Il Fatto 3.9.18
Galante Garrone e Calamandrei: il senso della Costituzione
La storia intellettuale e morale di un uomo d’altri tempi, padre della Carta
di Furio Colombo
L’autore
è Alessandro Galante Garrone, un nome che ha fatto da guida e da
riferimento a tanti adolescenti torinesi dell’immediato dopoguerra, sul
senso e il valore di essere antifacisti. Il libro è dedicato a
Calamandrei (Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista
della nostra storia, Effepi Libri), il personaggio che – dopo avere
partecipato alla scrittura della Costituzione – si è impegnato a guidare
un’Italia nuova e pulita lungo un percorso nobile di solidarietà
fraterna, un Paese senza odio e senza confini, dopo una guerra che ha
attraversato le terre desolate della morte a milioni e del deliberato e
bene organizzato sterminio di popoli. Né Galante Garrone né Calamandrei
si fidavano dello slancio spontaneo verso il bene di coloro che erano
sopravvissuti a una guerra di stragi. Galante Garrone ha preso subito la
bandiera della democrazia, dimostrando che niente vive senza l’impegno
(il dovere) e la partecipazione di ciascuno cittadino. Calamandrei ha
spinto sulla scena ancora disadorna dell’Italia povera e incerta di
allora, i diritti delle persone, i diritti della Costituzione, i diritti
umani, i diritti civili che, in seguito, i partiti, con l’unica
clamorosa eccezione di Marco Panella, di Emma Bonino, del Partito
Radicale, avrebbero tralasciato come se fossero solo l’ornamento, non la
materia prima della democrazia.
Ma l’imbarazzo deve essere
grande, per chi prende in mano ora questo libro (che è una ristampa da
un’Italia lontana) e lo confronti con l’Italia che stiamo vivendo
adesso, dove i diritti umani di rom, migranti e poveri vengono non solo
trascurati ma deliberatamente e fisicamente offesi perchè i più deboli
non contano. Governare con le false promesse, in un castello di
illusioni e invenzioni, ha portato a precipitare in un triste
retro-cortile senza cultura, senza storia, senza solidarietà, senza
alcun interesse per sentimenti e diritti, dove conta solo il
compiacimento del proprio personale potere. Questo libro arriva dal
passato in un tempo in cui si usa lo slogan “prima gli italiani”, che
farebbe inorridire chiunque ha combattuto per la libertà, e ha scritto e
insegnato la Costituzione italiana. Perciò Galante Garrone e
Calamandrei servono oggi all’Italia come le navi ong e la Guardia
costiera italiana servono a salvare migranti, benchè l’ordine di questa
repubblica sia di voltare le spalle.
Il Fatto 3.9.18
Le democrazie sono imperfette
Se
il potere è del popolo, ma i cittadini che partecipano alla vita
politica sono pochi, poco interessati e poco informati, i risultati del
processo decisionale saranno deludenti per tutti
di Gianfranco Pasquino
Alle
democrazie manca sempre qualcosa. È giusto così. Forse è persino meglio
così perché nelle democrazie è possibile continuare a cercare quello
che manca, spesso trovandolo.
Democratico è quello che deve essere
soggetto al controllo del popolo: governanti, rappresentanti, assemblee
elettive, leggi, non, però, la burocrazia, le Forze Armate, la
magistratura, le istituzioni scolastiche che debbono rispondere a
criteri di efficienza ed efficacia, di conseguimento degli obiettivi
decisi dai rappresentanti e dai governanti. Il popolo deciderà poi se,
come, quando fare circolare quei rappresentanti e governanti, cambiarli,
meglio non usando il criterio burocratico del limite ai mandati tranne
per le cariche elettive di governo che hanno la possibilità di sfruttare
il loro potere per influenzare la propria rielezione.
La
democrazia riguarda esclusivamente la sfera politica, quella nella quale
si affida a qualcuno il potere di decidere “secondo le forme e i limiti
della Costituzione”. È ciascuna Costituzione a stabilire quelle forme e
i relativi limiti. Qualcuno deve arbitrare relativamente alle forme e
ai limiti. Dalla Costituzione Usa in poi quel qualcuno è una Corte
costituzionale, il “giudice delle leggi”, la cui esistenza e la cui
attività non vanno a scapito della democrazia tranne quella interpretata
in chiave populista dove il popolo deciderebbe tutto con il suo voto, a
prescindere dalle forme e dai limiti, finendo spesso nelle braccia di
leader populisti e demagoghi e con loro fuoriuscendo dalla democrazia.
Certo, ci sono anche casi nei quali è la democrazia che “fuoriesce” dal
popolo (e da se stessa) ovvero meglio isola i governanti dal popolo.
Succede quando una coalizione di strutture raggiunge accordi di non
belligeranza e non interferenza e si irrigidisce dando vita ad
autoritarismi centrati sul riconoscimento di reciproche sfere di
influenza: la burocrazia statale, le Forze Armate, i grandi gruppi
industriali, spesso la Chiesa.
Nella misura in cui la democrazia è
pluralismo competitivo, le coalizioni autoritarie nascono raramente e
durano (relativamente) poco. Si trovano nei Paesi a noi vicini
soprattutto in Russia e in Turchia, che soltanto qualche commentatore
avventato può definire “democrazie autoritarie”. In Russia e Turchia non
manca qualcosa alla democrazia. Manca la democrazia. L’obiezione che in
entrambe c’è democrazia poiché si vota va fuori bersaglio. Le elezioni
democratiche debbono essere libere, competitive e eque. Nulla di tutto
questo né in Russia né in Turchia né, naturalmente, in molte altre
situazioni, ad esempio, in Zimbabwe. Laddove i cittadini non godono
pienamente dei diritti politici, per esempio quello di candidarsi, di
dare vita a organizzazioni (persino, partiti) e di fare campagna
elettorale e, spesso, vedono i loro diritti civili calpestati, in nessun
modo è possibile considerare “democratiche” quelle elezioni. Tuttavia,
anche alle elezioni democratiche può mancare qualcosa, per esempio,
gruppi selezionati e discriminati di elettori.
In troppi Stati del
Sud degli Usa gli afro-americani si vedono privati del diritto di voto
con vari accorgimenti burocratici: requisiti di residenza, di
registrazione nelle liste elettorali, di conoscenza della Costituzione.
Altrove, le assemblee statali a maggioranza repubblicana fanno ricorso
scientifico al gerrymandering, la manipolazione dei collegi elettorali.
Quando le leggi elettorali danno scarso potere agli elettori, sottraendo
loro qualsiasi possibilità di influenzare la scelta dei parlamentari
siamo di fronte ad un deficit democratico (Rosato, de te fabula
narratur). Le democrazie si reggono su un’unica eguaglianza assoluta,
quella di fronte alla legge: isonomia. Non è un’eguaglianza che esiste
in natura. Deve essere creata e alimentata, mantenuta e riprodotta in
continuazione. La democrazia è rule of law, governo della legge. Nessuna
democrazia ha mai promesso l’eguaglianza di risultati. Non soltanto
impossibile da conseguire, un’eguaglianza di questa specie impedirebbe a
ciascuno di noi di soddisfare effettivamente le sue priorità e le sue
preferenze. Non desidero più denaro, ma più tempo libero. Mi impegno a
lavorare di più per un certo periodo della mia vita per fare il critico
d’arte in un altro periodo. Nelle democrazie esiste pluralismo delle
scelte, ma, a seconda dei tempi e dei luoghi, nelle democrazie c’è
sempre un deficit di risorse per soddisfare tutti i desideri, tutti i
bisogni. Saranno, però, i cittadini a decidere quanto risparmiare,
quanto spendere, come e quanto ridistribuire. E avranno regolarmente la
possibilità di cambiare le loro preferenze nel corso del tempo.
Spesso
le democrazie sono deficitarie per quel che riguarda il ruolo e il
potere politico delle donne che si traduce in gravi diseguaglianze
sociali e economiche. Le quote rosa non risolvono il problema e possono
persino essere anti-costituzionali. Tocca alle donne sfidare il potere
politico maschilista non limitandosi a salire sulle code dei potenti e a
farsi portare là dove si trovano le cariche che, come vengono
attribuite/elargite, potranno essere revocate.
Last but not least,
nelle democrazie può manifestarsi un deficit di leadership. Fermo
restando che, periodicamente, si riscontrano deficit di capacità e
qualità nel mondo dell’industria, diciamo meglio, fra i capitalisti,
nell’accademia, nel giornalismo, nelle squadre di calcio e
nell’atletica, i deficit di leadership politica hanno conseguenze più
gravi. Raramente le democrazie selezionano i “migliori” (qualità di
quasi impossibile definizione), ma in democrazia, costoro sono, per
definizione, i vincenti nelle elezioni competitive. Raramente i migliori
in un sistema politico dedicano le proprie energie alla politica. Molto
diffusi in Italia l’antiparlamentarismo e l’antipolitica danno un
grande contributo a tenere i migliori, con pochissime eccezioni, lontani
dalla politica. Però, quello che conta è che un regime democratico
rimanga sempre competitivo e aperto. La leadership di buona qualità
riuscirà ad affermarsi. Naturalmente, i migliori dovranno “sporcarsi le
mani”, conquistare i voti. Dovranno contare sull’esistenza di molti
cittadini interessati alla politica, informati sulla politica,
partecipanti, non solo con il loro voto, alla politica.
