sabato 1 settembre 2018

Il Fatto 3.9.18
Galante Garrone e Calamandrei: il senso della Costituzione
La storia intellettuale e morale di un uomo d’altri tempi, padre della Carta
di Furio Colombo


L’autore è Alessandro Galante Garrone, un nome che ha fatto da guida e da riferimento a tanti adolescenti torinesi dell’immediato dopoguerra, sul senso e il valore di essere antifacisti. Il libro è dedicato a Calamandrei (Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista della nostra storia, Effepi Libri), il personaggio che – dopo avere partecipato alla scrittura della Costituzione – si è impegnato a guidare un’Italia nuova e pulita lungo un percorso nobile di solidarietà fraterna, un Paese senza odio e senza confini, dopo una guerra che ha attraversato le terre desolate della morte a milioni e del deliberato e bene organizzato sterminio di popoli. Né Galante Garrone né Calamandrei si fidavano dello slancio spontaneo verso il bene di coloro che erano sopravvissuti a una guerra di stragi. Galante Garrone ha preso subito la bandiera della democrazia, dimostrando che niente vive senza l’impegno (il dovere) e la partecipazione di ciascuno cittadino. Calamandrei ha spinto sulla scena ancora disadorna dell’Italia povera e incerta di allora, i diritti delle persone, i diritti della Costituzione, i diritti umani, i diritti civili che, in seguito, i partiti, con l’unica clamorosa eccezione di Marco Panella, di Emma Bonino, del Partito Radicale, avrebbero tralasciato come se fossero solo l’ornamento, non la materia prima della democrazia.
Ma l’imbarazzo deve essere grande, per chi prende in mano ora questo libro (che è una ristampa da un’Italia lontana) e lo confronti con l’Italia che stiamo vivendo adesso, dove i diritti umani di rom, migranti e poveri vengono non solo trascurati ma deliberatamente e fisicamente offesi perchè i più deboli non contano. Governare con le false promesse, in un castello di illusioni e invenzioni, ha portato a precipitare in un triste retro-cortile senza cultura, senza storia, senza solidarietà, senza alcun interesse per sentimenti e diritti, dove conta solo il compiacimento del proprio personale potere. Questo libro arriva dal passato in un tempo in cui si usa lo slogan “prima gli italiani”, che farebbe inorridire chiunque ha combattuto per la libertà, e ha scritto e insegnato la Costituzione italiana. Perciò Galante Garrone e Calamandrei servono oggi all’Italia come le navi ong e la Guardia costiera italiana servono a salvare migranti, benchè l’ordine di questa repubblica sia di voltare le spalle.

Il Fatto 3.9.18
Le democrazie sono imperfette
Se il potere è del popolo, ma i cittadini che partecipano alla vita politica sono pochi, poco interessati e poco informati, i risultati del processo decisionale saranno deludenti per tutti
di Gianfranco Pasquino


Alle democrazie manca sempre qualcosa. È giusto così. Forse è persino meglio così perché nelle democrazie è possibile continuare a cercare quello che manca, spesso trovandolo.
Democratico è quello che deve essere soggetto al controllo del popolo: governanti, rappresentanti, assemblee elettive, leggi, non, però, la burocrazia, le Forze Armate, la magistratura, le istituzioni scolastiche che debbono rispondere a criteri di efficienza ed efficacia, di conseguimento degli obiettivi decisi dai rappresentanti e dai governanti. Il popolo deciderà poi se, come, quando fare circolare quei rappresentanti e governanti, cambiarli, meglio non usando il criterio burocratico del limite ai mandati tranne per le cariche elettive di governo che hanno la possibilità di sfruttare il loro potere per influenzare la propria rielezione.
La democrazia riguarda esclusivamente la sfera politica, quella nella quale si affida a qualcuno il potere di decidere “secondo le forme e i limiti della Costituzione”. È ciascuna Costituzione a stabilire quelle forme e i relativi limiti. Qualcuno deve arbitrare relativamente alle forme e ai limiti. Dalla Costituzione Usa in poi quel qualcuno è una Corte costituzionale, il “giudice delle leggi”, la cui esistenza e la cui attività non vanno a scapito della democrazia tranne quella interpretata in chiave populista dove il popolo deciderebbe tutto con il suo voto, a prescindere dalle forme e dai limiti, finendo spesso nelle braccia di leader populisti e demagoghi e con loro fuoriuscendo dalla democrazia. Certo, ci sono anche casi nei quali è la democrazia che “fuoriesce” dal popolo (e da se stessa) ovvero meglio isola i governanti dal popolo. Succede quando una coalizione di strutture raggiunge accordi di non belligeranza e non interferenza e si irrigidisce dando vita ad autoritarismi centrati sul riconoscimento di reciproche sfere di influenza: la burocrazia statale, le Forze Armate, i grandi gruppi industriali, spesso la Chiesa.
Nella misura in cui la democrazia è pluralismo competitivo, le coalizioni autoritarie nascono raramente e durano (relativamente) poco. Si trovano nei Paesi a noi vicini soprattutto in Russia e in Turchia, che soltanto qualche commentatore avventato può definire “democrazie autoritarie”. In Russia e Turchia non manca qualcosa alla democrazia. Manca la democrazia. L’obiezione che in entrambe c’è democrazia poiché si vota va fuori bersaglio. Le elezioni democratiche debbono essere libere, competitive e eque. Nulla di tutto questo né in Russia né in Turchia né, naturalmente, in molte altre situazioni, ad esempio, in Zimbabwe. Laddove i cittadini non godono pienamente dei diritti politici, per esempio quello di candidarsi, di dare vita a organizzazioni (persino, partiti) e di fare campagna elettorale e, spesso, vedono i loro diritti civili calpestati, in nessun modo è possibile considerare “democratiche” quelle elezioni. Tuttavia, anche alle elezioni democratiche può mancare qualcosa, per esempio, gruppi selezionati e discriminati di elettori.
In troppi Stati del Sud degli Usa gli afro-americani si vedono privati del diritto di voto con vari accorgimenti burocratici: requisiti di residenza, di registrazione nelle liste elettorali, di conoscenza della Costituzione. Altrove, le assemblee statali a maggioranza repubblicana fanno ricorso scientifico al gerrymandering, la manipolazione dei collegi elettorali. Quando le leggi elettorali danno scarso potere agli elettori, sottraendo loro qualsiasi possibilità di influenzare la scelta dei parlamentari siamo di fronte ad un deficit democratico (Rosato, de te fabula narratur). Le democrazie si reggono su un’unica eguaglianza assoluta, quella di fronte alla legge: isonomia. Non è un’eguaglianza che esiste in natura. Deve essere creata e alimentata, mantenuta e riprodotta in continuazione. La democrazia è rule of law, governo della legge. Nessuna democrazia ha mai promesso l’eguaglianza di risultati. Non soltanto impossibile da conseguire, un’eguaglianza di questa specie impedirebbe a ciascuno di noi di soddisfare effettivamente le sue priorità e le sue preferenze. Non desidero più denaro, ma più tempo libero. Mi impegno a lavorare di più per un certo periodo della mia vita per fare il critico d’arte in un altro periodo. Nelle democrazie esiste pluralismo delle scelte, ma, a seconda dei tempi e dei luoghi, nelle democrazie c’è sempre un deficit di risorse per soddisfare tutti i desideri, tutti i bisogni. Saranno, però, i cittadini a decidere quanto risparmiare, quanto spendere, come e quanto ridistribuire. E avranno regolarmente la possibilità di cambiare le loro preferenze nel corso del tempo.
Spesso le democrazie sono deficitarie per quel che riguarda il ruolo e il potere politico delle donne che si traduce in gravi diseguaglianze sociali e economiche. Le quote rosa non risolvono il problema e possono persino essere anti-costituzionali. Tocca alle donne sfidare il potere politico maschilista non limitandosi a salire sulle code dei potenti e a farsi portare là dove si trovano le cariche che, come vengono attribuite/elargite, potranno essere revocate.
Last but not least, nelle democrazie può manifestarsi un deficit di leadership. Fermo restando che, periodicamente, si riscontrano deficit di capacità e qualità nel mondo dell’industria, diciamo meglio, fra i capitalisti, nell’accademia, nel giornalismo, nelle squadre di calcio e nell’atletica, i deficit di leadership politica hanno conseguenze più gravi. Raramente le democrazie selezionano i “migliori” (qualità di quasi impossibile definizione), ma in democrazia, costoro sono, per definizione, i vincenti nelle elezioni competitive. Raramente i migliori in un sistema politico dedicano le proprie energie alla politica. Molto diffusi in Italia l’antiparlamentarismo e l’antipolitica danno un grande contributo a tenere i migliori, con pochissime eccezioni, lontani dalla politica. Però, quello che conta è che un regime democratico rimanga sempre competitivo e aperto. La leadership di buona qualità riuscirà ad affermarsi. Naturalmente, i migliori dovranno “sporcarsi le mani”, conquistare i voti. Dovranno contare sull’esistenza di molti cittadini interessati alla politica, informati sulla politica, partecipanti, non solo con il loro voto, alla politica.
Le democrazie hanno gravi deficit se questi cittadini sono pochi di numero, poco interessati e poco informati, partecipanti infrequenti e fluttuanti. La democrazia esisterà comunque, ma il suo funzionamento difficilmente sarà soddisfacente e la sua qualità risulterà modesta, ma corrisponderà alla situazione che i suoi cittadini si sono costruita e meritata. Al cittadino non competente e non partecipante, che si irrita e protesta, allora diremo cura te ipsum. Se la democrazia è potere del popolo, il popolo ha il dovere civico di prepararsi per esercitarlo in maniera appropriata riducendo al massimo i suoi deficit cognitivi e partecipativi.
Yes, we can.

