martedì 7 agosto 2018

Corriere 7.8.18
FrancoAngeli traduce il saggio sui confini del politologo tedesco che riflette sulla necessità di rendere umana l’economia
Perché ci salverà la filosofia
Julian Nida-Rümelin teorizza un’etica della migrazione. Ma cosa intende per pensiero?
di Emanuele Severino


Ci sono problemi che vanno risolti subito. Ad esempio se ci troviamo vicini a una persona che sta affogando. Ne sanno qualcosa le navi che tra Libia e Sicilia vedono centinaia di migranti in pericolo immediato di morte. Ma ancora più spaventosa è la sorte delle centinaia di milioni di esseri umani che rimangono nei Paesi poveri: sono i più deboli, ben lontani dal disporre dei duemila dollari per il viaggio verso l’Europa. E molti di loro sono vicini alla morte, ora, per fame e malattie, tanto quanto lo sono coloro che si trovano su un barcone che sta affondando. L’opinione pubblica e i mass media prestano attenzione soprattutto alle vicende del primo di questi due gruppi, collegate come sono alle ripercussioni che hanno sulle società ricche e quindi sull’Europa. Ma nella riflessione culturale sul fenomeno della migrazione i problemi relativi al secondo gruppo sono già da tempo discussi. Notevole impulso a questa discussione è stato dato dall’economista Paul Collier con la pubblicazione del suo saggio Exodus, tradotto in Italia nel 2015 da Laterza. Anche le sofferenze del secondo gruppo andrebbero affrontate subito. La potenza raggiunta dalla tecnica consentirebbe di eliminarle in gran parte (quasi cent’anni fa Keynes lo riteneva già fattibile), ma la gestione della tecnica da parte dei ricchi lo rende impossibile.
Sui problemi della migrazione — quindi anche su coloro che non possono andarsene dalle terre d’origine — si sofferma anche Julian Nida-Rümelin nel suo Pensare oltre i confini. Un’etica della migrazione, del 2017 e pubblicato quest’anno in Italia da FrancoAngeli (a cura di Giovanni Battista Demarta, che dello stesso autore ha curato, per FrancoAngeli, Per un’economia umana, 2017). Ma, come appare dal titolo, diversa è l’impostazione. Collier parla da economista, Rümelin da filosofo (insegna Filosofia e teoria della politica all’Università di Monaco di Baviera). L’«etica» è infatti il modo in cui la filosofia si rivolge all’agire dell’uomo. Ma Rümelin è stato anche ministro della Cultura nel primo governo Schröder. Cooperazione di efficienza capitalistica e di tutela del lavoro, cioè un’«economia umana», è a suo avviso il progetto che ha determinato l’affermazione della Germania in Europa e che egli consiglia anche all’Italia. All’intento di indicare i fondamenti filosofici di un’«economia umana» appartiene anche questa sua importante etica della migrazione.
Mi sembra che essa si proponga di chiarire in che misura la filosofia possa contribuire anche alla soluzione dei problemi che, come quello della migrazione, richiedono una risposta immediata. Questo proposito coinvolge un modo di concepire la filosofia, che tuttavia, per quanto attraversato da spunti originali, è sostanzialmente allineato ai criteri con i quali la filosofia è oggi intesa nel mondo. In un tempo in cui l’economia e la tecno-scienza stanno al centro della scena mondiale l’importanza attribuita alla filosofia da un intellettuale e politico come Rümelin è interessante. Come interessanti sono le sue tesi che la democrazia non possa prescindere dalla «verità» e che l’etica debba tener conto del modo in cui essa è stata elaborata da Platone e da Aristotele. Ma il suo modo di intendere la filosofia e la «verità» è quello che gli è consentito dallo spirito del nostro tempo.
Egli sostiene, insieme a filosofi come Ronald Dworkin e Thomas Nagel, un «realismo etico» per il quale «ci sono ragioni buone e ragioni cattive, e ciò che è una buona ragione o una cattiva ragione non si risolve in ciò che volta per volta pensiamo e preferiamo (…). Io tento piuttosto di scoprire che cosa dovremmo fare, non ciò che comunemente si ritiene che andrebbe fatto» (pagina 13). Le «ragioni buone» esistono; ma per lui, come per tutta la cultura dominante, la bontà delle ragioni non può essere la loro verità incontrovertibile; e ciò che dovremmo fare non discende da un principio indiscutibile.
Ma in che modo Rümelin stabilisce la preferibilità delle «ragioni buone»? Sembra a volte che per lui una «buona ragione» consista, contrariamente a quanto abbiamo sentito, in ciò che comunemente si ritiene di dover fare. Scrive ad esempio (pagina 49): «Abbiano delle buone ragioni per prenderci cura delle nostre amiche e dei nostri amici, per accudire i nostri figli come genitori, per percepire una responsabilità nei confronti dei nostri allievi come insegnanti, e così via. Se una teoria etica è inconciliabile con tutto questo, allora è la teoria etica a fallire, non questa prassi diffusa nel mondo della vita». Ora, in questo passo, la «teoria etica» è la filosofia; ma «questa prassi» è, propriamente, l’insieme di regole a cui in vaste aree del globo l’uomo contemporaneo per lo più si è abituato ad adeguarsi (ma con eccezioni sempre più rilevanti); e il «mondo della vita» è quello che i Paesi ricchi sono riusciti a realizzare da due o tre secoli (se si va ancora più indietro, tale modo di vivere è sempre meno «diffuso»); e le «buone ragioni» che abbiamo per fare quel che facciamo sono l’insieme di preferenze che è stato adottato da questo tipo d’umanità prevalendo su altre forme di preferenza.
La filosofia deve avere quindi come fondamento, modello, pietra di paragone le convinzioni di questa umanità e si riduce a essere una sistemazione della «verità» costituita da tali convinzioni; così come, in campo epistemologico, oggi si ritiene per lo più che la «verità» sia il sapere scientifico, che la filosofia debba essere al massimo una riflessione su di esso e che con esso non possa mai essere inconciliabile. E come la filosofia non può essere qualcosa di inconciliabile con le convinzioni delle società ricche del Nord del Pianeta, così non può trovarsi a essere inconciliabile con esse nemmeno quell’aspetto della filosofia che è l’«etica della migrazione». Anche in questo campo sono il buon senso e le «buone ragioni» di quelle società a dettar legge alla filosofia.
Secondo il leitmotiv della cultura filosofica oggi dominante anche Rümelin prende congedo dal senso originario della filosofia, sviluppatosi lungo l’intera tradizione dell’Occidente: la filosofia come sapere incontrovertibile, e quindi come critica del mito, del senso comune, delle «buone ragioni», delle convinzioni che di volta in volta i popoli hanno avuto. (Un congedo, osservo, che è sì inevitabile ma è anche estremamente più complesso di quanto ritengano e riescano a rendersi conto quasi tutti coloro che affermano di congedarsi). Rispetto all’idea di un sapere incontrovertibile, infatti, per quanto argomentate e coerenti tali convinzioni sono pur sempre opinioni, abitudini, congetture, forme di fede. Certo, sono le opinioni che tutti noi, sembra, condividiamo, ma «tutti noi» apparteniamo a quel tipo d’umanità che è sì riuscita a prevalere sulle altre, ma non per questo le sue convinzioni hanno cessato di essere opinione e fede.
Rümelin afferma che il principio capitalistico dell’«ottimizzazione» (l’aumento indefinito del profitto) spinge il mondo verso l’eliminazione dei confini tra gli Stati nazionali, cioè verso la globalizzazione economica e quindi è promozione di un flusso migratorio senza limiti, che consente di ridurre sempre di più il costo del lavoro. Ed egli mostra la catastrofe che questo principio, lasciato a sé stesso, produrrebbe nei migranti, nel mondo ricco, nel capitalismo stesso. La politica avrebbe allora il compito di salvaguardare i confini, ma senza eliminare l’efficienza dell’economia di mercato. Il compito etico sarebbe appunto di rendere «umana» questa forma di economia, impedendo alle concezioni assolutistiche del filosofare di rendere inefficaci le «buone ragioni». Un capitalismo sano non è, per lui, un’utopia. E infatti, oggi, quasi nessuno crede più in una fuoriuscita dal capitalismo.
Uno dei motivi principali di questa convinzione è lo straordinario sviluppo tecnologico di cui soprattutto il capitalismo si avvale. Ma in questo modo si continua a confondere capitalismo e tecnica. Che invece (lo vado mostrando da tempo anche su queste colonne) hanno anime profondamente diverse. Il capitale (più o meno «umano») crede di poter continuare a servirsi della tecnica, ma ha nemici esterni e interni (la concorrenza) e quindi è costretto a potenziare sempre di più questo suo formidabile strumento. E allora non è forse inevitabile che tale potenziamento divenga esso, e non l’incremento del profitto, lo scopo dell’agire capitalistico — di un agire che pertanto non potrà più essere «capitalistico»? E non è quindi inevitabile che a gestire i problemi della migrazione non possa essere né il capitalismo né un’«etica della migrazione», ma abbia a essere la crescente potenza tecnica, divenuta, da mezzo delle forze che oggi si credono alla guida del mondo, lo scopo di ogni agire dell’uomo?
E, d’altra parte, i più grandi e duraturi cambiamenti dell’Occidente non sono forse determinati dalla filosofia, cioè dal pensiero che non si propone di risolvere immediatamente i problemi? Tutte le complessità concettuali e pratiche della storia occidentale non sono forse cresciute all’interno dei significati fondamentali portati alla luce dal pensiero filosofico («verità», «scienza», «errore», «opinione», «fede»,«fondamento», «dimostrazione», «essere», «non essere», «divenire», «nulla», «eternità», «etica», «politica», ecc.)? La scienza moderna si distacca dalla filosofia, ma come chi nasce si distacca dalla madre: rimanendo tuttavia qualcosa che essa ha generato e che di essa è quindi il prolungamento. E la pratica capitalistica — stando a una tesi tuttora chiarificante di Max Weber — non deriva forse dall’etica protestante, cioè da un innesto del pensiero filosofico nel pensiero religioso? L’Unione Sovietica e il comunismo mondiale non sono forse un prodotto della filosofia marxista (che ha alle sue spalle la filosofia di Hegel, la quale a sua volta raccoglie in sé l’intera storia del pensiero filosofico della tradizione occidentale)?

