mercoledì 29 agosto 2018

il manifesto 29.8.31
Torniamo visibili, manifestiamo. Usciamo insieme dall’angoscia
Sinistra invisible. E allora viva l’iniziativa del "manifesto" che, con i migranti e contro Salvini, dice: fatevi vivi tutti, noi offriamo uno spazio per organizzare la protesta a settembre. Muoviamoci
di Luciana Castellina


È davvero una bella notizia che nel mese di agosto, al centro di Milano – a San Babila – siano scese in piazza molte migliaia di persone, frutto di una mobilitazione improvvisata, cui tanti hanno offerto il loro impegno senza diplomatici accorgimenti,- per contestare Orbán e Salvini che in quella città capoluogo della Regione Lombardia culla della Lega avevano deciso di abbracciarsi ufficialmente.
Qualche giorno fa El Pais ha ospitato un articolo sulla situazione italiana che mi era stato sollecitato per la pagina “opinioni”del quotidiano spagnolo. Sono stata molto contenta di registrare che il titolo assegnato al mio pezzo sia stato: «La sinistra invisibile», perché ha colto quello che vorrei cogliessero anche i tantissimi che appena li incontri scuotano la testa in segno di disfatta e dicono «mamma mia che disastro».
E vanno a casa a leggere i giornali, affogando sconsolatamente nelle mille terribili notizie che raccontano ovunque il nostro paese. Intendiamoci: non ho preteso di nascondere ai lettori spagnoli i nostri guai e penso che nessuno debba minimizzare il rischio della situazione in cui ci troviamo. Non però fino al punto di ritenere che la grande sinistra italiana sia potuta sparire da un giorno all’altro senza lasciare traccia di sé. C’è ancora, e però resa invisibile e paralizzata dalla sua frantumazione, dallo scetticismo, dal senso di disinganno che ormai pervade i più. Ma quel titolo, di cui ringrazio El Pais, accompagnava un articolo in cui cercavo di dar conto di quanti siano tutt’ora le persone, ma anche i gruppi, le reti, che un po’ da per tutto in Italia, al nord come al sud, sono impegnati in qualche lotta sacrosanta, sul terreno ecologico così come su quello sindacale, o in iniziative di solidarietà e di antirazzismo. L’Italia, insomma, non è un paese inerte, conserva un suo dinamismo sociale, che tuttavia non si traduce in collettiva iniziativa politica. Visibile.
NON HO CERTO ricette per indicare come, ripartendo da questa sinistra territorializzata e sminuzzata, sia possibile tornare a far vivere anche da noi un movimento e, perché no? anche un partito nuovamente visibile. Né sono fra coloro che ormai teorizzano che va bene così, che il localismo è il nuovo modo di far politica del secondo millennio. Penso tuttavia che almeno sulle questioni su cui siamo tutti d’accordo – l’accoglienza dei migranti e la protesta contro lo sceriffo Salvini – si possa e si debba fare uno sforzo ed agire collettivamente. Senza farci paralizzare dalla diplomazia delle sigle in grado di convocare un’azione di dimensioni adeguate. So bene che se – per esempio – a convocare una grande manifestazione nazionale di protesta contro Salvini e c. si formasse uno schieramento composto da tutti i gruppi e le associazioni importanti, laiche e cristiane, le tantissime che sono d’accordo a protestare ma sono paralizzate da quella frantumazione che affligge la sinistra italiana, sarebbe possibile dar vita ad una enorme significativa manifestazione. Visibile.
CHE RIDAREBBE fiducia, e voglia di fare, alla crescente «sinistra sfiduciata»( o meglio sfigata, pardon). E allora viva l’iniziativa de il manifesto, che ha rotto il silenzio e forse ha fatto anche uno strappo diplomatico per non aver atteso che si raggiungesse un accordo fra le famose sigle autorevoli, usando il fatto di essere solo un giornale, e perciò dicendo: fatevi vivi tutti, noi siamo qui ad aiutare come possiamo, e cioè offrendo uno spazio per raccogliere le intenzioni di chi, individualmente o collettivamente, dice: muoviamoci. Poi vedremo come e quando.
IL MANIFESTO si è rivolto ai tanti che sappiamo condividere in questo tempo il nostro stesso dolore e la nostra stessa rabbia per l’emergere, in una parte via via crescente di italiani, di una brutalità razzista che nemmeno immaginavamo potesse covare nelle viscere della nostra società. Io non credo sia così diffusa come appare, ma poiché le cronache di ogni giorno inducono tutti a pensare si tratti di un atteggiamento generalizzato, urge dare un segnale forte e diverso. Non per riscattare l’onore della «nostra patria» ( ma anche per questo, in fondo ), ma perché se dovesse affermarsi l’idea che sia davvero possibile un ritorno fascista finirebbe per prevalere scoramento e passività. Verrebbe gettata via l’energia, che invece c’è ancora, necessaria a cercare, ciascuno nei propri modi e secondo le proprie diverse culture, le strade atte a creare un mondo più uguale e solidale.
IL RISCHIO è che ognuno di noi viva da solo amarezza e indignazione. Scriveva don Milani 50 anni fa: «Ho scoperto che il mio problema è uguale a quello degli altri. Uscirne tutti assieme è politica. Uscirne da solo è avarizia». Il più meschino e sordido dei vizi.
CERCHIAMO di non vivere in solitudine questo brutto momento della nostra storia, proviamo a dimostrare che crediamo ancora alla forza del fare collettivo. Scrolliamoci da dosso la paralizzante idea che manifestare assieme non serva. Non è vero. Troviamoci tutti nella capitale, tutti quelli che vogliono cercare di «uscire tutti assieme» dall’angoscia che in questo momento ci pervade.
Possiamo provarci? Se le risposte saranno molte, forse sarà più facile indurre le grandi organizzazioni, ciascuna delle quali non può muoversi da sola senza dare l’impressione di voler ignorare le altre, a coalizzarsi per riempire le strade di Roma e dire che non è vero che siamo tutti razzisti, siamo solo invisibili e abbiamo il dovere di ridiventare visibili. L’iniziativa presa ieri a Milano, il modo in cui si è arrivati a convocarla, è un incoraggiamento.

