La Stampa 31.8.18
La religione arma dei sovranisti per colpire le libertà individuali
di Vladimiro Zagrebelsky
Cosa hanno in comune l’ex ufficiale del Kgb sovietico Putin, che si fa fotografare mentre bacia le icone accanto al patriarca della Chiesa ortodossa russa, e Salvini, capo della Lega una volta benedetta
dalla sacra ampolla dell’acqua del dio Po, che agita il rosario nel comizio davanti al Duomo di Milano? L’uso della religione evidentemente, richiamata come radice della loro politica, anche quando ne è arduo vedere la coerenza. La religione come «instrumentum regni» non è certo un’invenzione contemporanea, né un abuso dei soli poteri civili senza attiva partecipazione delle chiese. Colpisce però il riemergere di una strumentalizzazione che sembrava ormai svelata e quindi impraticabile, anche per la resistenza sviluppatasi, almeno in Occidente, dall’interno stesso delle chiese. Da parte poi della Chiesa cattolica, in particolare con il pontificato di Papa Francesco, il distacco da connivenze governative si è fatto evidente e critico. Eppure l’oltraggioso abuso non ha trovato ferma denunzia, quasi fosse possibile lasciarlo passare come episodio minore, destinato a essere presto dimenticato. Non sarà così, non solo perché il richiamo dei simboli religiosi è potente per la parte più tradizionalista del mondo cattolico, ma anche perché esso rientra in una operazione politica che investe molti Paesi dell’Unione europea.
L’attacco all’Unione viene svolto su piani diversi da partiti diversi in vari Paesi. Non solo in Italia ha trovato nel tema delle migrazioni verso l’Europa il terreno favorevole ad aggressiva e fruttuosa propaganda. Il recente incontro del vice presidente del Consiglio Salvini con il primo ministro ungherese Orban, è stato presentato alla stampa dando gran rilievo alla sintonia sul rifiuto dei migranti. Ma bisogna fare attenzione. La propaganda che sfrutta il tema e il problema delle migrazioni ha la capacità di oscurare tutto il resto e monopolizzare l’attenzione su una questione che non è certo la più grave, in Italia come in Europa. C’è invece ben altro nella prospettiva della sintonia politica che si annuncia tra i Paesi e i partiti cosiddetti sovranisti, contrari non solo a queste istituzioni dell’Unione europea, ma allo stesso progetto politico di progressiva unificazione. Vi è in comune, in varie forme e modi di concretizzazione, l’attacco allo Stato di diritto e alle libertà individuali che esso garantisce. È evidente l’insofferenza per le garanzie costituzionali che derivano dal controllo di legalità operato sui governi da parte di giudici indipendenti, da una stampa libera, dall’azione di associazioni e sindacati influenti. Ciò che già è avvenuto in Polonia, in Ungheria e in altri Paesi del gruppo cosiddetto di Visegrad ha un significato inequivoco, che troppo a lungo è stato sopportato dalle istituzioni dell’Unione, tanto da domandarsi ora se non sia troppo tardi. Vi è un elemento comune nella sintonia tra partiti che si ritrovano nell’attacco ai principi democratici su cui l’Unione europea si fonda. Lo si vede nella pretesa di ridurre al solo esito elettorale l’esigenza di legittimazione di chi governa o aspira a farlo. E in prospettiva, come il contenuto e il linguaggio dell’azione politica dimostra, vi è continuità tra elezioni, raccolta di click di gradimento su un sito e acclamazione di piazza. Già visto.
In questo quadro il collante religioso gioca un ruolo importante su più piani. Esso viene usato per dar dignità all’attacco ai migranti, indicati come pericolosi per la salvaguardia della identità del popolo, che si pretende data unitariamente da una fede religiosa, che certo non è da tutti condivisa e comunque è tutt’altro che omogenea e in sintonia con la politica di chi se ne appropria. In Italia si assiste al richiamo alla parte più chiusa e retriva del cattolicesimo, in Polonia addirittura si organizzano processioni ai confini con crocefissi e madonne, in Ungheria si difendono i tradizionali costumi e stili di vita contro un’Europa accusata di favorire libertinaggio e ogni sorta d’immoralità. Accanto alla rivendicazione di valori tradizionali, emerge l’accusa all’Europa di laicismo; non di attaccamento al valore della laicità – costituzionale, anche in Italia - ma di estremismo anti-religioso, fonte di ogni conseguente perversione. E così l’uso fatto da parte politica del richiamo religioso fa eco a quei settori del cattolicesimo che è intollerante verso le libertà individuali e ha nostalgia del passato autoritarismo della Chiesa. Lo sventolare del rosario da parte di Salvini richiama una versione soltanto degli atteggiamenti cattolici: non quella aperta, accogliente, rispettosa degli altri e dialogante come è tanta parte delle organizzazioni del volontariato cattolico, in sintonia con Papa Francesco. Un Papa, che non per caso è da tempo oggetto di critiche, di dileggio e dell’attacco congiunto di settori interni alla sua Chiesa e delle aree politiche che le usano richiamandole.
Molto più che nella politica anti-migranti (che appena superati gli slogan pone gli uni contro gli altri) i partiti della destra sovranista trovano similitudine nell’eccitazione di sentimenti religiosi che pretendono di esprimere l’identità dei popoli. Pericolosissimo esercizio, capace di infiammare la caccia al diverso, a chi non crede come vien richiesto e che, quindi, oltre che miscredente diverrebbe anche antipatriottico.
La Stampa 31.8.18
L’onda d’urto che viene dall’orrore
di Domenico Quirico
E adesso che farà questa generazione europea di profeti sovvertitori, bravissimi a metter ogni cosa in subbuglio e repentaglio, inettissimi a mettervi ordine e misura?
Perché dopo aver consumato energie, escandescenze e ingiurie per trovar posto a un centinaio di migranti della nave «Diciotti», che sembrava avessero sulle spalle il fascio di spine di Caino, arriva dalle disperate sassaie siriane una nuova, sproporzionata tempesta. Bashar Assad, maestro di micidiali pazienze, sta per spiantare un’altra trincea della rivolta iniziata nel 2011 (e ormai tinta delle varie gradazioni di nero jihadista), la regione di Idlib. E le organizzazioni umanitarie annunciano che la fuga da questo finale nibelungico metterà in moto centinaia di migliaia di fuggiaschi che non possono sperare certo perdono del vincitore. L’ipotesi più pessimistica nel peggio, anzi nel pessimo, arriva alla cifra, che toglie il fiato, di due, tre milioni di nuovi migranti.
Con un procedimento di messa in scena di virtuosismo pubblicitario, avventata e nefasta millanteria, si era appena definita come superata la molesta invasione di «fannulloni» da terzo mondo, grazie a muri implacabili e negazioni rimessiticcie. E invece. La Migrazione, con la guerra siriana, bussa fragorosamente, nella nudità dei fatti, alla porta d’Europa, alla sua pazienza sciatta e sorniona. I fatti falciano agnostici e dogmatici. Anche i dogmatici della negazione e perfino del dubbio. Perché stavolta sarà difficile a ipocriti e abborracciatori che gestiscono le politiche europee negare che «quelli di Idlib» siano profughi che hanno diritto: a entrare e ottenere asilo come vittime di guerra.
A meno che in questa furia di suicidio e di fratricidio d’Europa qualcuno, con destrezza leguleia, non arrivi a infrangere anche questo obbligo sacrosanto, in nome di necessarie e necessitate obbedienze all’interesse, al comodo nostro.
Si scoperchia, brutalmente, la miseranda parodia di politica estera, i paesani destreggiamenti diplomatici con cui l’occidente, e l’Europa in prima fila, ha schivato i primi sette anni di guerra siriana. Primi perché altrettanti, se non di più, ci costerneranno. L’onda d’urto dell’irrompere del progetto del califfato continua ad allargare i suoi cerchi. Non abbiamo visto che l’inizio. Finirà per incanutirci. L’infatuazione tecnicistica di far tutto con aerei e droni, le eteroclite alleanze con manovalanze guerriere curde e sciite, i gran colpi, inutili intimidatori e inconclusivi, dei proclami retorici, spensierate, superciliose o accidiose attività diplomatiche in un luogo in cui contava, ahimè! solo la forza: ecco il risultato. Bashar ha vinto la guerra. E ci spingerà contro una moltitudine di disperati, a cui si mescoleranno stavolta davvero gli apostoli abusivi e inumani della guerra santa. Che noi cercavamo sui barconi. Che fare? Supplicheremo di nuovo il costoso aiuto dell’invelenito califfo ottomano, Erdogan?
Sbrighiamoci a dirlo, crudamente: là, in Siria, con i 500 mila morti e i milioni di profughi, tutto quello che abbiamo fatto o non fatto, è fondato campato, e morto, di balordi espedienti, trovate e diversivi. Come per l’altro corno della Migrazione, l’Africa, dove intrighiamo per interesse con regimi corrotti e muffiti, paghiamo il nostro ottuso machiavellismo di saputi, bravaccioni e parolai.
il manifesto 31.8.18
Lo spread schizza. E oggi arriva il verdetto di Fitch
Titoli di Stato. Chiusura a 285 punti. Tassi del Btp decennale al 3,20%. Non accadeva dal 2014. Piazza Affari giù
di Bruno Perini
Allarme rosso per lo spread in attesa del verdetto sull’Italia, atteso per oggi, dall’agenzia di rating Fitch. Ieri lo spread è risalito di 15 punti, toccando l’insidiosa quota di 285 punti base. Il differenziale di rendimento tra il Btp decennale benchmark e il pari scadenza tedesco è peggiorato da metà seduta, con il calo di Wall Street e l’esplosione dei tassi argentini. Il rendimento del decennale italiano, dal 3,12% della vigilia, è schizzato al 3,20%. Non accadeva dal 2014.
Una escalation cominciata con la crisi istituzionale di primavera, poi risolta dalla nascita del governo Conte, ma senza che sul mercato dei titoli di Stato sia mai arrivata una reale distensione. Malgrado le rassicurazioni dell’esecutivo in materia di politica economica, gli investitori istituzionali e la speculazione guardano infatti con preoccupazione allo scontro in atto tra Bruxelles e Palazzo Chigi e al pericolo di uno sforamento del 3% e a una possibile fuga di capitali.
Il Tesoro ha registrato una buona domanda all’asta dei Btp decennali ma per rendere più appetibili i nostri bond ha alzato il rendimento di circa 37 punti rispetto all’asta precedente con il risultato di arrivare al 3,25%. La crescita del differenziale è ben evidente se si rapportano questi risultati a quanto avvenne sulle stesse scadenze nell’asta di aprile, prima dell’esplosione degli spread.
Rispetto ad allora, sulle due scadenze emesse oggi lo Stato spenderà almeno cento milioni in più di soli interessi l’anno. Dopo l’asta, sul mercato secondario i rendimenti dei decennali si sono adeguati e ora salgono al 3,21%, per un differenziale col bund tedesco di 285 punti base.
La tensione sul differenziale potrebbe salire, e di molto, se la società di rating Fitch diffondesse un giudizio negativo sull’economia italiana. Il verdetto è appunto atteso per oggi. E i rumors sono tutt’altro che ottimisti: l’attenzione degli analisti di Fitch è tutta sulla politica economica del governo Lega-M5S. Il quotidiano la Repubblica ieri ha anticipato le preoccupazioni dell’agenzia di rating: «È aumentata la possibilità che si perdano di vista gli obiettivi di finanza pubblica e si è ulteriormente indebolita la prospettiva di riforme strutturali, il rischio principale è che l’espansione fiscale faccia saltare le dinamiche del debito».
Il ritorno delle tensioni sui titoli di Stato italiani in concomitanza con i timori sull’Argentina hanno fatto di Piazza Affari la più pesante Borsa europea della giornata, per qualche frazione anche peggiore di Madrid, più esposta sul Paese sudamericano: l’indice Ftse Mib ha chiuso in perdita dell’1,28% a 20.495 punti.
Tra i titoli principali, il più venduto è stato Tenaris, che ha nel Sudamerica il secondo mercato per fatturato e ha ceduto il 5,5% a 14,19 euro dopo una sospensione in asta di volatilità.