il manifesto 7.8.18
«I migranti viaggiano su mezzi che riparano con il fil di ferro»
Intervista al segretario Flai Cgil di Foggia. Le vittime venivano dal Gran Ghetto di Rignano: in 600 tra roulotte e baracche
segretario Flai Cgil di Foggia, Daniele Iacovelli
di Gianmario Leone


«Quelle avvenute ieri pomeriggio e sabato scorso, sulle provinciali della Capitanata, sono state stragi annunciate e non soltanto fatalità racchiuse nel giro di 48 ore». Lo afferma con voce stanca, dopo l’ennesima giornata passata sulle strade a guardare i corpi stravolti dalle lamiere contorte sull’asfalto, Daniele Iacovelli, segretario Flai Cgil Foggia. Il sindacato di categoria della Cgil è da molti anni impegnato nella lotta contro il caporalato, dagli sportelli di ascolto all’assistenza per i migranti sino al rapporto «Agromafie e Caporalato», arrivato alla quarta edizione, dove in oltre trecento pagine viene descritto un dramma oramai conosciuto da tutti, ma ancora oggi apparentemente inestirpabile.
Qual è la situazione nelle campagne del foggiano dopo lo sgombero del Gran Ghetto di Rignano Garganico nel 2017?
In realtà quel ghetto, una volta smantellato, è stato subito rimesso in piedi, attraverso la costruzione di baracche e l’utilizzo di vecchie roulotte, che costano 300 euro l’una e che qualcuno dovrà pur aver fornito ai migranti, posizionate dall’altro lato della strada del terreno che fu sequestrato: oggi si trovano all’incirca 600 persone. E da lì provenivano i quattro braccianti morti sabato scorso così come gli altri quattro loro compagni che si trovavano a bordo del furgone scontratosi con un camion. È un dato certo, visto che alcuni di loro frequentavano anche i nostri sportelli. Mentre non abbiamo ancora informazioni certe sulla provenienza degli altri braccianti morti ieri.
Eppure con la legge 199 del 2016 sembrava che le cose stessero prendendo una piega diversa
La legge sul contrasto al caporalato è di per sé molto buona e dove viene applicata funziona. Il problema è che per esempio, qui a Foggia, quella legge non viene quasi per nulla tenuta in considerazione. La maggior parte delle responsabilità è dei proprietari delle aziende e dei terreni agricoli dove i migranti vengono sfruttati ogni giorno per tutto l’anno, specialmente in estate. I proprietari conoscono perfettamente la situazione dei vari ghetti presenti in provincia di Foggia, il dramma dello sfruttamento del caporalato e gli affari che la malavita organizzata trae da tutto questo, ma si guardano bene dall’assumersi le loro responsabilità e mettere i lavoratori in regola come invece la legge prevede.
Gli ultimi drammatici incidenti mettono in risalto anche un altro dato: i migranti si recano sui luoghi di lavoro con mezzi propri o a loro affidati
La casistica ultimamente prevede tre possibilità. Quella tradizionale è che questi furgoni vengano guidati dai caporali veri e propri. Dopo di che può anche accadere che i caporali affidino la guida di questi mezzi ai migranti stessi oppure che qualche amico dei braccianti si offra volontario per accompagnarli e poi riprenderli sul luogo di lavoro. Parliamo comunque di furgoni che spesso si aggiustano loro, i braccianti, col fil di ferro, cambiandoci i pezzi. Vendono e comprano olio raccolto da altre macchine e così si recano sul luogo di lavoro. Sabato è stata una fortuna che a bordo fossero soltanto in quattro: spesso sono anche in quindici o in più di venti, assiepati e stremati da una giornata di lavoro. Basta una distrazione o un colpo di sonno perché si arrivi alla tragedia. Ecco perché non ci stupiamo di quanto accaduto. Anzi è una fortuna se sino al 4 agosto non era ancora successo nulla del genere.
Il tutto è accaduto proprio mentre imperversano le polemiche sull’estensione dei voucher nel settore agricolo e la poi smentita possibilità di abrogare la legge 199
I voucher sono un danno drammatico per il settore agricolo che è già il più flessibile nel mercato del lavoro. Introdurli nel settore agroalimentare, che cresce del 7% e ha nel nostro territorio l’area più produttiva d’Italia (dopo l’Emilia Romagna), è un’assurdità. È impensabile che la legge 199 venga anche solo modificata.

Corriere 7.8.18
Placido: «Sono martiri, ora alziamo la voce»
Il regista pugliese che denunciò il racket nel film «Pummarò»: aspetto il capo del governo
intervista di Roberta Scorranese


«Sono 16 martiri del nostro Paese. Quelli di ieri, a Lesina, e quelli del 4 agosto tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri». Michele Placido li chiama così i braccianti agricoli morti nei due incidenti, ravvicinati nel tempo, avvenuti nel Foggiano. Lui che, nel 1990, esordì alla regia proprio con Pummarò, film sui raccoglitori di pomodori attivi nel Beneventano.
Un’altra epoca, ma a quanto pare le ferite oggi sono le stesse.
«Pensi che quando uscì Pummarò si cominciava a parlare appena di questi lavoratori e sempre con un certo scetticismo. Ricordo bene la reazione di alcuni critici italiani quando portammo il film al 43º Festival di Cannes: parlarono di scarsa verosimiglianza. Ironico, no?»
Forse perché sembravano casi isolati, destinati a essere dimenticati?
«La sensazione era quella, ma si capiva che il lavoro stava cambiando».
Ascoli Satriano, la città dove è avvenuto l’incidente di sabato, è anche la sua città di origine.
«Sì ed è anche per questo che la cosa mi ha colpito. Ovviamente andrò al funerale, ma vorrei lanciare un appello al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, foggiano pure lui: presidente, venga a vedere bene che cosa succede».
Ha detto che verrà.
«Benissimo, io sono anni che denuncio le condizioni di queste persone, ma attenzione: non facciamone una questione razziale. È una questione sociale, sindacale. Di lavoro, insomma. Certo, noi artisti non possiamo e non dobbiamo sostituirci alla politica o alla magistratura. Però mi dà fastidio che si dica che gli intellettuali tacciono su questi e su altri argomenti importanti della nostra attualità».
Eppure negli anni il cinema e la letteratura hanno spesso indicato le insidie nascoste del caporalato.
«Che però sono difficili da capire e da spiegare. Ricordo che quando girammo Pummarò, cioè la storia di un ragazzo ghanese che arriva qui cercando il fratello bracciante, Giobbe, uno braccato dalla polizia e dalla camorra per essersi ribellato, facemmo diverse riprese di nascosto per documentare la pratica del caporalato. Che cambia pelle a seconda degli anni. Purtroppo ridare dignità al lavoro della terra non è facile».
Da dove ricominciare?
«Per esempio non facendo spegnere subito i riflettori su questi incidenti e su altri problemi di queste persone. Ricordandoli anche nel lavoro che hanno fatto: grazie a loro mangeremo scatole intere di pomodori».

Corriere 7.8.18
Il caporalato dei furgoncini stipati «Il viaggio della morte costa 5 euro»
Il trasporto dalle baracche ai campi viene pagato dagli stessi lavoratori
di Michelangelo Borrillo


«Se non si crepa nei campi, lo si fa per strada. E bisogna pagare anche 5 euro per farsi trasportare dai furgoncini della morte». Yvan Sagnet, il camerunense di 33 anni che nel 2011, a Nardò, si ribellò ai caporali, conosce bene le campagne di Puglia. E il lungo filo rosso che le unisce, dal Salento alla Capitanata. Il rosso non è solo quello delle angurie e dei pomodori che in estate si raccolgono nell’entroterra della regione più conosciuta per le spiagge del Salento e del Gargano che per la piaga del caporalato. Il rosso è anche quello del sangue.
Il bilancio
Una lunga striscia che negli ultimi tre anni ha un punto di partenza e un punto di arrivo. Entrambi tragici. Il 13 luglio del 2015 è il giorno in cui, nelle campagne di Andria, muore la 49enne Paola Clemente, la bracciante agricola tarantina stroncata nei vigneti dove lavorava per 27 euro al giorno. Dopo la morte di Paola inizia l’iter della normativa anti caporalato, che diventa legge nel 2016. A due anni da allora, però, si continua a morire per il lavoro nei campi. «Perché anche i 16 morti sulle strade di Capitanata di questi giorni — ed eccolo il punto di arrivo della striscia — sono conseguenza di un sistema marcio che si fonda sull’illegalità e lo sfruttamento». Sagnet, che in questi 3 anni ha seguito le battaglie del Gran Ghetto di Rignano dopo aver fondato l’associazione internazionale anti caporalato No-Cap, ne è convinto. Prima ancora che lo stabiliscano i giudici, per lui i 16 giovani africani arrivati in Italia per morire nel Tavoliere delle Puglie, sono vittime del caporalato: lo scontro frontale sull’asfalto rovente dell’estate 2018 è solo una conseguenza. «Viaggiano su mezzi di trasporto insicuri, di terza e a volte anche di quarta mano, spesso non assicurati, difettosi e su strade pericolose, soprattutto in questo periodo in cui i Tir sono dappertutto». Proprio per trasportare i pomodori che gli immigrati raccolgono nelle campagne svegliandosi alle 3 del mattino. Per raggiungere quei campi, i braccianti africani pagano anche un «biglietto» di 5 euro. «E così non dovrebbe essere, perché il trasporto andrebbe regolamentato e cofinanziato dalle aziende e dallo Stato», denuncia Sagnet.
Le tariffe
Nel Tavoliere delle Puglie, il caporalato parte proprio dai furgoncini. Il listino prezzi, per braccianti africani e neo-comunitari (20 mila nella provincia di Foggia, 400 mila a livello nazionale) è identico: il trasporto con il furgone costa, appunto, 5 euro a testa e per ogni cassone da tre quintali di pomodori — pagato quattro euro e mezzo — il caporale trattiene 50 centesimi. E visto che nei furgoni si stipano anche in venti e che ogni bracciante riesce a riempire fino a quindici cassoni, il caporale incassa per ogni trasporto 250 euro al giorno. Spesso riesce a farne due e arriva a 500 euro. E se il lavoro abbonda, paga un autista 50 euro e per ogni viaggio aggiuntivo incassa altri 200 euro.
Il contratto (violato)
Fin qui le falle del sistema di trasporto. «Il contratto nazionale, inoltre, prevederebbe vitto e alloggio a carico del datore di lavoro», aggiunge Sagnet. Ma invece i braccianti continuano a vivere nei ghetti e nei casolari di campagna, con l’unica eccezione di Casa Sankara, una struttura che può ospitare fino a 250 braccianti, a San Severo. Per il resto, il Gran Ghetto di Rignano, non appena chiuso dopo un devastante incendio nel 2017 (nel quale morirono due migranti), è stato sostituito da un altro adiacente, con meno braccianti (dai precedenti 2 mila si è passati a mille) ma in continua crescita. E a sud di Foggia continua a prosperare il ghetto di Borgo Mezzanone, dove lungo una vecchia pista di atterraggio abitano altri 1.500 immigrati.
Dall’approvazione della legge anti caporalato, quindi, poco è cambiato, almeno nella prevenzione, nei trasporti e nell’accoglienza dei migranti. «Passi avanti sono stati fatti nella repressione del fenomeno — spiega Pino Gesmundo, segretario generale della Cgil Puglia — ma senza un deciso intervento pubblico per i servizi di accoglienza e trasporto pubblico, continueremo a contare vittime mentre le economie criminali ingrasseranno i loro portafogli».

