sabato 28 luglio 2018

Corriere 28.7.18
Quegli otto spari sui migranti in tutta Italia
di Fiorenza Sarzanini


Otto casi in un mese e mezzo. A questo punto sembra davvero difficile parlare di coincidenze. Gli spari contro gli stranieri, con armi a pallini o ad aria compressa, sono sempre più frequenti e tanto basta per far scattare l’allerta negli apparati di sicurezza. Gli ultimi due episodi, a Cassola, provincia di Vicenza dove un operaio di origine capoverdiana che stava allestendo un ponteggio viene colpito. Il responsabile si difende: «Ho sparato io, avevo mirato a un piccione». L’altro caso a San Cipriano d’Aversa (Caserta), un giovane della Guinea ferito da due giovani con una pistola ad aria compressa.
Roma In un mese e mezzo ci sono stati otto casi. E a questo punto sembra davvero difficile parlare di coincidenze. Perché è vero che gli episodi sono accaduti in città diverse — anche se a Caserta e Forlì è già accaduto per due volte — e differenti sono le modalità. Ma gli spari contro gli stranieri, con armi a pallini o ad aria compressa, sono sempre più frequenti e tanto basta per far scattare l’allerta negli apparati di sicurezza.
I controlli sui social
L’ipotesi valutata al momento è quella dell’emulazione, ma senza escludere che dietro alcuni «attacchi» possa esserci una matrice di odio razziale. Ecco perché carabinieri e polizia stanno cercando di ricostruire nei dettagli ogni vicenda, concentrandosi sulla possibilità che qualcuno possa essere stato fomentato attraverso la «rete» dei social. Un lavoro affidato alla Postale che sta monitorando «profili» e siti proprio per trovare tracce utili. Verifiche che si affiancano a quelle svolte da commissariati e stazioni dell’Arma per scoprire se dietro alcuni fatti possa esserci un’unica regia. Senza dimenticare quanto accaduto a Macerata nel febbraio scorso quando Luca Traini sparò e ferì sei stranieri «per vendicare l’omicidio di Pamela Mastropietro», la giovane che era stata adescata da un gruppo di nigeriani.
Gli spari in Campania
L’11 giugno scorso c’è la prima denuncia. Due ragazzi maliani — ospiti di una struttura per migranti — si presentano alla questura di Caserta e raccontano di essere stati colpiti da una raffica di colpi di pistola ad aria compressa sparati da una Panda nera in corsa. Uno ha una ferita all’addome. Parlano di tre aggressori, raccontano che inneggiavano a Matteo Salvini. Scattano le verifiche, intanto nove giorni dopo un altro giovane maliano viene colpito a Napoli da due ragazzi armati di un fucile a piombini mentre sono a bordo di un’auto per le vie del centro. L’ultimo caso ancora a Caserta è di ieri, con il ragazzo della Guinea, ospite in un centro di accoglienza, che racconta di essere stato colpito al volto con la pistola ad aria compressa. A Forlì sono due gli assalti contro gli stranieri. Il primo viene denunciato il 2 luglio da una donna nigeriana ferita a un piede. In realtà quando si presenta spiega che l’episodio è accaduto qualche giorno prima, ma spiega di aver avuto paura. Appena tre giorni dopo c’è un nuovo caso. Questa volta ad essere colpito all’addome è un ivoriano di 33 anni. Il suo racconto è preciso: mentre stava in bicicletta è stato affiancato da un’auto e qualcuno si è sporto dal finestrino sparando con una pistola modello softair. È lo stesso tipo di arma usato dai tre ragazzi denunciati mentre vengono sorpresi a fare fuoco contro le macchine in corsa. E gli investigatori non escludono che siano proprio loro, o comunque qualcuno a loro collegato, ad aver agito.
Il Lazio e i rom
L’11 luglio vengono presi di mira due nigeriani mentre aspettano l’autobus a Latina Scalo da sconosciuti a bordo di una vettura scura. Il sindaco Damiano Coletta non crede alla causalità, parla subito di «matrice discriminatoria». Più cauti sono i magistrati di Roma che indagano sul ferimento della bimba rom di 15 mesi colpita il 17 luglio in una strada trafficata mentre è in braccio alla mamma. Perché, spiegano, l’ex dipendente del Senato che ha sparato dal balcone del suo appartamento non mostra di avere alcuna tendenza razzista. Resta però da capire come mai non si sia presentato ai carabinieri pur avendo saputo di aver ferito la piccola e soprattutto perché avesse modificato l’arma per potenziarla. Non ha avuto il coraggio di dire che «volevo sparare a un piccione» come ha sostenuto l’uomo che in Veneto due giorni fa ha colpito alla schiena un operaio di Capoverde. Ma anche la giustificazione del «colpo partito per sbaglio» appare poco credibile.

Corriere 27.7.18
Sulle navi della Marina davanti alla Libia «Qui è tutto cambiato, non passa più nessuno»
Se incontrassimo un battello lo soccorreremmo, per noi valgono sempre le leggi internazionali
Ma adesso i libici sono molto più efficienti e possono bloccare gli scafisti prima che escano dalle loro acque
dal nostro inviato nel Mare di Libia Lorenzo Cremonesi


