giovedì 30 agosto 2018

il manifesto 30.8.18
Pedofilia, il papa: la Chiesa è colpevole
Vaticano. Monsignor Viaganò, in un'intervista, conferma le accuse: «Non ho agito per rivalsa». Svelato come il dossier sugli abusi di McCarrik, scritto a quattro mani, è arrivato a «La Verità»
di Luca Kocci


«Le autorità ecclesiastiche non sempre hanno saputo affrontare in maniera adeguata i crimini e gli abusi commessi da membri della Chiesa».
Papa Francesco, nell’udienza del mercoledì in piazza San Pietro, parla del suo viaggio a Dublino per l’Incontro mondiale delle famiglie appena concluso, ma torna anche sulla pedofilia, la questione che in questi giorni, con le rivelazioni di mons. Viganò, è sotto i riflettori.
«La mia visita in Irlanda, oltre alla grande gioia, doveva anche farsi carico del dolore e dell’amarezza per le sofferenze causate in quel Paese da membri della Chiesa», ha detto il papa. «Un segno profondo ha lasciato l’incontro con otto sopravvissuti, ho chiesto perdono al Signore per questi peccati», incoraggiando i vescovi a «rimediare ai fallimenti del passato con onestà e coraggio».
Non una parola, da parte del papa, sul dossier Viganò, che lo accusa di aver ignorato le informazioni sugli abusi sessuali su minori e seminaristi compiuti dall’ex arcivescovo di Washington, McCarrick, a cui lo scorso 27 luglio Francesco ha tolto la berretta cardinalizia. Rispondere nel merito significherebbe riconoscere un qualche coinvolgimento nella vicenda, che Bergoglio vuole evitare. Ma non è detto che questa sia la condotta più efficace per allontanare le ombre. Dal Vaticano trapela solo che il papa non pensa affatto alle dimissioni, come gli chiede Viganò.
 Da parte sua Viganò, in un’intervista ad Aldo Maria Valli (istituzionale vaticanista del Tg1, che però nel suo blog non nasconde critiche alla linea riformista di Francesco), conferma il proprio racconto, spiega di aver parlato «perché ormai la corruzione è arrivata ai vertici della Chiesa», respinge le accuse di chi insinua che abbia parlato per rivalsa, dopo che la sua carriera in Vaticano – su cui indubbiamente puntava – è stata stroncata, soprattutto dal card. Bertone, in parte da Francesco («rancore e vendetta sono sentimenti che non mi appartengono»).
Frattanto la genesi, l’elaborazione e il lancio del dossier di Viganò assumono contorni più definiti. A cominciare dal fatto che si tratta di un documento redatto a quattro mani: i contenuti li ha forniti il prelato, la forma l’ha confezionata Marco Tosatti, vaticanista della Stampa in pensione e ora una delle punte dell’opposizione conservatrice a Francesco dal suo blog Stilum Curiae. «Abbiamo scritto l’articolo insieme», ha spiegato Tosatti al Corriere, e all’Associated Press ha detto di aver lavorato sul materiale di Viganò per renderlo «giornalisticamente utilizzabile».
Che sia stata un’operazione studiata a tavolino emerge dal racconto di Valli, il quale ha ricevuto il dossier direttamente da Viganò perché lo pubblicasse, insieme ad altri media conservatori statunitensi e spagnoli e al quotidiano di Maurizio Belpietro La Verità: «Concordiamo il giorno e l’ora della pubblicazione – racconta Valli -. Nello stesso giorno e alla stessa ora pubblicheranno anche gli altri. Domenica 26 agosto perché il papa, di ritorno da Dublino, avrà modo di replicare rispondendo alle domande dei giornalisti in aereo».
L’esistenza di una regia ovviamente non toglie valore alle affermazioni di Viganò, che tuttavia presentano qualche falla. Per esempio quando racconta che nel 2010 papa Ratzinger avrebbe disposto delle misure restrittive nei confronti di McCarrick (non risiedere più in seminario, divieto di celebrare e apparire in pubblico) che però rimasero riservate e inapplicate. E resta l’enorme ritardo con cui lo stesso Viganò – a conoscenza delle malefatte di McCarrick dal 2000 – ha denunciato il caso.
Al di là dei dettagli, due nodi evidenzia il rapporto Viganò, prendendo per autentiche le sue parole. Che la pedofilia è un macigno nella vita della Chiesa cattolica – sono coinvolti gli ultimi tre pontefici (Wojtyla, Ratzinger, Bergoglio) e i rispettivi segretari di Stato (Sodano, Bertone, Parolin) – evidentemente figlio di un sistema malato, che riguarda seminari, formazione del clero, ruolo del prete. E che la Curia romana costituisce un centro di potere dove è in corso una perenne guerra per bande, a colpi di dossier, spesso tirando in ballo pedofilia ed inclinazioni sessuali, che sono chiaramente nervi scoperti. Insomma non problemi contingenti, ma di sistema.

il manifesto 30.8.18
Il procuratore della Pennsylvania: «Il Vaticano sapeva e ha coperto gli abusi»
Stati Uniti. «C’era una sistematica copertura che arrivava fino in Vaticano»
di Marina Catucci


«Non c’erano solo abusi sessuali diffusi, stupri di bambini, c’era una sistematica copertura che arrivava fino in Vaticano» così ha detto all’emittente televisiva Nbc Josh Shapiro, procuratore generale della Pennsylvania, riferendosi ai documenti riguardanti la chiesa cattolica, analizzati dal grand Jury, che si è riunito per due anni ed ha scoperto gli abusi perpetrati su oltre mille bambini per oltre 70 anni, in 6 su 8 diocesi della Pennsylvania, e che coinvolge oltre 300 sacerdoti.
Nelle due settimane successive alla pubblicazione di quel rapporto diffuso a metà agosto, ha detto Shapiro, la linea telefonica dedicata agli abusi del clero della Pennsylvania, ha ricevuto più di 730 chiamate e la divulgazione del rapporto del Gran Jury ha stimolato le indagini sul clero cattolico anche in altri Stati Usa.
«Abbiamo le prove che il Vaticano sapesse e ha coperto gli abusi» ha continuato Shapiro, e quando il giornalista della Nbc gli ha chiesto se anche papa Bergoglio sapesse, ha risposto di non potere «parlare specificatamente di Papa Francesco. Quello che abbiamo trovato davvero spaventoso, è che i leader della chiesa avrebbero mentito ai fedeli la domenica, mentito in pubblico, protetto questi predatori ma hanno poi documentato tutto e l’hanno messo negli archivi segreti, a pochi passi dai vescovi».
Shapiro non ha specificato quali siano le prove in suo possesso che suggeriscono che il Vaticano sia sempre stato a conoscenza di un insabbiamento.
«Gli unici documenti pubblici sono nella relazione stessa, inclusi i riferimenti alla conoscenza del Vaticano – ha detto il portavoce di Shapiro, Joe Grace, alla Cnn – tutto il resto rimane sigillato attraverso il processo del gran giurì».
A queste dichiarazioni il portavoce del Vaticano, Greg Burke, ha replicato dicendo che il Vaticano avrebbe bisogno di maggiori dettagli sulle prove prima di commentare.
Il procuratore generale ha reiterato le dichiarazioni rilasciate alla Nbc durante le successive interviste con l’Inquirer e il Daily News, affermando di riferirsi a porzioni del rapporto in cui funzionari diocesani hanno contattato il Vaticano riguardo sacerdoti ritenuti molesti, spesso nel tentativo di farli rimuovere dal ministero. Nella relazione del grand Jury ci sono un paio di dozzine di riferimenti al Vaticano, insieme alle risposte allegate delle persone citate nei documenti.
Più leader della chiesa cattolica hanno negato l’insabbiamento, alcuni hanno affermato che il processo di affrancamento dalla chiesa di un sacerdote è lungo, e che in alcuni casi i vescovi avevano sospeso i sacerdoti dal ministero attivo mentre le richieste erano ancora pendenti.
Tra coloro che hanno criticato l’equità del rapporto c’è il cardinale Donald Wuerl, attualmente arcivescovo di Washington e in precedenza vescovo di Pittsburgh. Shapiro ha risposto loro durante un’intervista alla Cbs: «Credo che le dichiarazioni fatte dai vescovi in Pennsylvania, dal cardinale Wuerl in particolare, stiano ulteriormente coprendo le coperture».