Con il rialzo dello spread deboli anche le banche: Bper ha perso il 3,7%, Banca Generali il 3,3%, Mps il 2,9%, Intesa il 2,3%. Con il settore europeo delle Tlc in calo generalizzato, ancora vendite su Tim che ha perso il 2,9% aggiornando i minimi da quasi cinque anni.
il manifesto 31.8.18
«Né terra, né bandiere, la lingua è l’unica patria che abbiamo»
Un'intervista con Maryam Madjidi vincitrice del Goncourt con «Io non sono un albero»
intervista di Guido Caldiron
«Quando mi domandano delle mie origini vorrei tacere. Vorrei raccontare altro, non importa cosa, inventare. mentire. Vorrei che mi si facessero altre domande, perfino assurde, ma sorprendenti. E, allo stesso tempo mi crogiolo nel mio piccolo mondo esotico e ne traggo una fierezza appagante. L’orgoglio di essere diversa».
Maryam Madjidi è nata a Teheran nel 1980, figlia di militanti comunisti che hanno lasciato l’Iran per la Francia per fuggire dalla repressione khomeinista quando lei aveva 6 anni. Con Io non sono un albero, Bompiani (pp. 176, euro 16), splendido romanzo vincitore del premio Goncourt lo scorso anno, ha cercato di riannodare i fili della propria memoria indagando il significato più profondo dell’esilio e dell’identità attraverso una lingua poetica e sognante che si configura essa stessa come un possibile, rassicurante, approdo.
La scrittrice sarà ospite domani del Festival della Mente di Sarzana con un incontro dal titolo «Le radici ritrovate» alle 12,15.
Il suo romanzo è scandito da tre «nascite»: a Teheran, Parigi e di nuovo in Iran, e da una dimensione circolare che sovrasta ogni cosa.
Si tratta di una scelta precisa che intende rivelare, attraverso una sorta di ripetizione costante, il senso di imprigionamento, di cattività che muove dalla condizione dell’esilio: qualcosa cui si è costretti, che raramente si sceglie. E la sola via d’uscita è rappresentata dalla possibilità di dare un nome a quell’esilio. Quando i miei genitori scelsero di lasciare l’Iran ero piccola, non potei decidere. Solo raccontando questa storia ho potuto appropriarmene, farla mia. La strada della libertà inizia da qui.
E lo strumento con il quale percorrerla sembra essere la lingua. Una sorta di chiave di accesso al futuro?
Anche qualcosa di più: la chiave di accesso alla propria identità. Perché né un pezzo di terra né una bandiera possono racchiudere fino in fondo ciò che siamo, ma la lingua sì, ha questo potere. Nel mio caso si è trattato prima di «conquistare» il francese quando da bambina sono arrivata a Parigi, quindi di «riapprendere» il persiano da adulta, la lingua materna che avevo pressoché perduto. Ed è attraverso questa doppia identità che sono andata definendomi, come donna e come scrittrice. Perciò, ci tengo molto a sottolinearlo: la lingua è la mia vera patria.
Il romanzo è attraversato da un paradosso: l’apprendistato alla sua nuova, obbligata, condizione di esule si compie nella «lingua dei diritti dell’uomo», il francese. Non a caso lei non sembra amare il concetto di «integrazione».
Non mi piacciono né la parola «integrazione» né «assimilazione», perché implicano che si obblighi qualcuno ad entrare a far parte di un gruppo, una realtà precostituita. Nel libro paragono l’idea dell’integrazione al lavoro di un’impresa di pulizie, nel senso che alla fine del percorso siamo costretti a dimenticare il paese da cui veniamo, una sorta di «tabula rasa» su ciò che nelle nostre vite veniva prima del nostro arrivo in Francia. Preferisco di gran lunga l’idea di «accoglienza» che contiene tutta la complessità di un incontro che si svolge tra due parti e che così va vissuto. Ed è questo concetto che oggi sembra mancare del tutto nel modo in cui sono trattati coloro che arrivano in Europa.
«Come essere francese», «come restare persiana». La storia che racconta si caratterizza per una resistenza costante al dover scegliere necessariamente un’appartenenza.
Assolutamente. Fin da bambina, in linea con quell’idea di integrazione a cui abbiamo accennato, mi sono dovuta misurare con la necessità di scegliere tra la mia «parte» francese e quella iraniana. Come se un essere umano potesse, a partire da un determinato momento magari stabilito per via amministrativa, divenire qualcosa d’altro rispetto a se stesso. Tutto ciò non ha nulla a che fare con delle ovvie regole condivise all’interno di una società, parlo invece di cultura, di biografie e identità. Si obbligano gli stranieri a diventare qualcosa di diverso, a separarsi da una parte della loro storia. Mi sembra la forma più alta che si possa concepire di rifiuto dell’altro. Al contrario io mi sento sempre francese e iraniana allo stesso tempo.
Il suo modo di essere francese e persiana è però cambiato, come indica l’evoluzione dello sguardo che rivolge all’Iran nel corso del romanzo: dalla terra della rivoluzione tradita dai Mullah dei suoi genitori, al paese in cui è tornata dopo 23 anni di esilio, scoprendo contraddizioni e un generale anelito di libertà.
Tornando a Teheran ho infranto finalmente il mito della «patria perduta», mi sono riconciliata con il sentimento dell’esilio ed ho forse per la prima volta potuto vedere davvero la realtà di quel paese. Ho visto soprattutto persone che cercano malgrado tutto di restare libere e si battono per la loro libertà. Ripeto, malgrado tutto, che significa la repressione, il potere dei religiosi, ogni sorta di imposizione fatta alle donne, la violazione sistematica dei diritti dell’uomo. Per la prima volta ho immaginato di essere cresciuta lì, invece che a Parigi. Quando sono tornata in Francia la mia rabbia contro il regime iraniano era ancora più forte ma, allo stesso tempo, ho guardato in un altro modo le giovani che a Parigi scelgono di indossare il velo, come a Teheran. Ho capito quanto le proprie origini possano rappresentare un rifugio potente.
Al Festival della Mente di Sarzana parlerà delle «radici ritrovate». Come si possono definire?
Credo si tratti prima di tutto, e forse soltanto, della memoria dell’infanzia. Niente a che fare con il nazionalismo o lo sciovinismo, bensì di uno spazio intimo, soggettivo. La bambina iraniana che sono stata, l’ho ritrovata grazie alla scrittura. Ed è andata allo stesso modo anche per tutto il resto della mia vita. È un po’ come «il tempo perduto» di Proust che in questo caso si ritrova grazie allo scrivere. Ci riconciliamo con noi stessi riabbracciando i bambini che siamo stati: l’unica appartenenza che non possiamo mai tradire.
La Stampa 31.8.18
Siria, assedio del regime a Idlib
Allarme per la fuga dei profughi
“In 700 mila pronti a scappare”
Violenta offensiva di Damasco e Mosca contro l’ultima roccaforte dell’Isis nella regione L’Onu: in città 10 mila foreign fighter. Timori che gli sfollati possano muoversi verso l’Europa
di Giordano Stabile
A Idlib sono già caduti i volantini dell’esercito siriano, lanciati dagli aerei, che invitano tutti i combattenti ad «arrendersi» perché niente potrà fermare le forze di Bashar al-Assad. I messaggi hanno creato un senso di angoscia, in città ci sono profughi fuggiti pochi mesi fa dalla Ghoutha Orientale, che ricordano gli stessi volantini caduti poco prima che si scatenasse l’offensiva governativa. Il clima è quello dell’assedio, anche perché il gruppo ribelle che domina nel capoluogo della provincia siriana nordoccidentale, Hayat Tahrir al-Sham, ha di fatto posto il coprifuoco e allontanarsi è sempre più difficile. Del mezzo milione di persone che vivono a Idlib due terzi sono sfollati arrivati da altre zone della Siria. Molti hanno parenti in Turchia, soprattutto nelle province di Gaziantep e Hatay. Per i familiari sono giorni difficili. «Abbiamo ancora un fratello, zii e cugini di là – raccontano da Reyhanli, una cittadina turca al confine con la Siria, Mohammed e Atimad, fratello e sorella -. I bombardamenti sono sempre più frequenti. C’è elettricità per due ore al giorno, manca anche l’acqua potabile. È una situazione insostenibile, non sappiamo se li rivedremo».
Mohammed e Atimad sono fuggiti da Taftanas, un villaggio vicino a Idlib, tre anni fa. «Ci hanno anche detto che il regime ha aperto una strada verso Saraqib, sostiene che quelli che usciranno dal quel check-point non saranno toccati, ma nessuno si fida». La diffidenza nasce anche dal fatto che finora Damasco aveva fatto intendere che Idlib sarebbe rimasta un’area di «de-escalation» senza azioni militari. Molti avevano accettato di trasferirsi lì dalle province di Aleppo, Hama, Damasco e Daraa con quella convinzione. Tutti profughi sunniti, che non accettavano di tornare sotto un governo dominato dagli alawiti, la setta sciita siriana di Assad. Ora temono che lo scenario si ripeta e che siano costretti a lasciare la Siria. La provincia di Idlib ha visto la popolazione triplicarsi, da uno a tre milioni. L’Onu teme che fino a «700 mila persone» saranno costrette a fuggire. I civili a rischio sono circa tre milioni. La situazione preoccupa i Paesi dell’Ue: nessuno sa dove si sposterà la massa di profughi e il timore è che possa riversarsi verso l’Europa. «Nei mesi scorsi sono arrivate migliaia di famiglie con i pullman del regime, se ora attaccano dove andranno, non hanno parenti nella campagne come noi», confermano Mohammed e Atimad.
C’è anche la paura di attacchi chimici. Ieri l’inviato speciale per la Siria Staffan de Mistura ha avvertito che attacchi con ordigni al cloro sono possibili «da tutte e due le parti». Neppure l’Onu si fida dei ribelli di Idlib, legati ad Al Qaeda anche se lo negano. Lo stesso de Mistura ha parlato di «diecimila terroristi, con un alta concentrazione di combattenti stranieri». L’inviato dell’Onu ha chiesto alla Siria di non «gettarsi in una battaglia che potrebbe trasformarsi in una tempesta perfetta» e l’apertura di «corridori umanitari» per far uscire i civili da Idlib. Damasco ha risposto con il ministro degli Esteri Walid al-Muallem che «andrà avanti» e che il principale obiettivo è proprio Al Qaeda.
La prima fase vedrà l’attacco nella zona confinante con la provincia di Lattakia, per prendere la cittadina strategica di Jisr al-Shughour, sul fiume Oronte. Poi toccherà a tre località lungo l’autostrada Damasco-Aleppo: Khan Sheikhoun, dove nell’aprile del 2017 c’è stato un sospetto attacco chimico, Maarat al-Numaan e Sarabiq. Di Maarat al-Numaan è anche Shadi, da cinque anni in Turchia con tutta la famiglia, a Gaziantep. Nella cittadina sono presenti «posti di osservazione» dell’esercito turco ma gli stessi ribelli hanno detto che «appena il regime attacca andranno via». La presenza militare turca resta l’unica incognita. Sono in corso trattative fra Mosca e Ankara per trovare un intesa e forse evitare l’assalto. Culmineranno il 7 settembre, con il vertice fra Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan e Hassan Rohani a Teheran. Sempre che l’offensiva non sia già entrata nel vivo.
La Stampa 31.8.18
Libia, Al Sarraj accerchiato. Roma isolata
di Francesco Semprini
Scontri a Tripoli, distrazioni romane e trame parigine: incalza l’offensiva sul dossier libico da parte della Francia «pronta a screditare l’ambasciatore Giuseppe Perrone, causare il fallimento della conferenza di Sciacca prevista a novembre e mettere fuori gioco l’Italia».
Lo riferiscono fonti informate, secondo cui l’offensiva transalpina sulla Libia ha registrato un’accelerata lunedì, quando Emmanuel Macron ha ribadito la sua determinazione a portare avanti l’accordo di Parigi con la chiamata alle urne il 10 dicembre. A quel punto immediato il gioco di sponda del parlamento di Tobruk. Dinanzi ai 25 membri presenti (su 200 seggi complessivi), il presidente Aguila Saleh minaccia di attivare l’articolo 5 del 2014, quello che permette al Parlamento di indire elezioni senza Costituzione. Un colpo di mano che fa il gioco dei francesi i quali hanno individuato un candidato da affiancare a Khalifa Haftar: Aref Ali Nayed, fedelissimo del generale e ambasciatore libico negli Emirati.
L’obiettivo di Macron è chiaro, dicono fonti libiche, ovvero «indire elezioni farsa, consegnare la vittoria a uomini di fiducia e marciare su Tripoli».