Corriere 29.8.18
Migliaia nella piazza contro: no pasarán
La sinistra al sit-in anti sovranista. Da Boldrini alle Acli: da qui una nuova resistenza
di Andrea Senesi


MILANO «La nuova Resistenza parte da qui». La risposta a Matteo Salvini e Viktor Orbán arriva da una piazza San Babila — trecento metri in linea d’aria dalla prefettura blindatissima — piena e colorata. Quindicimila persone secondo gli organizzatori, quasi diecimila secondo stime più realistiche. Poche le bandiere rosse dei partiti della sinistra dura e pura, meno ancora quelle del Pd. Riempiono la piazza invece i simboli delle sigle che hanno organizzato la protesta. I Sentinelli, la comunità di Sant’Egidio, Arci, Acli, Anpi, la Cgil, la Uil. Sul palco si alternano le voci dei rappresentanti di questo mondo, dell’universo delle associazioni che lavorano nel campo dell’accoglienza e della solidarietà. Unico politico invitato a parlare è l’assessore milanese al Welfare Pierfrancesco Majorino, l’uomo che ha organizzato la tavolata multietnica al parco Sempione di due mesi fa con la partecipazione di migliaia di migranti.
In piazza arriva anche Laura Boldrini, applauditissima. Dice che «il sovranismo non può essere la soluzione», che il centrosinistra deve «ripartire da qui» e che per le elezioni europee sarebbe saggio che il campo progressista si organizzasse in un’unica lista senza simboli di parito né candidati politici. Un po’ come accade qui in piazza San Babila. Uniti al di là delle divisioni. Mettere insieme il Pd con le sigle della sinistra più radicale è in effetti un piccolo miracolo al contrario della coppia Salvini-Orbán. Dopo la «Bella ciao» di rito e la meno scontata «C’è chi dice no» di Vasco Rossi, dopo il flash mob con centinaia di cartelli innalzati con la scritta «Europa senza Muri» e mentre la piazza si va lentamente svuotando, l’ex presidente della Camera sale infine sul palco e arringa la folla rimasta al grido di «No pasarán».
Il tema della Resistenza, di «una nuova Resistenza», ricorre ossessivamente nel pomeriggio milanese. «Milano, grazie», scandisce per tutti il presidente nazionale della Acli Roberto Rossini: «Perché da qui arriva un messaggio chiaro di tolleranza e di apertura. Da qui è partita la Resistenza e da qui può nascere una nuova Resistenza con al centro l’idea di un’Europa presidio di pace e solidale».
Pochi i politici nazionali in piazza. Oltre a Boldrini, si vedono il deputato pd Emanuele Fiano e Pippo Civati, fondatore di Possibile e uno dei papà dell’iniziativa. Sotto il palco c’è anche il sindaco di Ventimiglia, la città in prima linea sul fronte accoglienza e integrazione. L’intervento più applaudito è quello di un ragazzo della comunità senegalese che cita il sogno di Martin Luther King per immaginare un Paese che non discrimini le persone «in base al colore della pelle.
«Siamo quel che accogliamo», dice uno striscione retto da un ragazzo africano. «Integrazione: l’eredità più grande per i nostri figli», un altro. Si leggono anche slogan decisamente meno dolci, tutti dedicati al ministro dell’Interno: «Salvini sei sulla linea rossa (della metropolitana, ndr). Tra quattro fermate c’è piazzale Loreto».

Repubblica 29.8.18
Sogni e popolo ciò che serve alla sinistraNon chiamiamoli populisti: contro questa destra estrema è l'ora di una nuova sinistra
Non chiamiamoli populisti: contro questa destra estrema è l'ora di una nuova
L'ex segretario del Pd interviene nel dibattito sulla costruzione dell'alternativa: "Il momento è pericoloso, non si ha la percezione dei rischi che corre la democrazia"
di Walter Veltroni