Repubblica 30.9.18
Il leader degli U2
Bono in concerto a Berlino sventolerà la bandiera Ue
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES Riscriviamo il nostro vocabolario, al giorno d’oggi sventolare la bandiera dell’Ue è pura trasgressione. Se a dirlo è Bono Vox c’è da crederci. Già, perché una delle più grandi rockstar viventi ha annunciato che in occasione dell’inaugurazione del nuovo tour degli U2, il concerto di domani a Berlino, porterà sul palco il vessillo a dodici stelle.
«Mi è stato insegnato — scrive su Frankfurter Allgemeine Zeitung — che una band è al massimo quando è trasgressiva, quando sorprende. Ebbene, per il nostro concerto di Berlino abbiamo avuto una tra le nostre idee più provocatorie: durante lo show esporremo una grande, luminosa bandiera blu dell’Ue». In effetti in tempi di populismi, xenofobia, semplificazioni sull’Europa ed euroscetticismo ormai al governo, come in Italia, l’idea degli U2 è in controtendenza. Se si aggiunge che l’Irlanda con la Brexit rischia di essere nuovamente tagliata in due, si capisce il titolo dell’editoriale di Bono su Faz: «Per prevalere in questi tempi tormentati l’Europa è un pensiero che ha bisogno di diventare un sentimento».
«L’Europa — scrive — è difficile da vendere di questi tempi nonostante non ci sia posto migliore dove essere nati negli ultimi 50 anni». Bono dopo avere incontrato Angela Merkel ha lodato l’impopolare decisione di accogliere i profughi siriani in Germania. Si dice fiero delle lotte europee sul clima e contro la povertà. Il rocker però lancia l’allarme: «Tutte le nostre conquiste sono a rischio perché il rispetto per il diverso viene messo in discussione», così come il pluralismo. Anche per questo «stiamo assistendo a una spettacolare perdita di fede in questa idea, i nazionalisti ritengono la diversità come un pericolo, una visione del futuro che a me sembra quella del passato». Come Macron, anche Bono parla di patriottismo europeo, e non nazionale, nel nome «dell’unità più che dell’omogeneità».
Per Bono l’Europa è scossa da «un conflitto di forze potenti il cui esito determinerà il nostro futuro». E la chiusura l’appello: «Riusciremo a mettere il cuore in questa battaglia? Può darsi che non ci sia nulla di sexy o romantico in un progetto, ma come diceva Simone Veil l’Europa è il più grande progetto del 21esimo secolo».

Repubblica 30.9.18
La verità dopo Brexit e Trump
La foresta dell’inganno
di Javier Cercas


Dalla metà del 2016, con il referendum sulla Brexit e l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, i neologismi sono aumentati: si è iniziato a parlare di post- truth (post-verità), di fake news (notizie false), di alternative facts (fatti alternativi). Da dove arrivano queste nuove locuzioni? Indicano un fenomeno nuovo? Contrariamente a quanto direbbero certi incazzosi incalliti, che diffondono con comprensibile successo la balla autocompiaciuta secondo cui la gente, prima, era sincera, buona e bella, mentre adesso siamo tutti bugiardi, malvagi e bruttoni (eccetto gli incazzosi, ovvio), la menzogna, in politica, esiste da quando esiste la politica stessa. Ma allora cosa c’è di nuovo, ammesso che ci sia del nuovo? Perché questi neologismi sono in voga? Assegnano un nome a una nuova realtà?
I politici vendifumo ci sono sempre stati, ma nessuno ha memoria, perlomeno in democrazia e in tempo di pace, di un politico vendifumo al pari di Trump. Secondo il Washington Post il presidente degli Stati Uniti, tra giugno e luglio di quest’anno, ha sfornato una media di 16 falsità al giorno, e il prestigioso blog PolitiFact, dopo aver verificato le dichiarazioni di Trump, ha assicurato che sono vere soltanto nel 20% dei casi, mentre al 69% si tratta di affermazioni false o sostanzialmente false.
Non è solo una questione di quantità, ma anche di qualità, perché molte menzogne di Trump sono sfacciate, colossali: ricordiamo tutti come, durante la campagna elettorale, abbia raccontato che Obama era nato in Kenya, o si sia inventato una conversazione telefonica con Peña Nieto, l’allora presidente del Messico; ricordiamo tutti che, dopo essere stato eletto, affermò di essersi aggiudicato «la maggior vittoria elettorale dai tempi di Ronald Reagan», quando bastava confrontare i dati per vedere che Obama e G.W. Bush avevano ottenuto più voti di lui; tutti l’abbiamo sentito parlare dei "miliardi in più" che i Paesi della Nato destineranno alle spese per la difesa, perché lui li ha incalzati; o del fatto che tutti aumenteranno del 4% la spesa in questo settore, quando in realtà nessuno si è preso l’impegno di incrementarla più del 2%. Trump, d’altra parte, ha un gran numero di seguaci, sia per quantità che per qualità di frottole sparate: durante la campagna sulla Brexit sono state raccontate menzogne su scala astronomica, così come in Catalogna lo scorso autunno, e in entrambi i casi — anzi, soprattutto nel caso di casa nostra — le bugie continuano a funzionare a pieno regime; la psicosi dell’immigrazione che si è scatenata negli ultimi mesi in Europa, grazie a personaggi come Salvini, Seehofer e compagnia bella, è fondamentalmente frutto di grandi menzogne: basti ricordare che l’arrivo di rifugiati sulle coste europee è calato in picchiata nell’ultimo anno (48 mila persone, fino a luglio, secondo l’Onu, contro il milione del 2015).
Sono molte le ragioni che spiegano il successo di queste balle stratosferiche. Una, come diceva Adolf Hitler, è che l’uomo comune si beve con più facilità le bugie grosse che quelle piccole, perché l’uomo comune racconta piccole bugie, ma non riesce nemmeno a immaginare che qualcuno abbia il coraggio di spararne di così grosse. Un’altra ragione è che a certe persone, in certe circostanze — gli elettori di Trump, i sostenitori della Brexit o di Salvini, i separatisti catalani — , non importa la menzogna, a patto che a raccontargliela sia qualcuno "dei loro", e ciò significa che per quelle persone il legame con la verità si è indebolito, è diventato quasi irrilevante.
Ma nemmeno in tutto questo c’è alcuna novità. L’unica novità mi sembra un’altra: non è il messaggio, ma il mezzo attraverso cui viene diffuso; non sono le menzogne, né la loro natura o quantità, bensì la loro portata, la massiccia influenza: nel corso della storia non sono mai esistiti mezzi di comunicazione così poderosi, perciò la menzogna non ha mai goduto di una capacità di diffusione così ampia.
È questa la novità (il buon giornalismo è più che mai necessario, purché non si accontenti di raccontare la verità, ma si impegni a smantellare le menzogne) ed è la cosa più inquietante. Lo è per un motivo talmente banale che spesso ce ne dimentichiamo, e cioè che la verità ci rende liberi, mentre della menzogna diventiamo schiavi; una società che ha perduto connessione con la verità altro non può essere se non una società di schiavi, e il trionfo della menzogna può significare solamente la sconfitta della libertà.
Javier Cercas 2018 / © Ediciones El País sl Traduzione di Monica Rita Bedana

Corriere 30.8.18
Ricomincia da Ivano
di Massimo Gramellini


L’urlo televisivo di Ciccarelli Ivano contro «sta rottura de cojoni dei fascisti» è la nuova Corazzata Potemkin, la fine del matrimonio innaturale tra la sinistra e le buone maniere. Il vocione di Ivano è risuonato su La7 da Rocca di Papa, dove davanti al centro di accoglienza che ospita i reduci della «Diciotti» si fronteggiano rossi e neri come in uno spettacolo in costume ambientato nel secolo scorso: «Sti poracci, oltre a tutta la navigata, la sosta e dieci ore de pullman, quando arrivano qua se devono pure godé sta rottura de cojoni dei fascisti». Tanto è bastato perché sul web, in poche ore, Ivano diventasse l’idolo di quella porzione d’Italia smarrita che il 4 marzo ha votato Di Maio, o nessuno, proprio per mancanza di Ivani.
Ivano incarna anche fisicamente una sinistra «vintage»: la barba da assemblea, la maglietta sformata, l’eloquio rude e il cuore tenero. È figlio di un operaio e di una contadina dei Castelli Romani che gli hanno insegnato — dice — il rispetto per i più deboli. Il contrasto con i liderini democratici di ultima generazione — camicia immacolata, cravattina scura, smania di riconoscimento sociale e linguaggio raffreddato dagli scrupoli del politicamente corretto — non potrebbe essere più schiacciante. Mentre i politici di destra parlano come i loro elettori, quelli di sinistra non parlano più come Ivano né soprattutto a Ivano. Per questo parlano invano.