Funzionale a questo piano sono una serie di fattori, il primo dei quali è screditare l’ambasciatore italiano reo di aver affermato che «le elezioni richiedono una serie di passi preventivi in mancanza dei quali si crea caos e conflitto». L’inviato della Farnesina è divenuto bersaglio di una campagna di denigrazione durissima, «integralmente orchestrata dalla Francia», spiegano le fonti. Non a caso proprio ieri il sito Africa Intelligence, vicino a Parigi, ha pubblicato un articolo dal titolo «L’Italia pronta a sacrificare Perrone per fare un piacere ad Haftar». «Qualsiasi spostamento dell’ambasciatore è un errore e un danno. Il Consiglio presidenziale ha assoluto apprezzamento di Perrone», affermano fonti di Tripoli in risposta alle indiscrezioni su un presunto richiamo dell’ambasciatore da parte del governo giallo-verde, nell’ambito di un rimpasto di intelligence e diplomazia sul dossier.
Gli scontri
A fare il gioco di Parigi è inoltre il clima di tensione di questi giorni, con pericolose dimostrazioni a Mellitha, terminal petrolifero Eni, che le formazioni di Zuwara sono riuscite a neutralizzare. Ma è chiaro che la minaccia dei Madkhali si va estendendo da Sabrata e Surman verso Tripoli, dove varie milizie, sino a ieri leali al governo, sono in fermento. C’è poi la rivolta degli al-Kany di Tarhuna, un tempo alleati di Fayez al Sarraj e considerati filo-italiani. E l’insofferenza di Misurata per i taglieggiamenti delle formazioni tripolitine ai danni del governo di accordo nazionale per il controllo di denaro e territorio.
«I nemici di una Libia indipendente hanno messo in campo una nuova strategia: vogliono una sollevazione, sfruttando i conflitti locali e le contraddizioni del Gna, facendo accordi con varie fazioni grazie ad un gruppo di ufficiali di Bengasi infiltrati a Tripoli da oltre un mese, e cercando di penetrare le moschee», spiega Agenfor International, fondazione di analisi globali. Un quadro di instabilità che conferma come indire elezioni ora sarebbe deflagrante e utile solo a chi, come la Francia, vuole entrare a gamba tesa nel Paese. Un’azione dinanzi alla quale l’Italia rimane in silenzio (così come l’Onu che si limita a scarni comunicati), «distratta» dalla gestione del dossier migranti. Una minaccia asimmetrica di questo tipo «potrebbe infatti rilanciare l’arma dell’immigrazione» con le bande ad ovest di Tripoli, che gestiscono i traffici, pronte a riaprire i flussi verso l’Italia.
il manifesto 31.8.18
Lo spread schizza. E oggi arriva il verdetto di Fitch
Titoli di Stato. Chiusura a 285 punti. Tassi del Btp decennale al 3,20%. Non accadeva dal 2014. Piazza Affari giù
di Bruno Perini
Allarme rosso per lo spread in attesa del verdetto sull’Italia, atteso per oggi, dall’agenzia di rating Fitch. Ieri lo spread è risalito di 15 punti, toccando l’insidiosa quota di 285 punti base. Il differenziale di rendimento tra il Btp decennale benchmark e il pari scadenza tedesco è peggiorato da metà seduta, con il calo di Wall Street e l’esplosione dei tassi argentini. Il rendimento del decennale italiano, dal 3,12% della vigilia, è schizzato al 3,20%. Non accadeva dal 2014.
Una escalation cominciata con la crisi istituzionale di primavera, poi risolta dalla nascita del governo Conte, ma senza che sul mercato dei titoli di Stato sia mai arrivata una reale distensione. Malgrado le rassicurazioni dell’esecutivo in materia di politica economica, gli investitori istituzionali e la speculazione guardano infatti con preoccupazione allo scontro in atto tra Bruxelles e Palazzo Chigi e al pericolo di uno sforamento del 3% e a una possibile fuga di capitali.
Il Tesoro ha registrato una buona domanda all’asta dei Btp decennali ma per rendere più appetibili i nostri bond ha alzato il rendimento di circa 37 punti rispetto all’asta precedente con il risultato di arrivare al 3,25%. La crescita del differenziale è ben evidente se si rapportano questi risultati a quanto avvenne sulle stesse scadenze nell’asta di aprile, prima dell’esplosione degli spread.
Rispetto ad allora, sulle due scadenze emesse oggi lo Stato spenderà almeno cento milioni in più di soli interessi l’anno. Dopo l’asta, sul mercato secondario i rendimenti dei decennali si sono adeguati e ora salgono al 3,21%, per un differenziale col bund tedesco di 285 punti base.
La tensione sul differenziale potrebbe salire, e di molto, se la società di rating Fitch diffondesse un giudizio negativo sull’economia italiana. Il verdetto è appunto atteso per oggi. E i rumors sono tutt’altro che ottimisti: l’attenzione degli analisti di Fitch è tutta sulla politica economica del governo Lega-M5S. Il quotidiano la Repubblica ieri ha anticipato le preoccupazioni dell’agenzia di rating: «È aumentata la possibilità che si perdano di vista gli obiettivi di finanza pubblica e si è ulteriormente indebolita la prospettiva di riforme strutturali, il rischio principale è che l’espansione fiscale faccia saltare le dinamiche del debito».
Il ritorno delle tensioni sui titoli di Stato italiani in concomitanza con i timori sull’Argentina hanno fatto di Piazza Affari la più pesante Borsa europea della giornata, per qualche frazione anche peggiore di Madrid, più esposta sul Paese sudamericano: l’indice Ftse Mib ha chiuso in perdita dell’1,28% a 20.495 punti.
Tra i titoli principali, il più venduto è stato Tenaris, che ha nel Sudamerica il secondo mercato per fatturato e ha ceduto il 5,5% a 14,19 euro dopo una sospensione in asta di volatilità.
Con il rialzo dello spread deboli anche le banche: Bper ha perso il 3,7%, Banca Generali il 3,3%, Mps il 2,9%, Intesa il 2,3%. Con il settore europeo delle Tlc in calo generalizzato, ancora vendite su Tim che ha perso il 2,9% aggiornando i minimi da quasi cinque anni.
Il Fatto 31.8.18
Diciotti, è doveroso indagare Salvini per sequestro
di Fabrizio Tonello
* Docente di Scienza Politica, Università di Padova
Gentile direttore, l’ex procuratore capo di Firenze, Ubaldo Nannucci, interviene sul caso Diciotti per sostenere che “la priorità era colpire gli scafisti” e che “il divieto di sbarco sul territorio italiano non può considerarsi equivalente alla privazione della libertà personale”, quindi l’ipotesi di reato perseguita dal procuratore di Agrigento a carico del ministro Salvini sarebbe infondata. Il ministro, “sia pure in modo assai rozzo” avrebbe “dato attuazione alle norme che regolano l’ingresso illegale di stranieri in Italia”.
Partiamo da ciò che il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha twittato: “Pare che per la nave Diciotti la procura stia indagando ignoti per trattenimento illecito e sequestro di persona. Nessun ignoto, indagate me! Indagate me! Sono io che non voglio che altri clandestini sbarchino in Italia”. Ci sarebbero mille cose da dire, ma concentriamoci sulla parola “clandestini”.
Il dizionario Treccani ci dà due significati: “Che è fatto di nascosto” oppure “passeggero sprovvisto di biglietto”.
Il primo problema è che i 117 migranti della Diciotti non erano affatto “sprovvisti di biglietto” in quanto erano stati salvati in mare, il che era un preciso obbligo della nave della Guardia costiera. Gli eritrei sono stati quindi invitati a salire a bordo, non ci sono arrivati di nascosto, quindi non erano clandestini. La loro situazione era quanto di più regolare si possa supporre, essendo sulla nave per decisione del capitano. Bizzarro, poi, sostenere che persone ferite, malate o in ogni caso stremate dal viaggio e dai maltrattamenti subiti, non debbano essere considerate prive della “libertà personale” quando a bordo di una nave militare.
In secondo luogo, i migranti sono presumibilmente richiedenti asilo in quanto in fuga da situazioni di pericolo o di persecuzione. La loro domanda potrà essere accettata o respinta ma in ogni caso deve poter essere inoltrata, tanto più se queste persone si trovano già in territorio italiano, com’è per definizione una nostra nave militare, lo impone l’articolo 10 della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle liberta` democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
I migranti della Diciotti era quindi come se si fossero trovati in un consolato o in un’ambasciata italiana e nessuno aveva il diritto di trattenerli, men che meno il ministro Salvini: in quanto parte della Marina Militare, la Guardia costiera dipende dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta. D’altra parte non si vede in quale modo il divieto di sbarco potesse essere utile per “colpire gli scafisti” una volta che la nave aveva raggiunto il porto di Catania.
L’ex procuratore Nannucci chiede se qualcuno abbia chiesto ai migranti “perché hanno abbandonato il loro Paese” ma, sorvolando sul fatto che questo è compito delle commissioni ad hoc e non dei marinai della Diciotti, va sottolineato che chiunque legga i giornali dovrebbe essere al corrente della situazione dittatoriale in Eritrea, un Paese dove non è certo garantito “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.
Il ministro Salvini si è assunto in pieno la responsabilità di vietare lo sbarco, è quindi non solo giusto ma necessario che la magistratura indaghi su questo abuso di potere e stabilisca se si tratta di sequestro di persona, ipotesi che, alla luce dei fatti, non sembra affatto azzardata.
* Docente di Scienza Politica, Università di Padova
Il Fatto 31.8.18
Caro Veltroni, la tua analisi sui Cinquestelle è ineccepibile. Ma alla sinistra non basta una riverniciata
Popolo e leader – Quello dei 5 Stelle, spesso, in passato votava a sinistra
di Antonio Padellaro
Walter Veltroni è uno dei rari personaggi della politica italiana dotato di brillante scrittura e solida cultura. Purtuttavia mi perdonerà se, da lettore, faccio presente che il cuore (o forse la notizia) del suo intervento di 501 righe, pubblicato mercoledì scorso su Repubblica, io l’ho faticosamente scovato a riga 280.
Non mi fraintenda. Detesto (come chiunque conservi un’idea di civilizzazione) la comunicazione guttural salviniana del tipo: “La pacchia è finita”. So perfettamente che la propaganda semplificata l’ha inventata il fascismo, ancora visibile su qualche antico muro scrostato (“Il Duce ha sempre ragione”, “Taci il nemico ti ascolta”). Però, tra 5 parole e 2500, tra (per così dire) un rutto e un volume della Treccani sarà pure possibile un compromesso che consenta al comune lettore di un giornale – quello per intenderci che paga un euro e cinquanta – di capirci qualcosa?
Per venire al punto, ecco, quello che a me è parso il passaggio chiave del Veltroni pensiero, che l’autore raggiunge dopo avere elencato le malefatte del governo gialloverde e il rischio concreto di un’egemonia della destra estrema a guida Salvini. “Ma nei confronti dei cinquestelle la sinistra ha compiuto gravi errori. Ha cambiato mille volte atteggiamento, ha demonizzato e cercato alleanze organiche o viceversa, senza capire che molti di quei voti sono di elettori di sinistra. Che molti dei sei milioni di cittadini che avevano votato per il Pd nel 2008 hanno finito con lo scegliere i pentastellati o sono restati a casa. Un dolore profondo, un malessere che meritava molto di più delle piccole risse quotidiane o dei corteggiamenti subalterni. Molti di quegli elettori oggi sono certamente in sofferenza per il dominio della Lega sul governo, e ad essi, e a chi non ha votato, senza spocchia da maestrino, la sinistra deve rivolgersi”.
A questo punto, Veltroni affronta il “come” riconquistare, da sinistra, l’elettore perduto: con un Pd (leggo nel sommario) “che si apra a un progetto unitario che tenga insieme il sogno e il popolo, l’innovazione e l’orgoglio delle radici”. Progetto unitario, sogno, popolo, innovazione, radici. Parole alate, mi lasci dire, che non scendono mai sulla terra, nella vita di tutti i giorni. Utili come una giaculatoria in una chiesa deserta. Abituali nel linguaggio della sinistra quando per non sbilanciarsi si decide di gettare la palla in tribuna. Anche quando si è giunti a un passo dal fare gol.
Perché l’analisi di Veltroni sulla fuga di massa dal Pd è ineccepibile. Però, davvero può pensare che a quei tanti ex elettori, per ravvedersi e tornare a casa, sarà sufficiente una bella riverniciata al partito di cui egli è stato il fondatore (magari cambiando nome all’insegna)? E in fervida attesa di una ipotetica dissoluzione dei Cinquestelle?