Acqua nera a mezzanotte, con le onde in abbassamento che non frangono più, temperatura 27 gradi, tasso d’umidità in diminuzione. Aggiungiamo la visibilità ottima, oltre al vento da nord sceso sotto gli 8 nodi e sarà naturale osservare quanto queste siano in genere condizioni meteo perfette della mezza estate per le partenze dei migranti dalla Libia. Ma soprattutto è il chiarore luccicante della luna piena riflessa sul mare, una sorta di cono luminoso aperto in direzione delle coste siciliane, che solo pochi mesi fa avrebbe rappresentato una sorta di incoraggiante autostrada della speranza per i battellini carichi all’inverosimile verso il «sogno Europa». Ora non più. «Nel nostro ultimo mese di pattugliamenti ininterrotti dal Canale di Sicilia, le coste della Tripolitania, al largo del Golfo della Sirte e sino alle zone a nord delle acque territoriali della Cirenaica, non abbiamo mai incontrato alcun naviglio di migranti e neppure i battelli delle organizzazioni non governative internazionali. Una situazione che ha caratterizzato le attività delle navi militari di Mare Sicuro anche nel periodo precedente il nostro turno», dicono, con la sicurezza di chi vede davvero le cose in diretta, sia i marinai che il 42enne Sebastiano Rossitto, comandante della fregata Virginio Fasan, l’ammiraglia della missione tutta made in Italy operante di fronte alla Libia sin dall’aprile 2015.
«Emergenza finita»
«Ovvio che se ora incontrassimo un battello di migranti, qui in mare aperto, li prenderemmo subito a bordo e non li riconsegneremmo ai guardiacoste libici. Per noi nulla è mutato, anche con il nuovo governo a Roma. Le leggi internazionali del soccorso valgono sempre. Ma posso anche ripetere che la situazione è completamente cambiata da cinque o sei mesi. Per ora l’emergenza appare finita, terminata. I libici, anche grazie all’aiuto italiano, hanno motovedette molto più efficienti, i loro sistemi d’intervento sono strutturati, possono mantenere due o tre imbarcazioni sempre pronte in acqua e si dimostrano in grado di bloccare gli scafisti con i migranti prima che escano dalle 12 miglia delle loro acque territoriali», dice l’ufficiale. A lui si affianca il Contrammiraglio Andrea Cottini, toscano, 55 anni, un veterano della Marina. «L’ultima volta che le cinque navi della Mare Sicuro sono state coinvolte direttamente nella questione migranti è stato agli inizi di giugno, quando hanno scortato al porto spagnolo di Valencia i circa 600 imbarcati sull’Aquarius della ong Sos Méditerranée. Altrimenti direi che, almeno per il momento, il problema è radicalmente mutato», ribadisce sottolineando che altre sono le priorità della missione.
Dietro il sonar
La cronaca di oltre 48 ore imbarcato sulla Fasan inizia il 24 luglio con l’elicottero Augusta della Marina Militare che in un’oretta dall’aeroporto di Lampedusa percorre oltre cento miglia per atterrare sul ponte appena beccheggiante. Le vibrazioni sono minime grazie ai due motori elettrici super-silenziosi e quattro generatori nuovissimi che impiegano gasolio verde. A bordo 185 marinai, di cui 14 donne. La nave è stata varata dai quartieri di Riva Trigoso nel 2014: un progetto italo-francese, arricchito da un sofisticato sistema di sonar anti-sommergibile che è l’orgoglio del tenente di vascello Maria Paola Ceracchi, 31 anni, da una dozzina arruolata, addetta alla strumentazione. «Il nostro è un congegno unico al mondo», spiega fiera. «Possiamo calare il sonar a oltre 300 metri di profondità. Ce lo invidiano anche gli americani».
Pescherecci a rischio
S’impone subito il sistema di regole e consuetudini che scandiscono la vita di questo microcosmo sociale galleggiante. Dal megafono giungono di tanto in tanto gli ordini alle varie squadre: i turni degli addetti alle pulizie, le guardie, gli spostamenti degli elicotteristi, i contatti periodici con le altre quattro unità al momento in missione. La nave-officina Gorgona con i suoi 60 membri dell’equipaggio è da mesi ancorata a Tripoli per assistere i libici nel mantenimento delle quattro motovedette donate l’anno scorso dall’Italia al governo di unità nazionale di Fayez Sarraj. La fregata Espero sta ad est, lungo le coste della Cirenaica. «Ha un compito difficile. Tra l’altro fa in modo di impedire che i nostri pescherecci entrino nella zona di mare davanti a Derna, dove il generale Khalifa Haftar sta operando contro Isis e le milizie jihadiste, imponendo unilateralmente il blocco del passaggio ai navigli stranieri. Un altro compito è evitare ai nostri pescherecci di cacciarsi eventualmente nei guai entrando a pescare il gambero rosso nel Golfo della Sirte, una zona contesa sin dai tempi di Gheddafi. Nell’aprile 2017 hanno dovuto pagare una multa di 5.000 dollari per riscattare due che erano stati sequestrati», ricorda Cottino. Il terzo, l’Orione (lo stesso che aveva scortato l’Aquarius in Spagna) sta navigando davanti alle coste tunisine. Sembra strano, ma i marinai italiani parlano con maggior preoccupazione della Tunisia che non della Libia. «Qui c’è un contenzioso antico, risale a oltre mezzo secolo fa, quando Tunisi impose il cosiddetto “Mammellone”, una vasta area di divieto alla pesca ai non tunisini ben oltre i limiti delle loro acque territoriali. L’Orione fa in modo di evitare fastidi in ottemperanza ad un accordo stipulato dal governo di Roma nel 1979. Però oggi, in termini di libertà di pesca e navigazione siamo in rapporti migliori con i libici che non i tunisini», dicono.
Le perquisizioni
Tutto questo è molto interessante. Ma ovviamente osservo di continuo i radar per seguire un eventuale passaggio di migranti. In plancia gli ufficiali mettono a punto gli strumenti, compresi i sensori a raggi infrarossi. «Con i radar si vede bene a oltre 30 miglia. Con quelli più ravvicinati siamo in grado di individuare anche un battellino alto meno di 40 centimetri sul pelo dell’acqua a oltre sette miglia. Ma non si vede nulla e questo da molto tempo oramai. L’anno scorso notavamo che se una volta i migranti partivano alla disperata, più di recente li trovavamo con i giubbotti personali indossati in Libia», dicono. Gli schermi restano però bui. Alle 18,15 siamo a 70 miglia dal porto di Tripoli. Una trentina di miglia a est si individuano le tracce radar di tre pescherecci italiani. Poco più nel centro sta transitando un grande naviglio che sembra diretto a Khoms, il vecchio porto militare di Gheddafi. Gli italiani si danno da fare per identificarlo. Pare abbia spento il trasponder, che è il meccanismo via etere per cui i dati di ogni nave possono essere in teoria letti da chiunque la centri col radar computerizzato. «Nostro mandato è controllare i traffici sospetti: contrabbando di esseri umani, petrolio e armi. Dall’inizio di Mare Sicuro nel 2015 abbiamo fisicamente perquisito almeno un’ottantina di navi che trafficavano con la Libia e la nostra intelligence in cooperazione con gli alleati Nato ha al momento almeno una decina di navi straniere in lista nera. I nostri commando armati possono salire a bordo, ovviamente sempre avendo prima ottenuto la luce verde da Roma», rimarca Rossitto.
Piattaforme sottocchio
Emergono così i compiti della Fasan, che navigando di fronte alle zone delicate comprese tra Misurata, Tripoli, Sabratha e il confine tunisino (dove storicamente sono gli scafisti più agguerriti), si trova anche a dover affrontare le incognite maggiori. «Al largo di Tripoli sono le sei piattaforme dove lavorano quasi una trentina di tecnici italiani dell’Eni assieme a quelli della compagnia petrolifera nazionale libica. Siamo in contatto permanente con loro. Come del resto lo siamo con i 280 che operano nell’ospedale militare italiano di Misurata, con il personale della nostra ambasciata a Tripoli ed eventuali cittadini italiani nel Paese. In tutto oltre 500 persone che potremmo dover evacuare di fretta dalle spiagge alla prima emergenza», dice il Contrammiraglio. Lui stesso fu coinvolto nella missione che nell’ottobre 2011, appena dopo la violenta defenestrazione di Gheddafi, vide i commando della Marina salire sulle piattaforme petrolifere abbandonate per verificare che nessuno cercasse di boicottarle. «Arrivammo che in Libia ancora si combatteva. Temevamo fossero minate. Le piste di atterraggio erano piene di detriti per impedire gli atterraggi degli elicotteri. Ma alla fine andò tutto bene», rammenta.
La calma e la «preghiera»
Alle otto di sera tutti sull’attenti per la cerimonia dell’ammaina bandiera. È un rito che si celebra da sempre. Che siano in porto o in navigazione, la bandiera scende sul ponte. Intanto un militare a turno legge al megafono la «Preghiera del Marinaio», scritta da Antonio Fogazzaro nel 1901. E subito dopo viene recitata brevemente la motivazione alla medaglia d’oro di un marinaio così come descritta negli annali dell’ammiragliato. Durante la notte il bel tempo si fa stabile. Ma è difficile notarlo dalla nave, sono gli strumenti a osservarlo con precisione: le unità militari di ultima concezione equipaggiate contro le armi chimiche e nucleari limitano quasi del tutto gli accessi degli uomini sui ponti. Non ci sono oblò, solo la plancia mantiene un’ampia veduta a prua. E comunque i radar restano muti, bui. «In una giornata così un anno fa potevano essere in mare sino a una quindicina di barche con 3.000 migranti. Nel 2013 ne prendemmo a bordo 1.500 in 24 ore. Oggi nessuno», sottolinea Massimo Nava, 40 anni, capitano di corvetta d’origine milanese. Tornato in elicottero a Lampedusa, un pescatore che vende insalata di polpo al porto se la prende col giornalista di passaggio. «Volete smetterla di parlare di emergenza migranti che poi i turisti scappano via?», grida. Venendo dal largo di Sabratha è difficile dargli torto.