Repubblica 30.8.18
Dopo la manifestazione contro Salvini e Orbán
I nuovi resistenti di Milano in piazza con le associazioni
Centri sociali e Acli, anarchici e oratori: in città una rete progressista pronta a scattare
La chiamata per San Babila su una chat. "Qui valori solidi, ecco perchè ci muoviamo"
di Brunella Giovara


Milano È partito tutto giovedì, su una chat di Whatsapp. È anche partito tutto molti anni fa, quando internet era cosa per pochi, Milano non era ancora la città dei diritti, le giunte erano di destra, « Formentini, Albertini, Moratti. Noi associazioni — tutte — non contavamo niente. Nessuno ci ascoltava, le amministrazioni erano ostili. Allora abbiamo cercato di far saltare gli schemi », dice Paolo Petracca, oggi presidente delle Acli di Milano, oltre che portavoce del Forum del terzo settore. L’altro ieri era in piazza San Babila con la sua bandiera bianca, assieme a 10mila e più persone di una Milano molto resistente, in quest’ultimo caso al vertice Salvini-Orbán che si stava tenendo in prefettura. La nuova resistenza milanese ha dato frutti evidenti, dal 1993, riuscendo a tenere insieme più o meno tutti, dai centri sociali alle parrocchie, e a improvvisare manifestazioni di peso, «cosa che succede raramente in altre città, forse solo a Napoli, altra città aperta», dice Daniela Biffi di ActionAid, una delle molte associazioni in rete e in piazza. Il sindaco di Milano non c’era, trovandosi in vacanza dall’altra parte del mondo, ma Beppe Sala ha mandato un messaggio preciso: « Milano non cambierà di un millimetro il suo modo d’essere. Diritti e doveri. Lavoro, tanto lavoro. Solidarietà. Apertura al mondo. Impegno per un’Europa unita e migliore. Un mix di valori che ha fatto, fa e farà sempre grande la nostra città » . Il punto è esattamente quest’ultimo, il mix di valori che pure altre città hanno, ma che Milano sa squadernare, quando serve. Esempi: 2001, manifestazione per la morte di Carlo Giuliani. 2003, mobilitazione contro la guerra del Golfo (100mila persone). 2010: don Ciotti che legge i nomi delle vittime di mafia — c’era un grande silenzio, quel giorno — in piazza del Duomo. Quest’anno, marcia dei 100mila organizzato da Insieme senza Muri ( tre chilometri di gente), e il 23 maggio la tavolata multietnica al Parco Sempione, 10mila per lo più seduti, gigantesco picnic per la solidarietà e l’accoglienza. La portavoce Daniela Pistillo: « C’è una base di conoscenza, e di relazioni costruite nel tempo. Questo serve a far funzionare la rete. E quando parte la chiamata, rispondono tutti. Dagli anarchici al Pd».
Centomila è più o meno la potenza di fuoco che si riesce a mettere giù con adeguato preavviso e lavoro, serve un’organizzazione veloce e flessibile, e capita che gli oratori si debbano arrampicare sul furgoncino dell’Arci Bellezza, che l’amplificazione non arrivi lontano, ma « l’importante è partecipare » , dicevano martedì quelli che non hanno sentito una parola. In piazza c’erano Pd, Cgil, Anpi, Emergency, Legambiente. Gli scout dell’Agesci, quelli laici CNGEI. I Sentinelli, capaci di portare 15mila persone in piazza durante la discussione della legge Cirinnà. C’era Pierfrancesco Majorino, più altri assessori, « perché la particolarità di Milano è che noi ci mettiamo la faccia, e stiamo tra la gente, anche nei quartieri dove ci detestano » , dice lui. Aggiunge che «qui c’è un livello di unità forte tra persone che non hanno lo stesso profilo». Detta con un’espressione consumata dal tempo, la società civile. E quindi appena saputa la notizia dell’incontro Salvini-Orbán, è partita la chat, giovedì. Lunedì, tutto pronto. « Per noi è facile, abbiamo 118mila follower, ogni post è letto da mezzo milione » , dice Luca Paladini, fondatore dei Sentinelli di Milano, nati per scherzo nel 2014, quando decise di contestare le Sentinelle in piedi con un girotondo cantato (la canzone era "Maledetta primavera", ora simbolo del Pride quest’anno, 250mila persone). « C’era un vento che stava già soffiando, qui l’abbiamo intercettato subito. I valori? Laicità, diritti. E non siamo solo un movimento di omosessuali, visto che i diritti riguardano tutti » . « Da noi c’è gente che vota M5s, sinistra, centro. Ma ci sono i principi fondanti: la lotta alla discriminazione, al razzismo, ai nazionalismi » . Perciò Dario Venegoni era in piazza con il glorioso labaro dell’Aned, l’associazione degli ex deportati: «Milano è città cosciente, con una struttura di volontariato antica e solida». Poi, «come nel resto d’Italia non c’è una forza capace di coagulare questi mondi, ma ci sono valori largamente condivisi » , quelli che ti fanno uscire di casa anche se è il 28 agosto, e fa un gran caldo milanese.

Corriere 30.8.18
I migranti e la Ue
La scossa che manca a sinistra
di Ernesto Galli della Loggia


Tra otto-nove mesi ci saranno le elezioni per il Parlamento europeo. Per il Pd, cioè per l’attuale opposizione — l’unica rimasta almeno potenzialmente in vita dal momento che Forza Italia e Fratelli d’Italia sembrano destinati ad essere prosciugati dalla Lega — sarà una prova decisiva. Se esso dovesse arretrare sia pure di uno o due punti percentuali sarebbe segnato il suo destino di forza strutturalmente secondaria della scena politica italiana: da protagonista ne diverrebbe un semplice comprimario. Dunque per il Pd un appuntamento drammatico. E infatti nelle ultime settimane specialmente negli ambienti intellettuali vicini alla Sinistra si respira una certa aria di mobilitazione, un risveglio di interesse politico per cercare di dare una scossa al partito, di fornirgli idee, temi, proposte. Soprattutto sull’argomento Europa, a proposito del quale non si può certo dire che l’attualità sia avara di spunti (vedi la vicenda della nave Diciotti).
Ma da quello che appare si direbbe che il passato non abbia insegnato molto. Che tra la cultura di sinistra e la realtà si alzi ancora oggi come tante volte in passato una barriera fatta di un rassicurante parlar d’altro (in genere della perfidia di Salvini e Di Maio) ma specialmente di mancanza di concretezza, di assenza di analisi e di proposte precise.
Il primo esempio riguarda proprio l’episodio della nave Diciotti, e cioè il problema crucialissimo dell’emigrazione.
Ebbene, si può parlare di una faccenda simile, mi chiedo, riducendo tutto a una semplice questione umanitaria con il povero naufrago da un lato e lo Stato italiano dall’altro nella parte del moloch spietato perché non si limita a salvarlo e a portarlo da noi senza sollevare problemi? Ci si può rifiutare — e proprio nella prospettiva di chi vorrebbe tornare a governare il Paese cominciando con un successo alle prossime elezioni europee — ci si può rifiutare, dicevo, di vedere la complessa e ambigua realtà intrecciata al problema dell’accoglienza? Di considerare, ad esempio, che in realtà la stragrande maggioranza di chi parte dall’Africa o dall’Asia non vuole immigrare in Italia, vuole immigrare in Europa, e che dunque l’Italia è una semplice porta di accesso, che però, non godendo di alcuna solidarietà dall’Unione Europea, si trova a doversi fare carico per intero di un problema che non è di certo solo suo? Non sarebbe stato giusto, allora, ascoltare nei giorni scorsi dall’opinione di sinistra oltre che un torrente di feroci accuse (molte meritate) al ministro Salvini almeno qualche dura critica verso chi imperterrito ci lascia da soli a cavare le castagne dal fuoco? E non sarebbe anche opportuno — continuo a chiedermi — che in generale a proposito dell’immigrazione anche altri oltre l’onorevole Minniti riflettessero a sinistra sulla trappola in cui da anni si trova presa l’Italia ad opera delle organizzazioni libiche di trafficanti di esseri umani: vale a dire la trasformazione degli immigrati in naufraghi?
Da anni, infatti, chi parte dalla Libia non parte per un viaggio pericoloso quanto si vuole. Parte in realtà per un naufragio programmato con previsione di relativo salvataggio (ahimè non sempre realizzatosi) e conseguente trasferimento nella Penisola (come se un secolo fa le navi cariche d’immigrati italiani li avessero abitualmente gettati in mare al largo di New York o di Buenos Aires: in che modo avrebbero reagito americani e argentini?). Si tratta di un meccanismo diciamo pure diabolico che però è valso a trasformare il problema economico-giuridico del diritto a emigrare nell’obbligo del salvataggio in mare, da sempre uno dei principi più sacri del diritto delle genti.
Ma se le cose stanno in questo modo (e mi sembra difficile negarlo), che senso ha mettere una questione così spinosa e così carica di ambiguità su un piano esclusivamente etico e astratto dove sembra che esista solo il lecito e l’illecito, il bianco e il nero? I naufraghi ci sono eccome e vanno di sicuro salvati: punto. Ma davvero tutto può ridursi a questo? Davvero il loro salvataggio deve equivalere automaticamente al loro ingresso in Italia? Ed è proprio sicuro che sostenendo questi principi in modo indiscriminato, senza se e senza ma, si aiuta la costruzione di una adeguata posizione italiana verso l’Europa e si dà una mano al Pd a ribaltare il risultato del 4 marzo?
Tanto più che anche sulla questione della ricollocazione degli immigrati tra i vari Paesi dell’Unione — una questione cruciale ed «europea» come poche altre — la sinistra intellettuale oltre a una blanda petizione di principio che naturalmente lascia il tempo che trova, e oltre ad auspicare la trattativa diplomatica (anch’essa fin qui senza risultati), non mi pare che si sia mai spinta. Non si è mai spesa a indicare quali altri strumenti l’Italia a suo giudizio potrebbe/dovrebbe adoperare, quale altra strada dovrebbe percorrere. Le minacce tonanti del governo giallo-verde sono sgradevoli e probabilmente controproducenti, d’accordo, ma in alternativa che cos’altro fare allora? Perché non si è sentita finora alcuna proposta concreta? Ripeto: concreta, per piacere.
Per quanto riguarda il nostro rapporto con l’Europa e il suo modo di funzionare — di cos’altro parlare se non di questo in vista delle prossime elezioni? — c’è in genere da parte dell’opinione intellettuale e politica di sinistra la tendenza a considerare quel rapporto principalmente sul piano dei nostri obblighi giuridici sottolineando puntigliosamente le inadempienze dell’Italia. Anche in ciò, mi sembra, si manifesta non solo un’assoluta mancanza di concretezza ma anche un atteggiamento di autoflagellazione che sul piano elettorale temo non produca nulla di buono.
Com’è possibile infatti non rendersi conto che la violazione dei Trattati europei e di un certo numero di convenzioni internazionali è ormai una pratica corrente da parte di quasi tutti i nostri partner del Continente? Ad esempio in barba agli accordi sottoscritti ormai nessuno accetta più gli immigrati da qualcun altro se non nell’ordine di appena qualche decina; la Germania dal canto suo se ne ride da anni dei richiami di Bruxelles per la violazione del limite del suo attivo commerciale e occulta spudoratamente la situazione fallimentare di un pezzo del suo sistema creditizio (non mi paiono cose da poco); la Spagna chiude i suoi porti all’immigrazione e a Ceuta e Melilla spara proiettili di gomma contro gli africani che vogliono entrare nel suo territorio, rastrellandoli brutalmente e risbattendoli in Marocco naturalmente guardandosi bene dall’accertare se hanno diritto o no allo status di rifugiato; in Danimarca è stata addirittura approvata (con l’appoggio dei socialdemocratici) una misura in base alla quale a partire da un anno di età (un anno!) i bambini di origine non danese verranno separati dalle rispettive famiglie per almeno (almeno!) 25 ore settimanali per essere istruiti ai «valori danesi», comprese le tradizioni del Natale e della Pasqua.
Questa è la realtà. Con questa Europa la cultura e l’opinione di sinistra devono misurarsi davvero con se esse vogliono contribuire concretamente alla costruzione di un programma italiano per le elezioni del prossimo anno. Magari decidendo di occuparsi della questione cruciale sulla quale invece tutti chiudono gli occhi: come cambiare il sistema di governo dell’Unione introducendovi maggiore rappresentatività e accrescendone al tempo stesso la coesione, le competenze e l’efficacia del comando. Senza di che qualsiasi altro discorso è destinato a fare la fine delle bolle di sapone.