Le
democrazie hanno gravi deficit se questi cittadini sono pochi di numero,
poco interessati e poco informati, partecipanti infrequenti e
fluttuanti. La democrazia esisterà comunque, ma il suo funzionamento
difficilmente sarà soddisfacente e la sua qualità risulterà modesta, ma
corrisponderà alla situazione che i suoi cittadini si sono costruita e
meritata. Al cittadino non competente e non partecipante, che si irrita e
protesta, allora diremo cura te ipsum. Se la democrazia è potere del
popolo, il popolo ha il dovere civico di prepararsi per esercitarlo in
maniera appropriata riducendo al massimo i suoi deficit cognitivi e
partecipativi.
Yes, we can.
Repubblica 3.9.18
Le idee. Animali politici
Quando la solitudine genera i tiranni
Otto milioni e mezzo di italiani vivono soli
L’individuo separato, diceva Aristotele, o è bestia o è dio. Ma il rischio è di essere bestie al servizio di un dio
Eravamo un popolo, siamo una somma di egoismi, dunque più deboli rispetto alla stretta del potere dispotico
di Michele Ainis
Ci
si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di
persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa,
un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite
degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in
mare aperto.
La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso
i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto
hikikomori.
Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica
compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un’onda ogni
generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.
Ne
sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l’esperienza di cui
siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono
da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il
conforto di un amante o d’un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha
certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui
rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d’Europa.
Mentre
l’11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con cui
parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso
Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l’anno. Non a
caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per cento degli
italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. E
non a caso quest’anno, agli esami di maturità, la traccia più scelta
dagli studenti s’intitolava «I diversi volti della solitudine nell’arte e
nella letteratura».
Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani. È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi.
Negli
Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né convive;
mentre l’Health and Retirement Study attesta che il 28 per cento dei più
vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine assoluta. Succede
pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli scelgono il carcere,
pur di procurarsi cibo caldo e un po’ di compagnia; o in Inghilterra,
dove la metà degli over 75 vive da sola.
Tanto che da quelle parti
il governo May, nel gennaio 2018, ha istituito il ministero della
Solitudine, affidandone la guida a Tracey Crouch; ma già in precedenza
funzionava una commissione con le medesime funzioni, inventata da Jo
Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista alla vigilia del
referendum su Brexit. Insomma, altrove questo fenomeno viene trattato
come un’emergenza, si studiano rimedi, si battezzano commissioni e
dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo a fari spenti, senza
interrogarci sulle cause delle nuove solitudini, senza sforzarci di
temperarne gli effetti. Quanto alle cause, l’elenco è presto fatto. In
primo luogo la tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo
schermo del cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico
con gli altri, segregandoci in una bolla virtuale. In secondo luogo
l’eclissi dei luoghi aggreganti – famiglia, chiesa, partito – sostituiti
da una distesa di periferie che ormai s’allargano fin dentro i centri
storici delle città.
In terzo luogo le nuove forme del commercio e
del consumo: chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli
ipermercati, dove ti mescoli alla folla. In quarto luogo
l’invecchiamento della popolazione, che trasforma una gran massa
d’individui in ammalati cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al
proprio male. In quinto luogo e infine, la precarietà dell’esistenza:
una volta ciascuno moriva nel paesello in cui era nato, dopo aver
continuato lo stesso mestiere del nonno e del papà; ora si cambia città e
lavoro come ci si cambia d’abito, senza trovare il tempo di farsi un
nuovo amico, di familiarizzare con i nuovi colleghi.
Con quali conseguenze?
Secondo
un gruppo di ricercatori della Brigham Young University, la solitudine
danneggia la salute quanto il fumo di 15 sigarette al giorno: giacché
provoca squilibri ormonali, malumore, pressione alta, insonnia, maggiore
vulnerabilità alle infezioni. Altri studiosi (John e Stephanie
Cacioppo, dell’Università di Chicago) mettono l’accento
sull’aggressività dei solitari, le cui menti sviluppano un eccesso di
reazione, uno stato di perenne allerta, come dinanzi a un pericolo
incombente. C’è un altro piano, tuttavia, ancora da esplorare: la
politica, il governo della polis. L’individuo separato o è bestia o è
dio, diceva Aristotele.
Ma nelle società contemporanee la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.
Sussiste
una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima può ben
corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una condanna
che subisci tuo malgrado. Nell’epoca della disintermediazione, della
crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta
a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per uno,
trasformandoci in una nube d’atomi impazziti. Eravamo popolo, siamo una
somma d’egoismi, senza un collante, senza un sentimento affratellante.
Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere.
Perché è la
massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere
dispotico – ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita activa), sulle orme
di Montesquieu – si regge sull’isolamento: quello del tiranno dai suoi
sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del reciproco timore e del
sospetto.
Sicché il cerchio si chiude: le nostre solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.
Repubblica 3.9.18
Facebook
L’istruzione di Zuckerberg a spese del mondo intero
di Kara Swisher
Lasciate,
prima di tutto, che vi dica che a me Mark Zuckerberg piace fin dal
primo giorno in cui l’ho conosciuto, più di 13 anni fa. Lasciate, però,
che vi dica anche che sia lui sia Facebook, il social network al quale
egli dette vita al college, mi stanno irritando allo sfinimento da
tempo. Ogni settimana succede qualcosa, e quel qualcosa non è mai buono.
Da
ultimo, si è trattato della rivelazione secondo cui i russi si
starebbero muovendo furtivamente attorno alla piattaforma per causare
problemi anche nelle elezioni americane di metà mandato. A questo punto,
la notizia non dovrebbe costituire una sorpresa per nessuno. Forse,
stupirà il solo presidente Donald Trump. Questa volta dovremmo essere
grati del fatto che a darne notizia sia stato il management stesso di
Facebook, che così ha preso le distanze dalla cocciutaggine di cui ha
dato prova in passato, quando ha opposto resistenza alle pressioni di
media e governi affinché facesse uso di maggiore trasparenza. In un post
sull’ultima campagna di disinformazione, in riferimento alle sfide per
la sicurezza l’azienda ha detto: « Siamo alle prese con avversari
determinati e ben finanziati che cambiano tattiche di continuo. È in
atto una corsa agli armamenti e anche noi dobbiamo migliorare sempre».
La
metafora della corsa agli armamenti è buona, ma non per le ragioni
addotte da Facebook. Per come la vedo io, Facebook, Twitter e YouTube
sono diventati i trafficanti delle armi digitali dell’epoca moderna.
Tutte queste aziende hanno iniziato con il velato proposito di cambiare
il mondo. Ma lo hanno fatto come non avevano immaginato. Hanno
modificato il modo di comunicare degli esseri umani, ma mettere in
collegamento la gente troppo spesso ha voluto dire mettere gli uni
contro gli altri. Queste aziende hanno trasformato in armi i social
media. Hanno trasformato in arma il dibattito pubblico. E, più di
qualsiasi altra cosa, hanno trasformato in arma la politica.
Questo
spiega perché attori ostili stiano continuando a giocare d’azzardo su
quelle piattaforme e perché non vi sia una soluzione concreta in vista:
quelle piattaforme sono state realizzate per funzionare esattamente in
questo modo. E da allora sono cresciute a dismisura e hanno finito con
l’avere la meglio sui più tenaci tentativi in cui si sono prodigati i
loro inventori per tenerle sotto controllo. A un recente botta e
risposta con i dipendenti di YouTube, per esempio, uno di loro mi ha
detto che, mentre un tempo il lavoro si limitava a sporadiche
chiacchierate su filmati di gattini, adesso è degenerato in un inferno
quotidiano di scambi di opinioni sul destino dell’umanità.
Se non
altro, Zuckerberg ha fatto notevoli passi avanti nell’ammettere il
problema e ha detto, più di qualsiasi altro Ceo digitale, che rimpiange
di non aver agito prima. Una cosa è certa: quando l’ho conosciuto, non
mi sarei aspettata niente del genere da lui, anche se, col senno di poi,
qualche piccolo segnale del fatto che stava sbagliando l’ho visto con i
miei stessi occhi. Quando ha attraversato tranquillo l’affollata stanza
del trasandato quartiere generale di Facebook di allora, nel centro di
Palo Alto in California, aveva compiuto da poco 21 anni e, come potete
immaginare, era allampanato. La start up era nata da poco, era ben
finanziata e interessante, ma Zuckerberg si era già fatto la reputazione
dell’arrogante, in parte perché aveva fatto inserire la scritta «A Mark
Zuckerberg production» in calce alla pagina del sito. Inoltre, mi aveva
dato un biglietto da visita su cui era scritto: « Sono l’amministratore
delegato, puttana». Non mi risentii e scherzai con uno dei suoi
dirigenti, dicendo che Zuckerberg sembrava proprio un gran fesso. Così,
quando ci incontrammo, dopo un saluto imbarazzato, la prima cosa che mi
disse fu: « Mi risulta che secondo lei sarei un coglione ».
Chiarisco
di non averlo mai pensato, anche dopo aver passeggiato con lui in
città. Andare a passeggio era ( ed è) la sua mania caratteristica. Ogni
fondatore di start up tecnologica ne ha una. In quella camminata
forzata, non fece altro che ribadire: Facebook era «un servizio
pubblico». La sua definizione era strana, perché non era sullo stesso
piano dell’immagine modaiola del suo rivale di allora, Myspace, né della
festa colorata e senza fine alla Willy Wonka in corso da Google. Era un
concetto banale, mesto, rassicurante, da
non-si-preoccupi-signora-lasciamo-le-luci-accese, a ripensarci.
Abbastanza sintomatico. Si basava sull’idea che Facebook in fondo fosse
qualcosa di buono.