Luciano Gallino, intellettuale di sinistra - definizioni che sembrano diventate brutte parole - scrisse più di venti anni fa l'introduzione a un libro nella quale diceva "la distruzione di una comunità politica, la fine della democrazia, è sempre possibile... Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, che è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà". Il volume era Come si diventa nazisti di William Allen, uno storico che si incaricò di raccontare come una piccola comunità dell'Hannover si trasformò da città storicamente di sinistra a feudo del nazismo, in cinque anni passato dal 5 per cento al 62,3. Allen scrive che "il problema del nazismo fu prima di tutto un problema di percezione". Non esiste evidentemente in Italia e altrove un pericolo nazista, anche perché la storia non si ripete mai nello stesso modo. Ma la mia angoscia, l'angoscia di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita a ideali di democrazia e progresso, è che non si abbia la "percezione" di quello che sta accadendo. Che non ci si accorga che parole un tempo impronunciabili stanno diventando normali.
Non mi interessa qui la miseria della polemica politica quotidiana che ha perso la dignità minima. Sembrano tutti il Malvolio di La dodicesima notte di Shakespeare che dice, tronfio, "Su tutti voialtri prenderò la mia vendetta". Credo si debba uscire dal presentismo che domina il nostro tempo, che toglie respiro, serietà, credibilità alle parole e ai gesti. Guardare il mondo e interpretare i segni che ci pervengono.
Fu quello che nell'estate del 1939 non si fu capaci di fare, mentre l'umanità precipitava in una guerra terribile. Guerra come quella che solo vent'anni prima aveva fatto diciassette milioni di vittime. Mentre sulle spiagge si prendeva ignari il sole e nei cuori si inneggiava al duce e al fuhrer, si stava preparando un conflitto che avrebbe prodotto 68 milioni di morti e la tragedia della Shoah.
Papa Francesco ha parlato più volte, inascoltato, di una terza guerra mondiale. Per molti nostri coevi la guerra non è un deposito della storia o un monumento alla memoria. È la vita quotidiana, il dolore quotidiano in un mondo sordo e cieco. È lo stupore del bambino di Aleppo che seduto in un'ambulanza si tocca il viso scoprendolo pieno di sangue, è il corpo di Alan con la sua maglietta rossa sulla spiaggia turca e quello di suo fratello Galip, cinque anni, inghiottito dal mare. Ma noi, l'Occidente che ha attraversato la seconda guerra mondiale e l'orrore dei regimi autoritari, dell'hitlerismo e dello stalinismo, noi dove stiamo andando?
Intervenendo al Festival delle idee di Repubblica, mesi fa, sono tornato sul paragone con Weimar. Non sono pessimista, non lo sono per carattere. Ma non voglio assuefarmi alla legge del "politicamente corretto" per cui si finisce con l'omettere o l'umettare la sostanza delle proprie ragioni. Guardiamoci intorno. Cito due macrofenomeni: i dazi e la messa in discussione dell'Europa. Nella storia l'apposizione dei dazi è sempre stata la premessa per conflitti sanguinosi. Nel tempo della globalizzazione, fenomeno oggettivo, è impensabile agire lo strumento del protezionismo esasperato. Il conflitto tra Usa e Cina e tra Usa ed Europa, segnato dalle politiche di Trump, potrà avere effetti rilevanti sulla distensione internazionale. Ma il secondo dato è il più grave. Quando Spinelli pensò l'Europa unita, il nostro continente era in fiamme. È stata la più grande conquista di pace della storia umana, in questa parte del mondo. Ma ora tutto sta crollando. Logorato prima dalle timidezze dei governi democratici e ora dalla esplicita volontà antieuropea di un numero crescente di Stati. La Gran Bretagna è uscita, con il voto degli inglesi, e il gruppo di Visegrad si propone un'Europa minima, senza principi, valori, strategie comuni.
Il nostro Paese, fondatore dell'unità europea, improvvisamente ha come riferimento Orban e la sua "democrazia autoritaria". Un modello che tende ad affermarsi, dalla Russia alla Turchia. Si fanno strada regimi che tendono a concentrare nelle mani di pochi il potere, che limitano la libertà di stampa e di pensiero, che incarcerano gli oppositori. Qui, in Europa. La "fine della democrazia è sempre possibile", anche in forme storicamente inedite. Come ai tempi di Weimar, quando la crisi delle istituzioni e dei partiti, spesso divorati dalla corruzione, si intreccia con la recessione economica, si genera un bisogno di sicurezza che può essere più forte del bisogno di libertà.
Il populismo, espressione comoda per indicare una politica che a questo disagio si rivolge, è, per tutto questo, una definizione sbagliata. È destra, la peggiore destra. Quella contro la quale un galantuomo come John McCain ha combattuto fino all'ultimo. Definirla populista è farle un favore. Chiamiamo le cose con il loro nome. Chi sostiene il sovranismo in una società globale, chi postula una società chiusa, chi si fa beffe del pensiero degli altri e lo demonizza, chi anima spiriti guerrieri contro ogni minoranza, chi mette in discussione il valore della democrazia rappresentativa, altro non fa che dare voce alle ragioni storiche della destra più estrema.
Altro che populismo. Qualcosa di molto più pericoloso.
Ma ciò che la sinistra, impegnata a dividersi e rimirarsi allo specchio, non ha capito è che in questi anni è andata avanti una gigantesca riorganizzazione della intera struttura sociale. Qualcosa di paragonabile agli effetti della rivoluzione industriale. Il lavoro ha cambiato natura, facendosi aleatorio e precario. E se la macchina a vapore ha creato l'industria moderna e con essa le classi sociali e le città, così la nuova rivoluzione tecnologica, ancora agli inizi, finisce con il sostituire tendenzialmente l'uomo con la macchina e con il mutare tutti i codici cognitivi e comunicativi. La società è segnata da una sensazione di precarietà che la domina, che ne mina la fiducia sociale nel futuro. Non si può pensare che un tempo in cui le famiglie italiane hanno perso undici punti di reddito rispetto alla fase precrisi, in cui la differenza tra ricchi e poveri è aumentata, non sia carico di un drammatico disagio.
Un disagio che fa sì che prevalga la paura sulla speranza. La società, come un corpo contratto, si ritrae in una posizione orizzontale. Rifiuta ogni delega, anima della vera democrazia. Non vuole sapere la verità dai giornali, non accetta il parere degli scienziati, contesta persino fisicamente professori e medici, nega il valore della competenza politica fino a mettere in discussione il parlamento, per il quale si ipotizza una estrazione a sorte dei suoi membri.
Ma la società orizzontale finisce col postulare un potere verticale. La sinistra non ha capito che quando si è posto, da Calamandrei in poi, il problema della trasparenza e della velocità della democrazia si cercava esattamente di rispondere a questo bisogno. In una società veloce una democrazia lenta e debole finisce con l'essere travolta. Più la democrazia decide, più resterà la democrazia. Meno decide e più sarà esposta alla pantomima di questa estate allucinante, con un governo che le spara grosse su tutto. Che arriva a sequestrare una nave militare italiana in un porto italiano, a giocare spregiudicatamente la vita di esseri umani per qualche voto esacerbato. Che minaccia l'Europa con un misto di arroganza e incompetenza. Che annuncia cose che non può fare, non sa fare, non farà.