Repubblica 3.9.18
Le idee. Animali politici
Quando la solitudine genera i tiranni
Otto milioni e mezzo di italiani vivono soli
L’individuo separato, diceva Aristotele, o è bestia o è dio. Ma il rischio è di essere bestie al servizio di un dio
Eravamo un popolo, siamo una somma di egoismi, dunque più deboli rispetto alla stretta del potere dispotico
di Michele Ainis


Ci si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa, un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in mare aperto.
La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto hikikomori.
Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un’onda ogni generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.
Ne sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l’esperienza di cui siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il conforto di un amante o d’un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d’Europa.
Mentre l’11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con cui parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l’anno. Non a caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per cento degli italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. E non a caso quest’anno, agli esami di maturità, la traccia più scelta dagli studenti s’intitolava «I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura».
Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani. È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi.
Negli Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né convive; mentre l’Health and Retirement Study attesta che il 28 per cento dei più vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine assoluta. Succede pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli scelgono il carcere, pur di procurarsi cibo caldo e un po’ di compagnia; o in Inghilterra, dove la metà degli over 75 vive da sola.
Tanto che da quelle parti il governo May, nel gennaio 2018, ha istituito il ministero della Solitudine, affidandone la guida a Tracey Crouch; ma già in precedenza funzionava una commissione con le medesime funzioni, inventata da Jo Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista alla vigilia del referendum su Brexit. Insomma, altrove questo fenomeno viene trattato come un’emergenza, si studiano rimedi, si battezzano commissioni e dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo a fari spenti, senza interrogarci sulle cause delle nuove solitudini, senza sforzarci di temperarne gli effetti. Quanto alle cause, l’elenco è presto fatto. In primo luogo la tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo schermo del cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico con gli altri, segregandoci in una bolla virtuale. In secondo luogo l’eclissi dei luoghi aggreganti – famiglia, chiesa, partito – sostituiti da una distesa di periferie che ormai s’allargano fin dentro i centri storici delle città.
In terzo luogo le nuove forme del commercio e del consumo: chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli ipermercati, dove ti mescoli alla folla. In quarto luogo l’invecchiamento della popolazione, che trasforma una gran massa d’individui in ammalati cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al proprio male. In quinto luogo e infine, la precarietà dell’esistenza: una volta ciascuno moriva nel paesello in cui era nato, dopo aver continuato lo stesso mestiere del nonno e del papà; ora si cambia città e lavoro come ci si cambia d’abito, senza trovare il tempo di farsi un nuovo amico, di familiarizzare con i nuovi colleghi.
Con quali conseguenze?
Secondo un gruppo di ricercatori della Brigham Young University, la solitudine danneggia la salute quanto il fumo di 15 sigarette al giorno: giacché provoca squilibri ormonali, malumore, pressione alta, insonnia, maggiore vulnerabilità alle infezioni. Altri studiosi (John e Stephanie Cacioppo, dell’Università di Chicago) mettono l’accento sull’aggressività dei solitari, le cui menti sviluppano un eccesso di reazione, uno stato di perenne allerta, come dinanzi a un pericolo incombente. C’è un altro piano, tuttavia, ancora da esplorare: la politica, il governo della polis. L’individuo separato o è bestia o è dio, diceva Aristotele.
Ma nelle società contemporanee la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.
Sussiste una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima può ben corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una condanna che subisci tuo malgrado. Nell’epoca della disintermediazione, della crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per uno, trasformandoci in una nube d’atomi impazziti. Eravamo popolo, siamo una somma d’egoismi, senza un collante, senza un sentimento affratellante. Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere.
Perché è la massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere dispotico – ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita activa), sulle orme di Montesquieu – si regge sull’isolamento: quello del tiranno dai suoi sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del reciproco timore e del sospetto.
Sicché il cerchio si chiude: le nostre solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.

Repubblica 3.9.18
Facebook
L’istruzione di Zuckerberg a spese del mondo intero
di Kara Swisher


Lasciate, prima di tutto, che vi dica che a me Mark Zuckerberg piace fin dal primo giorno in cui l’ho conosciuto, più di 13 anni fa. Lasciate, però, che vi dica anche che sia lui sia Facebook, il social network al quale egli dette vita al college, mi stanno irritando allo sfinimento da tempo. Ogni settimana succede qualcosa, e quel qualcosa non è mai buono.
Da ultimo, si è trattato della rivelazione secondo cui i russi si starebbero muovendo furtivamente attorno alla piattaforma per causare problemi anche nelle elezioni americane di metà mandato. A questo punto, la notizia non dovrebbe costituire una sorpresa per nessuno. Forse, stupirà il solo presidente Donald Trump. Questa volta dovremmo essere grati del fatto che a darne notizia sia stato il management stesso di Facebook, che così ha preso le distanze dalla cocciutaggine di cui ha dato prova in passato, quando ha opposto resistenza alle pressioni di media e governi affinché facesse uso di maggiore trasparenza. In un post sull’ultima campagna di disinformazione, in riferimento alle sfide per la sicurezza l’azienda ha detto: « Siamo alle prese con avversari determinati e ben finanziati che cambiano tattiche di continuo. È in atto una corsa agli armamenti e anche noi dobbiamo migliorare sempre».
La metafora della corsa agli armamenti è buona, ma non per le ragioni addotte da Facebook. Per come la vedo io, Facebook, Twitter e YouTube sono diventati i trafficanti delle armi digitali dell’epoca moderna. Tutte queste aziende hanno iniziato con il velato proposito di cambiare il mondo. Ma lo hanno fatto come non avevano immaginato. Hanno modificato il modo di comunicare degli esseri umani, ma mettere in collegamento la gente troppo spesso ha voluto dire mettere gli uni contro gli altri. Queste aziende hanno trasformato in armi i social media. Hanno trasformato in arma il dibattito pubblico. E, più di qualsiasi altra cosa, hanno trasformato in arma la politica.
Questo spiega perché attori ostili stiano continuando a giocare d’azzardo su quelle piattaforme e perché non vi sia una soluzione concreta in vista: quelle piattaforme sono state realizzate per funzionare esattamente in questo modo. E da allora sono cresciute a dismisura e hanno finito con l’avere la meglio sui più tenaci tentativi in cui si sono prodigati i loro inventori per tenerle sotto controllo. A un recente botta e risposta con i dipendenti di YouTube, per esempio, uno di loro mi ha detto che, mentre un tempo il lavoro si limitava a sporadiche chiacchierate su filmati di gattini, adesso è degenerato in un inferno quotidiano di scambi di opinioni sul destino dell’umanità.
Se non altro, Zuckerberg ha fatto notevoli passi avanti nell’ammettere il problema e ha detto, più di qualsiasi altro Ceo digitale, che rimpiange di non aver agito prima. Una cosa è certa: quando l’ho conosciuto, non mi sarei aspettata niente del genere da lui, anche se, col senno di poi, qualche piccolo segnale del fatto che stava sbagliando l’ho visto con i miei stessi occhi. Quando ha attraversato tranquillo l’affollata stanza del trasandato quartiere generale di Facebook di allora, nel centro di Palo Alto in California, aveva compiuto da poco 21 anni e, come potete immaginare, era allampanato. La start up era nata da poco, era ben finanziata e interessante, ma Zuckerberg si era già fatto la reputazione dell’arrogante, in parte perché aveva fatto inserire la scritta «A Mark Zuckerberg production» in calce alla pagina del sito. Inoltre, mi aveva dato un biglietto da visita su cui era scritto: « Sono l’amministratore delegato, puttana». Non mi risentii e scherzai con uno dei suoi dirigenti, dicendo che Zuckerberg sembrava proprio un gran fesso. Così, quando ci incontrammo, dopo un saluto imbarazzato, la prima cosa che mi disse fu: « Mi risulta che secondo lei sarei un coglione ».
Chiarisco di non averlo mai pensato, anche dopo aver passeggiato con lui in città. Andare a passeggio era ( ed è) la sua mania caratteristica. Ogni fondatore di start up tecnologica ne ha una. In quella camminata forzata, non fece altro che ribadire: Facebook era «un servizio pubblico». La sua definizione era strana, perché non era sullo stesso piano dell’immagine modaiola del suo rivale di allora, Myspace, né della festa colorata e senza fine alla Willy Wonka in corso da Google. Era un concetto banale, mesto, rassicurante, da non-si-preoccupi-signora-lasciamo-le-luci-accese, a ripensarci. Abbastanza sintomatico. Si basava sull’idea che Facebook in fondo fosse qualcosa di buono.
Zuckerberg è rimasto troppo a lungo attaccato a quel misto di sincerità e ingenuità deliberata. Quello che non è mai riuscito a comprendere appieno, infatti, è che la società che aveva creato era destinata a diventare un modello per tutta l’umanità, il riflesso digitale di masse di persone di tutto il pianeta. Comprese le peggiori. Ciò dipese dal fatto che Zuckerberg si stava specializzando in informatica e interruppe gli studi in anticipo, senza frequentare corsi di materie umanistiche che avrebbero potuto metterlo in guardia nei confronti degli aspetti peggiori della natura umana? Forse. O dipese dal fatto che da allora è sempre rimasto immerso nell’ottimismo a oltranza della Silicon Valley, dove è proibito aspettarsi un risultato negativo? Probabile. Può essere che, sebbene l’obiettivo iniziale fosse quello di "mettere in contatto le persone", egli non sia mai riuscito a prevedere che la piattaforma dovesse essere responsabile di quelle persone anche quando si comportavano male? Oh, certo. E, infine, può essere che la mentalità stessa di Facebook, per la quale le- cifre- salgono- sempre- e- sono- sempre- in- attivo, lo abbia accecato nei confronti delle scorciatoie imboccate durante la fase di crescita del suo servizio? Assolutamente sì.
Ci si sarebbe potuti aspettare che tutto il tempo che è passato, tutti i soldi e il potere che ha accumulato lo avessero reso saggio. E invece no. Ho chiesto più volte a Zuckerberg come si sentisse, a livello personale, per i danni arrecati dalla sua creazione. Iniziava a comprendere il potere che aveva per le mani e che il mondo che controlla non è un posto così roseo? «Probabilmente » , ha ammesso, Facebook era « troppo concentrata sugli aspetti positivi e non abbastanza su quelli negativi». È ragionevole. Ma fargli ammettere un qualsiasi dispiacere personale è stato impossibile. « Provo un profondo senso di responsabilità su come porre rimedio al problema — ha continuato — credo che si debba essere disposti a commettere alcuni errori quando si dirige un’azienda e si vuole essere innovativi. Non credo però che sia accettabile ripetere gli stessi errori più volte». È la classica risposta degli ingegneri benintenzionati della Silicon Valley che lascia molte persone interdette per ciò che concerne, per dirne una, la manipolazione della democrazia. Tenere alla larga cattivi attori come i russi è stato e sarà sempre più costoso. Potrebbe essere addirittura impossibile. Facebook, in ogni caso, avrebbe potuto fare e deve fare molto di più.
Adesso, Zuckerberg sta cercando di sedare ogni dibattito a Washington su come regolamentare la sua azienda in base a quello che un giorno mi disse che era: un servizio pubblico. Ha anche trascorso l’ultimo mese ad andare a cena con accademici esperti in libertà di espressione e propaganda per capire come procedere. Chiamatela l’istruzione di Mark Zuckerberg e della Silicon Valley, ma è un’educazione a spese del mondo intero. Ed è impossibile calcolare quanto sia costata. E quanto costerà.