Zuckerberg è rimasto troppo a lungo attaccato a
quel misto di sincerità e ingenuità deliberata. Quello che non è mai
riuscito a comprendere appieno, infatti, è che la società che aveva
creato era destinata a diventare un modello per tutta l’umanità, il
riflesso digitale di masse di persone di tutto il pianeta. Comprese le
peggiori. Ciò dipese dal fatto che Zuckerberg si stava specializzando in
informatica e interruppe gli studi in anticipo, senza frequentare corsi
di materie umanistiche che avrebbero potuto metterlo in guardia nei
confronti degli aspetti peggiori della natura umana? Forse. O dipese dal
fatto che da allora è sempre rimasto immerso nell’ottimismo a oltranza
della Silicon Valley, dove è proibito aspettarsi un risultato negativo?
Probabile. Può essere che, sebbene l’obiettivo iniziale fosse quello di
"mettere in contatto le persone", egli non sia mai riuscito a prevedere
che la piattaforma dovesse essere responsabile di quelle persone anche
quando si comportavano male? Oh, certo. E, infine, può essere che la
mentalità stessa di Facebook, per la quale le- cifre- salgono- sempre-
e- sono- sempre- in- attivo, lo abbia accecato nei confronti delle
scorciatoie imboccate durante la fase di crescita del suo servizio?
Assolutamente sì.
Ci si sarebbe potuti aspettare che tutto il
tempo che è passato, tutti i soldi e il potere che ha accumulato lo
avessero reso saggio. E invece no. Ho chiesto più volte a Zuckerberg
come si sentisse, a livello personale, per i danni arrecati dalla sua
creazione. Iniziava a comprendere il potere che aveva per le mani e che
il mondo che controlla non è un posto così roseo? «Probabilmente » , ha
ammesso, Facebook era « troppo concentrata sugli aspetti positivi e non
abbastanza su quelli negativi». È ragionevole. Ma fargli ammettere un
qualsiasi dispiacere personale è stato impossibile. « Provo un profondo
senso di responsabilità su come porre rimedio al problema — ha
continuato — credo che si debba essere disposti a commettere alcuni
errori quando si dirige un’azienda e si vuole essere innovativi. Non
credo però che sia accettabile ripetere gli stessi errori più volte». È
la classica risposta degli ingegneri benintenzionati della Silicon
Valley che lascia molte persone interdette per ciò che concerne, per
dirne una, la manipolazione della democrazia. Tenere alla larga cattivi
attori come i russi è stato e sarà sempre più costoso. Potrebbe essere
addirittura impossibile. Facebook, in ogni caso, avrebbe potuto fare e
deve fare molto di più.
Adesso, Zuckerberg sta cercando di sedare
ogni dibattito a Washington su come regolamentare la sua azienda in base
a quello che un giorno mi disse che era: un servizio pubblico. Ha anche
trascorso l’ultimo mese ad andare a cena con accademici esperti in
libertà di espressione e propaganda per capire come procedere.
Chiamatela l’istruzione di Mark Zuckerberg e della Silicon Valley, ma è
un’educazione a spese del mondo intero. Ed è impossibile calcolare
quanto sia costata. E quanto costerà.
Il Fatto 3.9.18
Non possiamo permetterci di essere ignoranti sulla Cina
Fenomeni
come la Brexit dimostrano un desiderio di semplificare il mondo, di
chiuderci nelle nostre comunità nazionali. E se è difficile intergire
con Bruxelles, figuriamoci con Pechino. Ma così diventiamo irrilevanti
di Kerry Brown
Mi
sono occupato per molti anni di rapporti con la Cina, per conto della
Gran Bretagna, come accademico, uomo d’affari e diplomatico. E mi sono
sempre fatto la stessa domanda: cosa vuole la Cina da noi? Cosa pensano i
cinesi? Che visione hanno del ruolo della Gran Bretagna nel loro mondo?
Lo stesso tipo di dibattito si sviluppa in altri Paesi: in Europa, Asia
e Nord America bisogna rispondere a questi quesiti per affrontare
l’ascesa prima economia e ora geopolitica della Cina.
Parte della
complessità di confrontarsi con queste nuove potenze è la confusione su
che cosa sia esattamente la Cina – una tradizionale potenza asiatica
confuciana, una minaccia geopolitica di marca marxista-leninista, uno
Stato che subisce le regole della globalizzazione o uno che le detta? Le
stesse domande che oggi molti si fanno a proposito degli Stati Uniti
sotto Donal Trump, con tutte le loro fratture interne. E sono dubbi che
riguardano anche altri Paesi d’Euopa. Nel caso della Gran Bretagna, con
la Brexit, si è capito che gli inglesi non hanno le idee chiare neppure
su chi siano e che ruolo debbano avere loro stessie La spaccatura tra la
parte più isolazionista e tradizionalista della società (di solito
anche quella più rurale e anziana) e il resto è diventata all’improvviso
evidente a tutti.
In questo contesto il rapporto con la Cina
finisce per diventare un sottoinsieme delle questioni identitarie
interne. La differenza nella visione del mondo e nei valori politici e
culturali della Cina, che mai come ora possono influire anche sulle
nostre vite, ci costringono a chiederci non soltanto chi sono loro, ma
anche chi siamo noi.
Dopo aver avuto a che fare con la Cina per 25
anni ho imparato alcune cose. Negli ultimi decenni i cinesi sono stati
isolati, ai margini dell’economia mondiale, cercando disperatamente di
recuperare terreno. Come in tutte le relazioni asimmetriche, sentendosi
più deboli degli altri hanno sempre cercato di sapere il più possibile
di un mondo che invece di loro si curava poco. Questo non significa che
la maggioranza dei cinesi sia esperta di Gran Bretagna, America o
Australia, ma hanno sempre coltivato una certa curiosità e un livello di
conoscenza di base, in molti casi anche della lingua, che semplicemente
non è reciproco. Ci sono 200 milioni di cinesi che studiano inglese e
soltanto 3000 inglesi che studiano cinese. Anche considerando le
percentuali della popolazione il confronto è impietoso.
Ci sono
gruppi di occidentali – nel governo, nell’impresa, nella società civile –
che hanno bisogno di informarsi sulla Cina e hanno maturato una
eccellente competenza. Ma a parte loro c’è ben poco e il dibattito
specialistico e accademico sulla Cina scoraggia tutti i non iniziati. Ma
questi sono problemi superficiali che possono essere risolti in tempi
ridotti con l’istruzione. La vera questione è stabilire quale ruolo
vogliamo che abbia la Cina nelle nostre vite. Fenomeni come la Brexit
dimostrano un diffuso desiderio di semplificare il mondo, di ritirarsi
all’interno delle barriere di un senso condiviso di identità nazionale.
In molti hanno difficoltà a confrontarsi con l’Unione europea, percepita
come distante e poco comprensibile, figuriamoci quanto può essere
difficile immaginare un modo di convivere con una potenza come la Cina
che emerge da un passato e da una storia così radicalmente distante.
La
conclusione a cui sono giunto è che la questione davvero preoccupante è
che abbiamo scelto l’indifferenza verso la Cina come opzione di
default. Non pensiamo che meriti abbastanza attenzione: è troppo remota,
strana, indecifrabile, anche se i suoi studenti riempiono le nostre
università e i suoi prodotti i nostri negozi, i suoi turisti i nostri
aeroporti. Gli inglesi, e gli altri europei, sono a loro agio soltanto
con una Cina quasi invisibile, ed è così che la vogliono.
Curare
questo approccio mentale non è facile perché non implica soltanto più
studio, ma un completo cambio di prospettiva e rimettere in discussione
la nostra stessa identità. L’idea che l’Europa rappresenti valori
assoluti di libertà, pragmatismo e virtù democratica mentre la Cina si
muove su un piano morale inferiore è il grande non-detto nel nostro
atteggiamento verso la Cina. E affrontare questo punto ci costringe a
fare qualcosa che finora siamo sempre riusciti a evitare: ridimensionare
i nostri valori e la nostra percezione di noi stessi.
C’è un
detto apocrifo attribuito a Confucio: l’apprendimento è efficace in tre
modi, imitando qualcuno individuato come modello, e questo è molto più
efficace; attraverso la lettura, che è il modo più superficiale; oppure
con l’esperienza, che è il più duro. L’esperienza sarà la via attraverso
la quale la Gran Bretagna dovrà definire un nuovo rapporto con la Cina
dopo la Brexit. E il resto del mondo starà ad osservare come andrà. Può
trasformarsi in una faticosa ma istruttiva lezione per tutti gli altri.
Per capire che per conoscere davvero gli altri, è meglio prima conoscere
se stessi per evitare che siano gli altri a insegnarci chi siamo
davvero.
Corriere 3.9.18
Ogni giorno 11 denunce
Stupri di gruppo, siti e social media Il dossier sulla violenza
di Fiorenza Sarzanini
Il
numero dei violentatori arrestati supera il numero delle vittime. Il
dato certifica che sono in aumento gli stupri di gruppo. Le vittime,
sempre più giovani, vengono sedotte con modi gentili, adescate via
Internet grazie a siti di appuntamento, e per questo il Dac, la
Direzione anticrimine della polizia, lancia l’allarme. Ogni giorno sono
undici gli episodi che vedono le donne vittime di violenza. Da gennaio a
luglio 2.311 le denunce presentate.