O non sarebbe invece il caso di considerare, qui e ora, che il Movimento – con tutte le sue fughe verso l’ignoto, i suoi estremismi infantili, le sua subordinazione all’uomo nero del Viminale – può aver messo solide radici in quel vasto terreno un tempo occupato dalla sinistra? Che nel cospicuo raccolto elettorale grillino non possano esserci solo i frutti avvelenati della rabbia?
Davvero Veltroni ritiene che la classe dirigente M5S sia composta esclusivamente da una massa di miracolati, incompetenti, incapaci e stralunati vari? Come sostenuto con una colossale fake news da quegli stessi cervelli (anche dell’informazione con la verità in tasca) che dunque si sarebbero fatti mettere nel sacco da quella stessa massa di miracolati, incompetenti eccetera?
Bel colpo. Da serio conoscitore della politica e di chi fa politica, Veltroni è sicuro che il governo sia stato occupato da una banda di ragazzotti senza arte né parte? Abbia la pazienza di dare una scorsa ai cv di queste nullità e avrà qualche sorpresa. Non sarà che, piaccia o no agli Orfini e ai Calenda, nella politica italiana è avvenuto un ricambio generazionale, come in tutte le democrazie che non vogliono incartapecorirsi nelle rendite di posizione?
Quanto ai valori della sinistra, giustamente conclamati nel suo articolo, può spiegare Veltroni per quale motivo, nella vicenda della Diciotti, quando contro il sequestro orchestrato dal truce ministro degli Interni è sceso in campo il presidente della Camera Roberto Fico a difesa di quei valori di solidarietà proclamati dal Pd, ebbene dal medesimo Pd si è levato un coro derisorio contro Fico come se le sue parole avessero scombinato il giochino a qualcuno?
Come se per il Pd (vecchio e nuovo) il nemico da abbattere fossero, come sempre nella peggiore storia della sinistra, più dell’estrema destra sovranista e razzista, i concorrenti sul proprio campo (ricorderà certamente la persecuzione dei “social-fascisti”: riformisti e socialdemocratici considerati negli anni Trenta dal Comintern molto più pericolosi dei fascisti stessi).
Come se il rapporto tra Pd e Cinquestelle risiedesse, come giustamente scrive, nell’alternativa secca: “Demonizzare o alleanza organica”. Come se non fosse possibile, senza “corteggiamenti subalterni” la ricerca di un terreno comune di dialogo (ahi che brutta parola). Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Poiché, caro Walter, alla luce del pericolo autoritario che tu paventi, la vera domanda è se oggi il mondo possa ancora essere diviso tra destra e sinistra. O non invece tra umani e disumani? O il mio è solo “linguaggio semplificato”?
Repubblica 31.8.18
Nicola Zingaretti
"Meno Macron e più equità il mio Pd non sta con l’élite"
Intervista di Giovanna Casadio
Presidente Zingaretti, i leader della sinistra fanno a gara a dire al Pd da dove ricominciare: dai fischi di Genova, dalle idee nuove, dal modello di partito.
Lei, candidato alla segreteria dem, da dove riparte?
«Si riparte da un ripensamento della nostra collocazione politica.
Occorre rimettere al centro la nostra ragione di esistenza: la giustizia e lo sforzo di chiudere la forbice tra chi ha e chi non ha.
Inoltre sul partito occorre lasciarci alle spalle la stolta discussione tra partito pesante e leggero. È superato il vecchio partito burocratico e pedagogico, ma anche l’inconsistenza attuale di un partito che ha perso il senso di una comunità. Ci sono ancora tanti splendidi militanti ma il tono generale lo danno le correnti, i feudatari locali, la preoccupazione sui destini personali. Dobbiamo stare nelle strade e nei luoghi della vita, insieme finalmente ad una presenza autonoma e forte nella Rete, dove non abbiamo mai investito».
Veltroni invoca sogni e popolo. E dice che la rottamazione renziana è stata un cattivo slogan.
«Veltroni ha detto molte parole sagge e sincere. Per riacquistare il popolo e i sogni occorre marcare una nostra autonomia politica e culturale: ci vuole una nuova agenda che tenga finalmente insieme crescita ed equità. L’Italia per tanti aspetti è degradata.
L’Europa anche. Sono stati sconquassati i tessuti sociali, divelte radici, resi più soli i cittadini. Il caos porta al disastro anche i ceti medi e quelli imprenditoriali e questo conduce inevitabilmente all’autoritarismo».
Si candida a leader in un momento in cui il popolo ha abbandonato la sinistra.
«C’è ancora una parte importante di cittadini che guarda a noi. E ci sono tanti che non hanno votato o hanno votato 5 Stelle che erano nostri elettori e a certe condizioni possono essere ampiamente recuperati. Quelli che esprimono rabbia nei nostri confronti, e che non sono fanatici o pregiudizialmente nemici, pensano con qualche ragione che ci siamo chiusi troppo nella dimensione del governo, in pratiche elitarie, abbandonando la fatica di mettere le mani nel "fango" della società.
Non so cosa ne verrà fuori: la mia intenzione è comunque di affrontare con le nostre ragioni la complessità di un popolo che per certi aspetti è tornato a essere plebe subalterna. È difficile. Ma qui è il nodo e qui si salta».
Sull’immigrazione è a rischio il futuro dell’Unione europea?
«L’immigrazione è un problema reale. Ingigantito, però, dalla destra xenofoba di Salvini, che trae un vantaggio elettorale dagli allarmi che lancia. Va compreso meglio che il mancato governo dell’immigrazione colpisce soprattutto la vita della povera gente, già così travagliata. Si deve dare una risposta duplice.
Accogliere umanamente gli immigrati regolari, i profughi.
Gestire con giustizia e fermezza gli irregolari, prevedendo il loro rimpatrio. Inoltre, ecco il secondo aspetto, dobbiamo fare esattamente il contrario di ciò che il governo giallo-verde sta facendo.
Sostenere i servizi, risanare i quartieri più difficili, investire nelle periferie. Se facciamo una battaglia concreta e ideale alla fine la gente ci capirà».
Ma quale è il rischio maggiore che lei vede in questo governo gialloverde?
«Quello di regalare ad una destra solida e illiberale, che purtroppo sa bene quello che vuole, tutto l’elettorato dei 5 Stelle, che è composito e contraddittorio. Se noi regaliamo a Salvini ciò che non è suo, rischiamo di avere, in un paese come l’Italia dove negli anni ’70 la sinistra/sinistra sfiorava il 50%, un’influenza del 70% di una destra estrema, come mai nel dopoguerra si era vista in Italia. Quindi a me non interessano in alcun modo "accordicchi" di vertice, ma parlare al popolo sì».
C’è già chi dice: la sinistra che tifò Fini contro Berlusconi ora tifa Fico contro Di Maio, ma il risultato sarà lo stesso.
«Non si tratta di entrare nel merito di un dibattito interno tra leadership diverse, anche perché il tema migranti in realtà è diventata una "nuvola" per nascondere agli italiani un problema più serio: il contratto di governo non funziona. La maggioranza, a parte le nomine, non trova sintonia su nulla».
Salvini si allea con Orbán: è l’asse sovranista. Le forze progressiste dovrebbero fare fronte comune anche con Macron alle europee del 2019?
«Le forze progressiste innanzitutto devono ritrovare tra di loro un ampia sintonia. La Ue si è piegata troppo agli interessi della Germania, alla politica di austerità, ai bassi interessi sui titoli tedeschi, all’assillo sull’inflazione che alla fine ha determinato una deflazione. Sono peggiorate le vite di una parte grande di europei. L’Europa su questo deve scegliere un indirizzo chiaro. E questo è il senso delle prossime elezioni. Ciò non esclude, a mio avviso, una alleanza politica con Macron anzi, in una parte lunga di questa legislatura europea noi abbiamo governato d’intesa con i popolari. Sulla difesa dell’Europa con Macron ci sono punti maggiori di contatto. Escludo invece di fare come Macron. La nostra storia e il nostro futuro non si può infilare dentro a quel modello elitario, repubblicano ma rappresentativo dei piani alti della società francese.
Ricordo che Macron al primo turno ha preso il 24% con un esiguo consenso tra i lavoratori e i ceti popolari».
Ritorno alle nazionalizzazioni.
Dopo il crollo del ponte di Genova il dibattito è aperto.
«Su Genova va detto intanto che la confusione del governo è sconvolgente. Sono per non ideologizzare questo tema. In molti casi le privatizzazioni possono essere utili, in molti altri dannose.
Dipende da ciò che si privatizza, dalla credibilità degli imprenditori, dal loro senso dello Stato e del bene pubblico. L’Italia che ha una classe dirigente e imprenditoriale non molto responsabile e deve essere particolarmente accorta nel realizzare queste complesse operazioni. Anche perché non sono d’accordo che quella sia sempre la strada obbligata. C’è una svalutazione del ruolo del soggetto pubblico e dello Stato. Vorrei ricordare che anche il più geniale degli imprenditori moderni, Steve Jobs, l’inventore di Apple, se non avesse avuto alle spalle l’enormità di denaro speso dal potere pubblico americano per la ricerca, non avrebbe mai raggiunto i risultati ottenuti».
Quale ruolo può avere Renzi?
«Renzi è stato una grande speranza, ha fatto cose importanti, ha combattuto con onore e coerenza.
Tuttavia la sua stagione è finita da leader solitario del Pd. Per me sono vecchi sia i sostenitori della vecchia "ditta", sia quelli che successivamente si sono autoproclamati il "nuovo". Sono vecchi perché, alla fine, sconfitti sul campo. Occorre prendere atto che va scritta una nuova storia con nuovi protagonisti, aprendosi ai territori. La mia campagna, che parte il 13 ottobre, si intitola Piazza Grande appunto per intendere la partecipazione delle persone. Forse la derenzizzazione l’ha avviata lo stesso Renzi quando si è dimesso.
Oggi già c’è un altro segretario, Maurizio Martina, che deve proteggere, come sta facendo, la sua autonomia e le sue idee».
Non crede che Martina possa essere il suo avversario alle primarie?
«Non lo so, comunque per abitudine esprimo le mie idee in positivo e non contro».
il manifesto 31.8.18
Mimmo Lucano: «Riace un modello virtuoso. E con i conti a posto»
Intervista. Il Viminale verso lo sblocco dei fondi dell'accoglienza. Il sindaco: "Si erano sbagliati su di noi. Una manifestazione per i migranti? Aderisco convintamente. Tutti coloro che si riconoscono nella Costituzione dovrebbero scendere in piazza"
intervista di Silvio Messinetti
Sindaco Mimmo Lucano, allora i fondi per Riace si sbloccano. La lotta nonviolenta ha dato i suoi frutti?
Intanto, tengo a precisare che si tratta di voci e non ho conferme ufficiali. Ma sono moderatamente ottimista. Si erano sbagliati su di noi. E tutto ciò che di brutto era stato detto su Riace erano solo diffamazioni e castronerie avallate da prefettura e governo Gentiloni. Le controdeduzioni che abbiamo inviato a Roma hanno dimostrato che il modello Riace non solo è virtuoso da un punto di vista etico ma è a posto anche con i conti. Pare che qualcuno al ministero dell’Interno abbia finalmente letto le nostre obiezioni e si sia reso conto che non solo devono ripristinare i finanziamenti, ma devono anche restituire i crediti pregressi. Il processo è in itinere, ma a quanto pare dovranno restituirci anche i fondi del 2017.
In concreto questi soldi a cosa serviranno?
A pagare due anni di debiti arretrati. Siamo una comunità di 400 abitanti in default senza questi finanziamenti statali che erano dovuti. E’ una questione di sopravvivenza di una intera popolazione, per l’ospedale, per le scuole, per i servizi pubblici. La situazione qui è drammatica. Spero che arrivino presto. Per anni, i bonus (una sorta di moneta sostitutiva utilizzata per favorire il commercio interno al borgo e nelle zone limitrofe, ndr) sono stati portati come esempio innovativo e virtuoso per aggirare la mancanza di puntualità del ministero nell’erogazione dei fondi per i servizi. E si tratta di servizi inderogabili. Perché il latte in farmacia per i neonati si deve comprare, le persone devono mangiare. A un certo punto, senza spiegare il perché, hanno detto che questo sistema non andava bene.
