comprare altri quantitativi di cannabis medica dall’Olanda è un’ottima notizia perché, spiega, «in Emilia-Romagna la Regione ha già provveduto tempo fa con una sua legge, non devo pagare nulla e mi devo solo preoccupare di trovare una farmacia con il prodotto». Cosa non semplice visto che nelle farmacie dell’Emilia-Romagna l’anno scorso si sono visti pellegrinaggi da un po’ tutta Italia.
UNO DEI PROBLEMI, segnalano i pazienti, è proprio la produzione interna che lo Stato ha affidato all’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze e che, al momento, non è assolutamente in grado di fare fronte alle crescenti richieste. Da qui l’esigenza di acquistare all’estero.
Ma non ci sono solo questioni legate all’armonizzazione delle varie legislazioni regionali. All’orizzonte c’è un problema politico pronto ad esplodere da un momento all’altro. Se l’anima pentastellata del governo è favorevole alle esigenze dei malati, e la Ministra Grillo nei giorni scorsi lo ha dimostrato scrivendo direttamente al Comitato dei pazienti, a preparare le barricate è la Lega di Salvini. Non c’è solo il ministro Lorenzo Fontana, che si occuperà di cannabis ma dal punto di vista repressivo. Sono tanti i segnali che dicono che tra i salviniani la cannabis è vista come una droga alla stregua dell’eroina. Lunedì a Piacenza lo ha dimostrato un’iniziativa a trazione leghista, più che un convegno una fake news dal titolo «L’erba della morte, la cannabis».
A partecipare anche il senatore del Carroccio Simone Pillon, capogruppo in Commissione giustizia. Le argomentazioni proibizioniste sono state contestate da 200 persone e da un sit-in, ma Pillon ha messo le cose in chiaro: «I profeti sinistri – ha scritto il senatore – vorrebbero chiudere i nostri giovani nei cessi dei centri sociali a fumarsi le canne. Noi vogliamo che i ragazzi e le ragazze tornino a godersi le nostre splendide città».
CANNABIS A USO RICREATIVO quella presa di mira da Pillon, diversa da quella medica della ministra della salute M5s Giulia Grillo. Ma come possano coesistere sotto lo stesso governo due approcci così differenti sul tema, resta davvero difficile da capire.

il manifesto 29.7.18
«Oltre 20 mila pazienti usano già la cannabis terapeutica, ma i medici non sono formati»
di Giovanni Stinco


«Con i nuovi acquisti di cannabis medica annunciati dal Ministero della sanità possiamo tirare un sospiro di sollievo fino a settembre, forse ottobre. Le farmacie saranno rifornite ma il problema resta apertissimo, ci sono tante questione ancora non affrontate». Leonardo Fiorentini è da anni impegnato sul tema cannabis, è autore del libro La cannabis fa bene alla politica (Ed. Reality Book) ed è il direttore del sito di informazione sulle droghe Fuoriluogo.it.
Sulla cannabis terapeutica molti pazienti lamentano di doversi pagare le cure, cosa sta succedendo?
Quel che bisogna capire da subito è che si potrebbe fare già tantissimo con gli strumenti che già ci sono. Il Ministero dovrebbe coordinarsi con tutte le Regioni e rendere così effettivo quanto per ora scritto sulla carta, e cioè che la cannabis terapeutica deve essere a carico del sistema sanitario nazionale. Invece ogni Regione è un caso a se stante, con regole diverse e a volte disattese. Purtroppo da molti punti di vista siamo ancora in pieno Far West.
Eppure la legge italiana parla di terapie a carico del sistema sanitario nazionale.
Intanto premetto che l’attenzione sul tema della ministra Grillo è qualcosa da non dare per scontato, visto l’atteggiamento del suo predecessore Lorenzin che di fronte alle proteste dei malati si era limitata a dire che le piantine avevano bisogno di tempo per crescere. Resta però ancora tantissimo lavoro da fare sul piano culturale, sia tra i politici che tra i medici. Ad esempio sempre la legge prevederebbe l’organizzazione di corsi destinati ai medici sul tema cannabis medica. Non mi risulta che stia avvenendo. La verità è che in Italia sono ancora pochissimi i medici, di base e non, con un’adeguata conoscenza professionale sulla questione. Se questa è la situazione chiaramente anche la politica arranca. Ma ripeto, la ministra Grillo sembra attenta alla questione. Resta da vedere quali passi avanti saranno concretamente fatti.
Quanti sono i pazienti che in Italia fanno uso di cannabis medica?
Difficile dirlo con esattezza. Dati ufficiali non ne abbiamo, alcune regioni lo comunicano, altre no. Possiamo dire, ma si parla di stime, che siano 20 mila le persone che in Italia fanno uso di cannabis medica con regolare prescrizione. Attenzione, però, è solo la punta dell’iceberg. Molti altri potrebbero beneficiare della cannabis terapeutica, ad esempio nelle terapie contro il dolore. Ma il problema è che ne ignorano l’esistenza perché i loro medici, a loro volta, non sono formati sul tema. C’è ancora chi è costretto a informarsi su internet o col passa parola. Non va bene, perché girano leggende metropolitane che parlano di cannabis capace di curare il cancro. Non c’è nessuna ricerca che lo provi, eppure molti pazienti si scambiano l’informazione. Anche qui, come detto, siamo nel Far West.
Se lo Stato si facesse carico dei costi, cosa succederebbe?
Attenzione anche qui, non è assolutamente detto che lo Stato vada a spendere di più di quanto già spende, visto che spesso la cannabis medica è una terapia che ne sostituisce altre. Negli Stati Uniti ad esempio, dove va detto che la cultura degli oppiacei è molto «diffusa» nella medicina, diversi studi hanno dimostrato che i programmi di cannabis terapeutica sono stati in grado di generare risparmi per il servizio sanitario.