Roma È il dato che
maggiormente impressiona. Perché il numero dei violentatori identificati
continua ad essere più alto dei fatti denunciati e questo dimostra come
gli stupri siano spesso commessi in gruppo. È l’aggressione brutale
compiuta dal branco, l’assalto che ha segnato numerosi episodi delle
ultime settimane. Ragazze sedotte con modi gentili e poi diventate
vittime di una violenza selvaggia, oppure adescate via Internet grazie
ai siti di appuntamento che troppo spesso si trasformano in una trappola
infernale. Il messaggio di Vittorio Rizzi, investigatore di altissimo
livello, che guida la Dac, Direzione anticrimine della polizia, è fin
troppo esplicito: «Bisogna evitare ogni situazione di potenziale
rischio. È importante sapere che sul web il soggetto predatore si
maschera meglio grazie alle false identità e anche quando si svela lo fa
in maniera subdola. Per questo non bisogna cedere alle lusinghe degli
appuntamenti al buio». L’esempio più eclatante è svelato dalle indagini
che hanno portato in carcere l’imprenditore di Parma Federico Pesci, che
con un amico pusher nigeriano ha sequestrato e stuprato per ore una
ragazza di 21 anni conosciuta in chat. Ma l’analisi delle denunce fa
emergere come questa modalità di approccio sia in costante e pericoloso
aumento.
Più di 2.300 violenze denunciate in sei mesi
È
stato il prefetto Franco Gabrielli a imporre una politica di prevenzione
che passa dalla protezione delle vittime già al primo episodio di
maltrattamento in famiglia e si sviluppa con un’azione affidata a gruppi
investigativi specializzati. Una linea che sembra dare risultati
concreti. Dopo un aumento costante e addirittura un’impennata delle
denunce nel 2017, nei primi sei mesi del 2018 c’è stato infatti un calo
pari al 15 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Ma
questo non basta a rassicurare, perché il numero dei reati rimane
comunque altissimo. Sono 2.311 episodi denunciati con una media di 11
violenze al giorno. Ancora tante, troppe. E se si esamina il dettaglio
della statistica si scopre che sono ancora moltissimi gli stupri
compiuti tra le mura domestiche, sia tra gli italiani, sia nelle
comunità straniere.
Ecco perché uno degli strumenti ritenuti
fondamentali nella prevenzione è il «protocollo Eva» (Esame Violenze
Agite) che — come chiarisce lo stesso Rizzi — «nei casi di liti in
famiglia consente di inserire nella banca dati delle forze di polizia
(Sdi) le informazioni utili a ricostruire tutti gli episodi di violenza
domestica che hanno coinvolto un nucleo familiare. I poliziotti che
arrivano sul posto sono dunque preparati al tipo di intervento da
compiere, sanno se in passato qualcun altro ha dovuto compiere un
intervento analogo, se qualcuno detiene armi o ha precedenti, se ci sono
bambini coinvolti. E questo è fondamentale per far sentire la vittima
maggiormente al sicuro, per rassicurarla e convincerla a denunciare,
comunque a chiedere aiuto».
Le vittime minorenni e gli aggressori stranieri
Da
gennaio alla fine di luglio sono state 1.646 le italiane che hanno
presentato denuncia e 595 le straniere, oltre a settanta di nazionalità
ignota, per un totale di 2.311 donne. Tra i violentatori sono stati
identificati 1.628 italiani e 1.155 stranieri con un’incidenza
percentuale di questi ultimi sulla popolazione che certamente appare
molto alta. Tra loro ci sono 176 romeni, 154 marocchini, 67 nigeriani,
58 albanesi e 56 tunisini oltre a 143 uomini di cui non è stato
possibile accertare la nazionalità. E fa paura il numero di ragazzine
sotto i quattordici anni che hanno subito violenza negli ultimi sei
mesi: ben 173, tra loro 147 italiane. Una realtà ben delineata nel
dossier preparato dalla Dac nel marzo scorso e relativo all’attività
svolta fino al dicembre 2017. La relazione analizza proprio l’identità
di vittime e carnefici, mettendo in evidenza gli aspetti sui quali
bisogna intervenire in maniera ancora più efficace sia per la
prevenzione, sia per la repressione. Non a caso è proprio Gabrielli a
sottolineare nella premessa la necessità di applicare la legge, ma anche
alimentare «la rete composta da istituzioni, enti locali, centri
antiviolenza, associazioni di volontariato che si impegnano ogni giorno
per affermare un’autentica parità di genere, contro stereotipi e
pregiudizi».
«L’analisi dei dati — è scritto nel documento —
mostra un andamento quasi costante nel tempo del numero delle violenze
sessuali commesse, con un lieve aumento nell’ultimo biennio (+5%). Il
novanta per cento delle vittime è di sesso femminile. Rispetto agli
altri delitti finora analizzati (omicidi volontari, atti persecutori,
maltrattamenti in famiglia) l’età mostra incidenze diverse. Le cittadine
italiane minorenni vittime di questo delitto sono oltre il ventuno per
cento nel 2017. Un’analisi più approfondita delle denunce ha consentito
di verificare i luoghi dove vengono principalmente commesse le violenze
sessuali. A differenza degli altri delitti spia, la percentuale di
autori di cittadinanza straniera è molto più alta, pur se comunque
inferiore a quella degli italiani. Oltre il novanta per cento dei
presunti autori sono cittadini maggiorenni, sia che ci si riferisca agli
italiani che agli stranieri».
La circolare ai questori per attivare la «rete»
È
stato proprio Rizzi a trasmettere una circolare ai questori che detta
le regole di intervento. La linea nel rapporto con la vittima è chiara:
«Fornire una completa e analitica informazione circa gli strumenti —
amministrativi e penali — previsti dalla normativa di settore cui la
persona offesa può accedere; prevedere, in seno agli uffici, dei criteri
di priorità nella gestione dei procedimenti in materia che assicurino
agli stessi una «corsia preferenziale» di trattazione; prendere in
carico la vittima in ambiente idoneo attraverso personale altamente
qualificato, capace di cogliere nella narrazione tutti gli episodi di
violenza (o connotati da un coefficiente di pericolosità), ed evitare
atteggiamenti di minimizzazione delle condotte esposte; rimanere in
contatto costante con la vittima, anche successivamente al primo
approccio, facendosi parte attiva nel mantenere i rapporti anche per
acquisire ulteriori elementi informativi sull’evoluzione della vicenda
esposta; attivare la rete antiviolenza per realizzare le più opportune
forme di intervento integrato con servizi sociali e centri antiviolenza
attivi sul territorio; attivare il Protocollo Eva».
A questo si
aggiunge l’attività della polizia postale guidata da Nunzia Ciardi che
monitora il web e i siti specializzati proprio per proteggere le
vittime, in particolare minorenni. Con un’attenzione particolare ai
social che — come spiega uno degli analisti — sono apparentemente più
rassicuranti, ma in realtà rappresentano uno degli strumenti
maggiormente utilizzati per ingannare la propria preda e poi
catturarla».
La Stampa 3.9.18
In Libia parte l’assalto a Sarraj
L’Italia non sta a guardare : pronti a intervenire con una task force
per difendere il premier
“Lo stato d’emergenza mette a rischio civili e migranti”
di Grazia Longo
Una
task force italiana in difesa di Fayez al Sarraj, sempre più
accerchiato dalle milizie rivali a sostegno di Khalifa Haftar, grazie
alla collaborazione tra il ministero della Difesa, quello degli Esteri e
l’Aise, l’agenzia dei servizi segreti esteri. Al momento i nostri
soldati dei gruppi speciali non sono schierati in Libia e l’attività
principale per monitorare il pericolo di un rovesciamento del governo di
unità nazionale di Al Sarraj, sostenuto dall’Onu, viene svolta dalla
nostra intelligence.
Ma, considerato l’allarme crescente, si sta
valutando l’opportunità di un intervento da parte dei corpi speciali. È
ancora prematuro stabilire se questi verranno coinvolti in una missione
sul territorio libico, ma il tema sarà posto anche all’attenzione del
Cofs, il Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali.
E
intanto, oggi pomeriggio, a Palazzo Chigi è previsto un summit per fare
il punto della situazione. Parteciperanno il presidente del consiglio
Giuseppe Conte, la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, il titolare
della Farnesina Enzo Moavero Milanesi e il numero uno dell’Aise Alberto
Manenti (in via di sostituzione). I corpi speciali che potrebbero essere
coinvolti in un’operazione in Libia sono il Gruppo di intervento
speciale dei carabinieri, il 9° Reggimento d’assalto paracadutisti «Col
Moschin», il Gruppo operativo incursori del comsubin e il 17° Stormo
incursori dell’Aeronautica militare.
Al momento tuttavia,
ribadiscono fonti della Difesa e degli Esteri, non è stato ancora
stabilito un dispiegamento delle nostre forze militari d’élite e il
dossier Libia resta sostanzialmente in mano all’intelligence. Non è
neppure escluso, del resto, un nostro impegno sul fronte libico dal
punto di vista sociale e sanitario. Nel frattempo la linea di Roma è
orientata verso l’intesa con le altre forze internazionali che hanno
condannato gli attentati a Tripoli. Il nostro governo, insieme a
Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, sabato scorso, ha diffuso un
comunicato congiunto in cui viene «condannata fermamente la continua
escalation di violenza a Tripoli e nei suoi dintorni, che ha causato
molte vittime e che continua a mettere in pericolo la vita di civili
innocenti».