Corriere 28.7.18
Impegno, programmi, fondi per gestire l’immigrazione
di Valerio Onida


Caro direttore, è spontaneo, per chi crede negli ideali universalistici del costituzionalismo — per cui «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) — esprimere dissenso e indignazione di fronte a certe manifestazioni di pensiero ed espressioni verbali del ministro dell’Interno a proposito di migranti: manifestazioni ed espressioni in cui risuona un atteggiamento di chiusura ed egoismo nazionalistici, di rifiuto dell’«altro», dello «straniero», più che di vero e proprio razzismo (si tenga presente che il primo senatore nero è Toni Iwobi, eletto con la Lega; prima di lui erano stati eletti, alla Camera, due deputati del Partito democratico). Tuttavia, se si vuole dare sostanza politica alle proprie idee e alle proprie critiche, e parlare delle politiche migratorie (che non sono appannaggio del ministro dell’Interno, ma spettano a Governo e Parlamento) non basta e non serve polemizzare con Salvini: occorre porre i problemi nella loro realtà e dimensione effettive, e chiarire che cosa occorrerebbe fare per affrontarli secondo linee conformi ai diritti umani e alla realtà storica.
Ciò significa non fermarsi al fenomeno degli sbarchi e dei salvataggi in mare. È infatti evidente che non siamo di fronte a naufragi occasionali, in presenza dei quali valgono le regole del diritto del mare (salvare le vite, porto sicuro più vicino ecc.), ma a un fenomeno di massa, epocale: la pressione di milioni di esseri umani che (ben al di là dei casi di profughi che possono chiedere asilo politico) aspirano a venire nelle nostre terre, più ospitali e ben più ricche di quelle di origine, dove le condizioni di sopravvivenza sono precarie. Questo fenomeno non si può né negare né esorcizzare: occorre governarlo al meglio, tenendo presenti i doveri di solidarietà umana e internazionale. Il che significa anzitutto — oltre che adottare interventi, necessariamente di lungo termine, di aiuto allo sviluppo dei Paesi africani — porre in essere leggi e misure che aprano le porte dei Paesi europei a una immigrazione legale.
Oggi di fatto cosa accade? Decine di migliaia di esseri umani, che nei propri Paesi di origine non trovano luoghi, gestiti dai Paesi europei, in cui rivolgere una domanda di immigrazione, pagano dei trafficanti, i quali organizzano il trasferimento attraverso il deserto fino alla costa del Mediterraneo, e in Libia «organizzano» la traversata, contando che, una volta in mare, scatteranno i salvataggi e quindi ci penseranno le navi dei soccorritori a far sbarcare i migranti in Europa: dove questi potranno chiedere asilo come profughi, o protezione umanitaria, oppure accontentarsi di «sparire» sul territorio degli Stati europei come migranti irregolari. Si è visto fra l’altro come, mentre prima li imbarcavano in barconi più o meno scassati che potevano attraversare il Mediterraneo, oggi di fatto li caricano a centinaia su gommoni, tutti uguali, destinati a fare poca strada, fino alle navi dei soccorritori. Cercare di prevenire gli imbarchi contando sulle forze dell’ordine o sulle milizie libiche (o sulla guardia costiera libica, che per definizione opera perché i migranti restino o tornino in Libia, anche se salvati dal naufragio) non è il modo giusto per gestire seriamente il problema delle migrazioni. Il problema dei migranti trattenuti in Libia, in situazioni spesso disumane, dovrebbe a sua volta essere adeguatamente affrontato, magari potenziando (e finanziando) una maggiore presenza attiva delle agenzie Onu, e mettendoci almeno altrettanto impegno e mezzi quanti se ne impiegano, suppongo, per salvaguardare gli interessi petroliferi in Libia dei Paesi come il nostro.
Ma non è un modo giusto nemmeno consentire che resti in piedi un’organizzazione permanente che si limita a soccorrere gli ospiti dei gommoni, lasciando che la partenza sia governata dai trafficanti che vi lucrano sopra, e limitandosi a trasferire i «naufraghi» sulle coste europee, salvo poi discutere in quali Paesi devono andare. Almeno nei secoli scorsi i migranti europei (quanti italiani!) verso l’America viaggiavano su navi sicure e sbarcavano a Ellis Island, dove le autorità americane gestivano le proprie politiche migratorie.
I «naufraghi» non chiedono solo di essere salvati, ma di lasciare la Libia per l’Europa («pas Lybie!», invocava la donna salvata qualche giorno fa in mare).
Il Governo attuale ha dichiarato guerra al sistema degli sbarchi dei «naufraghi», e in questo non ha torto: anche se le navi delle Ong non erano (come certo non erano) «complici» degli scafisti, di fatto finivano per costituire un oggettivo contributo al mantenimento e allo sviluppo di quel sistema. Combattere il quale, naturalmente, non può voler dire lasciar morire dei naufraghi in mare. Alle istituzioni e ai Paesi europei si deve chiedere non solo di aprire i loro porti (che intanto pure è giusto), ma anche di cooperare per una politica di immigrazione; chiedere — come questo Governo sta facendo, e gliene va dato merito — una politica comune sui flussi migratori e l’asilo. Tutti i Paesi europei, e dunque anche l’Italia, avrebbero il dovere di attivare canali legali di immigrazione controllata dall’Africa. E noi dovremmo cominciare a dare l’esempio: quando avremo dai Paesi africani un numero di visti di ingresso legale per l’Italia, rilasciati nei Paesi di origine, pari almeno a quelli di coloro che oggi vengono «accolti» come naufraghi, avremo inaugurato una seria politica migratoria.
Quanto ai migranti accolti in emergenza, essi non possono essere lasciati a se stessi, limitandosi a fornire loro un tetto e i pasti fino al compimento della procedura di richiesta di asilo o di protezione. Sarebbe necessario non solo distribuire opportunamente sul territorio la loro presenza, ma realizzare sistematicamente interventi diretti a conoscerne e valorizzarne la caratteristiche, le capacità e le aspirazioni, coinvolgendoli fin da subito in attività formative e in lavori socialmente utili, come alcuni Comuni fanno già, ma tutti dovrebbero fare, anche con mezzi assicurati dal Governo: evitando così che restino del tutto inattivi, o addirittura cadano preda di giri criminali. Tutto ciò richiede sforzi e adeguamenti organizzativi degli apparati pubblici, e risorse. Troppo difficile? Certo non facile, ma non per questo meno necessario.