Repubblca 30.8.18
Il futuro della sinistra
La mia risposta a Veltroni
di Eugenio Scalfari


Walter Veltroni ha scritto ieri su questo giornale uno splendido articolo fondato su tre punti capitali: la democrazia, la sinistra italiana, l’Europa. Non è un’intervista quella di Veltroni: è il suo pensiero, gli ostacoli che ha incontrato e di nuovo sta incontrando, il modo per superarli con la memoria di quanto è accaduto e con la volontà di creare un mondo nuovo tenendo presenti i pregi e i difetti di quello antico. Mi auguro che i nostri lettori ricordino quante volte ho sperato che persone sensibilmente e culturalmente preparate a un così difficile compito tornassero in battaglia. Pensavo soprattutto a personalità come Veltroni, Prodi, Gentiloni, Minniti, Zanda e molti altri, con il conforto del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
L’articolo di Veltroni ha riaperto ieri una strada da percorrere. Scusate la fantasia, che alla mia età diventa spesso dominante, ma mi sono venuti in mente I tre moschettieri guidati da D’Artagnan sulla strada dell’onore, della difesa dei deboli e dell’attacco ai superbi e agli usurpatori del potere. I Moschettieri, senza macchia e senza paura? Non è un gioco, è una storia fondata su principi: nomi diversi, ma unificati non da interessi bensì da valori.
Queste sono le personalità che possono e debbono ricostruire l’Italia democratica e inserirla in un’Europa anch’essa democratica e probabilmente unita, così come la sognarono col Manifesto di Ventotene Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e come ne avevano allargato l’anima i fratelli Rosselli (uccisi dai fascisti dell’epoca) secondo i principi di libertà, eguaglianza e fraternità.
Veltroni ha rotto il silenzio su questi valori, antichi e modernissimi. Ora è il momento di ricominciare. Non sarà una passeggiata: i nemici sono molti e detengono in questo momento il potere. In Italia sono al governo con ampio consenso degli elettori; in Europa cercano di imporsi alleandosi con il peggio del peggio. Questa alleanza ha toccato il culmine due giorni fa con un patto tra Salvini e Orbán, capo del governo ungherese e dei vari leader che aderiscono alla stessa politica, a cominciare da quelli della Polonia e di tutto il gruppo di Visegrád. Su questa intesa veglia dall’alto anche Putin: i cui interessi e la cui presenza militare sono arrivati addirittura nel Mediterraneo, il mare d’Europa, il mare delle coste magrebine, il mare di Roma.
Questa è la situazione ed è con essa che la democrazia deve fare i conti in Italia e in Europa. Ma vorrei dire di più: nel mondo intero, che ormai vive in una società globale, dominata da continenti, quelli che un tempo si chiamavano imperi. L’Europa è geograficamente un continente, ma non lo è affatto politicamente, anche se una minaccia incombe: se l’alleanza Salvini-Orbán-Visegrád- Putin diventasse una realtà pienamente operante, che s’imponesse col suo razzismo e il suo populismo anche sulla Germania della destra e sulla Francia populista (e non parliamo dell’Italia governata dai gialloverdi), la situazione diventerebbe non solo difficilissima, ma addirittura tremenda.
E dunque, forza Veltroni, forza Gentiloni, forza Minniti, forza Zanda, e soprattutto Mattarella. Il Quirinale è il simbolo della democrazia, ma il Viminale deve tornare a essere la centrale operativa dove libertà ed eguaglianza siano le parole d’ordine.
La lotta è cominciata o ricominciata. Non si pensi a sé stessi, si combattano razzismo e populismo in nome del popolo sovrano. Ricordiamo il motto che definiva Roma, concedendo a tutti gli abitanti gli stessi diritti civili, fossero nella città o in Grecia o in Turchia o in Egitto o dovunque: «Senatus Populusque Romanus». Questa deve essere l’Italia e questa deve essere l’Europa: libertà, eguaglianza fraternità. Veltroni ha cominciato, anzi ha ricominciato. Per il poco che vale, io sono con lui.

Repubblica 30.8.18
Massimo Cacciari
"Serve un partito federale e transnazionale Con leader dal basso"
intervista di Claudia Morgoglione


ROMA Rifondare un partito non liquido ma di massa, non centralista ma radicato nei territori, non affascinato dai capitani d’industria ma attento ai bisogni dei nuovi lavoratori, sempre più precari e proletarizzati. E poi, ragiona Massimo Cacciari, prepararsi a una battaglia non solo italiana: «Alle prossime elezioni europee le forze progressiste, dal Pd a Macron, devono presentarsi unite, con nome e simboli comuni. È l’ultima occasione per opporsi a Salvini e ai suoi amici».
Il filosofo risponde così all’intervento di Walter Veltroni, apparso ieri su Repubblica, al suo appello a ripartire da una nuova sinistra centrata su due pilastri, popolo e sogno: «Ma io di sogni davvero non ne posso più - attacca - ciò che conta è non ripetere gli errori della classe dirigente di cui Veltroni organicamente ha fatto parte».
Quali errori, professor Cacciari?
«La sinistra italiana ed europea li ha compiuti già dagli anni Settanta e Ottanta. Da un lato, ci furono grandi trasformazioni sociali, cambiamenti nel lavoro che fecero smottare la base della sinistra, senza che i suoi leader ne prevedessero le conseguenze.
Dall’altro, la questione istituzionale: in quegli anni la sinistra non affrontò le riforme, chiudendosi nel conservatorismo e rifiutando chi, come i sindaci del Nord, chiedeva una svolta in senso federale. Un atteggiamento che accomuna Veltroni a D’Alema e Prodi».
Risultato?
«Il non comprendere né le trasformazioni sociali né la necessità di aprire una fase costituente dopo la caduta del Muro di Berlino portò a un terzo errore: la subalternità culturale ai modelli globalistici, l’esaltazione di Tony Blair, l’Unione europea come unione monetaria. Ora tutti parlano di disuguaglianze: che però non derivano dallo Spirito Santo, ma dalla logica finanziaria della globalizzazione. Che va accettata, ma anche analizzata nelle sue contraddizioni. E poi il quarto errore, sull’organizzazione del partito: compagno Veltroni, non ricordi che già agli inizi del Pd ci fu chi disse che il modello doveva essere federalista? Invece si scelse di continuare col centralismo».
Come rimediare adesso?
«Ricostruendo dalle fondamenta un partito con un radicamento territoriale, con gruppi dirigenti che emergano dal basso, dalle località. Che valorizzi chi nel suo ufficio, ospedale, giornale, scuola, sindacato rappresenta quel luogo. Il contrario di quanto ha fatto il Pd, che scelse le cooptazioni. Ci vuole discontinuità netta: un partito non liquido ma di massa».
Crede che una sinistra rifondata possa riallacciarsi alla sua base storica, al mondo del lavoro? Parlare al dipendente Amazon o ai rider del cibo?
«Certo. Anche se è stato ridotto sul piano quantitativo e qualitativo, il lavoro dipendente oggi si è massificato, perché anche tanti autonomi in realtà sono lavoratori dipendenti. È da qui che dobbiamo ripartire, dal lavoro dipendente che si sta proletarizzando. Non dal partito di Marchionne».
Ma almeno è d’accordo con Veltroni sulla Lega e i suoi amici europei come destra estrema?
«Sì. Salvini è un politico di razza. Sa benissimo che l’Europa è un punto di non ritorno: lui vuole svuotarla.
Cerca ungheresi e polacchi non per fare l’internazionale sovranista, che è una contraddizione in termini. Il suo disegno è lo stesso che ha qui con Forza Italia: divorare i moderati europei, il partito popolare».
Cosa fare per contrastarlo?
«La vera sfida saranno le prossime elezioni europee: occorre uno sforzo dei progressisti per presentarsi alle urne come forza europeista transnazionale, con la sinistra italiana che si allea a leader come Macron e Tsipras, andando insieme alle urne con una sigla tipo "Giovane Europa". Ammettendo che quella attuale non è l’Europa dei popoli, ma che l’Europa è necessaria. È tutto ciò che abbiamo. Se ci presentiamo come Pd è la catastrofe: recuperare la sua immagine è impossibile».
Nel frattempo il dibattito pubblico è monopolizzato da Salvini. Qualche giorno fa lei in tv, con un linguaggio colorito, ha detto che non indignarsi su casi come la Diciotti è una vergogna.
«Vero. Ma non basta incavolarsi, bisogna ragionare. Gli italiani sono un popolo europeo con una guerra molto lontana alle spalle, non in grado di affrontare le crisi di questi anni in cui, come in ogni fase di irregolarità storica, si scatenano le passioni. Pensare che l’uomo sia buono per natura è fare cattiva letteratura. Io credo, con Hobbes, Machiavelli, Spinoza, che l’uomo è di per sé cattivo: captivus, in senso etimologico. Prigioniero della più forte delle passioni, l’egoismo. Ci vogliono grandi uomini politici, e politica in grande stile, per rassicurarlo. Parleremo anche di questo, al Festival della Politica che abbiamo organizzato a Mestre, dal 6 al 9 settembre».
Sul futuro, però, lei non è pessimista.
«No, come ho detto, si può ancora rimediare. Ma bisogna farlo subito».