Il Sole 7.8.18
Caporalato, cos’è e perché si muore per meno di 2 euro l’ora. Migranti e italiani
di Alberto Magnani

qui
con un video di AskaNews

il manifesto 7.8.18
«Il governo ipocrita dà mezzi navali alle milizie che gestiscono i traffici»
Intervista al deputato di Leu, Erasmo Palazzotto. «Il Pd ha aperto la porta a Salvini e al blocco dei flussi anche a discapito dei diritti umani»
di Adriana Pollice


Il depuatato di Liberi e uguali Erasmo Palazzotto ha passato a luglio due settimane a bordo dell’Open arms, seguendo le operazioni di salvataggio dell’Ong catalana. Ieri Leu ha annunciato voto contrario al ddl motovedette.
Com’è andato il dibattito in aula?
Male. La discussione si è incardinata intorno a una sostanziale condivisione della politica migratoria e del rapporto con la Libia da parte di Lega, 5S, Fi e il centrodestra. Il Pd al massimo ha recriminato sulle sfumature.
Un fronte che è unito nel considerare la Libia un interlocutore credibile
È una grande ipocrisia nonché una vergogna. Il governo ha spacciato agli italiani la Libia come uno stato sovrano con istituzioni con cui è possibile avere rapporti stabili. Il Primo ministro Fayez al-Sarraj a mala pena controlla la zona del porto di Tripoli, neppure nel resto della capitale il suo potere è saldo.
Il governo dice di lavorare per fermare i traffici di esseri umani
In Libia non esiste un interlocutore unico, dall’ex ministro Minniti in avanti abbiamo fatto accordi con i capi milizie che controllano la Guardia costiera, come da inchieste Onu. Stiamo dando le motovedette ai trafficanti che diciamo di voler combattere con questo ddl. Sono gli stessi che controllano i campi di detenzione da cui i migranti scappano. Abbiamo visto tutti le immagini della donna eritrea arrivata in Sicilia, pesava 35 chili, sembrava reduce dai lager nazisti. Considerarlo un luogo sicuro e riportare le persone in quel paese significa, di fatto, essere complici dei crimini commessi dalle autorità libiche.
I 5S hanno giustificato la norma come un primo passo per stabilizzare la Libia
Il Movimento è diventato la stampella di Matteo Salvini e non sa come spiegare in modo credibile l’appoggio che sta dando a politiche xenofobe e razziste. L’anno scorso i 5S votarono contro l’accordo voluto da Minniti perché la Libia non era un interlocutore credibile, oggi appoggiano la continuità a quella linea per non scoprire il ministro dell’Interno.
Il Pd ha votato Sì al Senato e poi ha protestato alla Camera
Hanno presentato emendamenti. Noi non l’abbiamo fatto perché questo ddl è inemendabile: non solo è contrario alla Costituzione ma anche al diritto internazionale. Il Pd in aula ha sostanzialmente detto che sono d’accordo con la norma, solo che loro sono più bravi. Avrebbero voluto che venisse inserito nel testo il richiamo ai diritti umani. Non se ne sono preoccupati, però, quando l’anno scorso Minniti ha consegnato le prime motovedette alla Libia. Allora non era un problema che Tripoli non avesse mai firmato la Convenzione di Ginevra? Hanno perso l’occasione di fare autocritica perché la verità è che hanno spalancato la porta a Salvini. A causa loro, la discussione sui migranti ha iniziato a ruotare intorno al blocco dei flussi anche a discapito dei diritti umani. Poi però la gente il 4 marzo ha scelto chi lo sa fare meglio.
Qual è la posizione di Leu?
Bisogna immediatamente riaprire i porti alle Ong. La Guardia costiera italiana deve tornare a coordinare le operazioni di ricerca e soccorso, senza subire la mortificazione di doversi girare dall’altro lato per cedere il posto alla Marina di Tripoli. Ovviamente è anche imperativo imporre in Europa una gestione condivisa dell’accoglienza. Ma l’atteggiamento avuto finora dell’Ue non può essere una giustificazione alla disumanità e all’aumento dei morti in mare. A giugno ci sono stati 564 decessi nella rotta del Mediterraneo centrale, a maggio erano stati 8. Ecco quanto è costato l’insediamento del governo giallo verde. Ieri L’Unhcr ha denunciato che nei soli mesi di giugno e luglio sono state 850 le persone decedute nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, il tratto di mare più letale del mondo.

Repubblica 7.8.18
Motovedette ai libici il Pd si rimangia il sì bagarre alla Camera
di Maria Berlinguer


ROMA Via libera della Camera al decreto per la cessione di 12 motovedette alla Libia, dieci classe 500 della Guardia Costiera e due unità navali della Guadia di Finanza. Con 382 sì e 11 no Montecitorio ha dato l’ok definitivo alla legge che era stata votata il 25 luglio al Senato. Il Pd che al Senato aveva votato a favore alla Camera ha virato a sinistra e non ha partecipato al voto, pretendendo garanzie sul rispetto dei diritti umani. E ha provato a giocare sulle divisioni nella maggioranza tra leghisti e grillini, cercando di far approvare i suoi emendamenti.
Una strategia che ha scatenato un vero e proprio parapiglia dopo il battibecco tra il leghista Eugenio Zoffili, relatore del provvedimento e Gennaro Migliore. «Il Pd ha sempre chiesto l’invio delle motovedette collegandole al rispetto dei diritti umani e alla supervisione dell’Onu», ha detto l’ex sottosegretario del governo Gentiloni. «Che ca...
vuoi? Vieni qui», gli ha urlato Zaffili scatenando la bagarre. Il Pd ha allora scelto la strada dell’ostruzionismo, iscrivendo tutti i deputati a parlare. «Se avessimo una soluzione immediata per le guerre del mondo fareste il tifo per i conflitti pur di remarci contro», provoca la deputata grillina Sabrina De Carlo. «Tutti i governi della scorsa legislatura, nessuno escluso, si sono mossi sull’unica linea che è compatibile con i principi e con i valori della Costituzione: sicurezza ai confini e tutela dei diritti umani», ricorda il dem Stefano Ceccanti chiedendo un provvedimento in continuità e precise garanzie per l’utilizzo delle motovedette, ovvero la presenza a bordo di un osservatore internazionale e la presenza nei campi libici di rappresentanti delle organizzazioni umanitarie.
«Sapete anche voi che prevedere l’obbligo di questi impegni renderebbe inefficace l’accordo, tant’è che nello stesso memorandum sottoscritto da Minniti non c’erano eppure non mi sembra che Minniti non rispettasse i diritti umani», dice il sottosegretario grillino agli Esteri, Manlio Di Stefano. Al sottosegretario replica direttamente Minniti ricordando che la Libia non ha mai aderito alla convenzione di Ginevra e quindi è giusto che il Parlamento italiano voglia colmare questo divario che «oggi è assolutamente inaccettabile». Minniti ha chiesto che la Guardia Costiera italiana torni nel Mediterraneo centrale. In Aula a presiedere non c’è Roberto Fico. «Avrà avuto un impegno che l’ha tolto dall’imbarazzo di dover dire lui e i suoi seguaci che cosa pensa di questo decreto legge: non è da oggi che il presidente Fico è stato silenziato, è ormai un ottimo arbitro, può fischiare ma non può parlare», attacca il dem Stefano Lepri.

La Stampa 7.8.18
Motovedette alla Libia, sì al decreto e insulti in aula


Tensioni, insulti, polemiche e la decisone del Pd di uscire dall’aula al momento del voto. È stato approvato in una clima da stadio il Decreto legge per la cessione delle motovedette alla Libia.
Alla fine, il via libera è arrivato con 382 deputati che hanno votato sì, 11 contrari, un astenuto e il Pd che non ha partecipato alla votazione. Al centro della bagarre tra i dem e la maggioranza gialloverde il mancato vincolo, chiesto dai primi, di inviare le 12 motovedette alla Guardia costiera libica «nel rispetto dei diritti umani». Lo ha spiegato bene Piero Fassino, vicepresidente della commissione Esteri: «Equipaggiare la Guardia costiera libica di motovedette per accrescere il controllo delle coste e contrastare i mercanti di migranti è scelta ovviamente condivisibile. Ma ogni atto va valutato anche guardando al contesto in cui si colloca. E le scelte operate in questi mesi dal governo italiano configurano uno scenario radicalmente diverso, che espone l’Italia a molti rischi e non può vedere il nostro consenso».
E già prima Eugenio Zoffili, leghista e relatore del provvedimento, aveva attaccato Gennaro Migliore del Pd (che diceva «abbiamo chiesto l’invio delle motovedette alla Libia collegandolo strettamente alla verifica del rispetto dei diritti umani e alla supervisione Onu») rivolgendogli la frase «che c... vuoi» e aggiungendo «vieni qui» accompagnato da un gesto della mano)... Inevitabile bagarre nell’emiciclo, fino alle scuse di Zoffili.
Il dl incrementa di dodici unità - 10 unità navali CP, classe 500, fra quelle in dotazione al Corpo delle capitanerie di porto - Guardia costiera e 2 unità navali, da 27 metri, classe Corrubia, fra quelle in dotazione alla Guardia di Finanza - la cessione a titolo gratuito, da parte dell’Italia a Tripoli, di motovedette delle Forze armate e delle Forze di polizia da destinare alla sicurezza della navigazione nel Mediterraneo. Soddisfazione del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per «la corretta gestione delle attuali dinamiche del fenomeno migratorio, con particolare riferimento ai flussi provenienti dalla Libia, attribuendo priorità all’esigenza di contrastare i traffici di esseri umani, nonché alla salvaguardia della vita umana in mare». GRA.LON.

