il manifesto 27.7
Il dramma ordinario di vite straordinarie
Storia
delle idee. «Il tempo degli stregoni» di Wolfram Eilenberger, per
Feltrinelli. 1919: il bivio cronologico per pensatori come Wittgenstein,
Heidegger, Benjamin e Cassirer. 1929: a Berlino Walter Benjamin,
«giornalista free-lance», è alle prese con le sue disastrose finanze
Mark Riley, «Todtnauberg Diorama (Martin Heidegger's Hut)», 2016 (particolare)
di Marco Assennato
Ha
ragione Angelo Bolaffi nell’indicare Il tempo degli stregoni come
esempio di ottimo giornalismo filosofico. Nel volume, scritto da Wolfram
Eilenberger e recentemente tradotto per Feltrinelli (pp. 401, euro 25),
il decennio cruciale 1919-1929 diventa un teatro teorico nel quale si
incrociano le biografie di quattro grandi filosofi del novecento
europeo: Cassirer, Heidegger, Benjamin e Wittgenstein. In una scrittura
assai gustosa e non priva di intelligente chiarezza, Eilenberger intende
restituire al lettore quella che, indubbiamente con troppa fretta,
viene definita l’ultima rivoluzione del pensiero. Non si tratta,
tuttavia, di un testo nostalgico bensì di una ricostruzione che ha
l’ambizione di parlare all’Europa di oggi.
LA SCENA SI APRE
sull’Hotel Belvedere di Davos – lo stesso in cui Thomas Mann ambientò la
sua Montagna Incantata. Ma è il 29 marzo del 1929 e i saloni dell’Hotel
si apprestavano ad ospitare uno dei più celebri confronti della storia
della filosofia: quello tra Heidegger e Cassirer. Sarebbe prudente
allora fermare qui il paragone con il grande romanzo manniano. Perché,
seppure qualche somiglianza è riscontrabile tra la figura del filantropo
liberale Luigi Settembrini e Ernst Cassirer, difensore della Repubblica
di Weimar, nulla lega d’altra parte il gesuita e comunista di origine
ebraica Leo Naphta – personaggio nel quale più di un interprete ha
voluto vedere György Lukács – con Martin Heidegger, filosofo della Selva
Nera. Non così, secondo Eilenberger, che insiste nel paragone fino al
parossismo.
D’altra parte la costruzione narrativa del testo è assai
dinamica: Eilenberger allarga le coordinate geografiche e stressa le
sincronie. 1929: a Berlino Walter Benjamin, «giornalista free-lance», si
arrabatta alle prese con la sua disastrosa condizione finanziaria ed
emotiva e cerca di combattere teologicamente la mercificazione della
vita e del pensiero; mentre a Cambridge Ludwig Wittgenstein pretende, di
fronte a due frastornati giganti della logica analitica, di aver
«risolto tutti i problemi della filosofia». Cosa lega questa
costellazione di vite, pensieri, rapporti sociali? La centralità di quel
confronto, dice l’autore, la tempesta sulle cime svizzere che presto
scenderà in terra.
Quattro uomini, quattro itinerari del pensiero, un
solo problema: una gigantesca analessi ci porta indietro di dieci anni
per ricostruire la genealogia incrociata di una svolta teorica e poi
tornare a convergere sulla disputa di Davos – intesa dunque come momento
sorgivo della filosofia novecentesca. Dov’è l’attualità allora?
In
fondo Cassirer e Heidegger discutono del più classico dei problemi
filosofici, tipicamente kantiano: Che cosa è l’uomo? Quali le sue
condizioni di conoscenza e di libertà? Tuttavia, dice Eilenberger, essi
lo fanno sotto l’incombente pressione della crisi economica e
finanziaria, tra i detriti della guerra e nel fango di quella «miscela
esplosiva di anticapitalismo, anticomunismo e antisemitismo» che
trascinerà, da lì a poco, l’Europa intera nella catastrofe. Il corpo a
corpo teorico, giocato sul solco della filosofia neokantiana di Cassirer
– «bersaglio di tutti i giovani filosofi in cerca di novità» – ha
dunque questa reale, dura, posta in gioco: pensare nella crisi europea,
tenersi dentro l’apocalisse della Kultur, nell’incontenibile tracollo
delle ipocrisie liberali e borghesi.