Corriere 28.7.18
Ventimiglia, minorenni costrette a prostituirsi per emigrare
di Simone Disegni


Dietro l’odissea dei flussi migratori si nasconde, in troppi casi, anche il dramma dello sfruttamento sessuale. Sotto i nostri occhi, all’interno dei confini italiani. È la denuncia dell’associazione Save the Children, contenuta nel rapporto «Piccoli schiavi invisibili» pubblicato ieri.
I volontari parlano di survival sex, la mercificazione del proprio corpo per far fronte a un bisogno estremo di sopravvivenza. Ad essere costrette a ricorrere a questa tragica arma sono soprattutto giovani donne provenienti dai Paesi del Corno d’Africa o dell’Africa sub-sahariana: in molti casi minorenni. Indotte da passeurs disposti a tutto a prostituirsi in cambio dell’ultimo viaggio che le porti fuori dal nostro Paese, verso il Nord Europa, o semplicemente di cibo o di un posto dove dormire. «Private della possibilità di percorrere vie sicure e legali — denuncia l’Ong — queste ragazze sole sono esposte a gravissimi rischi di abuso e sfruttamento».
Una tratta che avviene lontano dagli occhi dello Stato, ma in pieno territorio italiano. Come al confine ligure con la Francia. «Ventimiglia è stata ed è tutt’ora non solo tappa per la continuazione del viaggio e dello sfruttamento, ma anche città di reclutamento di donne magari fino ad allora non sfruttate», denuncia un’altra associazione dedita all’accoglienza, Intersos, che punta il dito contro lo Stato: «il fenomeno è radicato ed è ampiamente noto alle autorità competenti».
Sfuggito dai radar dell’attenzione pubblica, il tema della prostituzione minorile resta quanto mai attuale anche lontano dalle zone di confine. Ad esserne vittima — riporta sempre nel dossier Save the Children — sono soprattutto ragazze rumene e nigeriane, spesso indotte dai propri sfruttatori a dichiararsi maggiorenni al momento dello sbarco in Italia, sfuggendo così al sistema di protezione previsto per i minori. Un modo per ripagare i debiti contratti per giungere nel nostro Paese, che per le giovani nigeriane ammontano a cifre tra 20 e 50 mila euro.
Un ricatto implicito che riguarda anche i minori stranieri ridotti in stato di semi-schiavitù: costretti a lavorare in condizioni massacranti per 2 o 3 euro l’ora per ripagare i debiti. Una piaga quasi del tutto sommersa, considerato che i casi accertati di lavoro minorile in Italia nel 2017 sono stati «appena» 220.

il manifesto 27.7.18
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero


Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri. La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica. La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.

il manifesto 28.7.18
Il declino di Facebook quotato al casinò capitalism
Internet. La società di Mark Zuckeberg brucia a Wall Street 118 miliardi di dollari per poca innovazione, privacy degli utenti ai minimi termini. E un algoritmo che privilegia i potentati economici
di Benedetto Vecchi