Il Fatto 7.8.18
Fontana, il crociato che “uccide” il voto Cinque stelle
di Andrea Scanzi


Ogni volta che Lorenzo Fontana parla, un elettore del Movimento 5 Stelle muore, o – come minimo – si chiede com’è stato possibile finire al governo con accanto un tizio così. Trentotto anni anche se ne dimostra forse 83, Fontana è nato a Verona. A guardarlo, si capisce subito come l’uomo mangi pane e volpe a colazione: ha sempre lo sguardo di uno che ha letto la biografia di Paperoga, senza però capirne appieno gli snodi. Leghista della prima ora e vicinissimo a Salvini, era già vicesegretario del Movimento Giovani Padani a 22 anni. Consigliere comunale a Verona, eurodeputato nel 2009 e 2014. Nel 2016 è vicesegretario federale della Lega Nord con Giancarlo Giorgetti. L’anno dopo è vicesindaco a Verona. Poi, nel 2018, Salvini lo vuole in Parlamento. Ed è subito leggenda: prima vicepresidente alla Camera e poi Ministro per la famiglia e disabilità, dove ne combina subito più di Bertoldo. L’informazione che detesta il Salvimaio, cioè quasi tutta, lo cerca come nel 2013 inseguiva gli “sciroccati” eletti coi grillini. Fontana sta a questo governo come i fan di sirene & scie chimiche stavano al M5S: non contano granché, ma fanno folclore e alimentano la narrazione ufficiale secondo cui al governo ci sono dei citrulli pericolosi, mentre all’opposizione si stagliano i Pajetta e Bordiga. Anche ieri Fontana ci ha fatto sognare. “Forse 10 vaccini sono troppi, ma non sono un medico” (e allora perché parli?). “Voglio soldi per il mio ministero. Se non servo posso lasciare” (volesse il cielo). “Risorse a famiglie e disabili o ne trarrò le conseguenze” (brrrr, che paura). “Sulla legge Mancino farò una riflessione con Conte e Di Maio, sono persone di buon senso”. Non senza tracce sporadiche di buon senso, a chi lo accusa di razzismo risponde così: “Io detesto fascismo e razzismo. Da identitario e cattolico non potrebbe essere diversamente. E sono anche per sanzionare severamente queste cose. Però la legge non può essere utilizzata come una clava per zittire qualsiasi pensiero non omologato. Non si può accusare di razzismo l’intero governo per il caso di Daisy Osakue, quando — come si è visto — di razzismo in questa vicenda non c’era l’ombra”. Secondo Fontana, “il nostro popolo è sotto attacco” a causa di unioni civili e migrazioni. E già in questa tesi si scorgono tutti i limiti di Basaglia. Sostiene Fontana che “siamo crociati che combattono non con le spade, ma con gli strumenti della cultura, dello studio e dell’informazione veritiera e corretta una battaglia difficile e faticosa. Ma che comunque condurrà alla vittoria”. Daje. “Da un lato l’indebolimento della famiglia e la lotta per i matrimoni gay e la teoria del gender nelle scuole, dall’altro l’immigrazione di massa che subiamo e la contestuale emigrazione dei nostri giovani all’estero. Sono tutte questioni legate e interdipendenti, perché questi fattori mirano a cancellare la nostra comunità e le nostre tradizioni. Il rischio è la cancellazione del nostro popolo”. C’è però una via per la salvezza: “La battaglia finale è quella per la vita”. E come si combatte, secondo il crociato Fontana? Abrogando la Legge Mancino. Ispirandosi a Putin, “il riferimento per chi crede in un modello identitario di società”. Vietando l’eutanasia, perché “se non si rispetta la vita dal concepimento alla fine naturale, si arriva ad aberrazioni”. E battendosi contro il diritto di aborto, come noto (?) “la prima causa di femminicidio nel mondo”. Se Fontana fosse vissuto ai tempi dell’Inquisizione, le streghe si sarebbero date fuoco da sole. Per sottrarsi al supplizio di ascoltare tutta quella grandinata di cazzate.

Il Sole 7.8.18
Iran, scattano le nuove sanzioni Usa. Un duro colpo per le aziende italiane
di Roberto Bongiorni

qui

Corriere 7.8.18
La tensione sui profughi sta cambiando gli italiani
di Giuseppe De Rita


La crisi immigratoria di questi ultimi anni e mesi sembra avere innescato un cambiamento profondo della nostra mentalità collettiva. Ci siamo sempre considerati «italiani brava gente», abbastanza aperti e generosi verso gli altri; ma oggi, rispetto al passato, siamo più ansiosi della nostra sicurezza e più smaniosi che essa ci venga garantita, anche a prezzo di accettare qualche veemenza umana nell’abbordaggio politico al problema.
Siamo tutti, infatti, dentro una simultanea prigionia: da un lato, di una tradizione buonista, rinfocolata costantemente da grandi e piccole autorità morali; e dall’altro, di un egoistico rifiuto di «altri da noi» e di ciò che turba il nostro vivere quotidiano. Viene facile il porsi alcune domande: ci siamo incattiviti, vittime di un soggettivismo etico che è stato definito egolatrico («prima gli italiani»)? Oppure manteniamo quel carattere bonario e accomodante che ci ha fatto compagnia per secoli? A ottanta anni dalla fine dell’avventura fascista, stiamo vivendo la tentazione muscolare di mescolare sovranismo e primato dell’identità nazionale? Oppure siamo ancora quella «società benevolente» che si legge in filigrana nella struttura dei Promessi Sposi? Se ci guardiamo allo specchio leggiamo nella nostra fisionomia tracce di pugnace altera fierezza? Oppure leggiamo ancora il mite sorriso con cui salutiamo gli amici per strada?
Per rispondere a queste domande senza scadere nell’emozione banale è utile tornare a Manzoni, che riteneva che la qualità benevola della nostra società è dovuta al fatto che essa è composta di uomini e basta, semplicemente di uomini, normali, che nel tempo hanno imparato a non cercare più alte e vibranti identità e che non si sentono guerrieri, conquistatori, uomini d’arma, condottieri, statisti, eroi civili e quant’altro. Egli, nella straordinaria linearità della sua prosa, riproponeva la prosa di una società fatta di null’altro che uomini adattativi che vivono in un pacato, continuo presente. Tanto che Giulio Bollati ha ironizzato sul fatto che Manzoni ci avrebbe voluto molto simili agli svizzeri, da sempre fuori dalle tensioni del mondo.
Di fronte a questa caratteristica nazionale di essere solo «uomini» e senza superiori identità, viene naturale la domanda se essa possa bastare nella travagliata storia di oggi. Certo essa non ci è bastata nei «salti della storia», dove abbiamo dovuto far ricorso all’enfatizzazione identitaria: nel fare l’Unità; nel fare quattro guerre d’indipendenza; nel darci, subito dopo, un futuro di medio potere coloniale; nel parteggiare per le ambizioni imperiali del fascismo. Ma ci è invece bastata nei periodi di sviluppo fisiologico del sistema, quando, dopo la seconda guerra mondiale, milioni di uomini hanno fatto ricostruzione di massa diffusa e qualitativa industrializzazione di massa ordinata entrata nella dinamica europea e poi nella molecolare nostra partecipazione alla globalizzazione. E va notato che questa dinamica spontanea della società l’abbiamo vista nascere e crescere insieme alla nascita ed alla crescita delle regole democratiche mentre le fughe in avanti verso traguardi di maggiore gloria hanno coinciso con bassi livelli di democrazia.
Non sarebbe allora male, per evitare di incattivirci, confermare la nostra storia passata e la costante combinazione fra pienezza democratica e identità di semplici uomini.

Repubblica 7.8.18
Il dibattito sul Pd
Il dialogo sta a sinistra
di Roberto Esposito


Roberto Esposito filosofo, insegna Filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore di Pisa Il suo ultimo libro è "Politica e negazione" (Einaudi, 2018)