Buona intuizione, certo, e
corretta. In effetti, la stessa congiuntura agita il pensiero di Ludwig
Wittgenstein: figlio della Wiener Moderne di Mahler, Hoffmansthal,
Musil, Kraus, Freud, Mach, Rilke; e il cui Tractatus deve essere letto,
in questo quadro, come «un testo essenzialmente etico» volto a
dimostrare che «l’immaturità patologica della cultura moderna consista
nel postulato secondo cui i veri problemi filosofici andrebbero
affrontati con metodi verificabili».
NULL’ALTRO, D’ALTRO CANTO,
occupa il Benjamin critico-distruttore del carattere borghese: quella
coscienza lacerata che non cessa di autorappresentarsi come
«colpevole-incolpevole nello spazio del destino». La colpa, il destino,
l’eterogenesi dei fini della società liberale: cifre, queste,
perfettamente riscontrabili nell’immobilismo ideologico della Repubblica
di Weimar schiacciata, come fu, tra il debito imposto dagli Stati del
grande capitale, la rivoluzione comunista, e le metastasi
nazionalsocialiste.
Urgeva, allora, trovare parole nuove per
rivolgersi a questa «generazione di reduci, traumatizzati dalla guerra e
dalla sconfitta» e, come comprenderà presto Toni Cassirer (la moglie
del rettore di Amburgo) l’enfasi sulla grande Bildung tedesca, la
riformulazione della domanda kantiana in termini di analisi critica
delle forme culturali, su base collettivo-razionale non potevano
bastare: «per scuotere la Germania di allora ci volevano mezzi diversi».
DAVOS,
COM’È NOTO, fu il trionfo di Heidegger contro Cassirer. Il chiasma
pre-esistenzialista tra «le più astratte questioni metafisiche» e «il
dramma dell’esperienza ordinaria», l’insistere sull’«origine» e
sull’«angoscia» come squarci che aprono «un altro mondo», l’enfasi
sull’«autenticità» contro la vita falsa, il mito del «radicamento» come
balsamo e «dimora dell’essere» potevano apparire una sostanza critica
sufficiente a spezzare tanto la cultura accademica, quanto i principi
morali e gli ordinamenti liberali dell’idealismo tedesco.
Ma, per
tenere questa tesi generale, il costrutto narrativo di Eilenberger si
obbliga a forzature di ogni sorta: il grande liberale, ultimo eroe
borghese e i suoi antagonisti selvaggi, dice Eilenberger. Il primo verrà
sconfitto, è vero, ma l’heideggerismo porterà al nazismo e Benjamin
morirà suicida. Solo Wittgenstein troverà la forza di ricominciare,
ancora e ancora, a fare filosofia. Qui il testo scivola pericolosamente e
sembra servirci la solita sbobba degli opposti estremismi, irrazionali,
contro la saggia e moderata morale liberale della vecchia Europa (o il
veleno neoliberale dell’Europa odierna). Benjamin e Heidegger, scrive
Eilenberger, «entrambi aspirano a una svolta rivoluzionaria (…) pur di
evadere dalla strada a senso unico della modernità». Bene: e tuttavia
come si può confondere il Benjamin costruttivista, il comunista
brechtiano, uomo compiutamente metropolitano, con il sacerdote
dell’essere e la sua Hütte? Così il quadro appare bloccato.
IN DUE
MOMENTI tuttavia, questo grosso e intrigante racconto, sembra capace di
una qualche apertura: negli accenni alle ricerche che Warburg e Cassirer
impostano sul Rinascimento, come momento aurorale del moderno: «il
contrario dell’astrazione e della coscienza contro il corpo», piuttosto
«una riconquista della libertà a partire da una visione scientifica del
mondo, con una lucida consapevolezza dei suoi limiti ed equivoci»; e poi
nel capitolo dedicato ad Hannah Arendt, sabotatrice segreta del
progetto heideggeriano: «al solipsismo esistenziale dell’essere-proprio –
ricorda Eilenberger – Arendt risponderà con una filosofia del nascere e
della pluralità». Scoperta dell’altro, nascita, Amor Mundi, critica
della ragione. Ben altre rivoluzioni del pensiero saranno necessarie a
percorrere, a partire dal secondo dopoguerra, questa rinnovata
riscoperta del reale.