Ma nel presentismo assoluto resta nell'aria solo il grido acuto dell'intemerata. Trump in campagna elettorale disse che, se anche avesse preso un fucile e fosse andato sulla Quinta strada a sparare, non avrebbe perso un voto. Temo fosse vero. E così un ministro dell'Interno indagato per abuso d'ufficio si deve dimettere se è di centrosinistra e uno di destra, indagato per sequestro di persona, deve restare al suo posto. Non discuto il merito, noto la differenza. E se un deputato della maggioranza dice, come un vero fascista, che "se i magistrati attaccano il capo, li andiamo a prendere casa per casa" nessuno nella stessa maggioranza dice nemmeno poffarbacco.
Ma nei confronti dei cinquestelle la sinistra ha compiuto gravi errori. Ha cambiato mille volte atteggiamento, ha demonizzato e cercato alleanze organiche o viceversa, senza capire che molti di quei voti sono di elettori di sinistra. Che molti dei sei milioni di cittadini che avevano votato per il Pd nel 2008 hanno finito con lo scegliere i pentastellati o sono restati a casa. Un dolore profondo, un malessere che meritava molto di più delle piccole risse quotidiane o dei corteggiamenti subalterni. Molti di quegli elettori oggi sono certamente in sofferenza per il dominio della Lega sul governo e ad essi, e a chi non ha votato, senza spocchia da maestrino, la sinistra deve rivolgersi.
Come? Sia chiaro: la crisi della sinistra non è un fenomeno esclusivamente italiano, è mondiale. Solo Obama, come immaginammo nel 2008, è restato vivido nella memoria come esempio universale di coerenza programmatica e valoriale. Ma poi ha vinto Trump. Perché la sinistra o accende un sogno o non è. Perché la sinistra o è popolo o non è. Ma io non condivido i discorsi che sento fare sulla fine della sinistra o delle idee dei democratici.
È la sinistra, nella storia, che ha cambiato il mondo. Sono state le lotte contro lo schiavismo, per la liberazione delle donne, contro l'alienazione e lo sfruttamento, per i diritti civili e umani, contro le discriminazioni. È questo sistema di valori che ha reso la vita di ognuno sulla terra più libera e migliore. La sinistra lo ha saputo fare quando ha parlato al cuore delle persone, quando ha interpretato i bisogni di giustizia sociale, quando ha scelto la libertà. Cosa che non ha sempre fatto. Cinquant'anni fa la sinistra, per come la intendo, era nel sacrificio di Ian Palach e non nei carri armati con la falce e il martello.
Sogno e popolo, ciò che è stato perduto.
Due cose semplici e difficili insieme. Sono più chiaro ancora: o la sinistra definirà una proposta in grado di assicurare sicurezza sociale nel tempo della precarietà degli umani o sparirà. O la sinistra la smetterà di rimpiangere un passato che non tornerà e si preoccuperà di portare in questo tempo i suoi valori o sparirà. O la sinistra immaginerà nuove forme di partecipazione popolare alla decisione pubblica, una nuova stagione della diffusione della democrazia, o prevarranno i modelli autoritari. Nelle future esperienze di governo della sinistra ci dovrà essere una più marcata radicalità di innovazione. Allo stesso tempo, la sinistra non deve dimenticare chi è, ne deve anzi avere orgoglio. Non sarà inseguendo la destra o, in questo caso, il populismo che si eviterà il peggio. La sinistra non può avere paura di dire che è per una società dell'accoglienza, dire che è nella sua natura - oltre che in quella che dell'essere umano - la solidarietà, la condivisione del dolore, l'aiuto nel bisogno. La sinistra non deve aver paura di dire che non si deve mai deflettere dal rigoroso presidio della sicurezza dei cittadini imponendo a tutti il rispetto delle regole che ci siamo dati.
La sinistra non deve inseguire nessuno sul tema dell'Europa immaginandone una versione bonsai ma, al contrario, deve rilanciare con forza l'idea degli Stati Uniti d'Europa, meravigliosa utopia realizzabile. Deve riscoprire, dopo averlo dimenticato, il tema dello sviluppo compatibile, vera incognita sul futuro della specie umana. E non deve assuefarsi alla barbarie del linguaggio semplificato, della rissa permanente, dell'insulto all'avversario. Anche in questo deve essere se stessa, non fare come Zelig. Deve coltivare la scuola, la ricerca, la cultura, l'identità profonda di un Paese che è sempre stato aperto al mondo. Non deve aver paura di unire anche quando la diffusione dell'odio sembra prevalere. Deve innovare la sua identità e avere rispetto della sua storia. Si possono, ed è giusto, sostituire generazioni di dirigenti. Io mi sono presto fatto da parte per mia scelta e ho iniziato una nuova vita, come era corretto facessi.
Ma non è giusto cancellare la storia collettiva, le battaglie, i sacrifici, il senso di quella cosa enorme che nella storia italiana è stata la sinistra, è stato il pensiero democratico. Ha scritto, sul tema della memoria, il priore di Bose Enzo Bianchi: "Per ogni cultura, la memoria dei momenti e delle forze che l'hanno generata è essenziale; è proprio nella memoria degli eventi fondatori che la democrazia si afferma e si manifesta come valore".
Un esempio: la parola rottamazione fu usata, la prima volta, da Berlusconi in tv per attaccare Romano Prodi. Non è una nostra parola, figlia della nostra cultura. Neanche gli avversari si "rottamano", perché un essere umano e le sue idee non sono mai da cancellare, se espresse per e con la libertà.
Quando - è successo varie volte - in Italia si sono prese sbandate per il demagogo di turno, alla sinistra democratica è toccato poi salvare il Paese. Per essere all'altezza di questa responsabilità la sinistra e i democratici devono unirsi e smetterla con la prassi esasperante delle divisioni e delle scissioni testimoniali. Anche quella è un'abitudine spesso coincisa con tragiche sconfitte. Il Pd che io immaginavo è durato pochi mesi, raggiunse il 34 per cento in condizioni terribili e si trovò, orgoglioso e emozionato, in un Circo Massimo oggi inimmaginabile per chiunque. Era l'idea di un partito orizzontale, fatto di cittadini e movimenti, di associazioni e autonome organizzazioni. Un partito a vocazione maggioritaria perché aperto, che usava le primarie come cemento per unire questo arcobaleno. Il contrario di un "partito liquido", come poi si è purtroppo rivelato essere, per paradosso, quando ha prevalso il rimpianto per forme partito che non sono più date in questo tempo. Quel partito è stato in questi anni, per responsabilità di tutti, dominato dalle correnti e dai gruppi organizzati e il suo spazio vitale si è ristretto, come la stanza del funzionario Rai di La Terrazza di Ettore Scola. Quei muri vanno tirati giù e il Pd deve apparire un luogo aperto, plurale, fondato sui valori e non sul potere. Bisogna inventare una forma originale di movimento politico del nuovo millennio.
Forse quella idea era sbagliata, forse troppo avanti. Ne ho preso atto, credo con misura, senza cessare mai di dare una mano alle ragioni che hanno ispirato la mia vita.
Per questo ho scritto oggi. Perché non smetto di credere alla sinistra, perché temo per il futuro della vita democratica e dell'Europa, perché penso che l'idea di un soggetto politico aperto del campo democratico sia più che mai necessaria. Nessuno perda tempo a strologare sulla ragione di questo scritto. È solo amore per la propria comunità e per il proprio Paese. Tutto qui.