Secondo l’Istituto Cattaneo gli italiani sarebbero in tutta la Ue i più ostili ai migranti. Il 58% pensa che gli stranieri provochino una riduzione dell’occupazione. Questo significa che l’alternativa Riace non è conosciuta abbastanza o che queste pratiche di accoglienza diffusa non sono considerate realistiche?
Questi sondaggi mi lasciano perplessi. Io preferisco le piazze vere non le opinioni virtuali. Le grandi mobilitazione di Milano e Catania dimostrano che c’è una Italia popolare che si ribella al razzismo via social di Salvini e Di Maio. La storia ce l’ha insegnato che i disumani alla fine perdono. E invece bisogna restare umani, come diceva Vittorio Arrigoni da Gaza, perché alla fine le forze del bene prevarranno.
Riace ormai è diventato un mito. Questa estate il borgo è stato invaso da una processione laica di solidarietà: politici, vescovi, televisioni, sindacalisti, registi, scrittori. Un bagno di affetto che ha colpito molto. Ma non la spaventa un po’ questa mitizzazione?
Non mi spaventa ma mi carica di responsabilità. Il coraggio delle scelte alla fine ti ripaga delle sofferenze e delle angherie che hai subito. Ma è la dimostrazione che una comunità di zero come la nostra può riscattarsi se crede negli ideali e se alle parole fa seguire i fatti. Un territorio come la Locride, al limite e vilipeso da tutti, se è unito e se ha un orizzonte di valori può rinascere. Chi dice ’aiutiamoli a casa loro’ rifiuta ipocritamente di assumersi qualsiasi responsabilità. L’immigrazione è il prodotto di ingiustizie globali. Siamo stati noi che siamo andati a casa loro a imporre politiche coloniali, sistemi economici forzati, governi farlocchi, a vendere armi, a provocare fame e miseria. Siamo noi a obbligarli a un esilio forzato. A Riace abbiamo provato a mettere in comune e condividere il sogno, il riscatto dei nuovi proletari. Come diceva il mio amico compianto Dino Frisullo, bisogna avere il coraggio di essere parte attiva nei cambiamenti sociali.
«Il manifesto» ha lanciato l’idea di una manifestazione nazionale sui migranti e contro la barbarie. Il sindaco di Riace aderisce?
Certamente e convintamente sì, perché mi sento parte di questo processo. E tutti coloro che credono e si riconoscono nella Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza, dovrebbero scendere in piazza massicciamente.
Repubblica 31.8.18
L’intervista
Il sindaco Mimmo Lucano
“Sbloccati i fondi per l’accoglienza con Riace vince l’Italia che resiste”
Il borgo calabrese, diventato simbolo mondiale per l’integrazione, rischiava il collasso Ma dopo l’appello di Saviano è arrivata la solidarietà. E si è mosso anche il Viminale
di Alessia Candito
A causa di un mai spiegato taglio dei fondi statali destinati all’accoglienza, il borgo calabrese divenuto simbolo mondiale di integrazione ha rischiato di morire di fame. Ma per salvare Riace si sono mossi in migliaia.
Dopo l’appello pubblico di Roberto Saviano, che nei giorni scorsi ha invitato a sostenere i progetti abbandonati dal Viminale, sono stati raccolti oltre 150mila euro. Artisti, intellettuali, magistrati, sacerdoti, attivisti di associazioni, partiti, sindacati, comitati, ma soprattutto semplici cittadini si sono schierati con Riace e il suo sindaco, Mimmo Lucano. E l’eco della mobilitazione sembra arrivata anche al Viminale. «È una comunicazione informale — dice Lucano — ma da Roma ci hanno detto che presto i fondi per i progetti potrebbero essere sbloccati a breve»
Matteo Salvini è stato sempre durissimo con Riace. Secondo lei, a cosa si deve questo cambio di rotta del suo ministero?
«Questo non glielo so dire. Circa dieci giorni fa, dal Viminale ci hanno chiesto di inviare le nostre controdeduzioni rispetto alle criticità che erano state in precedenza segnalate. Chi le ha ricevute e prese in carico ci ha detto che sono perfette, chiariscono tutto e permettono anche di sbloccare i fondi bloccati nel 2017. Adesso aspettiamo l’ufficialità, ma anche dalla Prefettura di Reggio Calabria sono arrivati segnali positivi».
Quali?
«Finalmente sono stati pagati i finanziamenti relativi agli ultimi mesi del 2016 e nel dispositivo di accompagnamento si afferma che i nostri conti sono in ordine. Per molto tempo hanno sostenuto esattamente il contrario. Negli ultimi mesi lo scontro è divenuto palese, ma veniamo da una battaglia che dura da quasi due anni. Sul piano politico, burocratico, procedurale, mediatico».
A suo parere da cosa deriva questo scontro?
«Probabilmente, c’è qualcuno che ha interesse a sabotare Riace e il progetto politico che rappresenta.
Qui non facciamo né attività alberghiera, né assistenzialismo, qui creiamo comunità e ne beneficiano tutti. Riace, come altre aree interne della Calabria era destinata allo spopolamento, ma qui solo quest’anno sono nati 20 bambini. Nell’asilo multietnico che abbiamo creato lavorano 14 giovani del posto. È la dimostrazione che l’accoglienza funziona e fa crescere. Per alcuni però è un problema».
Con Riace si sono schierati in tanti. Roberto Saviano ha fatto un pubblico appello a sostegno del borgo e della sua “utopia possibile”. Crede che questo abbia influito?
«Di certo la pressione mediatica che ne è derivata ha dato molto fastidio, così come l’enorme risposta che c’è stata. Da tempo c’è chi chiude i porti e alza muri “in nome degli italiani”, ma io non sono convinto che siano tutti così d’accordo su questo processo di disumanizzazione e barbarie».
Cosa glielo fa pensare?
«L’attuale clima politico ha azzerato le sfumature. Non c’è più margine per essere neutrali. O stai con chi chiude i porti o sei contro. O stai con Riace o sei contro. La gente inizia a prendere posizione, a schierarsi».
A cosa si riferisce?
«Ovunque vada, incontro solo persone che considerano il nostro borgo una speranza. Nel mondo, la nostra comunità è vista come un modello. Anche registi come Wim Wenders hanno voluto raccontarla. Ma in tutta Italia si iniziano a vedere dei focolai di resistenza: le manifestazioni di Milano, in occasione della visita di Orban, le proteste a Catania contro chi ha tentato di sequestrare i migranti sulla Diciotti, la mobilitazione a Rocca di Papa. E dimostrano che i 60milioni di italiani a nome dei quali Salvini dice di parlare forse sono molti di meno».
Il Fatto 31.8.18
Affido condiviso, l’idea leghista non funziona
di Elisabetta Ambrosi
Non c’è pace per i milioni di genitori italiani separati, già provati dalla doppia sentenza della Cassazione a partire dal caso Grilli-Lowenstein (abolizione dell’assegno divorzile, poi parzialmente reintrodotto). Quella contenuta nel disegno di legge del senatore leghista Simone Pillon – avvocato cattolico, anti-abortista, anti-utero in affitto, anti-gender, organizzatore di vari Family Day e già noto per la sua accusa di stregoneria alla responsabile di un progetto multiculturale di fiabe nelle scuole di Brescia – è infatti un’autentica rivoluzione.
Innescata in nome dei diritti dei padri separati e del loro appellarsi sempre più frequente a quella “sindrome da alienazione parentale” a volte applicata dai tribunali ma priva di fondamento scientifico. E molto criticata dalle donne che si occupano di violenza. Ma cosa sostiene, in sintesi, la proposta Pillon? Si parte da un fatto reale, ossia il sostanziale fallimento della legge sull’affido condiviso, che in Italia riguarderebbe solo il 3/4% dei minori, tutto il contrario di altri paesi europei. Al fine di “garantire l’effettiva eguaglianza tra padre e madre nei confronti dei propri figli”, si introduce il principio della doppia residenza per i minori: questi ultimi dovranno risiedere in ciascuna per un minimo di 12 giorni al mese. Altro istituto previsto è quello del mantenimento diretto dei due coniugi, contro “l’idea antiquata dell’assegno”, che dunque cade in toto, mentre l’assegnazione della casa al genitore prevalente viene definita una “mostruosità probabilmente incostituzionale”, tanto che si prevede che chi resta debba pagare l’affitto all’altro. Quanto al tema dell’alienazione, sotto la dicitura di “diritti relazionali” si sancisce l’allontanamento immediato del coniuge che ostacoli un rapporto equilibrato e continuativo se il figlio manifesta, appunto, rifiuto o alienazione.
La reazione degli avvocati matrimonialisti non si è fatta attendere. C’è chi, come Annamaria Bernardini De Pace ha puntato il dito contro un disegno di legge maschilista portato avanti “da un manipolo di uomini quarantenni, in buona parte avvocati e in buona parte leghisti”.
Altri invece, come l’avvocata matrimonialista Stefania Chiara Tocchi, hanno ragionato sulle drammatiche conseguenze della soppressione tout court dell’assegno per i figli anche in mancanza di reddito di lei, quando “la legge italiana ha sempre detto che in famiglia ognuno provvede in maniera corrispondente alle proprie possibilità”. Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione avvocati matrimonialisti italiani, ha definito “questo disegno di legge improponibile e socialmente pericoloso perché un conto è essere genitori a Milano, un conto a Palermo dove la disoccupazione femminile è altissima. E non esiste che a casa del più ricco i bambini mangino caviale e dall’altra uova sode”.
Il fatto è che l’affido condiviso non è un’idea leghista, anzi viene previsto da numerose convenzioni internazionali e l’Italia è stata sanzionata decine di volte dall’Europa perché non lo applica. “Da questo punto di vista”, continua Gassani, “anche magistrati e avvocati italiani sono colpevoli, così come quei padri che dimenticano i figli e quelle madri che rendono i padri, persino scrittori o avvocati di grido, dei miserabili, quando impediscono loro di vedere i figli. Ma per fermare Pillon non bisogna maledire le lobby dei maschilisti ma usare la scienza”. E poi, naturalmente, fare controproposte, come l’introduzione della rendicontazione delle spese fatte con i soldi dell’assegno (Gassani), o l’introduzione dei patti matrimoniali, come vorrebbe Carlo Ioppoli, Presidente nazionale associazione avvocati familiaristi italiani.
Ioppoli definisce il ddl Pillon “un tentativo di forzare la mano. Chiedono 1000 per portare a casa 300, ma non possiamo comunque restare a guardare”.
Repubblica 31.8.18
La violenza contro le donne
L’estate cattiva del maschio
di Michela Marzano
Frustrazione? Impotenza?
Impunità? Difficile capire cosa ci sia esattamente dietro i molteplici casi di stupri e violenze contro le donne segnalati in queste ultime settimane, prima a Jesolo, poi a Pescara, poi a Botricello, poi a Rimini e via di seguito fino al caso agghiacciante di una ventunenne violentata per più di cinque ore a Parma e a quello, forse ancora più raccapricciante, di una donna di 44 anni rinchiusa dal compagno per due settimane in una cassa di mele e abbandonata sull’autostrada Venezia-Milano. Stranieri o italiani, senza lavoro o imprenditori, i carnefici hanno storie e profili molto diversi. Serve a poco, allora, invocare l’ignoranza o la nazionalità, l’assenza di cultura o la miseria di questi uomini che odiano le donne e che le trattano come spazzatura. Le uniche costanti sono l’assenza totale di rispetto per le vittime e il sentimento di impunità.
È come se la violenza perpetrata nei confronti delle donne finisse sempre con l’autogiustificarsi, vuoi perché ci si immagina al di sopra di ogni legge, vuoi perché, quando ci si trova di fronte a una femmina tutto sembra lecito, vuoi perché la rabbia, l’impotenza, la frustrazione e la collera devono pur trovare un "oggetto" su cui riversarsi affinché il corso della propria esistenza possa riprendere.
Ma com’è possibile? Ci si chiede ogni volta che accade. Cosa può mai passare per la testa di un imprenditore di Bolzano quando decide di chiudere in una cassa la compagna lasciandola imbavagliata e legata sotto il sole in autostrada solo perché la donna gli avrebbe risposto male? E per la mente di un commerciante di Parma quando invita nel proprio attico una ventunenne e la violenta per ore con un nigeriano cui chiede di portare della droga prima di chiamare un taxi e rispedire la ragazza a casa come se nulla fosse? Sembrano scene tratte da un film dell’orrore e che, però, non appartengono alla fiction, ma alla realtà. Una realtà fatta, probabilmente, di vuoti da colmare e rabbia compressa. Ma anche di assenza di limiti, egoismo e individualismo sfrenato. Visto che quello che manca, ogni volta che questa violenza oscena viene perpetrata, è la capacità di rendersi conto che di fronte a sé c’è una persona che vive e soffre sulla propria pelle quella barbarie, e non un semplice oggetto per sfogare la rabbia, vendicarsi di non si sa quale torto subito, o anche solo divertirsi.