La cooperazione tra le forze internazionali è tuttavia
uno spaccato più complesso di quanto possa apparire. Un conto, infatti,
sono le dichiarazioni ufficiali, un altro la trama politico-economica
che viene tessuta sullo sfondo. Non a caso i nostri 007, in sinergia con
il ministero della Difesa, sono impegnati anche a scandagliare le reali
intenzioni della Francia. Si cerca cioè di capire quali siano gli
effettivi interessi del governo Macron. «È in atto un tentativo di
decontestualizzare gli attentati dal ruolo di Haftar - spiegano dalla
Difesa - mentre è sempre più evidente che le milizie ribelli lo
sostengono a piene mani».
Gli scontri a Tripoli e il tentativo di
destabilizzare il governo di unità nazionale continuano a restare
prioritari nell’agenda del nostro esecutivo. La nostra leadership nella
questione libica è stata peraltro riconosciuta anche dal presidente
degli Usa Donald Trump, durante la visita americana del premier Giuseppe
Conte. E a sostenere l’ipotesi di uno schieramento militare c’è
l’allarme Isis: con la caduta di Al Sarraj e l’assenza di una stabilità
politica, la Libia potrebbe diventare il fulcro del terrorismo islamico,
alimentato anche dai trafficanti di esseri umani.
«Lo stato
d’emergenza è stato annunciato a Tripoli. Medici Senza Frontiere resta
altamente preoccupato per i cittadini libici nelle aree residenziali e
per i rifugiati e migranti intrappolati nei centri di detenzione, le cui
sofferenze sono state aggravate dalle politiche dell’Unione europea. La
Libia non è un Paese sicuro». Così l’organizzazione Medici Senza
Frontiere, sul suo profilo ufficiale Msf Sea.
Corriere 3.9.18
Chi è e cosa vuole Haftar
L’ombra del generale
Pochi
hanno dubbi. E i salafiti fedeli al governo sostenuto dall’Onu lo
dicono chiaro: con la Settima brigata che attacca Tripoli c’è il
generale Haftar.
di Francesco Battistini
Una
delle cose che il generale Khalifa Haftar ha imparato nei suoi anni
americani, dicono, è il vezzo di firmare le bombe. Ha un pennarello
speciale. Autografò i razzi che dovevano liberare Sirte dai tagliagole
dell’Isis. E lo fece pure quando lanciò la sua Operazione Dignità, che
doveva «liberare» l’intera Libia e gli permise di conquistarne metà.
Stavolta è improbabile che gli ultimi Grad, piovuti vicino
all’ambasciata italiana di Tripoli, portassero la sua firma. Men che
meno le pallottole che stanno ripiombando la capitale libica nei
peggiori scontri dal 2014. Pochi hanno dubbi, però. E anzi i miliziani
delle Forze speciali Radaa, salafiti fedeli al governo sostenuto
dall’Onu, lo dicono chiaro. Chi sta attaccando il cuore del potere
tripolino non è solo il signore della guerra Salah al Badi, alla testa
della Settima Brigata ribelle e delle milizie Al Kani: no, a coprirgli
le spalle c’è Haftar. Il generalissimo che si sente il nuovo Rais e in
questi anni è stato tenuto fuori dai giochi e ora non s’accontenta più
di governare a Est, Tobruk e la Cirenaica, ma vuole prendersi tutto il
mazzo.
Chi sta con chi
Tre tregue in quattro giorni non sono
bastate. Lo scontro è prima politico, che militare. Delegato alle
potenti milizie di Tripoli, Tarhuma, Misurata, Zintan, Zawia. Da una
parte, chi sta con Sarraj: i Radaa, la Prima divisione Tbr (Brigate
rivoluzionarie di Tripoli, del ministero dell’Interno), la Brigata Abu
Selim e gli acerrimi nemici di Haftar, l’Ottava divisione Nawasi;
dall’altra, gli uomini di Al Badi, rientrato apposta dalla Turchia, dove
s’era rifugiato dopo aver messo a ferro e fuoco la capitale nel 2014.
Al Badi ha lanciato un appello alla sollevazione popolare contro «i
corrotti che affamano Tripoli», dicendo di voler «combattere per chi non
ha cibo e per giorni aspetta in coda lo stipendio».
Un golpe?
Ora,
è vero che i miliziani che controllano Tripoli vivono spesso di
pizzo&ingiustizia, ma non sfugge che la posta sia ben altra. E
che il golpe — perché di questo si tratta, visto che la Settima Brigata
aveva giurato fedeltà a Sarraj — coincida con gli interessi di Haftar,
dell’Egitto e soprattutto dei francesi, determinati a indire in tutta la
Libia elezioni politiche per dicembre. Il generalissimo ha fretta. E
non vuole intralci: l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, che un
mese fa aveva espresso dubbi sulla possibilità di votare nel 2018, oltre
ai Grad a cento metri dall’ufficio, s’è beccato i colpi d’un sito
francese, molto vicino agli 007 parigini della Dgse, che ha ipotizzato
un suo siluramento.
Trump e noi
La guerriglia di Tripoli è
una faccenda che ci riguarda da vicino, anche stavolta. Lo dicono il
pubblico sostegno di Trump al premier Conte (peraltro favorevole ad
aprire a Haftar) proprio sul dossier libico, la visita del vicepremier
Di Maio al Cairo, l’evacuazione della nostra ambasciata.
Improvvisamente, la crisi libica s’è rimessa a correre. L’Occidente va a
passo di lumaca. Ed è la volpe della Cirenaica, ancora, a rivelarsi la
più veloce.
Repubblica 3.9.18
Asilo negato ai migranti "In tre mesi oltre 12mila clandestini in più"
Uno
studio dell’Ispi su dati del Viminale rivela che gli irregolari in
Italia sono in netto aumento a causa della stretta sui permessi
di Alessandra Ziniti
Roma
Tre mesi dopo la stretta di Salvini sull’immigrazione comincia a farsi
sentire e l’effetto pratico rischia di trasformarsi in un micidiale
boomerang. Da giugno ad agosto il Viminale si sta trasformando in una
macchina " sforna clandestini" per usare un lessico familiare al
ministro dell’Interno. I numeri, elaborati dall’Ispi ( Istituto per gli
studi di politica internazionale) su dati del Viminale, rivelano che la
politica di Salvini ha già prodotto 12.450 nuovi irregolari: inevitabile
quando all’aumento dei dinieghi di protezione non corrisponde un
analogo aumento dei rimpatri effettivi, solo 1.350, il cui trend si
conferma in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Di più:
a ingrossare le fila dei nuovi irregolari sta per arrivare un
consistente numero di persone a cui non verrà rinnovata la protezione
umanitaria secondo le nuove indicazione fornite da una circolare del
ministro dell’Interno.
Salvini si era subito lamentato perché i
primi numeri non avevano assecondato i suoi desiderata, ma a luglio le
commissioni che esaminano le richieste di asilo dei migranti sono state
più solerti e la percentuale dei permessi per protezione umanitaria è
scesa dal 28 al 22 per cento. Se, incrociando questi tre elementi
(rimpatri effettivi, dinieghi di protezione e revoca di protezione
umanitaria), il trend dovesse essere confermato, la stima dell’Ispi è
che in due anni il numero dei migranti irregolari passerebbe dai 490
mila del 2017 a 550 mila nel 2019.
Dunque, a bocce ferme su nuovi
patti per i rimpatri (per i quali al momento non si intravede nulla
oltre le dichiarazioni di intenti), la stretta anti- immigrati di
Salvini avrebbe come effetto paradossale di creare 60 mila nuovi
irregolari in due anni, per intenderci migranti che ( non essendo
fisicamente riportati indietro e non avendo alcun diritto a forme di
accoglienza) andrebbero ad aggiungersi a quanti sono costretti a vivere
ai margini delle città, in condizioni sociosanitarie non dignitose e
che, come confermano gli ultimi dati disponibili, finiscono con il
commettere reati 20 volte di più dei migranti regolari. Insomma, tutto
quello che spaventa quel pezzo d’Italia ( ben il 73% secondo l’istituto
Cattaneo) che ha una percezione distorta del fenomeno immigrazione,
ritenendo che nel nostro paese ve ne siano quattro volte di più.
«
Quello che si prospetta è un effetto del tutto controproducente
rispetto all’obiettivo del " via tutti gli irregolari dall’Italia" —
spiega Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi — È un effetto anche
abbastanza ovvio se si iniziano a restringere le protezioni prima di
riuscire ad aumentare in maniera molto significativa i rimpatri. E si
tratta di una sottostima perché stiamo considerando solo i richiedenti
asilo (quindi quasi tutti quelli che arrivano via mare), mentre tra i
rimpatriati una discreta percentuale è rappresentata da chi entra
irregolarmente in Italia in altro modo o supera la durata di soggiorno
autorizzata ».
La medaglia che Salvini porta orgoglioso al petto, e
cioé la riduzione degli sbarchi dell’80 per cento rispetto allo scorso
anno ( trend che il contatore del Viminale aveva già fatto segnare
durante gli ultimi mesi del governo Gentiloni), non sembra destinata ad
incidere più di tanto sull’aumento dei migranti irregolari perché le
commissioni che esaminano le richieste di asilo (nonostante i rinforzi
mandati da Salvini) saranno sommerse dall’arretrato ancora per un bel
po’.
Spiega Matteo Villa: « L’obiezione è scontata: con la
riduzione dei flussi dal mare i richiedenti asilo saranno sempre di meno
e quindi anche il numero dei nuovi irregolari comincerà a scendere. Ma
la realtà è molto diversa perché il sistema d’asilo ha una certa inerzia
rispetto al numero degli arrivi. Una persona attende in media quasi 3
mesi prima di presentare richiesta d’asilo e poi aspetta circa 18 mesi
per ricevere il primo esito al quale potrebbe appellarsi».