Repubblica 29.8.18
Il reportage
A Chemnitz, perla industriale della Sassonia
I neonazisti all’ombra di Marx nella città che non vuole stranieri
L’estrema destra ha lanciato cortei e la caccia al profugo dopo un accoltellamento a morte: 18 i feriti tra i manifestanti
Merkel: “No alla giustizia-fai-da-te”
di Tonia Mastrobuoni


CHEMNITZ Sotto l’enorme testa del padre del comunismo è tornata la pace. Tre punkabbestia rollano sigarette, indisturbati; i loro cani abbaiano al nulla.
La teppaglia neonazista che ha assediato il centro di Chemnitz per due giorni è sparita. Sotto alla statua di Karl Marx non si ferma più nessuno. Solo Simone sembra incerta: tanto basta per fermarla per un commento. E sì, lei c’era alla manifestazione dei saluti nazisti, dei petardi e degli insulti xenofobi. Sia domenica, sia lunedì. « Perché era ora che succedesse qualcosa » .
Simone ha 55 anni, i capelli ossigenati, gli occhi impastati di mascara e un cuore sghembo tatuato su una mano. Si tortura un polso arrossato mentre ci racconta che « in questo quartiere non si può più camminare di sera, lo hanno ridotto un suq » . Di fronte alla statua di Marx, c’è il parco incriminato. « Pullula di profughi che si ubriacano, che molestano le donne a ogni ora del giorno e della notte.
Adesso che c’è stato l’accoltellamento, adesso che tutto il mondo ha le prove che questi profughi sono dei selvaggi, finalmente anche i cittadini moderati sono scesi in piazza per protestare contro quell’orrendo assassinio e tutti questi stranieri » .
Domenica mattina, a pochi metri dalla statua più famosa di Chemnitz, una rissa ha lasciato a terra un tedesco 35enne, accoltellato a morte da un siriano e un iracheno.
Tanto è bastato per i siti neonazisti e gli ambienti degli hooligan per organizzare in poche ore un inferno. E chiamare in piazza non solo feccia bruna; anche gente come Simone, che fa la cameriera, dice di non essere di destra ma « solo preoccupata » e di « non poterne più » .
Da domenica pomeriggio, le immagini crude dalla perla industriale della Sassonia, dalla città dove una volta si concentrava un quinto della produzione industriale della vecchia Germania comunista, hanno fatto il giro del mondo.
E le foto dei neonazisti sbronzi sotto la statua di Marx, dal vago sapore apocalittico, sono diventate l’occasione per un nuovo, generico allarme sulla situazione in un Land che lo scrittore Thomas Brussig chiama “ il Texas della Germania”.
In Sassonia, secondo gli ultimissimi sondaggi, l’Afd è ormai il secondo partito e la Spd fatica a ottenere un risultato a due cifre. La tradizionale roccaforte della Cdu, governata da una grande coalizione ormai evaporata nei sondaggi, rischia di cadere, alle prossime elezioni. E il mantra delle interviste che si riescono a fare a Chemnitz dopo 48 ore di manifestazioni violente, di bracci tesi al saluto nazista filmati da telecamere di tutto il mondo, di idranti e petardi, finiscono tutte con la stessa frase, « Merkel deve andare via » .
Lo dice anche Peter, un tassista sessantaduenne infuriato perché la moglie non può portare il cane a spasso lungo il fiume. « Portava il nostro labrador nel parco da quattordici anni. È stata molestata tre volte da migranti, adesso non ci va più. Ha paura » .
Il bilancio degli scontri di lunedì è pesante, per una città di duecentocinquantamila abitanti piombata nell’ennesima, irreale psicosi anti- profughi che ormai dilaga in Europa. Diciotto feriti tra i manifestanti, due tra i poliziotti, 47 denunce tra cui dieci per il saluto hitleriano. Pensare che a Chemnitz i richiedenti asilo sono cinquemila, il due per cento. Ma dopo l’assassinio del falegname 35enne per mano di due migranti, sui social media è partito il tam tam e secondo la polizia sassone moltissimi dei teppisti che hanno assediato il centro per un giorno e mezzo — i neonazisti si erano dati appuntamento proprio sotto alla statua di Marx — erano venuti da altre parti della Germania. Richiamati dalla prospettiva di scatenare una caccia al migrante che ha dominato le cronache tra domenica e lunedì e getta un’ombra su Chemnitz che difficilmente sarà dimenticata.
La cancelliera, il presidente della Repubblica Steinmeier e una miriade di politici di primo piano hanno condannato con parole ferme i fatti di Chemnitz, della città che fu intitolata negli anni del comunismo a Marx per onorare la sua lunga tradizione industriale, operaia. Hanno ricordato che « è lo Stato e solo lo Stato a occuparsi dei diritti e della sicurezza » ( Steinmeier), hanno espresso il loro « disgusto » o la loro indignazione per un’inaccettabile « giustizia- fai- da- te » (Merkel), ma l’impressione nella città che diede i natali a un grande poeta come Stefan Heym, è che siano voci inascoltate.
Persino Holger non vuole rivelarci il suo cognome perché non si fida dei giornalisti. Un’attitudine diffusa, qui. È un medico in pensione con la giacca da cacciatore marroncina, le scarpe bucherellate da farmacia, lo incrociamo nel luogo in cui hanno ucciso il falegname. A pochi metri dalla statua di Marx i casermoni dell’era comunista si affacciano su uno dei principali vialoni del centro come quinte minacciose. Sul luogo dell’accoltellamento, fiori e candele, qualche messaggio di cordoglio. E Holger ci confessa di essere venuto « a onorare il morto » .
Minimizza, sulle manifestazioni: « Non sono andato. Ma i neonazisti erano pochi, conosco molte persone perbene che ci sono venute » .
Minimizza anche sulla presenza dei profughi.
« Ovvio, laggiù nel parco sono in tanti, di sera creano qualche guaio, ma il problema non sono neanche loro. È la politica che li ha portati qui.
L’altr’anno una mia amica è finita per caso in una rissa tra siriani e si è rotta il femore. È stata in ospedale per settimane. Pensa che qualcuno delle autorità locali si sia affacciato, che qualcuno sia venuto a trovarla?
Nessuno. Qui a Est i cittadini non contano più nulla».