Corriere 30.7.18
Torna a casa la ragazza-simbolo «Ora un ruolo per le palestinesi»
Scarcerata Ahed Tamimi: aveva schiaffeggiato due soldati israeliani
di Davide Frattini


NABI SALEHLa fionda gigante è avvolta nel bianconero della keffiah palestinese, gli stessi colori che Ahed e la madre portano al collo. Insieme posano per i fotografi, fingono di tendere l’elastico, al posto delle pietre c’è un matitone, il bersaglio resta lo stesso: «l’occupazione», proclama la ragazza circondata dai microfoni. Le domande sono benvenute «tranne quelle dei giornalisti israeliani, non mi fido», non risponde neppure a chi le chiede se lo rifarebbe, è in libertà condizionale.
Il rilascio di Ahed e Nariman Tamimi dopo otto mesi di carcere diventa una celebrazione nazionale. Prima di poter arrivare a casa devono visitare il mausoleo dov’è sepolto Yasser Arafat e incontrarne il successore Abu Mazen nel palazzo presidenziale. Per i palestinesi la diciassettenne — ne aveva 16 quando è stata imprigionata — è diventata un simbolo della lotta quanto il leader morto nel novembre del 2004.
Perché le proteste di Ahed sono state trasmesse in diretta, diffuse su Youtube, amplificate dai social media. La sua famiglia partecipa in blocco alle manifestazioni che vanno avanti da quasi dieci anni nel villaggio di Nabi Saleh contro gli espropri dei coloni israeliani dall’altra parte della collina. Ogni venerdì gli abitanti — uomini, donne, bambini — escono dalle case, in corteo si muovono tra gli ulivi, i soldati li aspettano, volano le pietre, rispondono i lacrimogeni, partono le cariche.
Tutta l’azione è ripresa dagli attivisti internazionali e dai volontari della sinistra radicale israeliana. La più apparsa e appariscente in questi video è sempre Ahed: a 11 anni la filmano nel momento in cui alza il pugno chiuso e urla la sua rabbia ribelle contro un militare; a 14 il fermo immagine la ritrae mentre morde la mano di un soldato che sta trattenendo il fratello; il 19 dicembre dell’anno scorso la madre rilancia su Facebook l’alterco tra la ragazzina e due militari, li prende a calci e a schiaffi, li insulta. Il giorno dopo le donne vengono arrestate.
Ahed ha patteggiato riconoscendo l’accusa di aggressione e i giudici hanno lasciato cadere gran parte delle altre undici, anche la madre è stata condannata. A giugno il tribunale ha respinto la richiesta di scarcerazione anticipata perché i servizi segreti interni hanno ritenuto che «la sua ideologia radicale la rendesse ancora un pericolo». Abbracciata dai vicini di casa, racconta di aver continuato a studiare in cella per non perdere l’anno di liceo e di voler diventare avvocato «così potrò sostenere la causa del mio popolo in tutte le corti internazionali e difendere i diritti dei prigionieri. Le donne saranno sempre più importanti in questa battaglia». La prima richiesta è ancora quella di una ragazzina: un cono gelato.
La destra israeliana la considera la prova di come i giovani palestinesi vengano educati all’odio, l’hanno soprannominata «Shirley Temple» perché è bionda e quanto l’attrice bambina — secondo loro — è a caccia di notorietà davanti alle telecamere: «Provoca i soldati, ha capito che funziona per il pubblico europeo». Il volto e i riccioli di Ahed giganteggiano sul muro costruito dagli israeliani che attraversa le strade di Betlemme. Il graffitaro napoletano Jorit Agoch — la mamma è olandese — non è riuscito a completarlo. Sabato i soldati l’hanno fermato assieme a un altro italiano: sono stati trattenuti con l’accusa di vandalismo fino a ieri pomeriggio e rilasciati con un decreto di espulsione dal Paese.