Anche
qui qualche dato aiuta a capire: a fine luglio c’erano ancora 130 mila
migranti in attesa di risposta alla loro richiesta di asilo. Al momento
le commissioni stanno riducendo l’arretrato di 3.500 domande al mese,
dunque tra quelle nuove e l’arretrato ci vorrebbero ancora tre anni per
smaltirle tutte.
« Insomma — conclude Villa — per Salvini questo è
un problema che non si risolverà velocemente e la macchina " produci-
irregolari" potrebbe continuare a sfornarne almeno tremila al mese per
un periodo di tempo molto lungo».
Repubblica 3.9.18
Il rapporto Unhcr
"Nel Mediterraneo muore un profugo su 18"
di a.z.
Gli sbarchi sono in forte calo ma il numero delle vittime è in crescita Il tasso di mortalità è più che raddoppiato
Il
rischio di morte durante le traversate nel Mediterraneo è in continua
crescita: muore un migrante su 18, una percentuale più che raddoppiata
visto che nel 2017 il tasso di mortalità era di una persona su 42. Sono
le cifre del nuovo rapporto di Unhcr secondo cui, nei primi otto mesi
dell’anno sono 1.600 le persone che hanno perso la vita o risultano
disperse lungo la rotta del Mediterraneo. Dunque ad una forte
diminuzione ( oltre l’ 80 per cento) di chi arriva in Europa corrisponde
un’allarmante crescita del tasso di mortalità.
Il rapporto "
Desperate journeys" analizza anche tempi e rotte che confermano come il
Mediterraneo, con una drastica riduzione del dispositivo di soccorso
prima formato dalle navi umanitarie e dai mezzi militari italiani ed
europei in posizione più avanzata rispetto alla Libia, sia ormai un mare
pericolosissimo. Dei dieci naufragi di cui si ha notizia, sette sono
avvenuti da giugno a oggi, dunque nei mesi in cui la stretta del governo
italiano ha di fatto lasciata sguarnita la rotta più battuta dalla
Libia verso l’Italia.
Ma rischiosa è diventata anche la tratta più
breve, dal Marocco alla Spagna, su cui i trafficanti hanno spostato
parte dei loro flussi: qui dall’inizio dell’anno a oggi sono morte 300
persone contro le 200 dello scorso anno, portando il tasso di mortalità
ad una persona su 14 di quelle che intraprendono il viaggio.
Quasi
raddoppiati anche i migranti morti sulle rotte terrestri, in Europa o
ai confini, passati da 45 a 78. « Il rapporto conferma ancora una volta
come la traversata del Mediterraneo sia tra le più rischiose al mondo —
dice Pascale Moreau, Direttrice dell’Ufficio Unhcr per l’Europa — Il
calo di persone che arrivano sulle coste europee non è più un test per
stabilire se l’Europa possa gestire tali flussi, ma per capire se sia in
grado di fare appello a quel senso di umanità necessario a salvare vite
umane » . All’Europa l’Unhcr chiede di favorire l’accesso a percorsi
legali per i rifugiati, attraverso l’aumento dei posti di reinsediamento
e la rimozione degli ostacoli al ricongiungimento familiare, che
contribuiscono a fornire alternative a tragitti potenzialmente mortali.
Prendendo
atto delle misure adottate da alcuni Paesi per impedire l’ingresso di
rifugiati e migranti, il rapporto esorta a garantire a coloro che
cercano protezione internazionale un accesso tempestivo alle procedure
di asilo e invita a rafforzare i meccanismi di protezione nel caso di
minori che viaggiano da soli e sono in cerca di asilo.
Il Fatto 3.9.18
“Il Pd torna in piazza” (ma deve riempirla)
Roma - Martina: “Il 29 settembre contro il governo”. Quota 40 mila per evitare il flop
di Lorenzo Vendemiale
Tornare
in piazza, per dimostrare agli altri, forse un po’ anche a se stessi,
di essere ancora vivi. Il segretario del Pd, Maurizio Martina, ha
annunciato una grande manifestazione contro il governo il prossimo 29
settembre. Con il congresso alle porte, nel momento peggiore della sua
storia, il partito prova a ripartire dalla gente. “La piazza è la scelta
giusta”, ragionano i vertici.
“C’è tanta gente che vuole
costruire l’alternativa anche manifestando la sua presenza”, ha spiegato
ieri Martina all’incontro di Area Dem a Cortona. A dare coraggio al
segretario sono stati gli appelli dei militanti alle feste dell’Unità e
soprattutto l’ottima riuscita della manifestazione di Milano contro il
razzismo. La sede è ancora da ufficializzare ma dovrebbe essere Piazza
del Popolo, la stessa della manifestazione flop organizzata da Matteo
Renzi a ottobre 2016 a sostegno del referendum costituzionale: allora ci
furono circa 15mila persone, ce ne vogliono almeno 40-50 mila per
evitare la figuraccia. Per questo la macchina organizzativa, in mano a
Gianni Dal Moro e al coordinatore della segreteria nazionale Matteo
Mauri, si è già messa in moto.
Si torna all’antico: pullman e
treni speciali, coinvolgimento dei segretari regionali (in particolare
delle Regioni più vicine e popolose, come Toscana, Emilia-Romagna e
Campania, da cui ci si aspetta il contributo maggiore) e anche dei
circoli. “Vogliamo dare un segnale: con tutti i suoi limiti, il Pd resta
uno dei pochi punti di riferimento per la parte d’Italia che non si
riconosce nel governo.”, spiega Mauri. Resta da capire chi ci sarà in
piazza. L’evento vuole essere aperto a tutti: qualche contatto è stato
già preso con i sindacati, bacino storico delle manifestazioni della
sinistra. C’è chi si augura che possano unirsi altre forze politiche,
magari gli ex compagni di Liberi e uguali, ma per il momento è tutto in
alto mare. “Nessuno ci ha invitati”, spiega Roberto Speranza. “Massimo
rispetto per il Pd e per la scelta di tornare fra la gente, ma noi non
siamo disponibili solo per riempire le piazze degli altri:
parteciperemmo a condizione di condividere percorso e organizzazione”.
Bisogna stare attenti anche a non alimentare ulteriori divisioni
interne: “Va bene manifestare, ma solo se si pongono temi precisi,
propositivi e rivolti alla società civile: un’opposizione a prescindere
contro il governo non ha molto senso”, precisa Francesco Boccia, di
Fronte Democratico. Del resto chi si aspetta che la manifestazione sia
un punto di ripartenza, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’era
renziana, potrebbe rimanere deluso già dal nome: si chiamerà “L’Italia
che non ha paura”, sembra quasi uno degli slogan dell’ex premier.
Dopo
i difficili mesi post voto del 4 marzo (“la sconfitta più dura dal
1948”, secondo l’ex ministro Minniti), il Pd ha disperato bisogno di
riaffermare la sua presenza. La piazza romana è l’ultima spiaggia, il
rischio dell’effetto boomerang resta dietro l’angolo. Dal M5s sono già
partiti i primi attacchi: “Sarà un appuntamento fra pochi intimi, come
alle urne”, ha ironizzato il sottosegretario Manlio Di Stefano. L’ultima
volta, il 1° giugno a difesa della Costituzione e del presidente
Mattarella, non andò troppo bene. Il 29 settembre non si può fallire.
Repubblica 3.9.18
Il personaggio
A Rocca di Papa
Storia di Ivano che ha detto " una cosa di sinistra"
Il suo intervento in tv contro ‘i fascisti’ in difesa dei migranti è diventato popolare
di Federica Angeli
ROMA
«Da una settimana sono più gettonato di Obama, per una emerita
sciocchezza che ho buttato lì. Sa cosa significa questo? Che c’è davvero
bisogno di qualcuno che dica qualcosa di sinistra».
Ivano
Ciccarelli, 58 anni, l’uomo dei Castelli romani diventato celebre per la
sua frase fuori dal centro "il Mondo Migliore" di Rocca di Papa
all’arrivo dei migranti della Diciotti ospitati lì dalla Chiesa – «oltre
ad aver passato quello che hanno passato, arrivano qui e devono subirsi
anche questa rottura di coglioni dei fascisti» – da una settimana è
diventato la star di tv e web. Suo malgrado, e solo per aver detto
qualcosa contro i militanti di Casa Pound che davanti alla struttura di
via dei Laghi manifestavano contro l’arrivo dei 100 eritrei.
«C’è
un problema a sinistra, mi sembra evidente», sorride Ivano che, durante
l’intervista con Repubblica risponde di continuo a messaggi e a
telefonate di cronisti che lo invitano nelle loro trasmissioni, «e per
fortuna che non sono sui social, ho sempre rifiutato l’idea di entrare
in quel mondo. Sono antico e ne resterò fuori». Nel 1999, vittima di un
licenziamento ex articolo 18, la sua storia finì sulla prima pagina del
quotidiano giapponese più noto, «mi mandarono l’articolo ma, per
fortuna, non mi cercò l’intera popolazione del Giappone», ironizza.