Condivido in pieno la premessa dell’intervento di Piero Ignazi domenica su queste pagine. Il Pd, dopo il pessimo risultato elettorale, non avrebbe potuto mettersi al rimorchio dei 5 Stelle, pena il rischio di rapida estinzione. Ma ha sbagliato strategia, apparsa subito troppo schematica e venata di risentimento. Avrebbe dovuto accettare il dialogo proposto dai pentastellati, portandovi le proprie proposte. L’esito sarebbe stato con tutta probabilità comunque negativo. Ma il Pd avrebbe ottenuto il doppio risultato di mostrarsi aperto e di rendere, se non impossibile, almeno più difficile l’alleanza tra 5 Stelle e Lega. Il vecchio Pci, con tutti i suoi limiti, difficilmente avrebbe commesso un simile errore tattico, spianando la strada agli avversari. Comunque, cosa fatta, capo ha.
E adesso? Sulla prospettiva la proposta di Ignazi mi lascia invece più perplesso. Aprire un canale con il movimento grillino — egli suggerisce — inserendosi nelle sue contraddizioni interne e appoggiare la linea della " sinistra" di Fico. Pur apprezzando alcune delle posizioni prese dal presidente della Camera, non so se esse possano essere etichettate di sinistra. E dubito che portino a una rottura con l’ala governativa di Di Maio. Ma il punto non è questo.
La politica non vive solo di tattica, ma anche di progetto e di principi indisponibili. Su questo piano la distanza del Pd, ma direi di tutta la sinistra, dai 5 Stelle rimane, per restare alle stelle, siderale. Ciò che distingue i 5 Stelle, come è stato più volte ricordato, è la loro concezione autoreferenziale e monca di democrazia, sottratta al filtro della rappresentanza e dell’equilibrio dei poteri, sostituiti dall’approvazione eterodiretta di una piattaforma informatica privata. Del resto, venendo al programma concreto, la distanza dagli obiettivi di una sinistra di governo risulta ancora più marcata.
Il primo di questi obiettivi non può essere che una politica di stampo europeista e occidentale. Rispetto alla quale la posizione del partito di Di Maio è a dir poco ambigua. È vero che il progetto di uscita dall’euro è rientrato sullo sfondo, ma non si è mai ascoltata una parola ferma e chiara contro la politica filorussa di Salvini.
Il secondo obiettivo che si richiede a un governo di sinistra deve essere una politica sociale di sviluppo e d’investimenti che rilanci l’occupazione, soprattutto nel Mezzogiorno. Anche su questo punto la posizione dei 5 Stelle va in altra direzione. Certo, la proposta di un reddito di cittadinanza, comunque declinata, risponde a una preoccupazione fondata sull’allargarsi della fascia della povertà. Ma il quadro in cui è inserita è lontano dal favorire un rilancio dell’economia, come appare anche dall’imbarazzante indecisione su Tav e Ilva.
Il terzo obiettivo della sinistra è un rinnovato impegno, finanziario e strategico, su formazione e ricerca. È un punto cruciale su cui non è possibile arretrare. Ebbene, anche su di esso la proposta dell’attuale governo non va al di là dell’intenzione di abolire la " Buona scuola". Effettivamente, l’inadeguatezza di tale riforma è palese. Ma essa va superata in avanti, non con un passo indietro. E invece, di fronte alle difficoltà strutturali della scuola e all’emigrazione di massa dei laureati italiani, l’atteggiamento del governo è di sordità.
La conclusione è che il Pd non deve isolarsi e deve ritornare a parlare con chiunque, tranne che con la destra razzista e neofascista. Ma a partire da un progetto, politico e culturale, autonomo.

Il Fatto 7.8.18
Ungheria
Bimbi di 3 anni obbligati all’Educazione patriottica
di Giunio Panarelli


Il governo ungherese guidato da Viktor Orban ha sancito con un decreto promulgato il 25 luglio che sarà obbligatoria anche per i bambini di età tra i tre e i sette anni la materia, introdotta l’anno scorso per la scuola primaria e secondaria, nota come “Educazione patriottica”. Una disciplina che ha come basi teoriche “la consapevolezza dell’identità nazionale, i valori culturali cristiani, l’amore per la patria e l’unione della patria e della famiglia” e che si propone nella pratica scolastica di far imparare agli studenti, a seconda dell’età, detti tradizionali, poesie e canzoni ispirate dal folclore ungherese.
A rivelare il contenuto del decreto è stato il giornale d’opposizione Nepszavà. Sull’argomento è intervenuta Anna Bakony, importante rappresentante della Società pedagogica ungherese che ha espresso a nome degli insegnati ungheresi lo stupore di fronte al provvedimento dichiarando: “Non ne sappiamo nulla e per quanto ne sappiamo non si sono consultati con nessuno”. Poi ha aggiunto: “Al momento, leggende e miti ungheresi hanno già un ruolo nell’educazione della prima infanzia e non è chiaro per ordine di chi e perché questo dovrebbe essere rafforzato. Temiamo strumentalizzazioni”.
Prosegue dunque il programma politico del premier Orban che già tempo fa aveva manifestato l’intenzione di rendere obbligatoria l’educazione militare nelle scuole.
Riconfermato alla guida del Paese dalle elezioni dell’aprile scorso, che hanno assicurato al suo partito Fidesz il 49% dei consensi, il leader magiaro aveva già messo in chiaro le sue idee nel 2012 con l’entrata in vigore della nuova Costituzione. Secondo la Carta adottata sei anni fa il cristianesimo e la nazione sono da ritenere valori fondamentali per il Paese. I suoi oppositori, che da tempo lo accusano apertamente di fascismo e nazionalismo, da ieri hanno un motivo in più.

Il Fatto 7.8.18
Assad e i suoi padrini: la Siria dopo la guerra ha un padrone solo
Sette anni - Chiusi in una sacca i ribelli a Nord, quasi debellata l’Isis, l’intesa coi curdi restituisce al dittatore di Damasco il pieno controllo
Assad e i suoi padrini: la Siria dopo la guerra ha un padrone solo
di Pierfrancesco Curzi


Nessuna operazione militare a tappeto su Idlib. Quella che, fino a pochi mesi fa, sembrava una soluzione obbligata da parte della coalizione in appoggio al presidente siriano Bashar al-Assad, potrebbe essere accantonata o modificata. Almeno per ora. Mosca e Teheran sembrano riuscite a calmare Assad, desideroso di spazzare via qualsiasi resistenza interna, imponendo un piano per limitare gli effetti collaterali. Duro con i gruppi terroristici sunniti, Daesh ma non solo, dialogante coi curdi, Assad è costretto a negoziare con la parte ribelle protetta da Erdogan.
Osservando la mappa attuale ci si accorge di come le ‘macchie’ che un tempo rappresentavano il controllo delle fazioni islamiste radicali e quelle occupate dal Califfato siano, a parte Idlib, quasi scomparse. Piccole sacche di resistenza cancellate dal risiko siriano, dove Assad sembra ormai aver vinto la sua guerra interna, iniziata quasi 7 anni e mezzo fa. Vincente, ma con le mani legate dai suoi partner, senza cui oggi non sarebbe a questo punto. Proprio i creditori di Damasco stanno dettando la linea applicata durante gli accordi di Astana, pronti a essere rinegoziati a settembre.
La Russia ha il controllo totale della situazione, al punto da aver relegato Washington a un mero ruolo di comprimario. L’impegno confuso della Casa Bianca in Medio Oriente mostra pro e contro: impotente in Siria, protagonista assoluta in Iraq dove la situazione resta comunque complessa. A poco servono le dichiarazioni di facciata: “Siamo pronti a collaborare con gli Stati Uniti sulle misure da adottare per la stabilizzazione della Siria e della sua ricostruzione”, ha affermato il comandante dello Stato maggiore delle forze armate russe, Valery Gerasimov, rivolto al suo omologo americano, il generale Joseph Dunford. In realtà Putin e il suo ministro degli Esteri, Lavrov, non intendono spartire la torta col rivale storico.
La strategia per Idlib studiata a tavolino da Mosca e Teheran punta a neutralizzare i potenziali jihadisti ‘reclusi’ nella provincia a nord della Siria attraverso azioni mirate. Nessuna task-force militare, nessuna riedizione dei blitz su Aleppo ed Homs a esempio. In questo senso vanno viste le cosiddette ‘Postazioni di osservazione’, una quindicina di punti speciali realizzati attorno al perimetro dell’area di Idlib. Una morsa attorno alle milizie sunnite più oltranziste, tra cui gli ex al-Nusra, diventati oggi, attraverso modifiche nominative più che sostanziali, Hayat Tahrir al-Sham (Hts).
Il ruolo è doppiamente strategico, una tattica allo specchio nei confronti delle 12 postazioni già erette dalla Turchia. La doppia linea di controllo servirà per sradicare i gruppi islamisti su due fronti. Da una parte Damasco e i suoi alleati, dall’altra Ankara, pronta ad armare i suoi ‘ribelli’, in particolare l’Esercito siriano libero (Fsa) per assumere il controllo della provincia più a ridosso del suo confine nazionale, tra le regioni di Hatay e Gaziantep. Tra gli irriducibili, non solo a Idlib, ci sono ancora sparute cellule dell’Isis. La più ostica è a sud, nel deserto di Suweida, al confine con Giordania e Israele. Negli ultimi giorni il regime di Damasco ha bombardato duramente l’area sotto controllo Daesh, provocando almeno 250 vittime. Un’azione resa necessaria dal fallimento della trattativa posta in essere da Mosca per liberare una trentina di ostaggi.
Ieri intanto, lo Stato Islamico ha diffuso un video con la decapitazione di un 19enne di origini druse. Per risolvere la questione degli ostaggi, i curdi dell’Sdf (Forze siriane democratiche) hanno detto di essere pronti a scambiare prigionieri dell’Isis. A proposito dei curdi, l’unico fronte aperto al dialogo da Assad è proprio con loro. Il 28 luglio, a Damasco, c’è stata la prima riunione ufficiale delle delegazioni trattanti. I curdi, per chiudere la partita interna, chiedono di veder soddisfatti 4 punti: un ministero importante nel futuro governo, possibilmente quello del petrolio; l’insegnamento del curdo come seconda lingua oltre l’arabo nelle scuole; un documento d’identità dedicato alla popolazione e l’integrazione della milizia del Ypg nell’esercito siriano. Assad ci sta pensando.

Il Fatto 7.8.18
“Il mondo del libro mica è il Salone del Mobile”
Elisabetta Sgarbi: “Torino è viva, Milano invece sconfitta”
di Silvia D’Onghia