Il Fatto 3.9.18
Non possiamo permetterci di essere ignoranti sulla Cina
Fenomeni come la Brexit dimostrano un desiderio di semplificare il mondo, di chiuderci nelle nostre comunità nazionali. E se è difficile intergire con Bruxelles, figuriamoci con Pechino. Ma così diventiamo irrilevanti
di Kerry Brown


Mi sono occupato per molti anni di rapporti con la Cina, per conto della Gran Bretagna, come accademico, uomo d’affari e diplomatico. E mi sono sempre fatto la stessa domanda: cosa vuole la Cina da noi? Cosa pensano i cinesi? Che visione hanno del ruolo della Gran Bretagna nel loro mondo? Lo stesso tipo di dibattito si sviluppa in altri Paesi: in Europa, Asia e Nord America bisogna rispondere a questi quesiti per affrontare l’ascesa prima economia e ora geopolitica della Cina.
Parte della complessità di confrontarsi con queste nuove potenze è la confusione su che cosa sia esattamente la Cina – una tradizionale potenza asiatica confuciana, una minaccia geopolitica di marca marxista-leninista, uno Stato che subisce le regole della globalizzazione o uno che le detta? Le stesse domande che oggi molti si fanno a proposito degli Stati Uniti sotto Donal Trump, con tutte le loro fratture interne. E sono dubbi che riguardano anche altri Paesi d’Euopa. Nel caso della Gran Bretagna, con la Brexit, si è capito che gli inglesi non hanno le idee chiare neppure su chi siano e che ruolo debbano avere loro stessie La spaccatura tra la parte più isolazionista e tradizionalista della società (di solito anche quella più rurale e anziana) e il resto è diventata all’improvviso evidente a tutti.
In questo contesto il rapporto con la Cina finisce per diventare un sottoinsieme delle questioni identitarie interne. La differenza nella visione del mondo e nei valori politici e culturali della Cina, che mai come ora possono influire anche sulle nostre vite, ci costringono a chiederci non soltanto chi sono loro, ma anche chi siamo noi.
Dopo aver avuto a che fare con la Cina per 25 anni ho imparato alcune cose. Negli ultimi decenni i cinesi sono stati isolati, ai margini dell’economia mondiale, cercando disperatamente di recuperare terreno. Come in tutte le relazioni asimmetriche, sentendosi più deboli degli altri hanno sempre cercato di sapere il più possibile di un mondo che invece di loro si curava poco. Questo non significa che la maggioranza dei cinesi sia esperta di Gran Bretagna, America o Australia, ma hanno sempre coltivato una certa curiosità e un livello di conoscenza di base, in molti casi anche della lingua, che semplicemente non è reciproco. Ci sono 200 milioni di cinesi che studiano inglese e soltanto 3000 inglesi che studiano cinese. Anche considerando le percentuali della popolazione il confronto è impietoso.
Ci sono gruppi di occidentali – nel governo, nell’impresa, nella società civile – che hanno bisogno di informarsi sulla Cina e hanno maturato una eccellente competenza. Ma a parte loro c’è ben poco e il dibattito specialistico e accademico sulla Cina scoraggia tutti i non iniziati. Ma questi sono problemi superficiali che possono essere risolti in tempi ridotti con l’istruzione. La vera questione è stabilire quale ruolo vogliamo che abbia la Cina nelle nostre vite. Fenomeni come la Brexit dimostrano un diffuso desiderio di semplificare il mondo, di ritirarsi all’interno delle barriere di un senso condiviso di identità nazionale. In molti hanno difficoltà a confrontarsi con l’Unione europea, percepita come distante e poco comprensibile, figuriamoci quanto può essere difficile immaginare un modo di convivere con una potenza come la Cina che emerge da un passato e da una storia così radicalmente distante.
La conclusione a cui sono giunto è che la questione davvero preoccupante è che abbiamo scelto l’indifferenza verso la Cina come opzione di default. Non pensiamo che meriti abbastanza attenzione: è troppo remota, strana, indecifrabile, anche se i suoi studenti riempiono le nostre università e i suoi prodotti i nostri negozi, i suoi turisti i nostri aeroporti. Gli inglesi, e gli altri europei, sono a loro agio soltanto con una Cina quasi invisibile, ed è così che la vogliono.
Curare questo approccio mentale non è facile perché non implica soltanto più studio, ma un completo cambio di prospettiva e rimettere in discussione la nostra stessa identità. L’idea che l’Europa rappresenti valori assoluti di libertà, pragmatismo e virtù democratica mentre la Cina si muove su un piano morale inferiore è il grande non-detto nel nostro atteggiamento verso la Cina. E affrontare questo punto ci costringe a fare qualcosa che finora siamo sempre riusciti a evitare: ridimensionare i nostri valori e la nostra percezione di noi stessi.
C’è un detto apocrifo attribuito a Confucio: l’apprendimento è efficace in tre modi, imitando qualcuno individuato come modello, e questo è molto più efficace; attraverso la lettura, che è il modo più superficiale; oppure con l’esperienza, che è il più duro. L’esperienza sarà la via attraverso la quale la Gran Bretagna dovrà definire un nuovo rapporto con la Cina dopo la Brexit. E il resto del mondo starà ad osservare come andrà. Può trasformarsi in una faticosa ma istruttiva lezione per tutti gli altri. Per capire che per conoscere davvero gli altri, è meglio prima conoscere se stessi per evitare che siano gli altri a insegnarci chi siamo davvero.