Il Fatto 30.8.18
Caro Veltroni, contro la destra ci vuole più sinistra
di Silvia Truzzi


Ha ragione, e da vendere, Walter Veltroni che ieri su Repubblica, invocava la nascita di una nuova sinistra con un dolente grido d’allarme. Se siamo d’accordo sulle necessità e sull’urgenza, è sull’analisi – della situazione, delle cause di una crisi spaventosa – che abbiamo diversi dubbi. Siamo davvero a Weimar? In calce Veltroni cita Luciano Gallino, grande intellettuale scomparso tre anni fa di cui si sente moltissimo la mancanza. Il professore contestava alla sinistra una subalternità cieca al neoliberismo, scriveva contro la flessibilità, contro l’irrazionalità di un sistema economico completamente finanziarizziato, in cui sono i lavoratori a pagare il prezzo più alto. E contro un’Europa – e una moneta – in cui i diritti sono diventati merce non solo negoziabile, ma svenduta. È probabilmente vero che è un errore inseguire la destra sul terreno securitario e certamente la questione dell’immigrazione è diventata il nuovo spartiacque. Un tema centrale, epocale, cui si dovrebbe smettere di rispondere con slogan che non convincono (evidentemente), ma con la ragione dell’ascolto. Ascolto dei cittadini, che nel loro insieme formano quel popolo che la sinistra ha dimenticato per via di “rapporti di confidenza tenuti col capitalismo senza mai avere il coraggio di combatterne i vizi”, come ha con grande coraggio dichiarato Gad Lerner al Fatto.
Dice Veltroni: non parliamo di populismo, “è destra, la peggiore destra”. Aggiungendo: “Contro la quale un galantuomo come John McCain ha combattuto fino all’ultimo”. E qui ci permettiamo di notare che forse nel pantheon della nuova sinistra bisognerebbe citare padri nobili più, appunto, di sinistra (Bernie Sanders, tipo?). Ma c’è un altro passaggio che fa pensare: “Il Pd che io immaginavo è durato pochi mesi, raggiunse il 34 per cento in condizioni terribili e si trovò, orgoglioso ed emozionato, in un Circo Massimo oggi inimmaginabile per chiunque”. Veltroni disse: “L’Italia è un paese migliore della destra che lo sta governando”. Inimmaginabili erano anche le larghe intese, allora. Tempi in cui si chiedeva ai compagni, già divenuti “amici”, il voto contro Berlusconi: chi se lo immaginava, poi, un patto del Nazareno, allora? Anche se è di qualche anno prima l’illuminante discorso di Luciano Violante alla Camera, quello in cui si confessava candidamente che a B. era stato assicurato che le sue aziende non sarebbero state toccate. Nel 2002 ci fu un altro Circo Massimo, forse addirittura più “orgoglioso ed emozionato”: era la piazza dei tre milioni (e se erano di meno, pazienza) che protestavano contro il tentativo di abolire l’articolo 18. Chi poteva credere che sarebbe stato un leader di sinistra a farlo? Il delitto perfetto, contro i diritti del lavoro e forse anche contro il partito. Se, come afferma Veltroni, non si può e non si deve rinnegare la storia della sinistra in Italia, sarà bene ricordare anche le non trascurabili battaglie per la piena occupazione e i diritti dei lavoratori. La rivendicazione di quanto fatto – giustamente – per i diritti civili in questi anni di governo non può bastare, significa ridursi a una vocazione elitaria, cieca ai bisogni di una maggioranza sofferente.
Il problema, dunque, è la destra: non lo si risolve con una sinistra rinnovata per l’ennesima volta, ma semplicemente con più sinistra. Magari, volendo sognare, addirittura con un leader di sinistra.

il manifesto 30.8.18
Vanessa Redgrave: «Proteggere i rifugiati è un dovere delle nazioni»
Venezia 75. Premiata con il Leone d'oro alla carriera, l'attrice inglese racconta la sua esperienza con la guerra da bambina
di Giovanna Branca


Il suo debutto alla regia – il documentario Sea Sorrow – Il dolore del mare, presentato nel 2017 a Cannes – affrontava la tragedia dei migranti che muoiono in mare cercando di raggiungere l’Europa, e la grande attrice inglese Vanessa Redgrave – che nel 1999 rifiutò l’onorificenza di commendatrice dell’impero britannico: «Mai lo avrei accettato da Blair, che ha condotto il mio Paese in guerra fondata su una menzogna» – tiene a tornare sul dramma dei migranti nel giorno in cui a Venezia le viene conferito il Leone d’oro alla carriera.
«I nostri governi hanno perso il senso della realtà e ogni umanità. Sento una grande rabbia per l’insensibilità che vedo ovunque intorno a me. Come si può non accogliere delle madri che rischiano la vita insieme a quella dei loro bambini?». Lei, racconta, il dramma dei rifugiati lo ha vissuto sulla propria pelle quando da bambina è dovuta fuggire da Londra, bombardata dai nazisti. «Durante la seconda guerra mondiale – racconta Redgrave, classe 1937 – con centinaia di migliaia di altri bambini londinesi siamo stati mandati nelle campagne a causa del pericolo nazista: eravamo rifugiati nel nostro stesso Paese. Io mi mettevo un elmetto di latta e usavo un bastone di legno come se fosse un fucile, pronta alla resistenza contro gli invasori».
Il padre, racconta ancora, era in guerra su una nave della marina militare, così come i suoi altri parenti di cui «non sapevamo dove fossero. Passavamo tutti i giorni ad ascoltare le notizie della Bbc come se fosse stato Shakespeare».
Ed è stata proprio la guerra, dice l’attrice, a mettere «nettamente e sinceramente» in evidenza la differenza fra «il governo britannico del 1941 e quello di cinque anni prima, che rifiutava qualunque tipo di aiuto ai rifugiati. Ma con la guerra il popolo inglese, e i suoi bambini, lo sono diventati a loro volta, e così il governo ha stabilito che fosse il dovere della nazione proteggere i rifugiati». «Mi domando – conclude Redgrave passando dall’inglese a un italiano praticamente perfetto – perché i governi di oggi non spieghino ai cittadini che è loro dovere proteggere e aiutare i rifugiati, un dovere nazionale».