Su
Facebook e Twitter lo osannano: icona di un vuoto comunicativo e
sostanziale, dal Pd a Leu, molte donne, tra il serio e il faceto, lo
invitano a nozze; gli uomini a diventare leader di un "vero" movimento
di sinistra. «Se basta così poco – ragiona Ivano, figlio di genitori
braccianti e attualmente disoccupato – per avere notorietà e consenso,
allora bisogna capire. Io ci rido, mi diverte questa situazione. Ma
siccome sono un uomo che non si accontenta della superficie, ma che ama
capire il senso profondo delle cose, dico come la penso. Se quella
notte, ad accogliere i migranti, fosse venuto anche il segretario
Martina, lì, zitto, con un cartello con scritto "welcome", senza fare il
comizio, non è che lo cacciavamo. Invece non solo lui, nessun leader
s’è visto. Queste sono le occasioni perse della sinistra. C’erano tante
persone, eravamo più noi che quei venti fascisti. Eppure, quando a un
certo punto cercavamo un leader dietro cui andare, non c’era. Così sono
diventato io».
Un passato in Lotta Continua e poi in Autonomia
Operaia, con una formazione ai microfoni di radio Onda Rossa, Ivano ha
cominciato a partecipare ad assemblee con i compagni, «quelli veri» da
quando, a 14 anni, si è seduto sui banchi del primo anno di istituto
(d’arte) finendo anni dopo su quelli del consiglio comunale di Marino
come consigliere per Rifondazione Comunista. «Mi hanno messo in mano una
canna e Lotta continua e da lì non ho più smesso di credere in quegli
ideali». Ideali che rincorre di cui oggi non sente neanche il più vago
odore.
«La cosa straordinaria di quegli anni era che discutevamo
ore nelle assemblee e quando si usciva da lì si faceva esattamente
quello che era stato deciso. Si rispettavano le idee votate a
maggioranza e basta. Eravamo incazzati e ogni giorno, davvero ogni santo
giorno, facevamo una manifestazione: o contro i fasci, o per le
autogestioni, o contro il nucleare. Riempivano le piazze e sapevamo chi
era il nostro leader di riferimento. Lo trovavamo accanto a noi». Le
persone comuni di sinistra ci sono, spiega, è che non sanno a chi
affidarsi.
«Basterebbe così poco...».
Il Fatto 3.9.18
Ai clericali non resta che lo scisma (e giovedì 6 si ritrovano al Senato)
Francesco resisterà alla spallata del dossier Viganò, costruito dalla destra farisea di cardinali e vaticanisti
di Fabrizio d’Esposito
Sembra
quasi la trama dell’ultimo, recentissimo teo-thriller di Glenn Cooper, I
figli di Dio: un petroliere texano, amico del presidente americano, che
promuove e finanzia uno scisma tradizionalista della Chiesa, nel segno
dell’arida Dottrina.
La suggestione del complotto anti-Bergoglio è
stata esplicitata dall’arcivescovo di Pescara, Tommaso Valentinetti,
che ha evocato “forze oscure” contro Francesco, tra cui “petrolieri o
grossi gestori della finanza”. Ovviamente al centro di tutto ci sono i
veleni, i sospetti, le polemiche scatenate dal dossier a scoppio
ritardato dell’ambiguo monsignor Carlo Maria Viganò (nella foto) sulle
presunte coperture di Bergoglio alla lobby gay del Vaticano. Ciò che
colpisce in questa vicenda sono il metodo e i protagonisti. Come se
l’opposizione antifrancescana fosse venuta allo scoperto una volta per
tutte per tentare “la spallata” finale al papa.
È una traiettoria
iniziata tre anni fa, con l’obiettivo di costringere Francesco alle
dimissioni oppure, in caso di fallimento, di causare uno scisma, come
documentato da Millennium nel luglio di un anno fa. Nell’ampia zona
grigia che detesta Bergoglio, le fazioni sono varie e hanno usato ogni
mezzo: la bufala del tumore al cervello; manifesti anonimi di protesta;
la faida interna dei Cavalieri di Malta; i nuovi Vatileaks sulle riforme
bloccate; le scelte sbagliate del corso “rivoluzionario” (tipo il
cardinale Pell); i Dubia all’Amoris Laetitia sulle aperture ai
divorziati.
E se dall’altra parte dell’oceano ormai è chiaro che
gli americani non vogliono più Francesco, in Italia la cassa di
risonanza di questa lunga campagna mette in campo sempre le stesse
firme: dai blog della destra farisea al clan di autorevoli vaticanisti
come Magister, Tosatti e Valli.
L’atteggiamento di Francesco dà
però la certezza che resisterà anche questa volta. Così si profila sul
serio l’ipotesi dello scisma. Altrimenti il potente neocardinale Angelo
Becciu avrebbe fatto a meno di rivolgere un sibillino appello all’unità
della Chiesa. Vedremo. A partire da giovedì prossimo, quando la figura
del cardinale Caffarra verrà ricordata al Senato dal suo “collega”
americano Burke, l’antipapa per antonomasia che ritiene Bergoglio un
“traditore”.
Repubblica 3.9.18
Il dossier
Viganò lancia nuove accuse "Dal Papa menzogne su di me"
di P.R.
Un
secondo attacco, ancora una volta diffuso attraverso un sito
conservatore americano. Dopo le accuse lanciate contro Francesco — e la
richiesta di dimissioni — per aver ignorato la doppia vita del cardinale
Theodore McCarrick che ebbe rapporti omosessuali con seminaristi, l’ex
nunzio a Washington Carlo Maria Viganò torna di nuovo sul piede di
guerra. Sul sito Lifesitenews, infatti, rivela i dettagli relativi
all’incontro avvenuto nel 2015 negli Stati Uniti tra Bergoglio e Kim
Davis, l’impiegata pubblica del Kentucky che divenne un’icona di
ambienti conservatori per essersi rifiutata di rilasciare licenze
matrimoniali a coppie dello stesso sesso. Davis trascorse cinque giorni
in carcere per non avere obbedito a un ordine del tribunale che le
intimava di rilasciare le licenze, sostenendo che ciò andava contro le
sue convinzioni religiose. L’ex nunzio, dopo aver letto un articolo del
New York Times nel quale Juan Carlos Cruz, vittima cilena di abusi
sessuali, afferma che il Papa «gli raccontò che Viganò quasi sabotò la
visita negli Usa, facendogli incontrare forzatamente la Davis » , ha
voluto dire la sua. Cruz lo accusa esplicitamente e cita il Papa: « Non
sapevo chi fosse quella donna e (l’arcivescovo Viganò) la fece
intrufolare per salutarmi e ne nacque un polverone » , scrive. E ancora:
«Ne fui inorridito e licenziai quel nunzio » . Ribatte, invece, Viganò
su Lifesitenews: «Di fronte a tale affermazione del Papa mi vedo
obbligato a raccontare come i fatti si sono realmente svolti. Uno dei
due mente: Cruz o il Papa? Quello che è certo è che il Papa sapeva
benissimo chi fosse la Davis, e lui e i suoi stretti collaboratori
avevano approvato l’udienza privata. Si può verificare chiedendo ai
prelati Becciu, Gallagher e Parolin, nonché al Papa stesso. È comunque
evidente che Francesco ha voluto nascondere l’udienza privata con la
prima cittadina americana condannata e imprigionata per obiezione di
coscienza » , dice Viganò.
L’ex diplomatico vaticano risponde
anche a un video del Catholic News Service che mostra Mc-Carrick durante
una visita a Roma, nel 2012, mentre incontra Benedetto XVI. Nelle
immagini l’ex cardinale appare a suo agio, per nulla intimorito dalle
sanzioni dategli dall’allora Papa. Ma, si rivolge Viganò a chi ha
pubblicato il video, « riesce a immaginare Benedetto così mite che
chiede al cardinale: "Cosa stai facendo qui?"». In sostanza, per Viganò,
Ratzinger non voleva umiliare pubblicamente il cardinale. E a un altro
video che mostra Viganò insieme a Mc-Carrick, dopo aver spiegato che non
aveva potuto rinunciare all’evento, dice: « Non potevo certo dire:
"Cosa stai facendo qui?"».
Intanto Francesco mantiene il silenzio.
La linea è la stessa abbracciata dalla curia romana. Bergoglio, del
resto, anche a Buenos Aires subì accuse da ambienti conservatori legati a
Roma, ma non rispose. Fonti consultate da Repubblica spiegano in ogni
caso che dalla Santa Sede nei prossimi giorni potrebbe arrivare una
prima replica.
Repubblica 3.9.18
Israele dichiara guerra alla lap dance
Giro di vite del governo conservatore
di Francesca Caferri
Israele
dichiara guerra alla lap dance. L’ultima offensiva lanciata dal governo
di Benjamin Netanyahu, in cui i partiti ultrareligiosi hanno un ruolo
chiave, mette nel mirino i club di striptease e i luoghi dove si pratica
la famosa "danza intorno al palo".
L’agenzia France Presse ha
diffuso il contenuto di una circolare con cui il ministero della
Giustizia esorta la polizia a considerare come luoghi di prostituzione
quelli in cui si pratica la lapdance.
«Il fenomeno conosciuto come
lap dance costituisce in determinate circostanze un atto di
prostituzione. La prosecuzione di questa attività deve essere
considerata come un crimine e provocherà la messa in atto di tutte le
misure previste dalla legge», recita il comunicato.
«Stiamo
aspettando di capire come mettere in pratica la nota», ha confermato il
portavoce della polizia Micky Rosenfeld all’agenzia francese.
La
nota fa parte di una strategia più ampia, che mira a ridurre le attività
che il governo reputa oltraggiose: in questi giorni infatti un gruppo
di parlamentari della maggioranza e dell’opposizione sta mettendo a
punto un disegno di legge che punta a far inserire ufficialmente i
locali dove si pratica lo striptease nel «ciclo della prostituzione».