Il problema è che viviamo in un’epoca in cui chiunque sembra rivendicare il diritto di fare qualunque cosa senza rendersi conto delle conseguenze. Anzi. Più si maltratta chi è debole e indifeso, più ci sente forti e ci si rassicura del proprio potere. Ti schiaccio, quindi esisto. Sembra questa una delle norme in vigore oggi.
Come può d’altronde un uomo accettare che la propria donna alzi la voce e si opponga al suo volere senza apparire fragile e poco virile? Come può contenere le proprie pulsioni quando soldi e successo sembrano legittimare il lasciarsi andare e il godere?
Queste molteplici violenze contro le donne non fanno altro che ribadire la crisi di un mondo in cui le regole della convivenza e del rispetto reciproco sembrano venute meno. Nonostante contraddicano, in fondo, l’umanità di chi questi gesti li commette, cancellando non solo il senso dell’esistenza altrui, ma anche quello della propria vita. Ciò che si annulla è quella presenza etica di cui tante volte ha parlato e scritto il filosofo francese Emmanuel Lévinas, spiegando come l’apparire del "tu" di fronte all’"io" sia la radice stessa della morale. Ma chi, oggi, crede ancora all’etica?
Corriere 31.8.18
Sarà un altro anno di supplenti: 20 mila cattedre senza titolare
Ricorsi e graduatorie vuote, molte classi con i precari. Entro settembre bando per le maestre
di G. Fre.
L’allarme rosso viene dalla Lombardia: anche quest’anno come l’anno scorso sono finiti gli insegnanti nelle graduatorie. Non vuol dire che gli studenti lombardi siano rimasti senza insegnanti: sono arrivati migliaia di supplenti. Quattro cattedre su cinque non avevano trovato un titolare nel 2017. E quest’anno sarà lo stesso. Con buona pace delle promesse degli ultimi quattro anni che la riforma avrebbe guarito il sistema scolastico italiano dalla supplentite.
I precari non insegnano materie di contorno: le graduatorie vuote sono quelle di italiano, matematica e inglese. Tra mille ritardi si sta concludendo il concorso riservato ai cosiddetti «abilitati» — una prova leggera solo orale — la situazione non sarà molto diversa dal settembre scorso. La mega sanatoria, che comprende anche gli insegnanti che erano stati bocciati all’ultimo concorso, quello del 2016, arranca tra burocrazia, dimissioni dei commissari e ricorsi in diverse parti d’Italia. E rischia di non portare miglioramenti. In Campania due giorni fa sono già scesi in piazza gli insegnanti che hanno partecipato al concorso: se i risultati non saranno pubblicati entro oggi rischiano di perdere il posto fisso, almeno per quest’anno, forse anche per più tempo perché l’anno prossimo si riapre la possibilità di cambiare regione per chi è già in graduatoria e questo rimescolerà un’altra volta le carte. Le preziose tabelle dei promossi e dei bocciati mancano anche in Piemonte, ma non per tutte le materie, sono in ritardo Toscana e Lazio e Lombardia. Una situazione che secondo le stime della Cisl scuola potrebbe lasciare senza titolare quasi 20 mila delle 57 mila cattedre che attendono un insegnante di ruolo.
Se questo in classe sarà un anno da supplenti, negli uffici scolastici regionali sarà l’anno dei concorsi. Non ci sarà quello nuovo previsto dalla riforma Giannini-Renzi che avrebbe dovuto mandare in cattedra giovani laureati dopo tre anni di tirocinio formativo. Si continua con le prove più o meno facilitate per incasellare in graduatorie definitive le decine di migliaia di precari in cerca di cattedra. Al ministero sono al lavoro perché entro settembre si pubblichi il bando per le maestre senza laurea (che è obbligatoria ormai da più di quindici anni) e che secondo la sentenza del Consiglio di Stato dello scorso dicembre devono sostenere un concorso per poter diventare di ruolo: 7400 avevano già avuto la cattedra con riserva, di queste due terzi potranno fare il concorso, anche questo rapido e leggero, e senza possibilità di essere bocciati.
Con loro ci saranno altre 30/40 mila colleghe che hanno insegnato almeno per due anni negli ultimi otto. In realtà questa rapidità del ministero non piace del tutto ai sindacati: molte maestre hanno insegnato nelle paritarie più che nelle scuole statali, per loro ritardare i termini alla fine di questo anno scolastico sarebbe vitale: potrebbero accumulare i mesi che mancano.
Per il concorso ordinario, cioè per i diplomati in Scienze della Formazione, dal Miur è già partita la richiesta di finanziamento al ministero dell’Economia, così come per il concorso per gli insegnanti di sostegno: entro l’anno, promette il ministro, si partirà. Infine Bussetti vuole indire anche il concorso per il personale amministrativo, le segreterie, e promette il bando entro l’inizio d’ottobre.
Se sotto il portone del ministero non ci sono più le maestre (diplomate) che manifestavano fischiando tutti i giorni, la scuola comincia comunque con uno sciopero: lo ha proclamato per l’11 settembre l’Anief per richiedere di non cancellare l’emendamento (firmato da Leu) al decreto Milleproroghe che riaprirebbe le graduatorie ad esaurimento ai docenti in possesso di abilitazione. Era stato approvato e dal Senato il 3 agosto: il sottosegratario Fugatti si era distratto e aveva dato parere favorevole. Toccherà ai deputati rimediare.
Corriere 31.8.8
La nuova maturità non avrà quizzone Inglese, Invalsi e seconda prova multidisciplinare
Più peso al triennio, cambia il calcolo del voto
di Giuseppe Alberto Falci
All’avvio della stagione scolastica gli studenti che inizieranno il quinto anno delle scuole superiori si ritroveranno un nuovo esame Maturità come ridisegnato dai decreti attuativi della riforma «Buona Scuola». Diverse le novità che accompagneranno l’estate 2019 dei ragazzi dei licei e degli istituti superiori. La più significativa è rappresentata dall’abolizione della terza prova, il quizzone multidisciplinare che fin dalla sua entrata in vigore nel 1998 è stato l’incubo di milioni di studenti. La terza prova era articolata su più materie, con una durata e uno svolgimento diverso a seconda delle scuole. Lo scopo era quello di accertare le «conoscenze, competenze e capacità acquisite dal candidato, nonché le capacità di utilizzare e integrare conoscenze e competenze relative alle materie dell’ultimo anno di corso, anche ai fini di una produzione scritta, grafica o pratica». Dal prossimo esame niente più quizzone. Si ritorna al passato: due prove scritte così come era previsto prima della riforma firmata Luigi Berlinguer.
Si saprà solo a metà settembre quali saranno le modalità delle due prove scritte. La seconda prova sarà multidisciplinare — per esempio matematica e fisica allo Scientifico — in alcuni indirizzi e rimarrà come è adesso in altri. Per la prima prova ha lavorato la commissione guidata dal linguista Luca Serianni, il quale si dice convinto che al tema si potrebbe affiancare «una prova di comprensione del testo» per «verificare la capacità di comprensione anche di testi contemporanei: si potrebbe pensare a un breve riassunto, in aggiunta al tema o a delle domande a scelta», così come succede già per l’altra prova, quella di matematica.
Un’altra novità sarà l’obbligatorietà della prova Invalsi. Il test, che oltre al questionario d’italiano e matematica prevedrà anche l’inglese con tanto di certificazione del livello raggiunto, dovrà essere svolto durante il quinto anno, in un periodo compreso tra il 4 e il 30 marzo 2019. Tuttavia il voto dell’Invalsi non peserà sulla media degli studenti né sul voto d’esame.
Diventerà invece oggetto di valutazione in sede di esame l’attività di «alternanza scuola lavoro». Anche se il ministro Bussetti toglie centralità ai progetti ed è pronto a ridurne drasticamente l’impatto oltre che le ore durante l’anno.
Dal prossimo giugno sarà invece dirimente avere la sufficienza in tutte le materie. Nessuna esclusa. Solo in via eccezionale si potrà contemplare una lieve insufficienza, motivata dal consiglio di classe, e di cui si terrà conto nella tabella dei crediti.
Già, i crediti. Anche qui via libera a una modifica. Peserà maggiormente il rendimento dell’intero triennio, circa il doppio rispetto a quanto era previsto con il vecchio esame. In sostanza, fatto 100 il massimo dei voti, il numero dei crediti passerà da 25 a 40, che saranno così ripartiti: 12 per il terzo anno, 13 per il quarto e 15 per il quinto. E ancora: gli studenti non dovranno più presentarsi in sede di esame con la mappa concettuale né tantomeno con la tesina, strumenti che in questi anni sono stati entrambi utili ai ragazzi per rompere il ghiaccio con i membri della commissione.
Ma non si ferma qui la nuova maturità. Entra in campo il curriculum scolastico. In sostanza, una volta completato il ciclo di studi verrà allegato al diploma un documento che conterrà le discipline comprese nel piano di studi appena concluse, le competenze acquisite, le conoscenze e le abilità anche professionali, e infine i livelli di apprendimento conseguiti nelle prove scritte.
In questo modo gli studenti avranno in mano un vero e proprio curriculum utile ai colloqui di lavoro e anche all’accesso alle università.
Il Fatto 31.8.18
“Vi racconto chi è Navalny l’ultimo dei Mohicani”
Kira Jarmish - La portavoce del più noto oppositore di Putin: “In Russia Aleksey è un bersaglio perché denuncia la corruzione”
“Vi racconto chi è Navalny l’ultimo dei Mohicani”
di Michela G. Iaccarino
Pochi conoscono il nome della donna con i capelli rossi e gli zigomi pallidi che segue ovunque Aleksey Navalny come un’ombra. Se c’è qualcuno che davvero custodisce il rosario di informazioni riservate, segreti e strategie del blogger più famoso in Russia è lei: Kira Jarmish, la press-sekretar di Aleksey. Kira sta a Navalny come Dimitry Peskov sta a Putin: sono la loro voce quando i leader sono assenti. Putin perché è negli uffici più segreti del Cremlino, Navalny di solito perché è in carcere. Kira è la vera custode di ogni suo pensiero, di ogni suo movimento, che con pazienza certosina registra sempre con lo smartphone.
Kira, lei è la voce e la faccia di Navalny, soprattutto quando lui viene fermato dalla polizia e ridotto al silenzio.
Lavoro con lui da quattro anni, ma lo sostengo da molti di più. Cercava un portavoce e mi sono candidata: ma voglio chiarire, per me questo lavoro è innanzitutto un dovere civile. Aleksey fa la cosa giusta, condivido i suoi punti di vista. Alla Russia è necessaria la borba, la lotta alla corruzione, il cambiamento del potere. E noi combattiamo per questo. Putin è al potere da 19 anni, Aleksey è la nostra unica alternativa.
L’ultima notizia è che Navalny è stato arrestato perché organizzava cortei contro l’ultima riforma delle pensioni del governo Putin.
Contro questa riforma si sta battendo ormai la maggioranza assoluta dei russi, questo tema unifica tutta la popolazione in questo esatto momento storico. Il suo arresto non ferma certamente il nostro lavoro, il Cremlino ostacola la nostra attività, ma continuiamo a prepararci per l’akzia, la grande protesta del 9 settembre, il giorno delle prossime elezioni governative. L’arresto è il mezzo delle autorità russe per fermare i veri avversari politici. Arrestano Navalny perché lui incarna la lotta alla corruzione, cioè tutto ciò su cui si basa il regime russo.
Dal 1932 l’età pensionabile non era mai cambiata, Medvedev poi ha varato una riforma alla Duma mentre tutta la Russia era distratta a guardare nell’afa estiva le partite dei Mondiali. Prevede l’aumento dell’età pensionabile: da 60 a 65 anni per gli uomini entro il 2028, da 55 a 63 per le donne entro il 2034. Sulle donne Putin ha appena fatto un passo indietro: da 63 a 60 anni. Ma il presidente nel 2005 aveva promesso che non avrebbe mai alzato l’età pensionabile. Adesso ha ribadito che è necessaria.