Corriere 3.9.18
Ogni giorno 11 denunce
Stupri di gruppo, siti e social media Il dossier sulla violenza
di Fiorenza Sarzanini


Il numero dei violentatori arrestati supera il numero delle vittime. Il dato certifica che sono in aumento gli stupri di gruppo. Le vittime, sempre più giovani, vengono sedotte con modi gentili, adescate via Internet grazie a siti di appuntamento, e per questo il Dac, la Direzione anticrimine della polizia, lancia l’allarme. Ogni giorno sono undici gli episodi che vedono le donne vittime di violenza. Da gennaio a luglio 2.311 le denunce presentate.
Roma È il dato che maggiormente impressiona. Perché il numero dei violentatori identificati continua ad essere più alto dei fatti denunciati e questo dimostra come gli stupri siano spesso commessi in gruppo. È l’aggressione brutale compiuta dal branco, l’assalto che ha segnato numerosi episodi delle ultime settimane. Ragazze sedotte con modi gentili e poi diventate vittime di una violenza selvaggia, oppure adescate via Internet grazie ai siti di appuntamento che troppo spesso si trasformano in una trappola infernale. Il messaggio di Vittorio Rizzi, investigatore di altissimo livello, che guida la Dac, Direzione anticrimine della polizia, è fin troppo esplicito: «Bisogna evitare ogni situazione di potenziale rischio. È importante sapere che sul web il soggetto predatore si maschera meglio grazie alle false identità e anche quando si svela lo fa in maniera subdola. Per questo non bisogna cedere alle lusinghe degli appuntamenti al buio». L’esempio più eclatante è svelato dalle indagini che hanno portato in carcere l’imprenditore di Parma Federico Pesci, che con un amico pusher nigeriano ha sequestrato e stuprato per ore una ragazza di 21 anni conosciuta in chat. Ma l’analisi delle denunce fa emergere come questa modalità di approccio sia in costante e pericoloso aumento.
Più di 2.300 violenze denunciate in sei mesi
È stato il prefetto Franco Gabrielli a imporre una politica di prevenzione che passa dalla protezione delle vittime già al primo episodio di maltrattamento in famiglia e si sviluppa con un’azione affidata a gruppi investigativi specializzati. Una linea che sembra dare risultati concreti. Dopo un aumento costante e addirittura un’impennata delle denunce nel 2017, nei primi sei mesi del 2018 c’è stato infatti un calo pari al 15 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Ma questo non basta a rassicurare, perché il numero dei reati rimane comunque altissimo. Sono 2.311 episodi denunciati con una media di 11 violenze al giorno. Ancora tante, troppe. E se si esamina il dettaglio della statistica si scopre che sono ancora moltissimi gli stupri compiuti tra le mura domestiche, sia tra gli italiani, sia nelle comunità straniere.
Ecco perché uno degli strumenti ritenuti fondamentali nella prevenzione è il «protocollo Eva» (Esame Violenze Agite) che — come chiarisce lo stesso Rizzi — «nei casi di liti in famiglia consente di inserire nella banca dati delle forze di polizia (Sdi) le informazioni utili a ricostruire tutti gli episodi di violenza domestica che hanno coinvolto un nucleo familiare. I poliziotti che arrivano sul posto sono dunque preparati al tipo di intervento da compiere, sanno se in passato qualcun altro ha dovuto compiere un intervento analogo, se qualcuno detiene armi o ha precedenti, se ci sono bambini coinvolti. E questo è fondamentale per far sentire la vittima maggiormente al sicuro, per rassicurarla e convincerla a denunciare, comunque a chiedere aiuto».
Le vittime minorenni e gli aggressori stranieri
Da gennaio alla fine di luglio sono state 1.646 le italiane che hanno presentato denuncia e 595 le straniere, oltre a settanta di nazionalità ignota, per un totale di 2.311 donne. Tra i violentatori sono stati identificati 1.628 italiani e 1.155 stranieri con un’incidenza percentuale di questi ultimi sulla popolazione che certamente appare molto alta. Tra loro ci sono 176 romeni, 154 marocchini, 67 nigeriani, 58 albanesi e 56 tunisini oltre a 143 uomini di cui non è stato possibile accertare la nazionalità. E fa paura il numero di ragazzine sotto i quattordici anni che hanno subito violenza negli ultimi sei mesi: ben 173, tra loro 147 italiane. Una realtà ben delineata nel dossier preparato dalla Dac nel marzo scorso e relativo all’attività svolta fino al dicembre 2017. La relazione analizza proprio l’identità di vittime e carnefici, mettendo in evidenza gli aspetti sui quali bisogna intervenire in maniera ancora più efficace sia per la prevenzione, sia per la repressione. Non a caso è proprio Gabrielli a sottolineare nella premessa la necessità di applicare la legge, ma anche alimentare «la rete composta da istituzioni, enti locali, centri antiviolenza, associazioni di volontariato che si impegnano ogni giorno per affermare un’autentica parità di genere, contro stereotipi e pregiudizi».
«L’analisi dei dati — è scritto nel documento — mostra un andamento quasi costante nel tempo del numero delle violenze sessuali commesse, con un lieve aumento nell’ultimo biennio (+5%). Il novanta per cento delle vittime è di sesso femminile. Rispetto agli altri delitti finora analizzati (omicidi volontari, atti persecutori, maltrattamenti in famiglia) l’età mostra incidenze diverse. Le cittadine italiane minorenni vittime di questo delitto sono oltre il ventuno per cento nel 2017. Un’analisi più approfondita delle denunce ha consentito di verificare i luoghi dove vengono principalmente commesse le violenze sessuali. A differenza degli altri delitti spia, la percentuale di autori di cittadinanza straniera è molto più alta, pur se comunque inferiore a quella degli italiani. Oltre il novanta per cento dei presunti autori sono cittadini maggiorenni, sia che ci si riferisca agli italiani che agli stranieri».
La circolare ai questori per attivare la «rete»
È stato proprio Rizzi a trasmettere una circolare ai questori che detta le regole di intervento. La linea nel rapporto con la vittima è chiara: «Fornire una completa e analitica informazione circa gli strumenti — amministrativi e penali — previsti dalla normativa di settore cui la persona offesa può accedere; prevedere, in seno agli uffici, dei criteri di priorità nella gestione dei procedimenti in materia che assicurino agli stessi una «corsia preferenziale» di trattazione; prendere in carico la vittima in ambiente idoneo attraverso personale altamente qualificato, capace di cogliere nella narrazione tutti gli episodi di violenza (o connotati da un coefficiente di pericolosità), ed evitare atteggiamenti di minimizzazione delle condotte esposte; rimanere in contatto costante con la vittima, anche successivamente al primo approccio, facendosi parte attiva nel mantenere i rapporti anche per acquisire ulteriori elementi informativi sull’evoluzione della vicenda esposta; attivare la rete antiviolenza per realizzare le più opportune forme di intervento integrato con servizi sociali e centri antiviolenza attivi sul territorio; attivare il Protocollo Eva».
A questo si aggiunge l’attività della polizia postale guidata da Nunzia Ciardi che monitora il web e i siti specializzati proprio per proteggere le vittime, in particolare minorenni. Con un’attenzione particolare ai social che — come spiega uno degli analisti — sono apparentemente più rassicuranti, ma in realtà rappresentano uno degli strumenti maggiormente utilizzati per ingannare la propria preda e poi catturarla».

La Stampa 3.9.18
In Libia parte l’assalto a Sarraj
L’Italia non sta a guardare : pronti a intervenire con una task force
per difendere il premier
“Lo stato d’emergenza mette a rischio civili e migranti”
di Grazia Longo


Una task force italiana in difesa di Fayez al Sarraj, sempre più accerchiato dalle milizie rivali a sostegno di Khalifa Haftar, grazie alla collaborazione tra il ministero della Difesa, quello degli Esteri e l’Aise, l’agenzia dei servizi segreti esteri. Al momento i nostri soldati dei gruppi speciali non sono schierati in Libia e l’attività principale per monitorare il pericolo di un rovesciamento del governo di unità nazionale di Al Sarraj, sostenuto dall’Onu, viene svolta dalla nostra intelligence.
Ma, considerato l’allarme crescente, si sta valutando l’opportunità di un intervento da parte dei corpi speciali. È ancora prematuro stabilire se questi verranno coinvolti in una missione sul territorio libico, ma il tema sarà posto anche all’attenzione del Cofs, il Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali.
E intanto, oggi pomeriggio, a Palazzo Chigi è previsto un summit per fare il punto della situazione. Parteciperanno il presidente del consiglio Giuseppe Conte, la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, il titolare della Farnesina Enzo Moavero Milanesi e il numero uno dell’Aise Alberto Manenti (in via di sostituzione). I corpi speciali che potrebbero essere coinvolti in un’operazione in Libia sono il Gruppo di intervento speciale dei carabinieri, il 9° Reggimento d’assalto paracadutisti «Col Moschin», il Gruppo operativo incursori del comsubin e il 17° Stormo incursori dell’Aeronautica militare.
Al momento tuttavia, ribadiscono fonti della Difesa e degli Esteri, non è stato ancora stabilito un dispiegamento delle nostre forze militari d’élite e il dossier Libia resta sostanzialmente in mano all’intelligence. Non è neppure escluso, del resto, un nostro impegno sul fronte libico dal punto di vista sociale e sanitario. Nel frattempo la linea di Roma è orientata verso l’intesa con le altre forze internazionali che hanno condannato gli attentati a Tripoli. Il nostro governo, insieme a Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, sabato scorso, ha diffuso un comunicato congiunto in cui viene «condannata fermamente la continua escalation di violenza a Tripoli e nei suoi dintorni, che ha causato molte vittime e che continua a mettere in pericolo la vita di civili innocenti».
La cooperazione tra le forze internazionali è tuttavia uno spaccato più complesso di quanto possa apparire. Un conto, infatti, sono le dichiarazioni ufficiali, un altro la trama politico-economica che viene tessuta sullo sfondo. Non a caso i nostri 007, in sinergia con il ministero della Difesa, sono impegnati anche a scandagliare le reali intenzioni della Francia. Si cerca cioè di capire quali siano gli effettivi interessi del governo Macron. «È in atto un tentativo di decontestualizzare gli attentati dal ruolo di Haftar - spiegano dalla Difesa - mentre è sempre più evidente che le milizie ribelli lo sostengono a piene mani».
Gli scontri a Tripoli e il tentativo di destabilizzare il governo di unità nazionale continuano a restare prioritari nell’agenda del nostro esecutivo. La nostra leadership nella questione libica è stata peraltro riconosciuta anche dal presidente degli Usa Donald Trump, durante la visita americana del premier Giuseppe Conte. E a sostenere l’ipotesi di uno schieramento militare c’è l’allarme Isis: con la caduta di Al Sarraj e l’assenza di una stabilità politica, la Libia potrebbe diventare il fulcro del terrorismo islamico, alimentato anche dai trafficanti di esseri umani.
«Lo stato d’emergenza è stato annunciato a Tripoli. Medici Senza Frontiere resta altamente preoccupato per i cittadini libici nelle aree residenziali e per i rifugiati e migranti intrappolati nei centri di detenzione, le cui sofferenze sono state aggravate dalle politiche dell’Unione europea. La Libia non è un Paese sicuro». Così l’organizzazione Medici Senza Frontiere, sul suo profilo ufficiale Msf Sea.