Repubblica 30.7.18
A settembre il nuovo soggetto
Un partito dei cattolici vicino a Sant’Egidio nasce Democrazia solidale contro il clima d’odio
di Giovanna Casadio


Roma Già il nome è tutto un programma contro Matteo Salvini e le sue parole d’ordine. “ Democrazia solidale” si chiamerà il nuovo partito che i cattolici “ resistenti” hanno in cantiere, assemblea a metà settembre a Roma. Sponsor importanti e uomini di buon volontà delle associazioni e della politica in prima fila. Perché il fronte cattolico “ anti salvinizzazione” dell’Italia è qualcosa che va al di là delle fibrillazioni e delle divisioni che stanno attraversando la Chiesa stessa sull’egemonia culturale della destra.
Non ci sono solo le polemiche, dal “Vade retro” di Famiglia cristiana agli editoriali di Avvenire e al j’accuse del direttore di Civiltà cattolica padre Antonio Spadaro. C’è un progetto politico da testare per vedere se riuscirà a coagulare i cattolici indignati dall’uso giudicato improprio dei Vangeli, del rosario e del crocifisso che il ministro dell’Interno brandisce nei comizi. Si vedrà poi se questo progetto si incontrerà con quella “ alleanza per l’alternativa” di cui ha parlato ieri Paolo Gentiloni nell’intervista a Repubblica.
« Il dado è stato tratto. Si sta creando un clima per una nuova forza, il cui nome sarà Democrazia solidale o magari il già usato Centro solidale » spiega Mario Giro, che è stato vice ministro agli Esteri del governo Renzi e di quello Gentiloni. A guardare con simpatia all’operazione è la Comunità di Sant’Egidio con Andrea Riccardi. D’altra parte tra i fondatori della nuova forza politica ci sarà Paolo Ciani, consigliere del Lazio, eletto con Centro solidale - la forza moderata che ha sostenuto il governatore Nicola Zingaretti - frontman della comunità di Sant’Egidio, vicinissimo all’ex ministro Riccardi. «Non solo la politica sui migranti ci sta convincendo a rompere gli indugi. Insopportabile è il linguaggio totalitario e la disumanità, penso alla battuta sui croceristi e alla polemica sullo smalto della donna naufragata », ragiona Ciani.
Gli fa eco Giro. Che precisa: «Non sarà una forza politica solo di cattolici, ma metteremo insieme le associazioni e movimenti dal basso ». I nomi sono per ora quelli di Rita Visini dell’Azione cattolica, Cristian Carrara delle Acli, Amedeo Piva, e si sta cercando di coinvolgere anche Ernesto Preziosi di Argomenti 2000, l’ex senatore Lucio Romano. Poi ci sarà tutta una rete di amministratori locali, provenienti dal mondo cattolico- sociale, nella maggior parte dei casi eletti in liste civiche. « Vogliamo prendere una iniziativa non girare intorno alle cose per poi finire senza costrutto » , premette Giro. E in questo sta anche la critica al Pd. Sempre Giro: « Io ritengo che non possiamo più aspettare che il Pd termini la sua diatriba interna».
Insomma i cattolici indignati vanno avanti, rispondendo tra l’altro all’appello del presidente della Cei, Gualtiero Bassetti che ha invitato all’impegno per il bene comune del paese. Se davvero ci sono tanti cattolici in cerca di una bussola, i democratici solidali sperano di offrirla. Spiega Ciani: « Evidente che ci muoviamo nell’ambito del centrosinistra e che il Pd è il nostro principale interlocutore, solo che i Dem sono in un travaglio interno che non sappiamo come andrà a finire. Intanto noi ci siamo » . Per Ciani è il “modello Lazio”, sperimentato con Zingaretti, quello vincente.
L’altro risvolto dell’operazione riguarda infatti il governatore del Lazio. Zingaretti sta stringendo su una sua rete con l’obiettivo di lavorare alla corsa alla segreteria del Pd. Punta su primarie al più presto, di certo prima delle europee, per evitare di stare a bagnomaria e sapendo tra l’altro che i renziani non riescono a trovare un loro candidato. Da Sant’Egidio alle Feste dell’Unità, fuori e dentro il partito, Zingaretti tenta di rimettere in collegamento più mondi. Ripartendo dalla base, dai civici e dall’area cattolico- sociale.