Tempi duri per Facebook, al punto che c’è chi parla dell’inizio del declino del social network, che in una manciata di ore ha visto le sue azioni crollare a Wall Street. L’accusa è quella di essere ormai una società poco innovativa.
La società di Mark Zuckerberg è accusata inoltre di non tutelare la privacy degli utenti, come è emerso nell’affaire di Cambridge Analytica. E sempre più rari sono le presentazioni di prodotti innovativi, fattore decisivo per reggere la feroce competizione in Rete e per fronteggiare i possibili nuovi player, in particolare quelli cinesi. E dalla Cina Facebook ha recentemente ricevuto un secco rifiuto alla richiesta di poter operare nuovamente nel paese, dopo che se ne era dovuto andare per aver rifiutato di partecipare alla campagna di censura di Internet.
Sembrano passati secoli da quando Mark Zuckerberg chiamava Barack Obama per nome, da quando annunciava la costruzione di una comunità globale di uomini e donne rispettosi delle diversità altrui. O di quando veniva indicato come il possibile candidato liberal alla presidenza degli Stati Uniti da contrapporre al populista Donald Trump.
Invece che secoli sono passati solo due anni, al termine dei quali Zuckerberg è salito sul banco degli imputati ed è stato interrogato dal Congresso Usa e dal parlamento europeo dopo l’accusa al social network di aver ceduto dati a una società che li ha usati per manipolare l’opinione pubblica. Poi è venuto il tempo di rendere pubblici i dati non brillanti del secondo trimestre 2018. La reazione non si è fatta attendere. Facebook ha infatti perso a Wall Street 118 miliardi in una manciata di ore. Una perdita enorme, che il social network ha potuto gestire vista la stratosferica quotazione del titolo in Borsa (fino a giovedì oltre 660 miliardi di dollari).
È probabile che Mark Zuckerberg decida di mettere le mani al suo portafoglio per rastrellare azioni e così tamponare le perdite di valore del titolo. Lo ha già fatto più volte in passato, a partire dal 2012 quando il social network debuttò a Wall Street e le azioni crollarono rispetto il prezzo stabilito per il debutto nel casinò capitalism. L’intervento diretto di Zuckerberg ha finora funzionato, nel senso che l’iniezione di dollari è stato interpretato come un gesto di stabilità, riconquistando così la fiducia agli investitori.
Rimane però un mistero il perché le azioni del social network hanno perso quasi il quindici per cento del loro valore. Certo il bilancio trimestrale non era splendido, soprattutto i dati che decretavano l’uscita di un bel po’ di milioni di utenti da Facebook. Ma gli altri dati (introiti pubblicitari, investimenti, ricavi dai Big data) non danno certo l’idea di una impresa in difficoltà. Certo in leggero calo nel fatturato, ma niente che giustifichi la vendita così massiccia di azioni. E neppure la causa può essere individuata nei guai che Facebook ha con l’Unione europea. Google ad esempio è stata multata dalla Ue, ma il suo bilancio trimestrale ha visto un aumento considerevole delle entrate del motore di ricerca, mentre il titolo azionario non è stato certo penalizzato.
Non c’è dunque una sola ragione del crollo di Facebook. Da una parte è emerso il fatto che la spregiudicatezza della società di Zuckerberg nel commercio dei Big Data non è apprezzata e viene per questo penalizzata. Zuckerberg ha annunciato che ci sarà un giro di vite nella liste delle società acquirenti dei dati, ma l’annuncio non è servito a diradare le nuvole sulla correttezza di Facebook. C’è poi il cambiamento di Edge Rank, l’algoritmo usato dal social network. Per molti utenti radicalizza quella tendenza alla ostruzione di tante, ristrette «comunità di simili» incomunicanti l’una con l’altra, con buona pace dello sbandierato progetto di costruzione di una comunità globale che ha tenuto banco per due anni la discussione sull’evoluzione dell’opinione pubblica e della trasformazione della Rete in un media interattivo e libero dai condizionamenti dei gruppi editoriali. Anzi, quel che emerge è che la nuova versione dell’algoritmo riduce la visibilità di articoli e servizi televisivi messi on line, elemento che segnala il fatto che Facebook ha fatto proprie le richieste proprio dei grandi gruppi editoriali di scoraggiare la pubblicazioni in Rete dei «loro» contenuti.
Infine, c’è la mancata chiarezza di Facebook sull’adesione o meno al progetto di Donald Trump di dare vita a una Internet a due velocità, dopo la cancellazione negli Stati Uniti della net-neutrality.
Facebook ha avuto un comportamento ambivalente. Inizialmente ha detto di no al progetto di Trump. In un secondo momento lo stesso Zuckerberg ha però dichiarato di essere disponibile a discutere un eventuale progetto di Trump di far pagare per alcuni servizi di qualità, mantenendo gratuiti per altri servizi a bassa qualità. Un atteggiamento che non è piaciuto agli utenti della Rete.
Tutti fattori che attestano le difficoltà di Facebook. È presto però dare per spacciato il social network, ma non è campata per aria l’ipotesi di dell’inizio di un suo declino. Da anni non emergono decisioni che attestano il dinamismo del social network, ma solo la conferma di un business model che continua sì a far cassa, ma che non ha più la capacità di esercitare una leadership nel capitalismo delle piattaforme. Facebook vale sempre 551 miliardi di dollari, ma è una cifra che non è tuttavia proporzionale alla capacità di continuare ad esercitare egemonia dentro e fuori la Rete.

Il Fatto 28.7.18
“Atac, i posti sono salvi. Dico no ai privati”
Virginia Raggi - La sindaca di Roma e il via libera al concordato per l’azienda del trasporto pubblico
“Atac, i posti sono salvi. Dico no ai privati”
di Luca De Carolis