Corriere 3.9.18
Chi è e cosa vuole Haftar
L’ombra del generale
Pochi hanno dubbi. E i salafiti fedeli al governo sostenuto dall’Onu lo dicono chiaro: con la Settima brigata che attacca Tripoli c’è il generale Haftar.
di Francesco Battistini


Una delle cose che il generale Khalifa Haftar ha imparato nei suoi anni americani, dicono, è il vezzo di firmare le bombe. Ha un pennarello speciale. Autografò i razzi che dovevano liberare Sirte dai tagliagole dell’Isis. E lo fece pure quando lanciò la sua Operazione Dignità, che doveva «liberare» l’intera Libia e gli permise di conquistarne metà. Stavolta è improbabile che gli ultimi Grad, piovuti vicino all’ambasciata italiana di Tripoli, portassero la sua firma. Men che meno le pallottole che stanno ripiombando la capitale libica nei peggiori scontri dal 2014. Pochi hanno dubbi, però. E anzi i miliziani delle Forze speciali Radaa, salafiti fedeli al governo sostenuto dall’Onu, lo dicono chiaro. Chi sta attaccando il cuore del potere tripolino non è solo il signore della guerra Salah al Badi, alla testa della Settima Brigata ribelle e delle milizie Al Kani: no, a coprirgli le spalle c’è Haftar. Il generalissimo che si sente il nuovo Rais e in questi anni è stato tenuto fuori dai giochi e ora non s’accontenta più di governare a Est, Tobruk e la Cirenaica, ma vuole prendersi tutto il mazzo.
Chi sta con chi
Tre tregue in quattro giorni non sono bastate. Lo scontro è prima politico, che militare. Delegato alle potenti milizie di Tripoli, Tarhuma, Misurata, Zintan, Zawia. Da una parte, chi sta con Sarraj: i Radaa, la Prima divisione Tbr (Brigate rivoluzionarie di Tripoli, del ministero dell’Interno), la Brigata Abu Selim e gli acerrimi nemici di Haftar, l’Ottava divisione Nawasi; dall’altra, gli uomini di Al Badi, rientrato apposta dalla Turchia, dove s’era rifugiato dopo aver messo a ferro e fuoco la capitale nel 2014. Al Badi ha lanciato un appello alla sollevazione popolare contro «i corrotti che affamano Tripoli», dicendo di voler «combattere per chi non ha cibo e per giorni aspetta in coda lo stipendio».
Un golpe?
Ora, è vero che i miliziani che controllano Tripoli vivono spesso di pizzo&ingiustizia, ma non sfugge che la posta sia ben altra. E che il golpe — perché di questo si tratta, visto che la Settima Brigata aveva giurato fedeltà a Sarraj — coincida con gli interessi di Haftar, dell’Egitto e soprattutto dei francesi, determinati a indire in tutta la Libia elezioni politiche per dicembre. Il generalissimo ha fretta. E non vuole intralci: l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, che un mese fa aveva espresso dubbi sulla possibilità di votare nel 2018, oltre ai Grad a cento metri dall’ufficio, s’è beccato i colpi d’un sito francese, molto vicino agli 007 parigini della Dgse, che ha ipotizzato un suo siluramento.
Trump e noi
La guerriglia di Tripoli è una faccenda che ci riguarda da vicino, anche stavolta. Lo dicono il pubblico sostegno di Trump al premier Conte (peraltro favorevole ad aprire a Haftar) proprio sul dossier libico, la visita del vicepremier Di Maio al Cairo, l’evacuazione della nostra ambasciata. Improvvisamente, la crisi libica s’è rimessa a correre. L’Occidente va a passo di lumaca. Ed è la volpe della Cirenaica, ancora, a rivelarsi la più veloce.

Repubblica 3.9.18
Asilo negato ai migranti "In tre mesi oltre 12mila clandestini in più"
Uno studio dell’Ispi su dati del Viminale rivela che gli irregolari in Italia sono in netto aumento a causa della stretta sui permessi
di Alessandra Ziniti


Roma Tre mesi dopo la stretta di Salvini sull’immigrazione comincia a farsi sentire e l’effetto pratico rischia di trasformarsi in un micidiale boomerang. Da giugno ad agosto il Viminale si sta trasformando in una macchina " sforna clandestini" per usare un lessico familiare al ministro dell’Interno. I numeri, elaborati dall’Ispi ( Istituto per gli studi di politica internazionale) su dati del Viminale, rivelano che la politica di Salvini ha già prodotto 12.450 nuovi irregolari: inevitabile quando all’aumento dei dinieghi di protezione non corrisponde un analogo aumento dei rimpatri effettivi, solo 1.350, il cui trend si conferma in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Di più: a ingrossare le fila dei nuovi irregolari sta per arrivare un consistente numero di persone a cui non verrà rinnovata la protezione umanitaria secondo le nuove indicazione fornite da una circolare del ministro dell’Interno.
Salvini si era subito lamentato perché i primi numeri non avevano assecondato i suoi desiderata, ma a luglio le commissioni che esaminano le richieste di asilo dei migranti sono state più solerti e la percentuale dei permessi per protezione umanitaria è scesa dal 28 al 22 per cento. Se, incrociando questi tre elementi (rimpatri effettivi, dinieghi di protezione e revoca di protezione umanitaria), il trend dovesse essere confermato, la stima dell’Ispi è che in due anni il numero dei migranti irregolari passerebbe dai 490 mila del 2017 a 550 mila nel 2019.
Dunque, a bocce ferme su nuovi patti per i rimpatri (per i quali al momento non si intravede nulla oltre le dichiarazioni di intenti), la stretta anti- immigrati di Salvini avrebbe come effetto paradossale di creare 60 mila nuovi irregolari in due anni, per intenderci migranti che ( non essendo fisicamente riportati indietro e non avendo alcun diritto a forme di accoglienza) andrebbero ad aggiungersi a quanti sono costretti a vivere ai margini delle città, in condizioni sociosanitarie non dignitose e che, come confermano gli ultimi dati disponibili, finiscono con il commettere reati 20 volte di più dei migranti regolari. Insomma, tutto quello che spaventa quel pezzo d’Italia ( ben il 73% secondo l’istituto Cattaneo) che ha una percezione distorta del fenomeno immigrazione, ritenendo che nel nostro paese ve ne siano quattro volte di più.
« Quello che si prospetta è un effetto del tutto controproducente rispetto all’obiettivo del " via tutti gli irregolari dall’Italia" — spiega Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi — È un effetto anche abbastanza ovvio se si iniziano a restringere le protezioni prima di riuscire ad aumentare in maniera molto significativa i rimpatri. E si tratta di una sottostima perché stiamo considerando solo i richiedenti asilo (quindi quasi tutti quelli che arrivano via mare), mentre tra i rimpatriati una discreta percentuale è rappresentata da chi entra irregolarmente in Italia in altro modo o supera la durata di soggiorno autorizzata ».
La medaglia che Salvini porta orgoglioso al petto, e cioé la riduzione degli sbarchi dell’80 per cento rispetto allo scorso anno ( trend che il contatore del Viminale aveva già fatto segnare durante gli ultimi mesi del governo Gentiloni), non sembra destinata ad incidere più di tanto sull’aumento dei migranti irregolari perché le commissioni che esaminano le richieste di asilo (nonostante i rinforzi mandati da Salvini) saranno sommerse dall’arretrato ancora per un bel po’.
Spiega Matteo Villa: « L’obiezione è scontata: con la riduzione dei flussi dal mare i richiedenti asilo saranno sempre di meno e quindi anche il numero dei nuovi irregolari comincerà a scendere. Ma la realtà è molto diversa perché il sistema d’asilo ha una certa inerzia rispetto al numero degli arrivi. Una persona attende in media quasi 3 mesi prima di presentare richiesta d’asilo e poi aspetta circa 18 mesi per ricevere il primo esito al quale potrebbe appellarsi».
Anche qui qualche dato aiuta a capire: a fine luglio c’erano ancora 130 mila migranti in attesa di risposta alla loro richiesta di asilo. Al momento le commissioni stanno riducendo l’arretrato di 3.500 domande al mese, dunque tra quelle nuove e l’arretrato ci vorrebbero ancora tre anni per smaltirle tutte.
« Insomma — conclude Villa — per Salvini questo è un problema che non si risolverà velocemente e la macchina " produci- irregolari" potrebbe continuare a sfornarne almeno tremila al mese per un periodo di tempo molto lungo».