Repubblica 29.8.18
La provocazione del sindaco
"Le case di Berlino in vendita solo ai tedeschi"
di T.M.


BERLINO Il sindaco di Berlino, Michael Mueller, dichiara guerra alla speculazione immobiliare. E in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung
si spinge fino a ipotizzare un divieto per gli acquirenti stranieri. Sono anni che Berlino soffre di aumenti di prezzi delle case al ritmo di due cifre, cioè pari a dieci o venti volte il tasso di inflazione. Soltanto tra il 2016 e il 2017 la capitale tedesca ha registrato un’impennata del 20,5% secondo il "Global Residential Cities Index" della società di consulenza Knight Frank. Un record mondiale, tra le città importanti.
In realtà, al giornalista che gli chiedeva se la Nuova Zelanda può essere un modello — dopo un aumento dei prezzi delle case che ha raggiunto il 50% negli ultimi dieci anni che ha indotto il governo a rendere più complicato per gli stranieri comprarsi una casa — il borgomastro socialdemocratico si è limitato a dire che «ci stiamo pensando anche noi».
Quella di Mueller è una battaglia che rischia di arenarsi nelle aule di tribunale: difficile nell’Unione europea imporre un divieto generico contro gli stranieri nel mercato immobiliare. Soltanto la Danimarca ha una legge che limita enormemente la possibilità di comprare case a chi non abbia il passaporto danese. Ma Copenhagen pose come condizione sine qua non per la firma del Trattato di Maastricht del 1993 la possibilità di mantenere quell’eccezione.
Infine, secondo gli esperti la stretta contro i non-tedeschi sarebbe una misura anche incompatibile con la garanzia sulla proprietà ancorata nella Costituzione. In ogni caso Mueller ha ribadito anche ieri che «dobbiamo dichiarare una guerra senza quartiere agli speculatori immobiliari in città come Berlino». Berlino sta anche studiando modi per tagliare le agevolazioni fiscali per i fondi immobiliari.
E in ogni caso, l’assessore alla Finanza della capitale, Matthias Kollatz, sta lavorando a un pacchetto anti-speculazione che potrebbe essere approvato all’inizio dell’anno prossimo.
Una delle misure che potrebbero finire più realisticamente nel pacchetto è una stretta sugli appartamenti vuoti. Secondo Kollatz «immobili lasciati vuoti perché si specula sono inaccettabili a fronte dell’enorme pressione che esiste attualmente nel mercato». Il comune punta ad affidare più velocemente appartamenti lasciati vuoti ad agenti che li affittino.