“Esiste un tema di ‘povertà educativa’ e tutti gli uomini di buona volontà sono chiamati a dire il vero e a opporsi al falso su temi fondamentali della vita pubblica, come ad esempio l’immigrazione. Ciascuno deve fare il proprio, ovviamente anche gli editori e i giornali”. Elisabetta Sgarbi, mente e anima de La Nave di Teseo, ha da poco concluso il suo Festival, la Milanesiana, che quest’anno ha toccato – oltre a Milano – Ascoli Piceno, Ferrara, Cancelli, Collodi, Bormio, Verbania, Torino e Firenze. “La ricchezza dei contenuti – spiega – con nomi importanti del mondo letterario, musicale e cinematografico, si è sposata a collaborazioni di grande qualità”.
Perché le persone affollano i Festival letterari?
Non tutti i Festival, quelli che sono in grado di gettare radici, di costruirsi un’identità. Non mi stupisce: per lo stesso motivo si va a un concerto invece di ascoltare la musica nelle cuffie. Esiste un bisogno irripetibile di essere testimoni di un accadimento unico e condiviso da una comunità. E, per alcuni scrittori, vale anche un principio di autorevolezza: vado ad ascoltare chi può dire qualcosa di rilevante sulla mia vita. Infine credo sia importante decontestualizzare: ad esempio nella Mostra della Collezione Cavallini Sgarbi a Ferrara, prorogata sino a settembre, ho invitato scrittori a leggere i loro libri in mostra, davanti a quadri da loro scelti. Questo spostamento rispetto alla normalità, spesso proprio anche dei festival, genera una differente e più profonda attenzione.
Eppure in Italia si legge sempre meno…
Direi che sta cambiando la geografia della vendita dei libri. Ci sono canali come l’e-commerce in crescita esponenziale e le librerie tradizionali in difficoltà. E ora anche le catene (di proprietà di gruppi editoriali) faticano. A mio parere – ma questa è una battaglia che La Nave di Teseo ha fatto, perdendola – dipende da una particolare configurazione del mercato italiano, segnato da una forte concentrazione editoriale.
Nelle ultime settimane le classifiche sono “drogate” dal Premio Strega. Altrimenti si venderebbero solo Camilleri e gli altri giallisti. Cosa si può fare per riavvicinare le persone alla lettura?
Anzitutto le classifiche rappresentano una percentuale piuttosto piccola del mercato dei libri. I segnali di allarme – semmai – non sono nelle top ten ma molto più in basso. E comunque, quello che ha vinto lo Strega è un libro letterario, quindi mi pare una buona cosa che sia in vetta. C’è stabilmente Paolo Giordano, c’è Dicker con La scomparsa di Stephanie Mailer, è un romanzo di grande respiro. E poi i gialli sono una realtà nobile della letteratura, non minore: Camilleri e De Giovanni sono due classici del genere, usano bene i meccanismi del giallo per raccontare il mondo intorno a noi.
Il ministro Bonisoli ha affermato che dobbiamo migliorare l’attenzione verso i giovani. Come?
C’è stato un momento in cui la politica e gli organi competenti dovevano intervenire nel mercato editoriale italiano (come era accaduto in Francia), e non l’hanno fatto. I giovani faranno la loro strada e, se ne saranno capaci, cambieranno le cose.
Non ci sono più gli Eco, i Tabucchi, i Fo. Quando Roberto Saviano si appella agli intellettuali per contrastare la nuova ondata di razzismo, a chi si rivolge davvero?
Anzitutto il primo appello lo ha fatto Sandro Veronesi, sul Corriere, chiedendo a Saviano di andare con lui su una nave Ong. Esiste un tema di “povertà educativa” e tutti gli uomini di buona volontà sono chiamati a dire il vero e a opporsi al falso su temi fondamentali della vita pubblica.
Due Saloni del libro, entrambi in crisi: Torino con un enorme buco di bilancio, Milano in perdita (tanto che a settembre l’ente Fiera deciderà il da farsi). È stato un azzardo sdoppiare gli appuntamenti?
L’errore – lo dissi all’alba di questa vicenda – fu di alcuni editori e dell’Aie che scelsero la via della contrapposizione a Torino come arma di affermazione per Milano. Si scommise sulla morte di Torino e invece sì assistette alla sconfitta di Milano. Rimango convinta che il capoluogo lombardo possa avere il suo Salone: lo vedrei a febbraio, ma cercherei di far capire agli organizzatori che se vogliono una adesione numericamente e qualitativamente importante degli editori devono abbassare i costi di partecipazione. Il mondo del libro non è il Salone del Mobile.
La rivoluzione della Nave di Teseo, anche qui una scommessa. Si sente di fare un bilancio, a tre anni dalla sua fondazione?
La rivoluzione mi pare una parola bella. La Nave di Teseo ora è un po’ più grande, avendo accolto a bordo Baldini + Castoldi, la Tartaruga, Linus, Oblomov. Ma un bilancio vero – a parte quelli contabili – ha bisogno di tempi più lunghi, l’editoria si giudica sulla durata. Ci sono tanti segni positivi, che mi rendono fiduciosa, pur con la mia naturale circospezione da farmacista (quale sono).

Corriere 7.8.18
Italiani che tradivano ebrei italiani in fuga
di Antonio Carioti


C’è anche l’arresto di Liliana Segre, ex deportata e senatrice a vita, tra le vicende rievocate nel libro di Franco Giannantoni La Shoah, delitto italiano (Edizioni Amici della Resistenza, pp. 285, e 13) frutto di minuziose ricerche sul caso di Varese. Nel dicembre 1943 la ragazza, allora tredicenne, e il padre Alberto (poi morto ad Auschwitz) erano riusciti a raggiungere la Svizzera, ma furono respinti da un ufficiale filotedesco della guardia confinaria elvetica. Poi furono i finanzieri italiani che li spogliarono di ogni bene e li consegnarono ai nazisti. E qui veniamo al punto doloroso e rimosso su cui insiste la documentata ricostruzione di Giannantoni. A fronte dei nostri connazionali che si adoperarono per offrire soccorso agli ebrei braccati, troviamo la fauna variegata di coloro che collaborarono alla persecuzione: le spie prezzolate e quelle occasionali, magari mosse da rancori personali; gli appartenenti alle strutture poliziesche della Repubblica sociale fascista; i solerti burocrati che si adeguarono alle direttive dei tedeschi. Altro che «italiani brava gente», ammonisce Giannantoni: sarebbe ora di guardare in faccia i lati peggiori del nostro passato.

Corriere 7.8.18
Vanessa Redgrave
La diva inglese sarà celebrata alla Mostra: «Non siamo noi attori a fare tutto»
Un Leone per V anessa
Premio alla carriera per Redgrave:
«Una vita senza rimorsi o rimpianti»
intervista di Valerio Cappelli


Una leonessa a Venezia. Vanessa Redgrave è uno spirito libero. Una donna forte, vulnerabile, coraggiosa, pacata nei modi, ruvida nella sostanza, poco flessibile. Sarà lei, 81 anni, nata in una celebre famiglia di attori (il Clan Redgrave, lo chiamavano) a ricevere il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del cinema.
Cominciamo dai ricordi?
«Ne ho tanti, nel 1994 vinsi la Coppa Volpi con Little Odessa di James Gray. Una ventina di anni prima ci capitò, a me e a Franco Nero, La vacanza di Tinto Brass, girato tutto nel Veneto, dove recitai con molta forza di volontà, io inglese, in dialetto veneziano. Ci portarono a visitare un manicomio dove tante donne venivano buttate senza pietà: giovani, più anziane, c’era chi doveva nascondere una figlia che lo Stato cattolico non voleva che nascesse, chi era finita lì dopo essere stata licenziata per essere andata in vacanza con la famiglia. Tinto Brass era un po’ anarchico e ne fece un lavoro sperimentale. In Veneto poi ho girato Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri, uno dei più grandi registi che l’Italia abbia avuto, e lo devo dire io, che sono straniera, visto che voi l’avete dimenticato».
Il Leone alla carriera spinge a tirare le somme.
«Vi dico subito che non ho né rimpianti né rimorsi. Ho lavorato con grandi registi, non importa se per un ruolo grande o piccolo. In Giulia avevo 6 minuti, non mi sembra un brutto film (due donne sullo sfondo della Seconda guerra mondiale, lei vinse l’Oscar come migliore attrice non protagonista, ndr). Fred Zinnemann il regista aveva tecnici bravissimi. Non siamo solo noi attori a fare il cinema: siamo parte di un tutto. Io ammiro chi ama il cinema e non le celebrità. Non vorrei mai seguire le mode, la parola vanità non ha alcun significato per me».
Lei è stata Maria Stuarda regina di Scozia. Quale viene fuori dai tanti film sulla corona inglese?
«Se mi parla della corona, il mio ricordo più vivido va al principe Carlo che due anni fa, per il centenario della Somme, l’offensiva degli anglo-francesi nella Prima guerra mondiale per sfondare le linee tedesche, nei luoghi della battaglia recitò con grande profondità di spirito insieme con mia figlia Joely Richardson».
Quando la chiamano Vanessa la pasionaria…
«Io non faccio politica, ma parlo di diritti umani. Pochi giorni fa presentando Sea Sorrow-Il dolore del mare, il mio documentario sulla condizione dei profughi, ho detto che in Europa è stata violata la Convenzione Onu del 1951 sullo stato dei rifugiati. Ho avuto uno shock di rabbia per questa profonda ingiustizia, e farò tutto ciò che è nelle mie possibilità per denunciare questa vicenda senza fine: è il mio tributo a chi cerca aiuto. Nei prossimi anni l’Europa spenderà tanti soldi non per integrare e proteggere i migranti, ma per respingerli. Spero che nascerà un movimento per portare l’Italia davanti alla Corte internazionale, ma il problema riguarda anche noi in Inghilterra».
Per il regista Paolo Taviani, in Italia c’è un rischio di fascismo.
«Purtroppo non sono in molti che la pensano come lui. Ma il cambiamento è anche nelle persone, quasi antropologico. Ieri per strada un vecchio col bastone sulle strisce pedonali ha imprecato contro l’auto che lo stava mettendo sotto, e l’automobilista l’ha insultato. Io credo che questo sia il segno di tante cose. Vedo tanta aggressività brutale».
Come se ne esce?
«Io sono una cittadina. Esistono diritti umani, diritti sociali. Per fortuna ci sono ancora deputati che hanno a cuore la giustizia in ogni partito, ma quasi mai un governo rappresenta davvero un popolo. Bisogna occuparsi dei bisogni della gente. La mia generazione ha fatto molto, ma ha fallito. In Italia dopo il fascismo avete promulgato leggi che non permettevano il ritorno a quell’epoca. Eppure guardate quello che stiamo vivendo, e così negli Stati Uniti. La rinascita deve venire dall’educazione. Devo trasmettere quello che, grazie ai miei genitori, ho imparato».