Repubblica 3.9.18
Il rapporto Unhcr
"Nel Mediterraneo muore un profugo su 18"
di a.z.


Gli sbarchi sono in forte calo ma il numero delle vittime è in crescita Il tasso di mortalità è più che raddoppiato
Il rischio di morte durante le traversate nel Mediterraneo è in continua crescita: muore un migrante su 18, una percentuale più che raddoppiata visto che nel 2017 il tasso di mortalità era di una persona su 42. Sono le cifre del nuovo rapporto di Unhcr secondo cui, nei primi otto mesi dell’anno sono 1.600 le persone che hanno perso la vita o risultano disperse lungo la rotta del Mediterraneo. Dunque ad una forte diminuzione ( oltre l’ 80 per cento) di chi arriva in Europa corrisponde un’allarmante crescita del tasso di mortalità.
Il rapporto " Desperate journeys" analizza anche tempi e rotte che confermano come il Mediterraneo, con una drastica riduzione del dispositivo di soccorso prima formato dalle navi umanitarie e dai mezzi militari italiani ed europei in posizione più avanzata rispetto alla Libia, sia ormai un mare pericolosissimo. Dei dieci naufragi di cui si ha notizia, sette sono avvenuti da giugno a oggi, dunque nei mesi in cui la stretta del governo italiano ha di fatto lasciata sguarnita la rotta più battuta dalla Libia verso l’Italia.
Ma rischiosa è diventata anche la tratta più breve, dal Marocco alla Spagna, su cui i trafficanti hanno spostato parte dei loro flussi: qui dall’inizio dell’anno a oggi sono morte 300 persone contro le 200 dello scorso anno, portando il tasso di mortalità ad una persona su 14 di quelle che intraprendono il viaggio.
Quasi raddoppiati anche i migranti morti sulle rotte terrestri, in Europa o ai confini, passati da 45 a 78. « Il rapporto conferma ancora una volta come la traversata del Mediterraneo sia tra le più rischiose al mondo — dice Pascale Moreau, Direttrice dell’Ufficio Unhcr per l’Europa — Il calo di persone che arrivano sulle coste europee non è più un test per stabilire se l’Europa possa gestire tali flussi, ma per capire se sia in grado di fare appello a quel senso di umanità necessario a salvare vite umane » . All’Europa l’Unhcr chiede di favorire l’accesso a percorsi legali per i rifugiati, attraverso l’aumento dei posti di reinsediamento e la rimozione degli ostacoli al ricongiungimento familiare, che contribuiscono a fornire alternative a tragitti potenzialmente mortali.
Prendendo atto delle misure adottate da alcuni Paesi per impedire l’ingresso di rifugiati e migranti, il rapporto esorta a garantire a coloro che cercano protezione internazionale un accesso tempestivo alle procedure di asilo e invita a rafforzare i meccanismi di protezione nel caso di minori che viaggiano da soli e sono in cerca di asilo.

Il Fatto 3.9.18
“Il Pd torna in piazza” (ma deve riempirla)
Roma - Martina: “Il 29 settembre contro il governo”. Quota 40 mila per evitare il flop
di Lorenzo Vendemiale


Tornare in piazza, per dimostrare agli altri, forse un po’ anche a se stessi, di essere ancora vivi. Il segretario del Pd, Maurizio Martina, ha annunciato una grande manifestazione contro il governo il prossimo 29 settembre. Con il congresso alle porte, nel momento peggiore della sua storia, il partito prova a ripartire dalla gente. “La piazza è la scelta giusta”, ragionano i vertici.
“C’è tanta gente che vuole costruire l’alternativa anche manifestando la sua presenza”, ha spiegato ieri Martina all’incontro di Area Dem a Cortona. A dare coraggio al segretario sono stati gli appelli dei militanti alle feste dell’Unità e soprattutto l’ottima riuscita della manifestazione di Milano contro il razzismo. La sede è ancora da ufficializzare ma dovrebbe essere Piazza del Popolo, la stessa della manifestazione flop organizzata da Matteo Renzi a ottobre 2016 a sostegno del referendum costituzionale: allora ci furono circa 15mila persone, ce ne vogliono almeno 40-50 mila per evitare la figuraccia. Per questo la macchina organizzativa, in mano a Gianni Dal Moro e al coordinatore della segreteria nazionale Matteo Mauri, si è già messa in moto.
Si torna all’antico: pullman e treni speciali, coinvolgimento dei segretari regionali (in particolare delle Regioni più vicine e popolose, come Toscana, Emilia-Romagna e Campania, da cui ci si aspetta il contributo maggiore) e anche dei circoli. “Vogliamo dare un segnale: con tutti i suoi limiti, il Pd resta uno dei pochi punti di riferimento per la parte d’Italia che non si riconosce nel governo.”, spiega Mauri. Resta da capire chi ci sarà in piazza. L’evento vuole essere aperto a tutti: qualche contatto è stato già preso con i sindacati, bacino storico delle manifestazioni della sinistra. C’è chi si augura che possano unirsi altre forze politiche, magari gli ex compagni di Liberi e uguali, ma per il momento è tutto in alto mare. “Nessuno ci ha invitati”, spiega Roberto Speranza. “Massimo rispetto per il Pd e per la scelta di tornare fra la gente, ma noi non siamo disponibili solo per riempire le piazze degli altri: parteciperemmo a condizione di condividere percorso e organizzazione”. Bisogna stare attenti anche a non alimentare ulteriori divisioni interne: “Va bene manifestare, ma solo se si pongono temi precisi, propositivi e rivolti alla società civile: un’opposizione a prescindere contro il governo non ha molto senso”, precisa Francesco Boccia, di Fronte Democratico. Del resto chi si aspetta che la manifestazione sia un punto di ripartenza, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’era renziana, potrebbe rimanere deluso già dal nome: si chiamerà “L’Italia che non ha paura”, sembra quasi uno degli slogan dell’ex premier.
Dopo i difficili mesi post voto del 4 marzo (“la sconfitta più dura dal 1948”, secondo l’ex ministro Minniti), il Pd ha disperato bisogno di riaffermare la sua presenza. La piazza romana è l’ultima spiaggia, il rischio dell’effetto boomerang resta dietro l’angolo. Dal M5s sono già partiti i primi attacchi: “Sarà un appuntamento fra pochi intimi, come alle urne”, ha ironizzato il sottosegretario Manlio Di Stefano. L’ultima volta, il 1° giugno a difesa della Costituzione e del presidente Mattarella, non andò troppo bene. Il 29 settembre non si può fallire.

Repubblica 3.9.18
Il personaggio
A Rocca di Papa
Storia di Ivano che ha detto " una cosa di sinistra"
Il suo intervento in tv contro ‘i fascisti’ in difesa dei migranti è diventato popolare
di Federica Angeli


ROMA «Da una settimana sono più gettonato di Obama, per una emerita sciocchezza che ho buttato lì. Sa cosa significa questo? Che c’è davvero bisogno di qualcuno che dica qualcosa di sinistra».
Ivano Ciccarelli, 58 anni, l’uomo dei Castelli romani diventato celebre per la sua frase fuori dal centro "il Mondo Migliore" di Rocca di Papa all’arrivo dei migranti della Diciotti ospitati lì dalla Chiesa – «oltre ad aver passato quello che hanno passato, arrivano qui e devono subirsi anche questa rottura di coglioni dei fascisti» – da una settimana è diventato la star di tv e web. Suo malgrado, e solo per aver detto qualcosa contro i militanti di Casa Pound che davanti alla struttura di via dei Laghi manifestavano contro l’arrivo dei 100 eritrei.
«C’è un problema a sinistra, mi sembra evidente», sorride Ivano che, durante l’intervista con Repubblica risponde di continuo a messaggi e a telefonate di cronisti che lo invitano nelle loro trasmissioni, «e per fortuna che non sono sui social, ho sempre rifiutato l’idea di entrare in quel mondo. Sono antico e ne resterò fuori». Nel 1999, vittima di un licenziamento ex articolo 18, la sua storia finì sulla prima pagina del quotidiano giapponese più noto, «mi mandarono l’articolo ma, per fortuna, non mi cercò l’intera popolazione del Giappone», ironizza.
Su Facebook e Twitter lo osannano: icona di un vuoto comunicativo e sostanziale, dal Pd a Leu, molte donne, tra il serio e il faceto, lo invitano a nozze; gli uomini a diventare leader di un "vero" movimento di sinistra. «Se basta così poco – ragiona Ivano, figlio di genitori braccianti e attualmente disoccupato – per avere notorietà e consenso, allora bisogna capire. Io ci rido, mi diverte questa situazione. Ma siccome sono un uomo che non si accontenta della superficie, ma che ama capire il senso profondo delle cose, dico come la penso. Se quella notte, ad accogliere i migranti, fosse venuto anche il segretario Martina, lì, zitto, con un cartello con scritto "welcome", senza fare il comizio, non è che lo cacciavamo. Invece non solo lui, nessun leader s’è visto. Queste sono le occasioni perse della sinistra. C’erano tante persone, eravamo più noi che quei venti fascisti. Eppure, quando a un certo punto cercavamo un leader dietro cui andare, non c’era. Così sono diventato io».
Un passato in Lotta Continua e poi in Autonomia Operaia, con una formazione ai microfoni di radio Onda Rossa, Ivano ha cominciato a partecipare ad assemblee con i compagni, «quelli veri» da quando, a 14 anni, si è seduto sui banchi del primo anno di istituto (d’arte) finendo anni dopo su quelli del consiglio comunale di Marino come consigliere per Rifondazione Comunista. «Mi hanno messo in mano una canna e Lotta continua e da lì non ho più smesso di credere in quegli ideali». Ideali che rincorre di cui oggi non sente neanche il più vago odore.
«La cosa straordinaria di quegli anni era che discutevamo ore nelle assemblee e quando si usciva da lì si faceva esattamente quello che era stato deciso. Si rispettavano le idee votate a maggioranza e basta. Eravamo incazzati e ogni giorno, davvero ogni santo giorno, facevamo una manifestazione: o contro i fasci, o per le autogestioni, o contro il nucleare. Riempivano le piazze e sapevamo chi era il nostro leader di riferimento. Lo trovavamo accanto a noi». Le persone comuni di sinistra ci sono, spiega, è che non sanno a chi affidarsi.
«Basterebbe così poco...».