Repubblica 29.8.18
Se l’America perdesse la libertà
di Paul Krugman


Poco dopo la caduta del muro di Berlino, un amico — esperto di relazioni internazionali — fece una battuta: «Ora che l’Europa dell’Est si è liberata dall’ideologia straniera del comunismo può tornare nel suo vero alveo storico: il fascismo».
Sembrava una frase acuta e spiritosa, ma nel 2018 non sembra più una battuta. Ciò che Freedom House definisce illiberalismo sta crescendo in tutta l’Europa orientale.
Comprese Polonia e Ungheria, Paesi membri dell’Ue, dove la democrazia come la intendiamo è già morta. In entrambi i Paesi i partiti di governo — Diritto e giustizia in Polonia, Fidesz in Ungheria — hanno istituito regimi che mantengono il modello delle elezioni popolari, ma hanno distrutto l’indipendenza della magistratura, soppresso la libertà di stampa, istituzionalizzato la corruzione su larga scala e delegittimato il dissenso.
Il risultato lascia prevedere un partito unico al governo.
E potrebbe accadere anche qui. Una volta, non molto tempo fa, la gente diceva che le nostre regole democratiche, la nostra orgogliosa storia di libertà, ci avrebbero protetti da una simile scivolata nella tirannia. Qualcuno lo dice ancora. Ma per credere una cosa del genere, oggi, bisogna rifiutarsi di vedere. Il Partito repubblicano è pronto, anzi ansioso di diventare la versione americana di Diritto e giustizia o Fidesz, e stabilirsi al potere.
Basta guardare che cosa sta succedendo.
In Carolina del Nord, dopo l’elezione di un democratico a governatore, i repubblicani hanno approvato una legge che ne diminuisce i poteri. In Georgia i repubblicani hanno usato pretesti fasulli sull’accesso degli elettori disabili per chiudere i seggi in un distretto nero.
In Virginia Occidentale hanno sfruttato alcune denunce di spese eccessive per mettere sotto accusa la Corte Suprema dello Stato e sostituirla con persone di fiducia. E questi sono solo alcuni casi. Ci sono molte storie simili, che rispecchiano una realtà: l’attuale Grand Old Party non si sente fedele agli ideali democratici e farà di tutto per consolidare il potere.
Che dire degli sviluppi a livello nazionale? Qui le cose diventano spaventose. Siamo sul filo del rasoio. Se cadiamo dalla parte sbagliata — se i repubblicani mantengono il controllo di entrambe le Camere del Congresso a novembre — diventeremo un’altra Polonia o Ungheria.
Molti critici di Trump hanno celebrato gli ultimi sviluppi legali, prendendo la condanna di Manafort e la dichiarazione di colpevolezza di Cohen come segni che il cerchio possa chiudersi sul criminale in capo. Ma ho provato un senso di terrore nel vedere la reazione repubblicana: di fronte alle innegabili prove del comportamento criminale di Trump, il partito ha serrato le fila attorno a lui.
Un anno fa sembrava possibile che ci fossero dei limiti alla complicità del partito, che sarebbe arrivato un punto in cui almeno alcuni avrebbero detto basta.
Ora è chiaro che non ci sono limiti: faranno tutto il possibile per difendere Trump e consolidare il loro potere.
Ma perché l’America, la culla della democrazia, è così vicina a seguire l’esempio di Paesi che recentemente l’hanno distrutta? Non parlatemi di "ansia economica". Non è questo che è successo in Polonia, che invece è cresciuta durante e dopo la crisi. E non è quello che è successo qui nel 2016: è stato il risentimento razziale, e non il disagio economico, a guidare gli elettori di Trump. Il fatto è che abbiamo la stessa malattia — il nazionalismo bianco impazzito — che ha già distrutto la democrazia in alcune nazioni occidentali. E siamo vicini al punto di non ritorno.

Corriere 29.8.18
La democrazia svanisce se diventa illiberale
di Sabino Cassese


Il vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano ha incontrato a Milano il primo ministro ungherese Viktor Mihály Orbán. Quest’ultimo ha dichiarato già da tempo che «i valori liberali occidentali oggi includono la corruzione, il sesso, la violenza» e che «i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sull’identità della persona». Ispirato da questi orientamenti, ha poi trasformato la televisione pubblica in un mezzo di propaganda governativa, limitato la libertà di stampa, l’autonomia universitaria e l’indipendenza dell’ordine giudiziario.
H a inoltre ridisegnato i collegi elettorali, fatto approvare una legge elettorale che gli consente di avere la maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento, con il 45 per cento dei voti, dato una svolta nazionalistica e anti-immigrazione al governo. Il maggiore esperto dei problemi ungheresi, la professoressa Kim Lane Scheppele, dell’Università di Princeton, ritiene che oggi l’Ungheria abbia una «costituzione incostituzionale» e il «Washington Post» qualche mese fa ha intitolato una sua analisi della situazione ungherese «la democrazia sta morendo in Ungheria e il resto del mondo dovrebbe preoccuparsi».
Orbán, tuttavia, è stato eletto e rieletto, e gode quindi di un consenso popolare. Perché allora tante voci preoccupate? Basta il voto popolare per legittimare limitazioni delle libertà?
Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una «democrazia illiberale». Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale.
La democrazia non può fare a meno delle libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso o dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’Interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Ruggiero, nella sua «Storia del liberalismo europeo», i principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi. Quindi, «una divisione di province tra liberalismo e democrazia non è possibile». Una «democrazia illiberale» non è una democrazia.
Tutto il patrimonio del liberalismo è parte essenziale della democrazia, così come oggi lo è quello del socialismo. Queste tre grandi istanze che si sono succedute negli ultimi due secoli in Europa e nel mondo, fanno ormai corpo. Il liberalismo con le libertà degli uomini e l’indipendenza dei giudici. L’ideale democratico, con l’eguaglianza e il diritto di tutti di partecipare alla vita collettiva (suffragio universale). Il socialismo con lo Stato del benessere e la libertà dal bisogno (sanità, istruzione, lavoro, protezione sociale). Questi tre grandi movimenti, pur essendosi affermati in età diverse, e pur essendo stati inizialmente in conflitto tra loro (come ha spiegato magistralmente, nel 1932, Benedetto Croce nella sua “Storia d’Europa nel secolo decimonono”) fanno ora parte di un patrimonio unitario e inalienabile come è dimostrato da due importanti documenti internazionali, il Trattato sull’Unione europea e la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite. Il primo dispone che l’Unione “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto”. Il secondo che le Nazioni Unite si impegnano a «promuovere la democrazia e a rafforzare il rispetto per tutti i diritti umani e le libertà fondamentali».
L’Italia è ora in un punto di passaggio critico, nel quale si decide il futuro delle sue libertà e la sua collocazione internazionale, tra quelli che sono stati per secoli i nostri «compagni di strada» ed esempi (Francia, Germania, Regno Unito) o nuovi alleati. Che significato possiamo attribuire a un «incontro esclusivamente politico e non istituzionale o governativo», ma tenuto in Prefettura, tra il primo ministro ungherese e un vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano?