«Questa
legge è pensata per riflettere nella legislazione israeliana la
connessione diretta fra lo spogliarello e la prostituzione, due attività
che portano con sè un’attitudine dannosa e umiliante verso le donne e i
loro corpi», si legge nel disegno di legge.
«L’industria dello
striptease è legata da vicino a quella della prostituzione e la
maggioranza dei locali di spogliarello sono in realtà luoghi di
prostituzione».
Non esiste ancora una data certa per la
discussione del progetto, ma la stretta contro la prostituzione - che
non è illegale in Israele - è già iniziata: un disegno di legge che
stabilisce di multare i clienti delle prostitute sarà discusso in
parlamento al rientro dalla pausa estiva.
Il Fatto 3.9.18
Corbyn, l’antisemitismo e il “suggeritore”
Gran Bretagna - Field, storico deputato, lascia il Labour e attacca il leader. Il ruolo dello spin doctor
di Andrea Valdambrini
Se
Theresa May di problemi ne ha in abbondanza, a cominciare dalla Brexit,
anche sul fronte dell’opposizione del Regno le acque sembrano
tutt’altro che tranquille.
Frank Field, deputato laburista di
lungo corso, ha lasciato il Partito – ma non il seggio parlamentare –
lanciando un pesante atto d’accusa: il Labour di Corbyn è diventato.
“una forza favorevole all’antisemitismo nella cultura politica
britannica”, ha scritto nella sua lettera d’addio.
Eletto in un
collegio di Liverpool, Field è a Westminster da 40 anni: tra i più
anziani in servizio. Qualcuno nel suo partito ha provato a depotenziare
le dimissioni parlando di problemi con gli elettori del suo collegio,
che non hanno gradito il fatto che il loro deputato su Brexit ha votato
con il governo conservatore. “Una scusa per andarsene”, dicono i
corbyniani. Eppure, il problema rimane. Che Jeremy Corbyn avesse una
posizione filo-palestinese e critica verso Israele, è noto. Da settimane
però il leader laburista è al centro di pesanti accuse, riferite ad
episodi disseminati lungo il suo percorso politico, riportati ora alla
luce dai media.
La settimana scorsa il Daily Mail ha ripescato un
video del 2013 in cui Jeremy il Rosso accusava il gruppo dei Sionisti
britannici di “mancare del senso dell’ironia inglese”, provocando la
reazione indignata dell’ex rabbino capo Lord Sachs.
Se in questo
caso più recente Corbyn se l’è cavata precisando che antisionismo e
antisemitismo non sono equivalenti, più complicato giustificare la sua
presenza a Tunisi nel 2014, alla cerimonia in onore degli assassini
della strage di Monaco ’72, quando furono rapiti e uccisi undici atleti
israeliani da parte di un commando palestinese.
Grande imbarazzo
anche per l’articolo apparso ad inizio agosto sul quotidiano The Times,
in cui si ricorda un evento da lui stesso organizzato nel 2010 nel corso
del quale un sopravvissuto alla Shoah paragonò Israele al nazismo. In
questo contesto, in cui sono maturate le dimissioni di Field, qualcuno
punta il dito contro Seumas Milne, spin doctor del leader laburista. È
il quotidiano Times of Israel ad affrontare la questione, descrivendo
Milne come un motore (neanche troppo) occulto di pulsioni antisemite.
Contro
di lui, ex editorialista del Guardian, vengono messe in fila numerose
circostanze, ricostruite attraverso le testimonianze di chi negli anni
lo ha conosciuto. Studente a Oxford con simpatie maoiste, da giovane
trascorre un anno sabbatico in Libano, dove si avvicina alla causa
palestinese. Che non abbandonerà mai, fondendola presto con una netta
avversione nei confronti della politica Usa in Medio Oriente. Per lui,
ricostruisce il quotidiano di Gerusalemme, la Russia di Putin ha diritto
di aggredire la Crimea, mentre a Tel Aviv è vietato difendersi dalle
aggressioni dei palestinesi nei Territori occupati.
“L’ho sempre
considerato più un propagandista che un giornalista”, sussurra un ex
collega del Guardian. “È un radical-chic per cui tutti coloro che si
oppongono alla potenza Usa meritano di essere sostenuti”, chiosa Dave
Rich, autore della monografia La questione ebraica della sinistra:
Corbyn e l’antisemitismo.
A Westminster, però, c’è più prosa che
ideologia. In molti si chiedono se l’uscita di Field e le difficoltà di
Corbyn non preludano al ritorno in grande stile nel Labour dei fedeli di
Tony Blair nella campagna d’autunno
di Andrea Valdambrini | 2 settembre 2018
Corriere 3.9.18
La rivista newyorchese
Chiude (anche online) la voce del «Village» fondata da Norman Mailer
Addio
a «The Village Voice»: lo storico settimanale, voce «alternativa» della
cultura newyorkese e americana, chiude definitivamente. Peter D.
Barbey, il proprietario, ha annunciato che non pubblicherà più «nessun
articolo» neppure online, dopo che erano già cessate le pubblicazioni
cartacee nel 2017, e che la testata era senza direttore da maggio. La
rivista — fondata nel 1955 da Dan Wolf, Edwin Fancher e Norman Mailer —
era un’icona della città: riferimento culturale e voce critica
«impegnata», aveva sostenuto battaglie civili e lanciato firme come
Lester Bangs e Colson Whitehead, poi vincitore del premio Pulitzer. A
proposito di Pulitzer, la rivista ne aveva vinti tre, tra cui quello del
1986 per i fumetti politici di Jules Feiffer. Centinaia i post sui
social, sia di lettori che di scrittori. «Difficile immaginare un mondo
che non vuole ciò che “The Village Voice” possedeva», scrive il
romanziere Rick Moody su Facebook. E il sindaco di New York Bill de
Blasio twitta: «Un giorno triste per il giornalismo e un’enorme perdita
per la città». La proprietà ha affermato che renderà disponibile online
l’archivio della rivista. (ida bozzi)
Corriere 3.9.18
Due film dedicati all’ex presidente dell’Uruguay
Pepe Mujica star al Lido: sono qui per Kusturica
di Stefania Ulivi
Venezia
Non se l’aspettava neanche lui di trovarsi a 83 anni al Lido
protagonista di due film, uno di finzione, La noche de 12 años, di
Álvaro Brechner in Orizzonti e un documentario, El Pepe, una vida
suprema, dell’amico Emir Kusturica, fuori concorso. Ma nulla nella vita
di José Alberto Mujica Cordano, El Pepe, ha seguito percorsi ordinari.
Infanzia povera dopo la morte del padre, il ciclismo, quindi la
politica, sulle orme della madre, di origini liguri. Prima con i
nazionalisti, poi sempre più a sinistra, fino a diventare uno dei leader
del Movimiento de Libéracion Nacional, i Tupamaros. E, dopo il colpo di
Stato del 1973, dodici anni di carcere duro, in isolamento. Quindi
senatore, nel 1999, e infine presidente del suo Uruguay, dal 2010 al
2015. È arrivato a Venezia dopo un tour per l’Italia — Ravenna, Mantova,
Milano — per presentare il suo libro Una pecora nera al potere, ha
incontrato quasi tutti, da Grillo a Martina, ognuno ha cercato di
affiliarselo anche se ormai con la politica praticata ha chiuso.
La
proiezione di La noche de 12 años (uscirà da noi con Movies Inspired)
che racconta gli anni della sua prigionia e di due suoi compagni, è
stata accolta da 25 minuti di applausi, cori di «El pueblo unido».
Che effetto le fa?
«Me
l’hanno detto. Il film racconta cose che mi risvegliano emozioni
contraddittorie legate a mia madre, i miei compagni, quelli che non ci
sono più. All’inizio avevo detto di no al regista, come una corazza che
ci si mette per difendersi».
L’ordine dei vostri carcerieri fu «visto che non possiamo ucciderli facciamoli diventare pazzi». Come siete sopravvissuti?
«L’isolamento
è il castigo peggiore dopo la pena di morte. Quando siamo usciti ci
hanno visitato psicologi, forse un po’ pazzi lo siamo diventati. Non so
come abbiamo fatto... Mi distraevo anche con i topi che arrivavano
sempre alla stessa ora, di notte».
Nessun sentimento di vendetta?
«Ho cercato di non diventare prigioniero dell’odio».
Qui c’è anche il documentario di Kusturica, lo presentate insieme.
«È un mio amico. Mi ha detto: se non vieni anche tu alla conferenza stampa a Venezia non vado. Eccomi qui».
Il cinema insegna?
«Si impara più da ciò che si vive che non da ciò che ci raccontano».
In questi giorni ha consigliato a noi europei di non distruggere l’Unione.
«Vorrei
un organismo simile per l’America Latina. Per quanti limiti possa
avere, vi ha assicurato il più lungo periodo di pace della storia.
Tenetevela stretta. Oggi in tanti si dicono populisti. È un termine che
non amo, non vuole dire nulla. E mi spaventano i nazionalismi. L’Italia
che ha seminato emigranti nel mondo, ora ha paura degli immigrati. Per
fortuna i governi passano, restano i popoli».
Si è dimesso dal Parlamento. Qual è la sua eredità politica?
«Quando
ero giovane pensavo che la lotta fosse per il potere. Ora vedo che la
storia delle lotte sociali e politiche è un mucchio di vetri rotti, di
cui restano cose fondamentali: i diritti del lavoro e quelli sociali. Mi
sento fratelli quelli che hanno contribuito a costruire anche un solo
scalino della grande scala verso la civiltà».