Repubblica 7.8.18
I canti di donna contro i demoni perché l’Europa è femmina
Nell’abbazia di Viboldone, dove gli aerei su Linate e il traffico cercano di penetrare il silenzio millenario, vale ancora la regola: "Ascolta l’altro"
di Paolo Rumiz


VIBOLDONE (LOMBARDIA) Il secondo, sorprendente registro sonoro del viaggio è il rombo degli atterraggi su Linate. I jet sorvolano uno dopo l’altro l’abbazia femminile di Viboldone, che una volta era campagna e oggi è periferia di Milano. Sembra lo facciano apposta. Pare che tutta la modernità si coalizzi contro quest’isola di pace, per estirparne il silenzio. Perché non ci sono solo gli aerei. Da un lato hai il fiume di macchine e camion dell’Autostrada del Sole, dall’altro le Frecce rosse dell’alta velocità. E poi la via Emilia, e le rotonde, e i tralicci incombenti dell’alta tensione, e lo sgommare della malavita di periferia che si sveglia di notte, e gli ingorghi attorno a cubo blu dell’Ikea e altre cattedrali del consumo.
Incastrato fra gli ultimi condomini della metropoli e le prime risaie, il campanile del monastero perfora il cielo basso, carico di pioggia, come una torre di guardia. Solo che non hai orde islamiche che assediano l’abbazia. Lo smantellamento dell’invisibile ce lo siamo inflitto da soli. Eppure il sacro, che diresti annichilito dalla macchina del consumo, ti fulmina appena entri nella navata medievale coperta di affreschi di epoca giottesca. Sei salito su una scialuppa di salvataggio, sei stato accolto.
Senti di essere passato da un mondo dove Dio è superfluo a un mondo impossibile da comprendere in assenza di Lui.
Europa è femmina, e si è rifugiata qui, esule di un’umanità che sveglia vecchi demoni agitando il Vangelo. Ha la faccia delle piccole monache che nel coro intonano i canti dell’ora Sesta, "Invocando il tuo nome, narriamo le tue meraviglie". Ha il sorriso di suor Maria Antonietta che serve un ottimo pranzo a me, alla mia compagna Irene e ad altri tre ospiti del monastero. Ha lo sguardo materno della badessa Maria Ignazia Angelini («devi assolutamente sentirla», mi hanno esortato gli amici del monastero di Bose) quando spiega che il primo comandamento di Benedetto si chiama "Ascolto". Ascolto dell’Altro. Dell’essere umano e della sua voce.
Piove sulle risaie e Viboldone sembra dirti che oggi la vera terra di missione non è l’Africa ma questa Europa che perde la bussola, riduce la fede a estetica, gioca con miasmi di morte, e dove i Paesi che hanno voluto l’Unione sembrano i primi a volerla distruggere. Qui Benedetto, letto al femminile, svela tutta la forza e la modernità del suo messaggio, intatto dopo quindici secoli. Non è un caso che uomini grandi come il cardinale Carlo Maria Martini, don Luisito Bianchi, prete operaio e partigiano, o l’abate Escarré di Monserrat, ricercato da Francisco Franco, abbiano cercato rifugio in questo perimetro, dove il messaggio è esaltato anziché umiliato dal frastuono del mondo.
«Benedetto scopre l’importanza della manualità come strumento di elevazione. Qui gli attrezzi di cucina sono importanti quanto i vasi sacri dell’altare. Ma – sorride madre Ignazia – in troppi vi leggono solo l’accento sull’efficienza dell’economia, e dimenticano la sua capacità di valorizzare l’uomo in quanto tale, non importa se "barbaro".
Dimenticano l’esortazione ad accogliere, ospitare, mettere in rete i diversi. In una parola, la sua infinita sapienza relazionale. È lui che trasforma l’Hostis in
Hospes, il nemico in ospite.
Illuminante, nel libro di Gregorio Magno sulla vita del santo, l’episodio in cui Benedetto smonta con la sua mitezza l’aggressività e la diffidenza di re Totila...».
Il paesaggio lombardo nasce qui. La sua armonia idraulica, l’equilibrio di acqua e terra, le essenze della "piantata lombarda" - platani, gelsi, salici, ciascuno con la sua precisa funzione - sono letteralmente scolpiti dal monachesimo, racconta Franco Lacchini, un ex sessantottino innamorato di Viboldone, che con altri volontari si offre come narratore ai visitatori. «Guardatevi attorno – esorta – siamo immersi nelle marcite cistercensi», e indica ciò che rimane di una rete di canalizzazioni che, consentendo un’irrigazione minima costante attraverso opportune pendenze, impediva all’acqua di ghiacciare e consentiva fino a sette raccolti l’anno di foraggio, «che era la benzina di allora, perché nutriva gli animali da fatica».
«Con la meccanizzazione, la storia di un millennio è stata liquidata in un lampo. Fino a trent’anni fa la cascina era abitata da 250 salariati agricoli, oggi è una nobilissima struttura semivuota in attesa di trasformarsi in villette a schiera.
Finita anche la pastorizia, che pure nel Cinquecento aveva prodotto una lana così buona da far concorrenza alle Fiandre. È rimasto qualche scampolo di riso, ma il mais non si mangia più, si trasforma in bio-diesel. I bulldozer hanno spianato il saliscendi delle marcite a filo di laser. I canali, anche loro, kaputt, perché l’acqua si spara.
Le api, scomparse. Ma l’inprinting benedettino è ancora così forte da essere visibile ovunque».
Anche la chiesa sarebbe scomparsa se a difenderla non ci fossero le benedettine, che pure sono arrivate qui per ultime, chiamate dal cardinale Schuster durante l’ultima guerra.
Costruita nel Millecento da una confraternita laica, gli Umiliati, mostra una stupenda bicromia di intonaco e mattoni tipicamente cistercense: tre chiavi di volta gotiche su impianto romanico che reggono un cielo teologico affrescato in epoca giottesca. Nell’abside, la crocefissione più femminile che abbia mai visto. La Madonna che sviene, l’urlo di Maddalena, le donne che seguono Lui fino in cima al Golgota. Anche il peccato originale è vissuto al femminile: la mela ce l’ha Adamo, mentre Eva con i capelli sciolti guarda il crocefisso come liberata.
La sessuofobia della Controriforma è ancora di là da venire: sui muri perimetrali non una, ma ben nove maternità, di cui una dove vedi una Maria con seni generosi bene in vista. Che armonia, che grande metafora dell’accoglienza in tutto questo!
Femminile il chiacchiericcio sommesso delle restauratrici al lavoro sopra il portale d’ingresso. Femminile il canto delle monache in nero ai sue lati del coro. Femminile le mensa che viene preparata per gli ospiti con una bottiglia di sanguigna bonarda al centro. Femminile persino il trillo serale delle rondini.
Mentre il Maligno alza reticolati e torna a fare a pezzi Europa, qui l’ultima preghiera è «per coloro che per persecuzione o carestia sono obbligati a lasciare il loro Paese». E mentre la badessa ci saluta con affetto prima della consueta visita serale alle sorelle anziane malate, sento che la Chiesa avrebbe tutto da guadagnare rinunciando a una fetta della sua egemonia maschile. Annotta, ultime preghiere. «Buio è il cammino.
Cercano acqua i poveri e non la trovano».
– 3. Continua

Repubblica 7.8.18
Meucci, il genio rimasto povero per Garibaldi
Camminando per le nostre città abbiamo perso la memoria dei nomi delle vie: uomini e donne che credevano in un futuro migliore per l’Italia. Maurizio Maggiani ci accompagna a riscoprire quelle vite. Al di là delle versioni ufficiali
di Maurizio Maggiani