Il Fatto 3.9.18
Ai clericali non resta che lo scisma (e giovedì 6 si ritrovano al Senato)
Francesco resisterà alla spallata del dossier Viganò, costruito dalla destra farisea di cardinali e vaticanisti
di Fabrizio d’Esposito


Sembra quasi la trama dell’ultimo, recentissimo teo-thriller di Glenn Cooper, I figli di Dio: un petroliere texano, amico del presidente americano, che promuove e finanzia uno scisma tradizionalista della Chiesa, nel segno dell’arida Dottrina.
La suggestione del complotto anti-Bergoglio è stata esplicitata dall’arcivescovo di Pescara, Tommaso Valentinetti, che ha evocato “forze oscure” contro Francesco, tra cui “petrolieri o grossi gestori della finanza”. Ovviamente al centro di tutto ci sono i veleni, i sospetti, le polemiche scatenate dal dossier a scoppio ritardato dell’ambiguo monsignor Carlo Maria Viganò (nella foto) sulle presunte coperture di Bergoglio alla lobby gay del Vaticano. Ciò che colpisce in questa vicenda sono il metodo e i protagonisti. Come se l’opposizione antifrancescana fosse venuta allo scoperto una volta per tutte per tentare “la spallata” finale al papa.
È una traiettoria iniziata tre anni fa, con l’obiettivo di costringere Francesco alle dimissioni oppure, in caso di fallimento, di causare uno scisma, come documentato da Millennium nel luglio di un anno fa. Nell’ampia zona grigia che detesta Bergoglio, le fazioni sono varie e hanno usato ogni mezzo: la bufala del tumore al cervello; manifesti anonimi di protesta; la faida interna dei Cavalieri di Malta; i nuovi Vatileaks sulle riforme bloccate; le scelte sbagliate del corso “rivoluzionario” (tipo il cardinale Pell); i Dubia all’Amoris Laetitia sulle aperture ai divorziati.
E se dall’altra parte dell’oceano ormai è chiaro che gli americani non vogliono più Francesco, in Italia la cassa di risonanza di questa lunga campagna mette in campo sempre le stesse firme: dai blog della destra farisea al clan di autorevoli vaticanisti come Magister, Tosatti e Valli.
L’atteggiamento di Francesco dà però la certezza che resisterà anche questa volta. Così si profila sul serio l’ipotesi dello scisma. Altrimenti il potente neocardinale Angelo Becciu avrebbe fatto a meno di rivolgere un sibillino appello all’unità della Chiesa. Vedremo. A partire da giovedì prossimo, quando la figura del cardinale Caffarra verrà ricordata al Senato dal suo “collega” americano Burke, l’antipapa per antonomasia che ritiene Bergoglio un “traditore”.

Repubblica 3.9.18
Il dossier
Viganò lancia nuove accuse "Dal Papa menzogne su di me"
di P.R.


Un secondo attacco, ancora una volta diffuso attraverso un sito conservatore americano. Dopo le accuse lanciate contro Francesco — e la richiesta di dimissioni — per aver ignorato la doppia vita del cardinale Theodore McCarrick che ebbe rapporti omosessuali con seminaristi, l’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò torna di nuovo sul piede di guerra. Sul sito Lifesitenews, infatti, rivela i dettagli relativi all’incontro avvenuto nel 2015 negli Stati Uniti tra Bergoglio e Kim Davis, l’impiegata pubblica del Kentucky che divenne un’icona di ambienti conservatori per essersi rifiutata di rilasciare licenze matrimoniali a coppie dello stesso sesso. Davis trascorse cinque giorni in carcere per non avere obbedito a un ordine del tribunale che le intimava di rilasciare le licenze, sostenendo che ciò andava contro le sue convinzioni religiose. L’ex nunzio, dopo aver letto un articolo del New York Times nel quale Juan Carlos Cruz, vittima cilena di abusi sessuali, afferma che il Papa «gli raccontò che Viganò quasi sabotò la visita negli Usa, facendogli incontrare forzatamente la Davis » , ha voluto dire la sua. Cruz lo accusa esplicitamente e cita il Papa: « Non sapevo chi fosse quella donna e (l’arcivescovo Viganò) la fece intrufolare per salutarmi e ne nacque un polverone » , scrive. E ancora: «Ne fui inorridito e licenziai quel nunzio » . Ribatte, invece, Viganò su Lifesitenews: «Di fronte a tale affermazione del Papa mi vedo obbligato a raccontare come i fatti si sono realmente svolti. Uno dei due mente: Cruz o il Papa? Quello che è certo è che il Papa sapeva benissimo chi fosse la Davis, e lui e i suoi stretti collaboratori avevano approvato l’udienza privata. Si può verificare chiedendo ai prelati Becciu, Gallagher e Parolin, nonché al Papa stesso. È comunque evidente che Francesco ha voluto nascondere l’udienza privata con la prima cittadina americana condannata e imprigionata per obiezione di coscienza » , dice Viganò.
L’ex diplomatico vaticano risponde anche a un video del Catholic News Service che mostra Mc-Carrick durante una visita a Roma, nel 2012, mentre incontra Benedetto XVI. Nelle immagini l’ex cardinale appare a suo agio, per nulla intimorito dalle sanzioni dategli dall’allora Papa. Ma, si rivolge Viganò a chi ha pubblicato il video, « riesce a immaginare Benedetto così mite che chiede al cardinale: "Cosa stai facendo qui?"». In sostanza, per Viganò, Ratzinger non voleva umiliare pubblicamente il cardinale. E a un altro video che mostra Viganò insieme a Mc-Carrick, dopo aver spiegato che non aveva potuto rinunciare all’evento, dice: « Non potevo certo dire: "Cosa stai facendo qui?"».
Intanto Francesco mantiene il silenzio. La linea è la stessa abbracciata dalla curia romana. Bergoglio, del resto, anche a Buenos Aires subì accuse da ambienti conservatori legati a Roma, ma non rispose. Fonti consultate da Repubblica spiegano in ogni caso che dalla Santa Sede nei prossimi giorni potrebbe arrivare una prima replica.

Repubblica 3.9.18
Israele dichiara guerra alla lap dance
Giro di vite del governo conservatore
di Francesca Caferri


Israele dichiara guerra alla lap dance. L’ultima offensiva lanciata dal governo di Benjamin Netanyahu, in cui i partiti ultrareligiosi hanno un ruolo chiave, mette nel mirino i club di striptease e i luoghi dove si pratica la famosa "danza intorno al palo".
L’agenzia France Presse ha diffuso il contenuto di una circolare con cui il ministero della Giustizia esorta la polizia a considerare come luoghi di prostituzione quelli in cui si pratica la lapdance.
«Il fenomeno conosciuto come lap dance costituisce in determinate circostanze un atto di prostituzione. La prosecuzione di questa attività deve essere considerata come un crimine e provocherà la messa in atto di tutte le misure previste dalla legge», recita il comunicato.
«Stiamo aspettando di capire come mettere in pratica la nota», ha confermato il portavoce della polizia Micky Rosenfeld all’agenzia francese.
La nota fa parte di una strategia più ampia, che mira a ridurre le attività che il governo reputa oltraggiose: in questi giorni infatti un gruppo di parlamentari della maggioranza e dell’opposizione sta mettendo a punto un disegno di legge che punta a far inserire ufficialmente i locali dove si pratica lo striptease nel «ciclo della prostituzione».
«Questa legge è pensata per riflettere nella legislazione israeliana la connessione diretta fra lo spogliarello e la prostituzione, due attività che portano con sè un’attitudine dannosa e umiliante verso le donne e i loro corpi», si legge nel disegno di legge.
«L’industria dello striptease è legata da vicino a quella della prostituzione e la maggioranza dei locali di spogliarello sono in realtà luoghi di prostituzione».
Non esiste ancora una data certa per la discussione del progetto, ma la stretta contro la prostituzione - che non è illegale in Israele - è già iniziata: un disegno di legge che stabilisce di multare i clienti delle prostitute sarà discusso in parlamento al rientro dalla pausa estiva.