“Stiamo salvando i posti di migliaia di lavoratori onesti e un’azienda che era e deve restare pubblica”. A sera in Campidoglio la sindaca di Roma Virginia Raggi celebra il decreto con cui il tribunale fallimentare ha ammesso alla procedura di concordato in continuità Atac, la municipalizzata dei trasporti su cui pesano debiti per 1,3 miliardi di euro. Un via libera che arriva dopo una prima, parziale bocciatura dello stesso tribunale, che a marzo aveva definito “inidoneo” il piano del Comune. Ma le successive controdeduzioni presentate dal Campidoglio hanno convinto i magistrati. E ora la giunta a 5Stelle, attende per dicembre l’assemblea dei creditori di Atac, che dovrà votare il piano.
Sindaca, la decisione del tribunale per voi è una boccata d’ossigeno.
No, è una vittoria dei cittadini. Stiamo raccogliendo i frutti di un lungo lavoro.
Cosa ha convinto il tribunale?
Abbiamo presentato un piano industriale serio e credibile. Il Comune ha impegnato 167 milioni per acquistare 600 autobus in tre anni, a cui aggiungeremo altri 50 mezzi grazie ad altri 18 milioni, stanziati con una variazione di bilancio.
Peccato però che la gara del 12 luglio indetta da Atac per acquistare 320 bus sia andata deserta. Non è proprio un buon viatico, no?
Risolveremo con la gara gestita da Consip che si terrà in agosto, e che sarà ripartita in più lotti. E poi ci saranno altri bandi.
Però la gara di luglio è stata disertata. Non offrivate buone condizioni o vi hanno remato contro?
Guardi, non siamo minimamente preoccupati.
Un altro punto fondamentale del vostro piano è il “sacrificio” del Comune, che ha postergato il suo credito di 450 milioni verso Atac. Tradotto, verrete pagati solo dopo che sarà stato soddisfatto l’ultimo dei creditori chirografari. Ma così si creerà una voragine nel bilancio.
Stiamo coprendo quella somma con gli accantonamenti nel bilancio.
È sempre un sacrificio. Non ha chiesto al governo un aiuto per coprire il buco? Magari a Luigi Di Maio?
No. E con Di Maio non abbiamo parlato del concordato, perché eravamo convinti del nostro piano.
Sarà, ma il decreto del tribunale sembra accogliere il piano più che altro perché è la soluzione migliore per soddisfare i creditori. Come dire, il concordato è il male minore.
Se Atac non avesse avuto problemi non saremmo qui a parlare. L’alternativa era il fallimento, che avrebbe comportato la perdita di migliaia di posti lavoro, l’interruzione del servizio. Anche i creditori avrebbero perso i loro soldi.
Un altro pilastro del piano è il prolungamento del contratto di servizio fino al 2021, che vi permetterà di drenare centinaia di milioni in più. Ma pochi giorni fa l’Autorità nazionale anticorruzione ha avanzato “seri dubbi di legittimità” sul prolungamento.
Qualcuno ha provato a strumentalizzare questi rilievi dell’Anac. Noi, come è noto, abbiamo un rapporto molto sereno e trasparente con Raffaele Cantone. E assieme a lui lavoreremo anche su questo.
Non pare un problema da poco. Anche perché per l’Anac serviva “una gara pubblica” invece che l’allungamento del contratto.
Lo ripeto, troveremo una soluzione con Anac. E comunque il decreto del tribunale di fatto legittima anche gli strumenti adoperati per il concordato, compreso il prolungamento.
Intanto a novembre è previsto il referendum sulla messa a gara del trasporto pubblico locale, chiesto dai Radicali italiani. Il Pd si è già schierato per il no. E lei?
Il privato ce l’abbiamo già a Roma con il Tpl, a cui siamo stati obbligati per legge a lasciare il 20 per cento del servizio, e funziona malissimo. Il Comune di Roma paga regolarmente le imprese, ma i lavoratori ricevono gli stipendi sempre in ritardo. Se questo deve essere il privato…
Quindi la risposta è…
Sono assolutamente per il no.

Repubblica Roma 28.7.18
La partecipata
Ok dei giudici al concordato Ora Atac in mano ai creditori
di Daniele Autieri e Giuseppe Scarpa


Esulta il management ma il destino della spa passa dal congelamento di 400 milioni di euro del Campidoglio
Alla fine il tribunale ha detto sì. Atac avrà il suo concordato. Con la soddisfazione di Virginia Raggi che per prima lo aveva sostenuto; e la pena dei cittadini romani che — alla luce del piano approvato dai giudici — saranno ancora una volta usati come tappabuco per le perdite finanziarie dell’azienda romana del trasporto pubblico. E infatti la novità determinante che ha portato all’approvazione del concordato, ufficializzata ieri con decreto dal tribunale fallimentare di Roma, è la rinuncia del Campidoglio a riavere indietro i suoi crediti nel breve periodo. Denari che non sono né di Virginia Raggi né dell’Assemblea capitolina, ma della comunità.
Le promesse di Atac
In sostanza, il nuovo piano proposto da Atac ( dopo la bocciatura della proposta precedente) ruota intorno alla posizione del Comune di Roma che, nonostante sia il primo creditore dell’azienda, viene relegato in coda alla lista e rivedrà i suoi soldi ( nella partita ballano circa 400 milioni di euro) non prima di dieci anni.
Questo significa che il Campidoglio dovrà trovare il modo di giustificare sul proprio bilancio una posizione che rimarrà incerta per molto tempo ancora. In sostanza dovrà coprire quel buco in qualche modo, per evitare che la passività derivata dal mancato incasso dei crediti Atac possa limitarlo nelle attività ordinarie. Sacrificato il diritto del Comune, e quindi dei cittadini romani, Atac blinda la sua posizione, garantendo al tribunale il pagamento entro il 2019 dei creditori privilegiati; il pagamento entro il 2021 dei chirografari per una quota del 30% del loro credito; e l’attribuzione ai creditori dei cosiddetti " strumenti partecipativi", una soluzione finanziaria che permetterebbe di restituire il mancante coinvolgendo i fornitori nella divisione degli utili dell’azienda (quando e se arriveranno) e nella ripartizione dei ricavi ottenuti dalla vendita del patrimonio immobiliare di Atac.
Il rilancio dell’azienda
Il ritorno di Atac all’utile passerà, secondo il piano presentato dai vertici aziendali e approvato dal tribunale, attraverso la cosiddetta " razionalizzazione dei costi indiretti", ossia la capacità di trasformare il personale (che oggi pesa per il 60% sui costi di Atac) da zavorra a risorsa.
Per farlo, i giudici hanno appoggiato una serie di misure, in parte avviate, in parte annunciate dal presidente Paolo Simioni. Tra queste le nuove turnazioni del personale, il blocco del turn over, l’accordo sindacale già firmato e il recente licenziamento di altri quattro dirigenti.
Tutte queste misure, sommate all’ingresso dei nuovi mezzi, già promessi dal Campidoglio, dovrebbero contribuire ad aumentare la produttività dell’azienda riportandola (dopo circa dieci anni) all’utile. Lo aveva detto lo stesso Simioni nel piano industriale presentato a gennaio scorso nel quale calcolava che il valore di produzione di Atac sarebbe passato dai 939 milioni del 2017 a 995 milioni nel 2021.
Il voto dei creditori
Adesso Atac ha davanti un’estate meno calda del previsto. Questo si legge nelle dichiarazioni del presidente Simioni che ieri si è lasciato andare all’ottimismo. « Sono molto soddisfatto — ha dichiarato dopo aver saputo della decisione del tribunale. — Quando sono arrivato a agosto 2017 l’azienda non riusciva più a pagare gli stipendi, i fornitori non rispondevano al telefono ed erano arrivati i primi pignoramenti dei conti correnti. Con il decreto di ammissione, il tribunale e la procura riconoscono all’azienda che la strada che abbiamo intrapreso a settembre era quella giusta».
Ma la sua è una soddisfazione momentanea perché Atac deve ancora superare lo scoglio più duro, quello che la espone al giudizio dei suoi creditori. Nel decreto di ieri il tribunale di Roma fissa per le ore 11 del prossimo 18 dicembre l’attesa adunanza, ossia la riunione di tutti i creditori, chiamati a votare l’ipotesi concordataria.
A loro spetta l’ultima parola sul futuro dell’azienda, perché una maggioranza contraria potrebbe far saltare il concordato e far ripiombare Atac sull’orlo del fallimento. Un’ipotesi che i vertici della municipalizzata e i piani alti del Campidoglio sono convinti di poter scongiurare. Certi che il sacrificio del Comune e di tutti i cittadini romani basti da solo per rimettere in sesto i bus di Atac.