I cambiamenti che ha annunciato Putin sono una diretta conseguenza delle nostre azioni. Ecco l’unica, vera cosa di cui hanno paura Putin e il Cremlino: ljudi na ulizach, le persone per strada.
Il consenso a Putin non era mai calato così tanto nei sondaggi. Qual è la connessione tra l’arresto di Navalny, le prossime elezioni e la riforma?
Quello che ho detto: le persone per strada. È proprio per questo che Aleksey è stato arrestato adesso, pensano che senza di lui le proteste del 9 settembre non saranno partecipate. Le elezioni qui non interessano a nessuno, le votazioni non riflettono la vera opinione pubblica, invece l’aumento dell’età pensionabile è una cosa che sta riguardando dal primo all’ultimo cittadino.
I vostri cortei finiscono sempre con arresti e sangue, perché quasi mai sono autorizzati. Per avere l’approvazione delle autorità dovreste essere registrati al ministero della Giustizia come partito politico.
Non ci permettono di registrarci, così non possiamo partecipare alle elezioni.
Questa riforma può favorire l’avvicinamento della popolazione alle istanze dell’opposizione contro Putin?
È una questione complessa; alla domanda su cosa succederà in Russia nel prossimo futuro non saprei rispondere neppure se avessi tutto il mio tempo a disposizione per farlo.
Il Fatto 31.8.18
Rohingya, Onu accusa: “Suu Kyi accessorio dei militari”
di Roberta Zunini
L’Alto commissario Onu per i Diritti umani, Zeid Ràad Al Hussein, ha dichiarato alla Bbc che il premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, “avrebbe dovuto dimettersi” dopo la violenta campagna dell’esercito birmano contro i Rohingya avvenuta un anno fa. Secondo l’esponente delle Nazioni Unite, i tentativi della premio Nobel di giustificare le uccisioni, gli stupri di massa e la deportazione della minoranza musulmana sono “profondamente deplorevoli”.
Alla Bbc Hussein ha aggiunto che “non c’era alcun bisogno che lei fosse il portavoce dell’esercito birmano. Meglio ritornare agli arresti domiciliari che diventare un accessorio”. Del resto, anche l’ex prigioniera politica, come abitudine dei militari, una volta arrivata al potere ha cercato più volte di far ricadere le colpe sulla stampa, accusandola di falsità e dimenticando che quest’ultima, specialmente quella straniera, durante la sua lunga prigionia, le era stata assai utile per non essere dimenticata. La repressione non si è mai fermata. Il caso più recente riguarda Wa Lone e Kyaw Soe Oo, due reporter dell’agenzia Reuters in carcere da 8 mesi con l’accusa di aver violato la legge “sui segreti ufficiali”. Il verdetto avrebbe dovuto essere emesso ieri ma è stato posticipato al 3 settembre. Nonostante il maquillage fornito dal ritorno alle urne dopo decenni di dittatura militare, la democrazia è ancora una chimera nel Paese del Sud-Est asiatico. Sul web continuano le petizioni per chiedere al Comitato per il Nobel di revocare il premio conferito all’attuale Consigliera di Stato e ministra degli Esteri nel 1991. Ma i responsabili hanno chiarito che, malgrado le accuse dell’Onu, non è possibile.
Il Fatto 31.8.18
Rivoluzione d’ottobre: Picasso e Klee
di Angelo Molica Franco
Apriamo le porte ai rivoluzionari: Picasso, Courbet, Warhol, Duchamp. Questi sono solo alcuni dei nomi, o meglio, dei geni ribelli che i musei italiani accoglieranno nell’autunno 2018.
La rivoluzione è metamorfosi. Non a caso, si intitola Picasso. Metamorfosi l’esposizione a Palazzo Reale a Milano, in cui il maestro spagnolo re-inventa l’arte e la mitologia classica: vasi, statue, rilievi e le loro raffigurazioni – tori, minotauri, scene di vita, di morte e di eros – secondo Picasso. Proprio come le opere in cui Klee rilegge l’arte primitiva e paleocristiana esposti in Paul Klee. Alle Origini dell’Arte al Mudec.
Rileggere il principio delle cose è un modo di trovare il sé, di “indagare l’inconscio” direbbe Freud il cui pensiero illuminò l’opera di Duchamp, in mostra a Palazzo Blu di Pisa Da Magritte a Duchamp – 1929. Il grande Surrealismo dal Centre Pompidou: un’occasione per ammirare, tra capolavori di Giacometti e Magritte, la sua Gioconda coi baffi, L.H.O.O.Q. Perché rivoluzionario è anche il modo in cui si guardano le cose di sempre: Courbet traghettò l’arte paesaggistica francese da un orpelloso ideale romantico verso la pittura di realtà. Più di 50 i capolavori esposti in Courbet e la Natura a Ferrara, Palazzo dei Diamanti. Uno sguardo altro fu quello dei surrealisti, cui la Fondazione Ferrero di Alba dedica Dal Nulla al Sogno. Dada e Surrealismo dalla Collezione del Museo Bojimans Van Beuningen, e degli impressionisti, in mostra a Palazzo Zabarella a Padova in Gauguin e gli Impressionisti. Capolavori dalla Collezione Ordrupgaard. Eversiva è pure la meraviglia di Marc Chagall: ad Asti, a Palazzo Mazzetti, Chagall. Magia e Colore con più di 150 lavori tra dipinti, disegni, incisioni da cui riverbera una visione dell’universo tra onirico e atavico.
E non si può parlare di ribellione al canone, senza citare la Pop-Art. Sarà protagonista Warhol su tutti e in più declinazioni: Camera Pop. La Fotografia nella Pop Art di Andy Warhol, Schifano & Co al centro Italiano per la Fotografia di Torino; Warhol e New York Anni ’80 a Bologna, Palazzo Albergati con lavori di Basquiat, Haring, Jeff Koons; la ricchissima esposizione Andy Warhol al Complesso del Vittoriano a Roma – con più di 170 lavori, tra cui la serie dedicata a Marilyn Monroe – che ospita anche “Pollock e la Scuola di New York”: 50 capolavori (tra cui Number 27, la tela di Pollock lunga più di 3 metri) insieme a Rothko, Willem de Kooning, Franz Kline.
E la rivoluzione del pensiero, l’A.I., è al centro della mostra-riflessione LOW FORM. Immaginari e Visioni nell’Era dell’Intelligenza Artificiale al MAXXI di Roma, che propone anche la prima personale dedicata a Zerocalcare, da sempre narratore della rivolta delle nuove generazioni contro il sistema.
Non si intenda, però, che la rivoluzione nell’arte inizia nel ‘900 e dintorni. Nasceva, infatti, 500 anni fa Tintoretto, senza la cui pittura visionaria e per nulla convenzionale Venezia non sarebbe stata la stessa, e la sua città gli dedica per l’occasione Tintoretto 1519-1594 a Palazzo Ducale. Un altro esempio è il maestro assoluto dell’arte del ‘400 Antonello da Messina i cui rivoluzionari capolavori (a Palermo, Palazzo Abatellis) sono stati capaci di imporre la scuola siciliana nella grande pittura italiana ed europea.
La Stampa 31.8.18
Benin, nel regno delle donne guerriere con l’ultima regina delle Amazzoni
Nell’800 difesero il Paese dai coloni europei: divoravano i nemici uccisi
Simboli del riscatto femminile, hanno ispirato il film Marvel “Bleck Panthrt”
di Lorenzo Simoncelli
Città del Capo Rubinelle, una giovane di Abomey, cittadina del Benin, piccolo Stato africano schiacciato tra Nigeria e Ghana, ogni giorno, insieme ad altre ragazze, prepara vestiti e corone per un’anziana donna. Una volta vestita, l’accompagna fuori dalla sua casa e la protegge dal sole con un ombrello pittoresco. Sopra la scritta: Reine Hangbe.
Una regina leggendaria a queste latitudini, fondatrice delle Amazzoni, le eroiche guerriere del Benin capaci di resistere ai colonizzatori europei nel XIX secolo. La donna, almeno secondo la comunità, è discendente diretta della sovrana e quindi necessita di protezione continua, proprio come avveniva nel regno di Dahomey, l’antico impero dell’Africa occidentale esistito tra il 1625 ed il 1894 prima dell’avvento dei francesi.
Vudù religione ufficiale
Rubinelle e le sue compagne ogni giorno assistono ai suoi rituali, frequenti nella terra dove il vudù è considerato religione ufficiale, e si dicono pronte a tutto pur di difenderla, così come era prassi nell’antico regno. «Questa donna è la nostra divinità, le Amazzoni devono essere pronte a morire per lei e noi lo siamo», afferma Rubinelle.
Con clava e machete
Più volte la reale esistenza di questo antico Impero e delle sue eroine è stata messa in discussione, nonostante non manchino le testimonianze di colonizzatori europei e missionari. In uno scritto del 1861, un prete italiano, don Francesco Borghero, raccontava di aver visto migliaia di guerriere scalare a piedi e mani nude alberi alti oltre 120 metri per prepararsi agli scontri contro i colonizzatori europei. La mancanza di uomini, reclutati come schiavi, e il loro coraggio sublime, avrebbe convinto uno degli ultimi re dell’Impero a inserirle nelle fila dell’esercito, nonostante fossero donne. Le immagini le rappresentano con machete in una mano, clava nell’altra, senza armatura e con una corona di conchiglie in testa, e feroci all’inverosimile. I resoconti dell’ultima battaglia persa ai danni dei francesi nel 1892 riportano episodi di Amazzoni indemoniate in grado di sgozzare uomini dell’esercito nemico per poi cibarsene.
Come nel film della Marvel
Dell’antico regno di Dahomey sono rimaste poche tracce ad Abomey: alcuni palazzi imperiali diroccati ed un piccolo museo polveroso, in prossimità della casa dell’anziana donna discendente della regina Hangbe. Il ruolo delle Amazzoni, invece, è tenuto vivo da Rubinelle e compagne, ma non solo. La Marvel, nota casa cinematografica americana, si è ispirata alla loro storia nel film campione di incassi «Black Panther». Le forze speciali femminili Dora Milaje (Le Adorate), protagoniste del fittizio regno africano di Wakanda sono state ideate traendo spunto dalla storia delle Amazzoni del Regno di Dahomey. Grazie al successo ai botteghini, dopo anni di oblio, la storia delle Mino (Nostre Madri), come sono chiamate in lingua Fon, uno dei dialetti locali, sta riprendendo vigore. «Con il cambio dello status sociale delle donne in Africa la gente è più curiosa di capire il ruolo che hanno avuto in passato - afferma Arthur Vido, professore di Storia delle donne all’Università di Abomey-Calavi in Benin - oltre al loro valore militare, sono diventate modelli per la società nella lotta per l’emancipazione femminile».
Le usanze crudeli
Gli echi guerreschi del passato sono lontani, ma gli abitanti di Abomey, ancora oggi, portano profondo rispetto e riverenza a Rubinelle, le Amazzoni e l’anziana regina. Terminati i riti propiziatori è possibile vederle aggirarsi per le strade polverose della città con gli inconfondibili ombrelli colorati da cui pendono ossa e capelli dei nemici uccisi. Giusto per ricordare di che pasta sono fatte.
Repubblica 31.8.18
Oliver Sacks
Il mio Oliver sognatore di parole inventate
di Bill Hayes
I vocabolari erano la grande passione di Sacks. Annotava etimologie ovunque, anche sul frigorifero. Perché diceva, come racconta ora il suo compagno, "possiamo solo scrivere cosa vuol dire vivere in quest’epoca"
Oliver Sacks, amato neurologo e scrittore, si è entusiasmato tutta la vita per tante cose: – le felci, i cefalopodi, le motociclette, i minerali, il nuoto, il salmone affumicato e Bach, tanto per citarne alcune – ma più di ogni altra cosa sono state le parole a riempirlo di entusiasmo. Quando dico che amava le parole, non mi riferisco al semplice fatto che scriveva e che ha pubblicato tanti libri diventati classici – Risvegli, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Musicofilia. Se non ne avesse scritto nessuno, sono sicuro che Oliver sarebbe stato in ogni caso lo stesso tipo un po’ stravagante che si portava a letto dizionari giganteschi da leggere, aiutandosi con una lente di ingrandimento. Lo appassionavano etimologie, sinonimie e antonimie, slang, turpiloquio, palindromi, termini anatomici, neologismi (ma, in linea di principio, era restio alle abbreviazioni). A tavola, conversava allegramente di analisi e differenze tra omonimie e omofonie, per non parlare di omografie. E, per inciso, adorava pronunciare quelle tre parole – quell’allitterazione di "H" aspirate (rispettivamente homonyms, homophones, homographs) – con il suo caratteristico accento britannico. «Ogni giorno sono sorpreso da una nuova parola», commentò un giorno, raggiante, a proposito di un vocabolo che, all’improvviso, gli era balenato in mente. Spesso questo fenomeno gli capitava mentre nuotava – «quando nuotava a dorso idee e interi paragrafi» si affacciavano distintamente, dopo di che lui si precipitava a riva o a bordo piscina per annotarle su carta – come ha colto Dempsey Rice in un affascinante film di prossima uscita intitolato The Animated Mind of Oliver Sacks. A casa, invece, di frequente – come ha fatto per anni – scriveva parole e idee direttamente sulle pagine dei libri che stava leggendo.