Il Fatto 3.9.18
Corbyn, l’antisemitismo e il “suggeritore”
Gran Bretagna - Field, storico deputato, lascia il Labour e attacca il leader. Il ruolo dello spin doctor
di Andrea Valdambrini


Se Theresa May di problemi ne ha in abbondanza, a cominciare dalla Brexit, anche sul fronte dell’opposizione del Regno le acque sembrano tutt’altro che tranquille.
Frank Field, deputato laburista di lungo corso, ha lasciato il Partito – ma non il seggio parlamentare – lanciando un pesante atto d’accusa: il Labour di Corbyn è diventato. “una forza favorevole all’antisemitismo nella cultura politica britannica”, ha scritto nella sua lettera d’addio.
Eletto in un collegio di Liverpool, Field è a Westminster da 40 anni: tra i più anziani in servizio. Qualcuno nel suo partito ha provato a depotenziare le dimissioni parlando di problemi con gli elettori del suo collegio, che non hanno gradito il fatto che il loro deputato su Brexit ha votato con il governo conservatore. “Una scusa per andarsene”, dicono i corbyniani. Eppure, il problema rimane. Che Jeremy Corbyn avesse una posizione filo-palestinese e critica verso Israele, è noto. Da settimane però il leader laburista è al centro di pesanti accuse, riferite ad episodi disseminati lungo il suo percorso politico, riportati ora alla luce dai media.
La settimana scorsa il Daily Mail ha ripescato un video del 2013 in cui Jeremy il Rosso accusava il gruppo dei Sionisti britannici di “mancare del senso dell’ironia inglese”, provocando la reazione indignata dell’ex rabbino capo Lord Sachs.
Se in questo caso più recente Corbyn se l’è cavata precisando che antisionismo e antisemitismo non sono equivalenti, più complicato giustificare la sua presenza a Tunisi nel 2014, alla cerimonia in onore degli assassini della strage di Monaco ’72, quando furono rapiti e uccisi undici atleti israeliani da parte di un commando palestinese.
Grande imbarazzo anche per l’articolo apparso ad inizio agosto sul quotidiano The Times, in cui si ricorda un evento da lui stesso organizzato nel 2010 nel corso del quale un sopravvissuto alla Shoah paragonò Israele al nazismo. In questo contesto, in cui sono maturate le dimissioni di Field, qualcuno punta il dito contro Seumas Milne, spin doctor del leader laburista. È il quotidiano Times of Israel ad affrontare la questione, descrivendo Milne come un motore (neanche troppo) occulto di pulsioni antisemite.
Contro di lui, ex editorialista del Guardian, vengono messe in fila numerose circostanze, ricostruite attraverso le testimonianze di chi negli anni lo ha conosciuto. Studente a Oxford con simpatie maoiste, da giovane trascorre un anno sabbatico in Libano, dove si avvicina alla causa palestinese. Che non abbandonerà mai, fondendola presto con una netta avversione nei confronti della politica Usa in Medio Oriente. Per lui, ricostruisce il quotidiano di Gerusalemme, la Russia di Putin ha diritto di aggredire la Crimea, mentre a Tel Aviv è vietato difendersi dalle aggressioni dei palestinesi nei Territori occupati.
“L’ho sempre considerato più un propagandista che un giornalista”, sussurra un ex collega del Guardian. “È un radical-chic per cui tutti coloro che si oppongono alla potenza Usa meritano di essere sostenuti”, chiosa Dave Rich, autore della monografia La questione ebraica della sinistra: Corbyn e l’antisemitismo.
A Westminster, però, c’è più prosa che ideologia. In molti si chiedono se l’uscita di Field e le difficoltà di Corbyn non preludano al ritorno in grande stile nel Labour dei fedeli di Tony Blair nella campagna d’autunno
di Andrea Valdambrini | 2 settembre 2018

Corriere 3.9.18
La rivista newyorchese
Chiude (anche online) la voce del «Village» fondata da Norman Mailer


Addio a «The Village Voice»: lo storico settimanale, voce «alternativa» della cultura newyorkese e americana, chiude definitivamente. Peter D. Barbey, il proprietario, ha annunciato che non pubblicherà più «nessun articolo» neppure online, dopo che erano già cessate le pubblicazioni cartacee nel 2017, e che la testata era senza direttore da maggio. La rivista — fondata nel 1955 da Dan Wolf, Edwin Fancher e Norman Mailer — era un’icona della città: riferimento culturale e voce critica «impegnata», aveva sostenuto battaglie civili e lanciato firme come Lester Bangs e Colson Whitehead, poi vincitore del premio Pulitzer. A proposito di Pulitzer, la rivista ne aveva vinti tre, tra cui quello del 1986 per i fumetti politici di Jules Feiffer. Centinaia i post sui social, sia di lettori che di scrittori. «Difficile immaginare un mondo che non vuole ciò che “The Village Voice” possedeva», scrive il romanziere Rick Moody su Facebook. E il sindaco di New York Bill de Blasio twitta: «Un giorno triste per il giornalismo e un’enorme perdita per la città». La proprietà ha affermato che renderà disponibile online l’archivio della rivista. (ida bozzi)

Corriere 3.9.18
Due film dedicati all’ex presidente dell’Uruguay
Pepe Mujica star al Lido: sono qui per Kusturica
di Stefania Ulivi


Venezia Non se l’aspettava neanche lui di trovarsi a 83 anni al Lido protagonista di due film, uno di finzione, La noche de 12 años, di Álvaro Brechner in Orizzonti e un documentario, El Pepe, una vida suprema, dell’amico Emir Kusturica, fuori concorso. Ma nulla nella vita di José Alberto Mujica Cordano, El Pepe, ha seguito percorsi ordinari. Infanzia povera dopo la morte del padre, il ciclismo, quindi la politica, sulle orme della madre, di origini liguri. Prima con i nazionalisti, poi sempre più a sinistra, fino a diventare uno dei leader del Movimiento de Libéracion Nacional, i Tupamaros. E, dopo il colpo di Stato del 1973, dodici anni di carcere duro, in isolamento. Quindi senatore, nel 1999, e infine presidente del suo Uruguay, dal 2010 al 2015. È arrivato a Venezia dopo un tour per l’Italia — Ravenna, Mantova, Milano — per presentare il suo libro Una pecora nera al potere, ha incontrato quasi tutti, da Grillo a Martina, ognuno ha cercato di affiliarselo anche se ormai con la politica praticata ha chiuso.
La proiezione di La noche de 12 años (uscirà da noi con Movies Inspired) che racconta gli anni della sua prigionia e di due suoi compagni, è stata accolta da 25 minuti di applausi, cori di «El pueblo unido».
Che effetto le fa?
«Me l’hanno detto. Il film racconta cose che mi risvegliano emozioni contraddittorie legate a mia madre, i miei compagni, quelli che non ci sono più. All’inizio avevo detto di no al regista, come una corazza che ci si mette per difendersi».
L’ordine dei vostri carcerieri fu «visto che non possiamo ucciderli facciamoli diventare pazzi». Come siete sopravvissuti?
«L’isolamento è il castigo peggiore dopo la pena di morte. Quando siamo usciti ci hanno visitato psicologi, forse un po’ pazzi lo siamo diventati. Non so come abbiamo fatto... Mi distraevo anche con i topi che arrivavano sempre alla stessa ora, di notte».
Nessun sentimento di vendetta?
«Ho cercato di non diventare prigioniero dell’odio».
Qui c’è anche il documentario di Kusturica, lo presentate insieme.
«È un mio amico. Mi ha detto: se non vieni anche tu alla conferenza stampa a Venezia non vado. Eccomi qui».
Il cinema insegna?
«Si impara più da ciò che si vive che non da ciò che ci raccontano».
In questi giorni ha consigliato a noi europei di non distruggere l’Unione.
«Vorrei un organismo simile per l’America Latina. Per quanti limiti possa avere, vi ha assicurato il più lungo periodo di pace della storia. Tenetevela stretta. Oggi in tanti si dicono populisti. È un termine che non amo, non vuole dire nulla. E mi spaventano i nazionalismi. L’Italia che ha seminato emigranti nel mondo, ora ha paura degli immigrati. Per fortuna i governi passano, restano i popoli».
Si è dimesso dal Parlamento. Qual è la sua eredità politica?
«Quando ero giovane pensavo che la lotta fosse per il potere. Ora vedo che la storia delle lotte sociali e politiche è un mucchio di vetri rotti, di cui restano cose fondamentali: i diritti del lavoro e quelli sociali. Mi sento fratelli quelli che hanno contribuito a costruire anche un solo scalino della grande scala verso la civiltà».