La Stampa 28.7.18
I giornali della comunità ebraica inglese contro Corbyn
di Alessandra Rizzo


Un governo laburista sarebbe «una minaccia esistenziale alla vita degli ebrei nel Paese». Con queste parole i tre più importanti giornali della comunità ebraica britannica hanno attaccato il segretario Jeremy Corbyn, gettando nuova benzina sulla questione dell’antisemitismo nel Labour. Solo la settimana scorsa, una deputata laburista di lungo corso, Margaret Hodge, signora ebrea settantenne di solito assai moderata, si era scagliata contro Corbyn nei corridoi di Westminster, chiamandolo «razzista» e «fottuto antisemita».
Al centro delle accuse c’è la formulazione del codice di condotta del partito contro l’antisemitismo. Il codice riprende sì la definizione adottata dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, ma omette alcuni esempi chiave di antisemitismo: per esempio quello di accusare gli ebrei di essere più leali ad Israele che non al proprio Paese; o di paragonare le attuali politiche israeliane al nazismo.
Il Jewish Chronicle, il Jewish News e il Jewish Telegraph hanno pubblicato lo stesso titolo in prima pagina («United we stand») e lo stesso, durissimo editoriale. «Il partito che fino a poco tempo fa era la casa naturale della nostra comunità ha visto i suoi valori e la sua integrità erodersi sotto il disprezzo corbynista per gli ebrei e per Israele», hanno scritto.
Le accuse di antisemitismo rincorrono Corbyn dai tempi della sua ascesa a segretario del partito nel 2015. Radicale di sinistra, anti-imperialista e anti-americano, Corbyn nel passato ha chiamato Hezbollah e Hamas «amici» e si è dovuto difendere per aver criticato la decisione di rimuovere un murale chiaramente antisemita a Londra, invocando la libertà di espressione. E ad aprile in tantissimi hanno manifestato accusandolo di essere insensibile alle loro preoccupazioni. Sebbene la comunità ebraica britannica sia limitata, circa 270 mila persone, la polemica è un disastro d’immagine per Corbyn, che si ritrova inaspettatamente avanti nei sondaggi mentre il partito conservatore si lacera sulla Brexit.
Nel passato Corbyn ha ammesso l’esistenza di sacche di anti-semitismo nel partito, giurando di porvi rimedio, e ha incontrato i leader della comunità, senza alcun successo. Un suo portavoce ha detto che «un governo laburista non rappresenta alcuna minaccia di alcun tipo per gli ebrei» e ha promesso di tenere in considerazione i dubbi della comunità sulla definizione di antisemitismo. Ma, ha ammesso, «c’è molto lavoro da fare».

Repubblica 28.7.18
L’Europa e la Brexit
Londra e il rischio Weimar
di Timothy Garton Ash