Il Fatto 30.8.18
Chiesti i nomi degli “ostaggi” sulla nave. Saranno parti offese contro Salvini
L’inchiesta - Il pm sta identificando i migranti rimasti per 10 giorni sul pattugliatore
di Antonio Massari


La Procura di Agrigento sta identificando tutti i migranti rimasti per dieci giorni a bordo del pattugliatore Diciotti della Guardia costiera e arrivati in gran parte ieri a Rocca di Papa. L’atto consente loro di avere una tutela, in qualità di persone offese, nel procedimento che il procuratore capo Luigi Patronaggio ha aperto a carico del ministro dell’Interno Matteo Salvini e del suo capo di Gabinetto, il prefetto Matteo Piantedosi, entrambi accusati di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio.
Il fascicolo sarà trasmesso dalla Procura di Agrigento al Tribunale dei ministri di Palermo nei prossimi giorni – molto probabilmente venerdì – quando l’elenco delle identificazioni sarà completato. E quando sarà chiarito in quale modo la Procura di Agrigento potrà mantenere il contraddittorio con il Tribunale dei ministri. Esiste infatti un problema di coordinamento tra la procedura prevista dalla legge del 1989 e il codice di procedura penale riformato negli anni successivi. Completato l’elenco delle persone offese e sciolto il nodo interpretativo, la Procura agrigentina invierà il fascicolo al procuratore di Palermo che, a sua volta, entro 15 giorni lo trasmetterà al Tribunale dei ministri. Da quel momento i giudici ministeriali avranno 90 giorni per avviare nuove indagini, archiviare o chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere.
È la notte del 16 agosto quando il pattugliatore Diciotti, in acque Sar maltesi, soccorre i 177 migranti, in gran parte eritrei. Lo sbarco nel porto di Catania però viene autorizzato soltanto la sera del 25 agosto. Per la Procura di Agrigento, che apre il fascicolo il 23 agosto, dopo la visita del procuratore a bordo della Diciotti, Salvini e Piantedosi hanno sequestrato e arrestato illegalmente, commettendo un abuso d’ufficio, i migranti rimasti in mare per quasi dieci giorni. Con l’aggravante di aver commesso il reato in qualità di pubblici ufficiali e nei confronti di minori.
Sabato scorso il procuratore ha sentito, come persona informata sui fatti, il vicecapo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Bruno Corda, oltre che lo stesso Piantedosi, ricostruendo la catena di comando che, per giorni, non ha concesso alla Diciotti l’autorizzazione allo sbarco. Salvini e Piantedosi non avrebbero impartito istruzioni scritte. Il tutto si sarebbe svolto solo con comunicazioni telefoniche.
Il ministro dell’Interno ha già annunciato che la linea del governo e del Viminale non cambierà e questo, in teoria, potrebbe portare a una reiterazione del reato, che sarà valutato dai tre giudici del tribunale dei ministri.
Parliamo di Fabio Pilato, 52 anni, fino a qualche tempo fa gip e poi giudice tutelare nel Tribunale di Palermo, quindi con esperienza su rifugiati e riconoscimento di status e protezione sussidiaria; Filippo Serio che proviene dal Tribunale del Riesame e Giuseppe Sidoti dalla sezione fallimentare.

Il Fatto 30.8.18
Achtung Sassonia: gli strani contatti fra polizia e neonazi
Chemnitz - L’estrema destra ha diffuso sul web il mandato d’arresto con i possibili responsabili dell’omicidio che ha scatenato gli scontri
Achtung Sassonia: gli strani contatti fra polizia e neonazi
di Roberta Zunini

Martin Dulig, il vicepremier della Sassonia, dice: “Se è vero che il mandato di arresto è trapelato probabilmente dalla polizia ai circoli estremisti di destra, significa che abbiamo un grosso problema da affrontare”, Perché ora, gli scontri nelle strade Chemnitz e la caccia allo straniero, non sono solo affare degli estremisti di destra: si allunga l’ombra di una complicità fra loro e alcuni agenti di polizia.
Nei prossimi giorni davanti alla gigantesca effigie di Karl Marx, nella città della Germania orientale, sono attese nuove manifestazioni di Alternativa per la Germania (Afd) e di Pegida, il movimento antiislamista, assieme agli ultras a loro vicini. In questo contesto a preoccupare è un possibile legame fra gli xenofobi tedeschi e le forze dell’ordine.
Già durante il corteo di quattro giorni fa – organizzato dopo l’accoltellamento a morte di un falegname tedesco di 35 anni da parte di un immigrato iracheno spalleggiato da un siriano – era risultato lampante che il numero di agenti mandati a contrastare sul campo i neonazi fosse largamente insufficiente, come poi ammesso dai vertici della polizia stessa. A peggiorare la situazione è stata la diffusione sul web del mandato d’arresto del ventenne iracheno e del suo presunto complice. Un documento riservato che era a disposizione della polizia e dell’autorità giudiziaria; qualcuno lo ha passato sotto banco agli estremisti nostalgici di Hitler , compiendo un atto che persino il ministro dell’Interno tedesco, il falco anti immigrazione Horst Seehofer, ha definito “inaccettabile”. Mentre la Procura di Dresda ha aperto un’inchiesta per “chiarire al più presto” i fatti, il legale Sebastian Scharmer, difensore di vittime di violenze da parte di neonazisti, ha dichiarato di aver presentato una denuncia contro l’attivista che ha pubblicato online il documento, Lutz Bachmann, membro di Pegida. Il premier della Sassonia, Michael Kretschmer, che ha difeso la polizia dalle accuse di essere state inadeguate nella gestione delle manifestazioni neonaziste, ha promesso che “la questione verrà chiarita”.
La settimana scorsa la polizia sassone era stata criticata per avere fermato una troupe televisiva mentre stava filmando un raduno dell’estrema destra contro la cancelliera Merkel. Era stato appurato che chi aveva chiesto agli agenti di impedire ai giornalisti di svolgere il proprio mestiere, era un poliziotto presente al raduno a titolo privato.
La leadership tedesca sta cercando disperatamente di mettere a punto delle strategie per affrontare le conseguenze politiche degli eventi di Chemnitz, che sono in gran parte attribuiti alla politica sui profughi di Angela Merkel. Il suo partito cristiano-democratico (Cdu), che in Sassonia è al potere dal 1990, è accusato di non riconoscere o affrontare efficacemente il crescente movimento di estrema destra. Lo stato orientale affronterà elezioni cruciali il prossimo anno e , secondo i sondaggi, la Cdu potrebbe perdere il 10% a favore di Alterativa per la Germania. L’AfD potrebbe diventare il secondo partito del parlamento locale. La città che durante l’era sovietica si chiamava Karl Marx Stadt guida ora la rivolta nera contro la grosse koalition al governo.

Repubblica 30.8.18
Germania
In Sassonia un avviso a Merkel
di Tonia Mastrobuoni


La nuova destra, in Germania e forse altrove, non gioca più soltanto una partita o un campionato diverso. Gioca dichiaratamente un altro sport: senza regole, senza limiti di campo, appoggiata da una tifoseria sfegatata che non crede più ad altro e si ingrossa di giorno in giorno. Se le reazioni non saranno adeguate al cambio di paradigma che sta avvenendo sotto i nostri occhi, Chemnitz rischia di essere un punto di svolta. Ieri il tabloid Bild avvertiva, non a caso, che "l’umore in Germania rischia di precipitare". Sin dalle prime ore di domenica, quando la notizia del falegname tedesco accoltellato da due stranieri è cominciata a circolare, i siti "alternativi" le hanno costruito intorno una narrazione scorretta e fuorviante che è riuscita a mobilitare migliaia di persone. La bugia era che il falegname fosse stato accoltellato per aver difeso una donna dalle molestie di un iracheno. Questa fake news è stata smentita immediatamente dalla polizia, e la smentita è rimbalzata sulle principali agenzie del mondo, sui giornali tradizionali, sui siti più accreditati. Non è servito assolutamente a nulla. A distanza di tre giorni quella bugia continua a fare proseliti sul web, ad essere diffusa dagli untori su Facebook, a essere usata come una clava xenofoba sui social media. La tifoseria che ha da tempo abbandonato gli spalti dei media tradizionali non è stata neanche scalfita da una smentita formulata secondo un principio di realtà che governa l’Occidente da decenni.
La seconda lezione da trarre da Chemnitz riguarda una frase centrale di Angela Merkel, che già lunedì ha condannato la giustizia fai-da-te delle cacce allo straniero. Che lo Stato sia l’unico legittimo custode della giustizia è un principio che s’impara a scuola, ma che le destre stanno picconando con la stessa acribia con cui demoliscono ogni principio di realtà. Poche ore dopo le dichiarazioni di Merkel, sui siti dell’Afd e dei siti di destra è rimbalzato il mandato di arresto dell’iracheno, con tanto di nome, cognome e dati personali. Una lesione gravissima della privacy di un cittadino e un’aperta incitazione a sostituire lo Stato di diritto con la biblica legge del taglione. A Repubblica, Benjamin Jahn Zschocke, rappresentante di "Pro Chemnitz", l’associazione di destra che ha indetto la manifestazione di lunedì, ha spiegato che il documento è stato leakato da loro «perché in questo paese bisogna ripristinare la verità e la trasparenza». E se saranno incriminati per questo, è evidente che si giocheranno la carta del martirio.
Un altro, inquietante salto di qualità cui si sta assistendo a Chemnitz riguarda l’Afd.
Un partito che siede con una nutrita pattuglia nel Bundestag, nel parlamento di una democrazia parlamentare. Uno di loro, Markus Frohnmaier, ha dichiarato domenica che è giusto che la gente «si difenda da sola se lo Stato non la difende». Sono finiti, insomma, i tempi in cui l’Afd cercava di limitare la sua presenza nelle piazze estremiste, ad esempio quelle di Pegida. Ormai sfila gomito a gomito con Pegida, con neonazisti e hooligan. Anche alla luce di questo, un’ultima considerazione riguarda i "cittadini preoccupati", i nonnetti imbufaliti e le signore indignate che si scorgono da anni alle manifestazioni dell’Afd e che sono difesi dai media di destra, ansiosi di riconquistarli nell’alveo dei partiti tradizionali (e dei loro lettori reazionari).
A quelli che sfilavano lunedì a Chemnitz o in occasioni simili in cui si vedono bracci tesi, svastiche e si cantano inni neonazisti, andrebbe tolto finalmente ogni alibi, ogni margine ipocrita di comprensione. Chi sfila con i nostalgici dell’Olocausto e con gli xenofobi è uno di loro.