Per buona parte della nostra relazione, durata sei anni, mi sono riferito spesso a Oliver chiamandolo "dizionario ambulante" (anzi, un OED ambulante da "Oxford English Dictionary") perché ricordava l’ortografia e le definizioni delle parole con grande precisione.
Malgrado ciò, Oliver rimase sempre umile, non si vantava mai del suo lessico straordinario e, in caso di dubbio, andava a controllare l’Oed (possedeva tutti i venti volumi che lo compongono), oppure il più compatto e sintetico Chamber’s Dictionary, una copia del quale gli era stata regalata dalla zia preferita in occasione del suo nono compleanno. Oliver adorava così tanto le parole che spesso le sognava e, in qualche caso, le inventava addirittura.
Una mattina di sei anni fa trovai scritto sulla lavagnetta in cucina "ore 5. Nepholopsia." «E che diamine vuol dire?» chiesi mentre preparavo il caffè.
Oliver ridacchiò, poi si lanciò nella descrizione di un sogno molto complicato che aveva fatto quella notte nel quale, bloccato su un pianeta alieno, aveva visto alcune nuvole antropomorfe trasformarsi in modo minaccioso e riversarsi dall’alto "con intenzioni omicide" sulla Land Rover che stava guidando. Un "incubo nebuloso", aggiunse, quasi si trattasse del primo che aveva. Per non dimenticarsene, lo aveva annotato alle cinque del mattino. (Parlò poi di questo suo sogno allo psicanalista freudiano da cui si recava due volte a settimana). «Nepholopsia – mi disse – significa "vedere le nuvole" oppure "essere avvolti dalle nuvole"». Poi aggrottò le sopracciglia. No, non ne era molto sicuro. «Controlliamo su un buon testo» disse, e insieme andammo a consultare l’Oed (la "mia Bibbia" lo chiamava spesso Oliver, ateo convinto).
Nell’Oed trovammo "nefologia", che significa studio delle nuvole (dalla radice greca nephos), ma non "nepholopsia". Saltò fuori che per puro caso aveva coniato una parola nuova.
Ne rise, ma di fatto non era la prima volta che gli capitava.
Oliver inventò la parola "musicofilia", l’intenso amore che si prova per la musica, che non esisteva prima che nel 2007 uscisse un suo libro così intitolato. (Oliver, in ogni caso, era sempre sollecito ad aggiungere che in inglese esisteva da tempo il termine "musicofobia", avversione per la musica, e pensava che fosse meritevole di nota avergli dato un antonimo.) Fu questo suo spiccato amore per le parole – etimofilia, se preferite – e per la scrittura (che considerava una forma di pensiero) a spingere Oliver a dirmi un giorno, poco dopo che mi ero trasferito a New York nella primavera del 2009, «devi assolutamente tenere un diario!». Il suo non era un consiglio, ma un ordine.
Seguii subito il suo consiglio, annotandomi quello stesso scambio di battute su un pezzo di carta che conservo ancora oggi.
Non tenevo un diario dai tempi dell’adolescenza, ma iniziai subito ad annotarvi le impressioni della mia vita a New York e – quando erano troppo fantastiche per non poter opporre resistenza – appuntai anche le parole che mi diceva Oliver, il che capitava quasi ogni giorno. In sintesi, Oliver era citato tutti i giorni.
Col passare degli anni, il mio diario newyorchese è cresciuto a dismisura, ma non l’ho più riletto fino a quando non ho deciso di scrivere un memoir della mia vita a New York e con Oliver. Ho pensato che rileggerlo mi sarebbe servito a rinfrescarmi la memoria. Invece, vi ho trovato qualcosa di sorprendente: alcune parti del libro erano già scritte. Si trattava di scene intere e di lunghi dialoghi tra Oliver e me.
Come se fossero rimasti tra le pagine, in attesa che io li riascoltassi.
Anche se Oliver non ha fatto in tempo a vedermi ultimare quel libro, Insomniac City, sono sicuro che non si stupirebbe del fatto che la sua genesi risalga a un diario. Dopo tutto, molti dei suoi stessi saggi, articoli e idee per libri erano nati da uno dei suoi diari manoscritti.
Oggi, a tre anni di distanza dalla morte di Oliver, sono tantissime le sue parole che mi sono rimaste ancora dentro, che mi fanno ancora sorridere, che ancora mi commuovono. Non molto tempo dopo aver ricevuto una diagnosi di tumore all’ultimo stadio, per esempio, una sera sollevò la testa dalla scrivania e all’improvviso mi disse una cosa che non dimenticherò mai: «Il massimo che possiamo fare è scrivere – in modo intelligente, creativo, critico, evocativo – di quello che vuol dire vivere in questo mondo in questa epoca».
Mentre mi parlava, ebbi la netta impressione che non intendesse rivolgersi soltanto a me, ma a chiunque in qualsiasi parte del mondo ami le parole tanto quanto le amava Oliver Sachs.
– The New York Times 2018 Traduzione di Anna Bissanti
Repubblica 31.8.18
La speranza nel futuro è una ragazza di 90mila anni
Immigrazione, razzismo e civiltà nella scoperta di Denny, metà Neanderthal e metà Denisovana
di Massimo Ammaniti
Sulla prestigiosissima Rivista Scientifica Nature è comparso un articolo a più nomi sulla stupefacente scoperta avvenuta in una lontana grotta della Siberia dei resti di uno scheletro umano di circa 90mila anni, che suscita interrogativi ma fornisce anche delle prime risposte. Si tratta di una giovane adolescente di circa 13 anni, come viene confermato dallo spessore delle sue ossa, che è uno straordinario ibrido umano, la madre apparteneva al gruppo dei Neanderthal che popolavano allora la Terra, mentre il padre era di un altro ceppo umano, i Denisovani. Mentre sul mondo degli uomini Neanderthal si è già scritto molto, sulle loro caratteristiche personali, sui loro comportamenti e soprattutto sui possibili motivi della loro scomparsa, dei Denisovani si sa relativamente poco. Il loro patrimonio genetico è stato scoperto recentemente nelle ossa trovate nella grotta Denisova, sempre in Siberia. Fra i paleoantropologi si pensa che i Denisovani facessero parte dello stesso ceppo dei Neanderthal, ma poi si siano separati in due distinti gruppi, anche sul piano genetico circa 350mila anni fa.
Ma ritorniamo a Denny, come i ricercatori hanno battezzata la ragazza. Quando inizialmente si è studiato il suo genoma si è pensato a un possibile errore perché non corrispondeva a quelli conosciuti, ma poi ripetendo gli esami genetici si è chiarito il mistero. Denny era un ibrido, frutto di un incrocio fra due ceppi umani diversi, quantunque relativamente vicini che popolavano l’Eurasia in quel periodo. Avevano una grande mobilità, perché i resti dei Neanderthal sono stati trovati in Croazia, mentre Denny si trovava in Siberia dove padre e madre verosimilmente si erano incontrati. Era un periodo di grandi migrazioni, i Neanderthal si trovavano in varie parti d’Europa, il ceppo degli uomini Sapiens, che avrebbero poi dominato l’intero continente, provenivano dall’Africa e avrebbero addirittura raggiunto l’Australia, conservando nel loro genoma tracce dei patrimoni genetici appartenenti agli altri ceppi. Era un rimescolamento continuo fra ceppi diversi che si spostavano alla ricerca di selvaggina e di cibo e da questo "bricolage" antropologico è nato l’uomo attuale, frutto di una selezione che ha valorizzato, anche se non sempre, le caratteristiche più adattative. Per fortuna non c’erano allora barriere e muri che bloccavano le migrazioni, altrimenti l’Homo Sapiens sarebbe rimasto in Africa e non si sarebbe avventurato nel mondo, scoprendo nuove terre e risorse che avrebbero poi contribuito alla nascita della civiltà. E in queste migrazioni avvenivano contatti fra gruppi e ceppi diversi, sicuramente competitivi e conflittuali per l’occupazione del territorio, ma anche incontri più amichevoli e sessuali, come dimostra la nascita di Denny. Si è sempre supposto che fra i vari ceppi umani avvenissero scambi e incroci, ma fino ad ora non era mai dimostrato, addirittura qualcuno aveva supposto che ci fossero incompatibilità biologiche. Fra i due gruppi si verificarono scambi ed incontri pur muovendosi in territori lontani, ma furono probabilmente limitati e i patrimoni genetici rimasero distinti. È stupefacente che da un pezzo di osso si sia potuto ricostruire lo scenario di 90mila anni fa e si possa immaginare che allora non ci fosse soltanto la lotta per la sopravvivenza, ma che avvenissero anche incontri sentimentali fra gruppi umani molto diversi.
Un’ultima annotazione. Una ragazza adolescente, Denny, è l’incarnazione di un incrocio fra gruppi e culture lontanissime, è quello che succede oggi fra gli adolescenti che si incontrano e familiarizzano, pur provenendo da etnie lontane e pur avendo identità di genere anche molto diverse.
Repubblica 31.8.18
Il concorso
Quanti riferimenti pittorici, anche troppi per Lanthimos e l’esordiente Alverson
di Em. Morre.
The Mountain, opera prima dell’americano Alverson, è un caso curioso di film dalle grandi potenzialità completamente rovinato dall’autore stesso. Lo spunto iniziale è molto originale: negli anni 50 un dottore (Jeff Goldblum, splendido e sprecato anche lui) vaga per ospedali offrendo i propri servigi di specialista in lobotomie ed elettroshock: uno strano personaggio, metà rappresentante del potere medico e metà cialtrone.
Lo accompagna un giovane (il catatonico Tye Sheridan), la cui madre è a sua volta internata in manicomio. Sembra oltretutto evidente il talento visivo del regista, che però strafà da subito, con la prima inquadratura al ralenti su una voce fuori campo, e prosegue con estetismo stucchevole, estetizzando le immagini dei malati di mente in insopportabili tableaux vivants, con ovvi riferimenti fotografici e pittorici (Edward Hopper, e ti pareva). Ogni dubbio si risolve nel prosieguo, quando tutto prende una via delirante: entra in scena un insopportabile Denis Lavant ubriaco monologante («questa non è una montagna, è l’immagine di una montagna»), e si fa strada una sempre più esplicita volontà di cercare l’Arte e la Filosofia. Trovando, in ultima istanza, il Kitsch.
Il temibile Yorgos Lanthimos, beniamino dei festival internazionali ed esponente di un cinema glamour misantropico col suo fidato sceneggiatore Efthymis Filippou, stavolta invece convince abbastanza con un progetto scritto da altri, l’adattamento di un radiodramma della Bbc.
Una specie di Eva contro Eva in cui due donne (Rachel Weisz e Emma Stone) si contendono i favori della Regina d’Inghilterra, nei primi del Settecento, in un crescendo di perfidia e manipolando i destini della guerra con la Francia.
La sessuofobia del regista trova una sponda nell’idea del sesso come arma di potere. La regia certo si trattiene a stento, tra omaggi pittorici sette e ancor più seicenteschi (gli inevitabili Vermeer e de la Tour), echi di Greenaway e ovviamente di Kubrick (anche qui, come in Barry Lyndon, sul più bello arriva un brano di Schubert a creare straniamento cronologico). Ma grandangoli, carrelli indietro e totali grotteschi di nobili incipriati non ingoiano del tutto la storia, e ci si diverte nel gioco libertino grazie alla brillantezza di molti dialoghi. La sfida tra le due attrici è vinta con largo vantaggio da Emma Stone, la giovane dall’apparenza ingenua.