Tra un anno o due potremmo ritrovarci di fronte a una Gran Bretagna acida e rabbiosa: una società lacerata da conflitti interni e difficoltà economiche, tradita dalle classi dirigenti, concentrato malsano di umiliazione e rancore. Una nazione simile rappresenta un pericolo, per se stessa e per i Paesi limitrofi. È una prospettiva che si realizzerà in tempi ravvicinati, più rapidamente, se, in assenza di un accordo sulla Brexit, la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea con « orribili conseguenze » , per citare la massima carica dell’amministrazione statale. Tra queste si prospettano code chilometriche di tir a Dover, paralisi dei voli, intervento dell’esercito per distribuire cibo e medicinali. In un caos del genere gli idrofobi tabloid britannici incolperebbero senz’altro i maledetti europei — soprattutto i francesi — chiedendo il blocco immediato della contribuzione all’Ue. Dominic Raab, nuovo ministro per la Brexit, ha già detto che Londra non pagherà i 39 milioni di sterline concordati per il divorzio se non si arriverà a un accordo soddisfacente. I britannici indignati continueranno a chiedersi per quale motivo le forze armate debbano proteggere gli europei che li fregano, e se non sia il caso di riprendere la tradizionale politica britannica del divide et impera sul continente.
Si potrebbe arrivare in tempi più lunghi a una situazione tale anche nel caso in cui gli altri 27 Stati membri dell’Ue imponessero alla Gran Bretagna un divorzio umiliante — una versione moderata e burocratica in tempo di pace del trattato di Versailles, l’accordo punitivo imposto alla Germania dopo la prima Guerra mondiale, che pose il germe del revisionismo nazionalista tedesco. I fautori britannici della Brexit vociferano già di una Brexit 2.0, a seguito e modifica di qualsiasi accordo raffazzonato per consentire l’uscita formale dall’Ue il 29 marzo 2019.
Sarebbe esagerato un parallelo con la Germania di Weimar? In realtà sì. Non ho certo in mente 6 milioni di disoccupati o un nuovo Hitler, né che Boris Johnson scateni una guerra mondiale, ma è meglio enfatizzare il rischio, in modo che tutti aprano gli occhi, piuttosto che fare come tanti che hanno sottovalutato i pericoli che la Brexit, e soprattutto una Brexit mal gestita, comporta per l’Europa. Sono già successe cose ritenute impensabili. Un partito nazionalista di estrema destra che in Germania eguaglia nei sondaggi i socialdemocratici? Impossibile! Un narcisista bugiardo e xenofobo alla presidenza Usa che minaccia la guerra nucleare su Twitter? Impossibile!
Per scongiurare il pericolo di una "Weimar britannica" servirà buon senso su entrambe le sponde della Manica. Sul versante britannico abbiamo bisogno di tre elementi tradizionalmente associati al nostro Paese, che però ultimamente scarseggiano: un realismo pragmatico, un processo democratico credibile, e un forte senso civico. Con tutte le sue pecche, il Libro Bianco di May sulla Brexit va in direzione del realismo pragmatico. Le persone serie nel governo sanno che Londra dovrà scendere a compromessi per arrivare a un accordo con i 27 Stati Ue. Dando per scontato che i 27 siano a loro volta pronti, il passo successivo di un processo democratico credibile è il "voto decisivo" del Parlamento britannico sull’accordo. A quel punto si apriranno varie possibilità, tra cui la conclusione di un accordo che garantisca una minima maggioranza parlamentare, la bocciatura seguita da nuovi negoziati, nuove elezioni, oppure un secondo referendum.
Al momento la palla è in mano all’Ue. Stranamente i leader non si confrontano seriamente sulla Brexit dalla primavera 2017. Da allora il negoziato è affidato al gruppo della Commissione europea guidato da Michel Barnier, funzionari statali, giuristi e teologi di Bruxelles che hanno avuto validi motivi per essere intransigenti, tutelare gli interessi dell’Irlanda e l’integrità del mercato unico, ed evitare che l’accordo con la Gran Bretagna fosse così allettante da indurre altri Paesi a seguirne l’esempio, pretendendo la botte piena e la moglie ubriaca. Ma mi colpisce che alcuni esperti britannici filoeuropei come Charles Grant del Centre for European Reform, inizino a sostenere che l’approccio dell’Europa a 27 sia troppo rigido, esigente e punitivo. L’esclusione della Gran Bretagna dal progetto Galileo è stato uno schiaffo gratuito.
I nostri partner europei potevano pretendere che May spiegasse le sue intenzioni, per risponderle. Bene, ora May lo ha fatto. La prima risposta di Bruxelles è stata cauta e cortese, tesa a chiarire il backstop, l’accordo di garanzia per mantenere aperto il confine interno in Irlanda. Ma in un ragguardevole articolo un gruppo di autori, tra cui Norbert Röttgen e Jean Pisani- Ferry, sostiene che l’Ue dovrebbe ragionare in termini politici, non solo burocratici, e indica la necessità di una riflessione strategica sul futuro dei rapporti tra le due sponde della Manica in 5-10 anni — il che impone una riflessione anche sul futuro dell’Ue.
Se si vuole evitare il rischio di una " Weimar britannica", con le conseguenze negative per il resto d’Europa, i leader devono impegnarsi in questo dibattito strategico. E il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk farebbe bene a inserirlo nell’agenda del meeting dei leader Ue che si terrà a Salisburgo il 20 settembre. In preparazione, i leader europei non farebbero male a fare un ripasso di storia nelle ferie d’agosto, compresa quella europea del Novecento, in cui risuonano i campanelli d’allarme "Versailles" e "Weimar", ma suggerirei anche Il Sacro Romano Impero, opera magistrale di Peter Wilson. Il saggio dimostra che quella primitiva Unione Europea durò tanto a lungo perché seppe adattarsi al mutare delle circostanze, convivendo con le diversità e le complessità ineliminabili in Europa, senza porre deroghe alle sue finalità e alla sua fede. Credo possa essere di valido insegnamento nella realtà di oggi.
Traduzione di Emilia Benghi

Corriere 28.7.18
«Salviamo il cibo italiano». La crociata di Donpasta, dj filosofo
Nel suo docufilm I villani storie e volti di produttori: «Basta piatti surgelati, stiamo perdendo le nostre radici»
di Gabriele Principato


Quattro storie per raccontare morte e rinascita della cucina italiana. Un viaggio da Nord a Sud, tra uomini e donne che coltivano, pescano, allevano e cucinano come mezzo secolo fa, salvaguardando involontariamente il «vero» sapore del cibo, fatto di biodiversità e tecniche antiche. «Il docufilm I Villani attraversa la giornata, dall’alba al tramonto, di persone comuni che hanno scelto di sfuggire alle logiche moderne coltivando, ad esempio, varietà di semi autoctoni (e non quelli che “impone” la globalizzazione), impedendo così l’uniformarsi del gusto e la perdita della nostra storia» racconta Daniele De Michele alias Donpasta, 44 anni, l’attivista e dj, celebrato anche dal New York Times, che da più di vent’anni gira il mondo mixando musica e cultura (gastronomica). Il docufilm I Villani — di cui ha seguito la regia, scritto il soggetto e curato la sceneggiatura insieme al regista Andrea Segre — con la voce narrante del vignaiolo dell’Oltrepò Lino Maga, antesignano dei vini naturali, sarà presentato in anteprima a Venezia a settembre come evento speciale delle «Giornate degli Autori», per poi arrivare nelle sale. E sarà un viaggio alla scoperta di persone che hanno scelto di vivere controtendenza. «Perché per mangiar bene bisogna rispettare i tempi della cucina, le stagioni, la terra e il mare, tutto ciò che la modernità non fa più», spiega Donpasta. C’è Totò, 27 anni, contadino siciliano che raccoglie i limoni e suona gli stornelli in dialetto imparati dal nonno. Ci sono Modesto e sua figlia Brenda, 40 e 18 anni, che in Campania allevano animali e producono il provolone con tecniche tradizionali. E ancora Luigina, 60 anni, che in Trentino raccoglie erbe selvatiche da vendere al mercato. E poi Santino e Michele, 50enni pescatori e allevatori di cozze a Taranto. Storie che De Michele ha scovato negli anni di lavoro che hanno portato al libro Artusi remix (Mondadori, 2014): una raccolta di ricette popolari, quelle delle nonne, che si stanno perdendo sostituite da sughi pronti e piatti surgelati. «La cucina italiana è amata nel mondo perché chi la assaggia capisce subito che nasconde un patrimonio. E I Villani — prodotto da Malìa e Rai Cinema — è un grido d’aiuto per salvaguardarlo».