Repubblica 30.8.18
Antonio Costa, Presidente socialista del Portogallo
"In Portogallo sovranismo battuto con l’alleanza di tutti i progressisti"
intervista di Giovanna Casadio


RAVENNA «Sono preoccupato dell’alleanza tra Salvini e Orbán». Il premier portoghese Antonio Costa, socialista, da tre anni alla guida di un Paese che è passato dalla crisi più buia al rilancio, preferisce non commentare l’intervento di Walter Veltroni sul futuro della sinistra ma afferma che il Pd ha «energie» e «competenze» per farcela. E aggiunge che, come Macron, accetta la sfida contro i sovranisti.
Presidente Costa, si dice che il Pd abbia perso il popolo, da dove si ricomincia?
«Mi pare che la nuova leadership del Pd e Maurizio Martina abbiano le energie e le competenze per affrontare le sfide dei populisti. Il Pd, come tutti noi progressisti, deve rinnovare il contratto sociale basato sul progetto di integrazione europea. Da lì si ricomincia.
Vogliamo creare le condizioni per allargare il fronte progressista. La nostra collaborazione con il Pd non è iniziata oggi, anzi, il Ps lavora a stretto contatto con i dem da diversi anni, ho avuto un buon rapporto con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, una delle figure più rispettate in Europa».
Lei è uno dei pochissimi leader socialisti ancora al governo, come fa?
«In primo luogo, vorrei sottolineare che ho la compagnia di altri capi di governo progressisti nel Consiglio europeo. La famiglia socialista conta vari primi ministri come in Svezia, a Malta e più recentemente in Spagna. E in Germania l’Spd è indispensabile per il funzionamento e la stabilità del governo. In Portogallo siamo al governo con un programma progressista che ha ridato la speranza ai portoghesi e che ha ottenuto risultati economici molto positivi. La disoccupazione è al 6,7%, la più bassa dei ultimi anni, abbiamo un tasso di crescita superiore al 2% e abbiamo ridotto il deficit».
Funziona la geringonça, quel meccanismo che vede forze politiche di sinistra moderata e radicale governare insieme il Portogallo? La consiglia anche all’Italia?
«Il governo del Portogallo è sostenuto da un accordo parlamentare, non da una coalizione che riunisce diverse partiti nel governo. La geringonça, come è ormai conosciuta la soluzione politica che funziona in Portogallo e consente di governare con il sostegno del Blocco di sinistra, del Partito comunista e del Partito ecologista Verdi, funziona molto bene, nonostante le previsioni negative di molti, perché abbiamo saputo ascoltare i portoghesi. Non ho consigli da dare ad altri Paesi. Questo dipende, soprattutto, dalla volontà degli italiani. Posso solo augurare buona fortuna ai nostri amici del Pd».
Lei crede sempre nell’Europa?
«Senza dubbio, credo nell’Europa come credo nella democrazia. Se sono sistemi perfetti? No. Ma sono un enorme progresso rispetto al passato e a tutte le alternative che conosco; sono, e credo che lo saranno sempre, un lavoro in progress che dipende da chi lo costruisce e lo difende».
Il governo italiano ha iniziato un braccio di ferro con la Ue sui migranti. Il Portogallo farà la sua parte sui ricollocamenti?
«Il Portogallo ha difeso una posizione globale a livello europeo sul tema dell’accoglienza dei rifugiati e ha partecipato a soluzioni ad hoc su richiesta della Commissione europea, in collaborazione con Francia e Spagna. L’Italia deve rispettare le regole del diritto internazionale sull’accoglienza nel porto sicuro più vicino e partecipare alla ricerca di una soluzione europea alla questione migrazioni. Ricordo che trenta persone della nave Lifeline proveniente da Malta già si trovano in Portogallo dal 29 luglio.
Come ho già detto, il gruppo di cinquanta migranti provenienti dall’Italia dovrà arrivare a settembre».
Teme che l’Italia si faccia sedurre dal gruppo di Visegrad?
«Credo ancora che i valori di un’Europa unita, giusta e solidale, seducano l’Italia più di qualsiasi altra proposta. C’è una contraddizione radicale tra l’Italia che chiede - e fa bene - la solidarietà dell’Ue e il gruppo di Visegrad che rifiuta questa solidarietà. Se quei Paesi suggeriscono che la questione dell’immigrazione dovrebbe essere risolta dall’Italia, non posso credere che l’Italia sia sedotta da idee e politiche che danneggiano non solo l’Ue, ma l’Italia in particolare. Nell’ultimo Consiglio europeo ho sentito alcune voci che affermano che le sfide delle migrazioni non li riguardano, suggerendo che l’Italia, poiché è geograficamente in prima linea, sarebbe responsabile della risoluzione di questa crisi. Questa posizione mette in discussione il significato dell’Europa. Salvini ha dichiarato che "il cammino verso una nuova Europa sta iniziando".
La "nuova Europa" di cui parla Salvini mi ricorda un’altra Europa di pericolose divisioni nazionaliste».

il manifesto 30.8.18
Dalla Florida al Bronx, sull’America spira il vento socialista
Stati Uniti. Anche l'afroamericano Gillum vince le primarie democratiche sconfiggendo i candidati moderati. E Trump furioso tira fuori presunti hacker di Pechino per attaccare i dem in vista del voto
di Marina Catucci


Non si ferma l’onda di sinistra che sposta il partito democratico Usa su posizioni più radicali: l’ultima stella nascente nel firmamento socialista americano è il sindaco di Tallahassee, Andrew Gillum. Ha vinto a sorpresa la corsa per il ruolo di candidato democratico come governatore della Florida.
Come è ormai prassi, Gillum ha battuto i candidati moderati con un budget ben più cospicuo del suo, con l’appoggio di Bernie Sanders e un programma su sanità pubblica, diritto allo studio, legalizzazione della marijuana, controllo delle armi, riforma carceraria. Se dovesse vincere a novembre sarebbe il primo governatore afro-americano della Florida.
Che negli Usa un vento socialista spiri da abbastanza tempo per non essere una corrente passeggera se ne sono accorti in molti: sul New York Times Corey Robin, professore di scienze politiche al Brooklyn College e alla City University di New York, ha scritto che «il socialismo era il nome del nostro desiderio, ma potrebbe cambiare. Il sostegno pubblico per il socialismo sta crescendo. Socialisti come Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez e Rashida Tlaib si stanno facendo strada nel Partito democratico, che un tempo l’analista politico Kevin Phillips chiamava il ‘partito capitalista più entusiasta del mondo’. L’appartenenza ai socialisti democratici americani, la più grande organizzazione socialista del Paese, sta salendo alle stelle, specialmente tra i giovani».
Mentre i socialisti vincono, i repubblicani si distanziano da Trump. Ieri è stato il turno di Don McGahn, il più importante consigliere giuridico e legale del presidente. L’annuncio è arrivato meno di due settimane dopo la diffusione della notizia che McGahn ha collaborato a lungo con l’inchiesta sul Russiagate del procuratore speciale Mueller: circa 30 ore di deposizioni.
Queste notizie innervosiscono Donald che si è lasciato andare a dichiarazioni una più dura dell’altra. In un incontro con i leader cristiani evangelici ha affermato che se alle elezioni di midterm di novembre dovessero vincere i democratici, questi «revocheranno tutto quello che ho fatto e lo faranno velocemente e violentemente. Siete a un’elezione dal perdere tutto quello che avete, il livello di odio, di rabbia è inimmaginabile». Mossa nemmeno troppo occulta per fomentare i suoi sostenitori suprematisti bianchi contro i movimenti antifascisti seguiti soprattutto dagli afroamericani.
Non pago ha affermato su Twitter che «le email di Hillary Clinton, molte delle quali costituiscono Informazioni Riservate, sono state hackerate dalla Cina», riferendosi alla notizia divulgata dal portale super conservatore Daily Caller News Foundation, secondo cui una società cinese controllata da Pechino avrebbe violato il server di posta dell’abitazione privata di Clinton, ai tempi in cui era segretario di Stato, grazie a un codice che ritrasmetteva agli hacker in tempo reale una copia di tutti i messaggi.
«La prossima mossa è meglio che sia dell’Fbi e del Dipartimento di Giustizia, o dopo tutti i loro altri passi falsi (Comey, McCabe, Strzok, Page, Ohr, FISA, Dirty Dossier etc.), la loro credibilità sarà persa per sempre!». ha concluso. Dopo di che è passato ad attaccare la rete, prima Google che diffonderebbe sul suo conto solo fake news, poi anche Twitter a Facebook: «Abbiamo letteralmente migliaia e migliaia di lamentele – ha detto Trump – Google, Twitter e Fb stanno rischiando e devono stare attenti, non possono fare questo alla gente».