Ho la mia casa in piazza delle Vigne, il forno in vico dell’Amor Perfetto, la farmacia in via della Posta Vecchia, il supermercato in Canneto il Curto, e fin qui vado spedito nel persistere delle ragioni pratiche della mia città, ma quando salgo per via Cairoli verso largo Bezzecca, e di lì per piazza Mentana su per via Ugo Bassi per tagliare in piazza dei Martiri, allora rallento e ai cantoni mi vien voglia di alzare gli occhi dal marciapiedi su per i muri fino alla targa, lì dove appiccati alla pietra ci sono nomi che un tempo la città ha ritenuto memorabili e ora vanno sfarinandosi nella materia del niente; la pietra conserva la morte non conserva la vita, se qualcosa ancora vive è nello sguardo di chi alza la testa ai cantoni, e ricorda, e porta memoria. Mi ha insegnato mio padre a leggere le targhe delle strade prima ancora che imparassi a leggere a scuola, io sillabavo e lui raccontava; se ne faceva una passione, soprattutto quando andavamo in gita e le targhe portavano nomi di uomini mai prima sentiti; le passioni non passano invano, e io ancora adesso sillabo e racconto, mio padre non c’è più ma la mia voce è la sua.
Via Antonio Meucci, 1808- 1889, inventore e patriota, Lugo di Romagna, RA.
Lugo a un palmo sopra il mare gongola nella calura torpida che gli vaporano intorno i canali, nella piazza l’ala di Baracca si inerpica nell’aria color gelato al limone, è quasi mezzogiorno e nel mercato le pesche grosse come bocce da petanque sono scese a un euro e cinquanta, chiedo di via Fermi, c’è della strada da fare. Periferia industriosa di Romagna, odore di caramelle, alta tensione e sottaceti, via Fermi fa angolo con via Meucci non si può sbagliare. E mi confondo invece, perché via Meucci sono tre strade che stringono a ferro di cavallo quel poveraccio di Fermi, nel giuggiolone del repubblicanesimo irredento, Meucci vale tre Fermi.
Meucci, patriota inventore.
Meucci è nato da un brav’uomo di San Frediano, e non era che un bravo ragazzo con lo sbuzzo per l’arte e la meccanica, se lo avessero lasciato in pace se ne sarebbe restato buono a pitturare fondali e inchiodare cantinelle nei bei teatri fiorentini. Ma s’era nel tempo della Restaurazione, la Restaurazione si nutriva di paranoia e non lasciava per principio in pace nessuno, cosicché non aveva ancora quindici anni che prese confidenza con la scodella del pane annacquato delle sue patrie galere, e perché aveva pasticciato con dei fuochi d’artificio, o perché s’era dimenticato di andare a lavorare, o perché era stato di mano lesta con una ragazza lesta anche lei. E sarebbe rimasto un bravo ragazzo anche a pane e acqua, senonché nei suoi giorni le galere erano zeppe di rivoluzionari e rivoltosi, i carbonari, i deputati delle passate repubbliche, gli ufficiali napoleonici; le galere d’Italia erano una vasta ed efficiente scuola quadri, a vent’anni Meucci era già formato militante della Giovine Italia e contumace, essendo ragazzo vivace oltreché sveglio, prima di tagliare la corda per le Americhe se n’è andato dall’intendente di polizia di San Frediano a strappargli sotto i baffi il bel ritratto del granduca.
È partito per Cuba con una compagnia di teatro d’opera, al pari della galera, il teatro era politicamente mal frequentato. Siccome il viaggio per mare lo annoiava, passava il tempo a fantasticare cose mai viste.
Lo sanno tutti che ha inventato il telefono, lo sanno anche gli americani; già, gli americani, che a breve termine hanno la memoria lunga ci hanno pensato su cent’anni ma infine hanno proclamato al mondo che il telefono è di Meucci e Bell è stato solo una meritoria iena del capitalismo di rapina. Ma sì, ha inventato il telefono, l’ha fatto senza intenzione, cercava una cura elettrica per l’artrite di sua moglie e trafficando con i fili, le batterie e gli isolanti di cartone ha sentito qualcosa, ha lasciato perdere per un po’ l’artrite e ha fatto il primo telefono; Meucci aveva il telefono in casa già nel 1860 e lo usava per parlare dal laboratorio con sua moglie che continuava a starsene a letto invalida, la cura per l’artrite non l’ha mai inventata. Ma con il senno del poi non è che come invenzione sia stata la sua opera più grande, per inciso da ragazzo aveva già inventato l’interfono a tubo; tanto per dire ha inventato la gazzosa, anzi, meglio della gazzosa, ha inventato la bibita frizzante arricchita di vitamine; ha anche inventato i sughi pronti in scatola, e forse una bella pastasciutta e una bottiglia di aranciata fresca sono meglio di un telefono in tasca. Questo è stato il suo periodo creativo gastronomico, breve; in verità aveva già salvato l’Avana, Cuba, dal colera inventando i filtri per l’acqua, la caraffa che ho qui davanti con il filtro che mi risparmia dalle coliche renali bisognerebbe chiamarla caraffa Meucci. E a Cuba aveva inventato anche un sistema moderno e igienico per la conservazione dei cadaveri; sembra una cosa da poco, ma gli immigrati nelle americhe bramavano più di ogni altra cosa essere seppelliti a casa loro, le celle frigorifere erano ancora di là da venire e le spoglie mortali dovevan far viaggi per mare lunghi settimane. Ma forse anche questa è una delle sue idee minori, come in fin dei conti la galvanizzazione dei metalli, la zincatura, il trattamento antiruggine per capirci, o la carta da giornale che non si inzuppa quando piove; la grande idea che gli ha dato a lungo da vivere gli è venuta andando per mare da Cuba a New York, la famosa candela stearica di Meucci.
Quanti miliardi di miliardi di candele meucciane si sono vendute nel mondo a un centesimo l’una e ancora da qualche parte si vendono, nei santuari di sicuro. La genialità della candela di Meucci è che non fa fumo, non ammorba l’aria, non affumica le pareti e non deturpa i volti dei santi e dei cristiani in generale, e in più dà il doppio della luce della concorrenza; s’era nell’esatta metà dell’Ottocento, le candele facevano andare il mondo e Meucci ci mise su una fabbrica, avrebbe potuto diventare il magnate globale della stearica. In effetti Meucci era di una genialità così multiforme e pratica che avrebbe potuto diventare qualunque cosa nel genere dei brillanti fondatori di imperi industriali, ed è diventato un vecchio che è potuto morire nella sua casetta di Staten Island, l’isola ai margini di New York, il primo ghetto degli immigrati italiani, solo perché chi gliela aveva pignorata era persona di cuore gentile. Non che a Meucci non piacesse fare soldi, è che quel che gli piaceva più di tutto era la repubblica e la fratellanza, la repubblica in Italia e la fratellanza nell’universo; e quel che aveva lo spendeva per quello, così che non gliene rimaneva per brevettare o rinnovare i brevetti, non ne aveva abbastanza per pagarsi i consulenti per brevettare al meglio, non ne aveva per i funzionari e gli avvocati, per comprarsi un equo giudizio.
Spendeva e spandeva per la rivoluzione italiana, sosteneva la rivoluzione di Mazzini e finanziava la Giovine Italia, aderiva alla rivoluzione di Garibaldi e gli comprava i fucili, nella sua fabbrica di candele, nella sua birreria, nel suo ristorante di specialità fiorentine, nel suo laboratorio, ha dato da lavorare agli esuli di tutte le battaglie perse, dalla Repubblica Romana a Mentana. Si sa che il generale Garibaldi, quando ha riparato a New York dopo la fine della Repubblica Romana, s’è guadagnato da vivere fabbricando candele meucciane, si sa che Meucci se l’è tenuto in casa come un fratello, e così adesso quella casetta di Staten Island è il Garibaldi’s and Meucci’s Museum. Ci sono poche cose, le solite cose che il Generale lasciava qua e là per il mondo, ma una è commovente e unica.
È la bandiera di battaglia del 39° reggimento New York, la mitica, per i newyorchesi, Garibaldi Guard, che si è battuta con grande onore nella guerra di secessione, naturalmente al fianco degli abrogazionisti. È un tricolore con nella banda bianca la scritta Dio e Popolo, è la bandiera della Repubblica Romana; il 39° era composto di esuli politici italiani, rivoluzionari repubblicani, le divise e i moschetti ce li ha messi Meucci, la bandiera Giuseppe Mazzini, l’addestramento il Generale.
– 1. Continua

Repubblica Salute 7.8.18
Siete a rischio depressione? Sollevate dei pesi
di Francesco Cro

L’allenamento con i pesi può avere un’importante azione terapeutica riducendo significativamente i sintomi della depressione.
Emerge da uno studio coordinato da Brett Gordon, del Dipartimento di Educazione fisica e scienze dello sport dell’università di Limerick (Irlanda), che ha coinvolto anche ricercatori del Karolinska di Stoccolma e dell’università statale dello Iowa. Dopo aver analizzato i dati di oltre 1800 pazienti per valutare l’impatto dell’allenamento sotto carico sui sintomi depressivi, gli studiosi sono giunti alla conclusione che il sollevamento pesi può essere un valido aiuto, addirittura un’alternativa alle terapie classiche. Questo effetto è indipendente da volume degli esercizi, aumento di forza muscolare e salute generale, mentale e fisica. Lo stesso team aveva già evidenziato, su oltre 900 soggetti, un effetto terapeutico dell’esercizio con i pesi sui sintomi dell’ansia, mentre un gruppo di fisiatri dell’università del Saskatchewan (Canada) aveva segnalato l’efficacia dei programmi di potenziamento muscolare su alcune manifestazioni della fibromialgia, in particolare dolore, contrattura e debolezza.
L’azione benefica dell’allenamento con i pesi sul piano fisico era già nota, ma nessuno ne aveva mai dimostrato gli effetti in ambito psichiatrico.
L’esercizio contro resistenza aumenta il Bdnf (fattore neurotrofico cerebrale), molecola proteica nel cervello dei mammiferi che favorisce la crescita delle cellule nervose e ne previene degenerazione e morte. Bassi livelli di Bdnf si trovano nell’invecchiamento cerebrale, nell’obesità, nella depressione e nell’Alzheimer. Per aumentarli è opportuno associare all’esercizio fisico anche la restrizione calorica (soprattutto di grassi saturi e zuccheri raffinati) e la perdita di peso, oltre all’esposizione al sole, che favorisce la produzione di vitamina D. Nei 15-30 minuti che seguono una seduta di allenamento si innalzano i livelli di ormoni anabolici (che producono aumento della massa muscolare) come il testosterone e il GH (ormone della crescita), l’insulina e l’IGF-1 (fattore di crescita insulino-simile), ma anche catabolici come il cortisolo, che induce il consumo delle riserve. La risposta ormonale anabolica è più intensa nei giovani, ma c’è anche negli anziani. Ed è importante anche l’orario in cui vengono eseguiti gli esercizi: chi si allena sempre alla stessa ora avrà la migliore risposta ormonale e anabolica proprio in quella fase del giorno.

Repubblica Salute 7.8.18
Debutto boom per la medicina dei casi impossibili
di Roberto Nepoti


Ha debuttato con grande successo The Good Doctor, in onda tutti i martedì sulla Rai, tre episodi per serata: l’audience ha superato i cinque milioni di spettatori, con picchi superiori al 30% di share.
Proposta come un "medical drama" a puntate di nuova concezione, in realtà la serie (la prima stagione è di 18 episodi, trasmessi in America dal canale Abc) presenta novità più apparenti che reali. La prima è il protagonista Shaun Murphy, giovane dottore autistico con la sindrome del savant che arriva in California dal nativo Wyoming per specializzarsi nel prestigioso dipartimento di chirurgia del St. Bonaventure Hospital di San Jose. Shaun è dotato di una straordinaria memoria fotografica, che lo aiuta a formulare diagnosi infallibili; però deve scontrarsi con la diffidenza dei colleghi, mentre lo sostiene il direttore dell’ospedale, Aaaron Glassman, che lo conosce fin da quando era piccolo e ne sa il valore. Altra novità sono i diagrammi e le grafiche che compaiono sullo schermo durante le diagnosi, con l’evidente intenzione di attribuirvi "scientificità". Se guardi più attentamente, però, ciascun episodio è imperniato su qualche caso clinico eccezionale, difficilissimo da capire e su cui è ancor più arduo intervenire. In puro stile Dottor House, insomma: e non stupisce che il patron delle due serie, David Shore, sia il medesimo (anche se, poi, all’origine di questa c’è una serie coreana del 2013). Episodio dopo episodio il bravo dottore deve affrontare operazioni impossibili, partorienti col feto malato di tumore (che si rifiutano di abortire), giovani pornostar a rischio di perdere la sensibilità genitale, fegati da trapiantare all’ultimo secondo e quant’altro la mente degli sceneggiatori riesca a escogitare. La regola è che nulla appaia della normalità quotidiana di un istituto di cura.
I camici bianchi sono o amici o fieri antagonisti dell’eroe, che non teme di sfidare la gerarchia col viso ingenuo e l’espressione sognante che gli presta la star televisiva Freddie Highmore, nota per la serie "Bates Motel". A far sì che lo spettatore si affezioni sempre più a lui, le scene ospedaliere al presente sono interrotte da frequenti (e un po’ pesanti) flashback sugli anni della sua infanzia, il padre indegno e il fratellino amatissimo che ha perduto.
Personaggi come Shaun, del resto, rappresentano una garanzia di successo: basti pensare al film "Rain Man", dove un Dustin Hoffman con la sindrome del savant si aggiudicò un Oscar.