Corriere 30.8.18
Novecento Il travaglio di una generazione evocato da Mario Mirri in un volume di ricordi edito da Laterza
Che fatica disfarsi del fascismo Il lungo addio di Meneghello
di Antonio Carioti


il veneto Luigi Meneghello, prima di diventare un autorevole ambasciatore della letteratura italiana in Gran Bretagna, era stato partigiano: a lui, nato nel 1922 e scomparso nel 2007, si deve uno dei più importanti romanzi autobiografici sulla Resistenza, I piccoli maestri (Feltrinelli, 1964; Bur, 2013). Tuttavia non aveva mai nascosto la sua partecipazione alle attività culturali del regime, tra cui la vittoria ottenuta da ragazzo diciottenne, nel 1940, alle gare studentesche denominate Littoriali. Un alloro conseguito proprio nel campo della dottrina fascista.
Colpisce però, pur conoscendo questo retroterra, il racconto contenuto nel libro La guerra di Mario (Laterza). L’autore, che si è spento nello scorso maggio all’età di 93 anni, è lo storico Mario Mirri, che fu compagno di Meneghello nella guerra di Liberazione e compare tra I piccoli maestri del romanzo. Nel narrare la sua vita rispondendo alle domande di un giovane, Mirri rievoca l’orientamento antifascista del padre e quello assunto da lui stesso sin dagli anni della media superiore. Poi racconta un significativo aneddoto, risalente alla primavera del 1942, quando ancora le sorti della guerra erano incerte, anzi l’Asse muoveva le sue ultime offensive in Russia e nel Nord Africa.
Sotto Mussolini il 21 aprile, il cosiddetto «natale di Roma», aveva sostituito il 1° maggio (considerato «sovversivo») come festività. E quel giorno gli studenti erano tenuti a svolgere un tema, uguale in ogni istituto d’Italia, per cantare le lodi del regime. Al fine di evitare quel rito divenuto per loro ormai insopportabile, a Vicenza Mirri ed altri liceali della sua classe marinarono la scuola e andarono a fare una passeggiata al Monte Berico. L’episodio inquietò la dirigenza fascista, che decise di convocare i ragazzi del liceo per un confronto alla sede del partito.
Qui, ricorda Mirri, si trovarono di fronte Meneghello, che impartì loro una lezione ideologica, leggendo e commentando la voce sulla dottrina del fascismo contenuta nell’Enciclopedia italiana Treccani. Alle domande dei ragazzi il futuro partigiano «rispondeva sempre con molta rigidità». E quando Mirri gli fece notare la scarsa plausibilità del motto «Mussolini ha sempre ragione», Meneghello cercò di difendere anche quello slogan, tanto che gli studenti, stufi di tanto cieco dogmatismo, decisero di andarsene intonando la Marsigliese.
Viene spontaneo chiedersi che cosa ci fosse dietro l’intransigenza mostrata allora da Meneghello. Nel libro Fiori italiani (Rizzoli, 1976), anch’esso autobiografico, lo scrittore racconta di avere conosciuto nell’estate del 1940 Antonio Giuriolo, antifascista coraggioso e isolato, poi esponente del Partito d’Azione durante la Resistenza, caduto da partigiano combattente in Emilia nel 1944. Rievoca anche un episodio dell’autunno 1940, in cui lui si era ostinato a difendere, discutendo con Giuriolo, «l’idea della patria in armi, le speranze del fascismo», pur in crescente imbarazzo di fronte alle domande poste dal suo interlocutore.
Aggiunge Meneghello, sempre in Fiori italiani, di aver cambiato orientamento molto gradualmente, stimolato da Giuriolo, perché «certe idee erano dure a morire, come la bellezza morale del partito unico». E nota che il suo distacco dalla fedeltà al regime fu «un processo esaltante e lacerante insieme: un po’ come venire in vita, e nello stesso tempo morire».
A che punto era quel travaglio quando avvenne l’incontro con i liceali nella sede del Pnf vicentino, ricordato nel libro di Mirri? Meneghello stava recitando una commedia (forse anche per non suscitare sospetti nei presenti), oppure era ancora interiormente combattuto? Di certo questo episodio dimostra quanto faticoso e complesso fu, per un’intera generazione, il passaggio storico che segnò la dissoluzione della dittatura fascista.

Il Fatto 30.8.18
Come siamo evoluti: da doppi “sapiens” a tripli “stupidus”
Lo psichiatra Vittorino Andreoli analizza “l’agonia di una civiltà” fin dall’errore di porre “Homo” all’apice dell’albero della vita, a oggi che ha messo a riposo la neocorteccia
di Vittorino Andreoli


Pubblichiamo un estratto del nuovo libro dello psichiatra Vittorino Andreoli.
Nell’Origine delle specie di Charles Darwin (pubblicato nel 1859) l’uomo è posto all’apice dell’albero della vita con la definizione di Homo sapiens sapiens. Mi ha sempre colpito la ripetizione di sapiens, un rafforzativo legato, credo, al salto evolutivo della nostra specie che, rispetto a quello delle precedenti, deve essere subito apparso eccezionale, forse miracoloso. Considerando il significato del termine sapiens, tuttavia, questa sottolineatura appare del tutto ingiustificata, poiché il sapiente dovrebbe essere colui che giunge al vertice dell’umanità con comportamenti privi di qualsiasi aporia.
La definizione di Homo sapiens sapiens appare, dunque, emotiva e priva di significato letterale. Suona più come: “Sa tutto e altro ancora”. […]. Partendo da queste osservazioni, c’è chi ha persino criticato le tappe evolutive darwiniane mostrando che, se venissero stabilite sulla base di specifiche funzioni (come quelle citate), la specie umana non si troverebbe affatto all’apice dell’albero della vita. […] A esprimere la sproporzione terminologica di quel doppio sapiens, è tuttavia l’uomo del tempo presente, che sembra essere smarrito e avere perduto quel beneficio della neocorteccia che giustifica per gli antropologi la generosità di quel doppio sapiens. Si ha l’impressione che oggi l’uomo abbia messo a riposo la neocorteccia rinunciando a quel salto evolutivo che lo distacca dagli altri primati, come gli scimpanzé e, in particolare, i bonobo, che hanno raggiunto l’abilità di reggersi sugli arti inferiori, di potersi così guardare in faccia, accoppiarsi frontalmente (e non per monta) e persino baciarsi sulla bocca. Questa ipotesi regressiva non è fantasiosa: basta tenere conto dell’importanza raggiunta dalle tecnologie digitali, che rappresentano una vera e propria protesi del cervello e delle sue funzioni mentali. Ne può derivare una messa a riposo della neocorteccia con la delega a svolgere le sue funzioni alle “macchinette” digitali. A dare una grande spinta alla nostra critica, è proprio l’osservazione di comportamenti dell’uomo che in nessun modo possono essere fatti rientrare nell’ambito della sapienza. Quel che si constata è che non si tratta di errori casuali o voluti all’interno di comportamenti dominanti positivi, ma di un vero e proprio errore strutturale che diventa pertanto comportamento precipuo, esclusivo, regola. È per questo che l’aggettivo sapiens si dimostra del tutto inadeguato, rendendo invece corretto il ricorso a un termine antinomico: stupidus, Homo stupidus. Per simmetria, poi, occorre sottolinearlo due volte: Homo stupidus stupidus. Se si tenesse conto del livello di stupidità, si sarebbe anzi tentati di triplicarla per avere la certezza che, indipendentemente dal luogo in cui la specie Homo vada posta nell’albero della vita, non incontri alcuna concorrenza.
La parola “stupido” va usata nella sua espressione latina, stupidus, non solo per rispettare la consuetudine della terminologia antropologica, ma per distinguerla dal senso popolare che possiede in italiano. È considerato stupido chiunque non abbia, in una data circostanza, tenuto conto della realtà, e che si sia comportato in modo poco o per nulla intelligente. Dal punto di vista etimologico, stupidus contiene la stessa radice di “stupore”, termine che descrive una sensazione inattesa e persino incredibile, che lascia cioè attoniti, sbalorditi. Incredibile che un uomo possa comportarsi in quel dato modo, ma incredibile soprattutto che lo possa fare una comunità intera, un popolo. […] Ed è questa stupiditas che ora ci proponiamo di mostrare analizzando dapprima la Distruttività, poi La caduta dei princìpi che sono a fondamento della civiltà occidentale e, infine, descrivendo le caratteristiche dell’Uomo senza misura.