Repubblica 29.8.18
Intervista s Pietro Bartolo
"Ho curato 300mila persone e vi dico che la Libia è un porto di morte"
di Emanuele Lauria


PALERMO. Quelle immagini che raccontano violenze, torture e soprusi le ha viste per primo: gliele hanno consegnate alcuni dei migliaia di migranti che negli ultimi anni ha visitato a Lampedusa. E lui, il dottor Pietro Bartolo, responsabile del poliambulatorio dell’isola al centro del Mediterraneo, protagonista del film di Rosi "Fuocoammare" che nel 2016 vinse l’Orso d’oro di Berlino, i video li ha girati al cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, che a sua volta li ha fatti avere alla Santa Sede. Così le testimonianze degli orrori in Libia sono giunte davanti agli occhi di Papa Francesco: «Chi fugge da quel Paese non fugge da un porto sicuro, come dice Salvini. Fugge da un porto di morte».
Dottore, come ha avuto quelle immagini?
«Me le hanno date i migranti che ho curato, in diverse occasioni, quando ho cercato di capire da dove originavano le tremende ferite rimediate».
Cosa ha visto?
«Ustioni, scuoiamenti, torture con bastoni, decapitazioni. Sono scene inguardabili. Guardi, io ho assistito 300mila migranti e probabilmente ho un altro triste primato: sono il medico che ha dovuto compiere più ispezioni cadaveriche. Ma davvero, non si può restare impassibili davanti a queste immagini. È proprio troppo».
In quale occasione ha consegnato i file al cardinale
Montenegro?
«In diverse occasioni. Il cardinale, d’altronde, aveva anche altro materiale simile. Con Montenegro, persona di straordinaria sensibilità, ho un grande rapporto. Lui è venuto più volte a Lampedusa e ha assistito agli sbarchi, ci siamo incontrati per un convegno in Sardegna poche settimane fa. Gli ho dato i video che erano nei cellulari dei migranti assieme ad altre foto che ho scattato in ospedale per documentare le condizioni fisiche di questi disperati: le ustioni da carburante, in particolare, sono terribili. Ho visto persone sfigurate, irriconoscibili».
Sapeva che quelle testimonianze sarebbero state inviate in Vaticano?
«No. Sinceramente mi spiace un po’ che anche il Papa possa essere rimasto traumatizzato da immagini come quelle. Spero però che attraverso il Pontefice possa esserci maggiore sensibilità verso il dramma di questa gente – nigeriani, eritrei, somali – che diventa merce di scambio dei trafficanti libici».
Il ministro Salvini sostiene che la Libia è un porto sicuro.
«Quello è un porto di morte. Mi creda, questi migranti scappano proprio dall’orrore dei centri di detenzione libici, dove i trafficanti gliene fanno di tutti i colori, accanendosi per punizione o per diletto in particolare sui neri, sui subsahariani. La Diciotti, prima di far rotta su Catania, è rimasta 4 giorni a Lampedusa, dove sono sbarcati 13 fra bambini e malati.
Quando hanno saputo del rischio di un ritorno in Libia si sono messi a piangere, a supplicare anche me».
Cosa ha pensato poi vedendo la nave bloccata a Catania?
«È stato disumano tenere a bordo tutti quei giorni migranti provenienti da queste esperienze drammatiche. Avevo firmato una petizione al capo dello Stato e a Salvini per farli scendere dalla Diciotti».
Non pochi sostengono la linea dura di Salvini. Pensa ci sia un clima di intolleranza nel Paese?
«Gli italiani non sono cattivi, sono cattivamente informati. Sono vittime di un bombardamento mediatico continuo di chi parla di questi migranti come di violenti, malati, ladri di lavoro. C’è una campagna di odio basata sulla menzogna. È giusto lottare contro chi specula sull’accoglienza, non contro queste persone che fanno pure reddito, purtroppo in nero, e finiscono nelle mani della malavita. Parliamoci chiaro: i posti di lavoro li hanno fatti scomparire non gli extracomunitari, ma i governi - anche quello precedente - che hanno vessato gli imprenditori facendo chiudere tante aziende»,
Lampedusa, un anno dopo la mancata rielezione della sindaca Nicolini, rimane un modello?
«Guardi, al di là dei suoi amministratori, quest’isola rappresenta un popolo straordinario, che ha sempre la porta aperta. il nostro motto è scritto sul muro del molo Favaloro: proteggere le persone, non i confini».

il manifesto 29.8.31
Wannsee 1942 e quella conferenza contro l’umano
«Verso la soluzione finale», un saggio per Einaudi di Peter Longerich, docente di storia tedesca a Londra
A Villa Minoux sulle sponde del Wannsee si svolse la conferenza del 1942
di Claudio Vercelli


Della conferenza di Wannsee, tenutasi nella Berlino nazista il 20 gennaio 1942, in piena guerra, quei pochi che la conoscono spesso ritengono di sapere tutto quello che occorre conoscere di essa, mentre gli altri ne ignorano integralmente la sua stessa esistenza. Va quindi subito detto in cosa consistette, almeno sul piano formale. Poiché la sua comprensione ci restituisce il quadro all’interno del quale andò definitivamente maturando la politica del genocidio razzista. La materiale disponibilità di una copia del verbale della conferenza, redatto a caldo da Adolf Eichmann e conservatosi fino alla sua scoperta, nel 1947, rappresenta un’eccezione rispetto al calcolato oblio con il quale altri eventi di similare portata furono letteralmente resettati dalle memorie dei protagonisti nonché cancellati dal repertorio documentario. Fu infatti un simposio ristretto, aperto a una quindicina di alti funzionari e dignitari delle amministrazioni del Terzo Reich accomunate dall’essere coinvolte nell’identificazione di contenuti, pratiche e modalità della «soluzione finale della questione ebraica».
TRE ERANO I GRUPPI di partecipanti: gli esponenti degli organi statali, che garantivano la «legalità amministrativa» della scelta di assassinare undici milioni di potenziali vittime; i delegati delle autorità civili di occupazione, che dovevano gestire i luoghi in cui il crimine di massa si sarebbe consumato; i funzionari delle SS, in rappresentanza dei loro uffici centrali o di quelli distaccati nelle zone invase, ai quali era richiesta la competenza tecnica e l’azione concreta. La divisione dei ruoli non era per nulla armoniosa, scontando una vera e propria competizione tra gruppi corporativi. In questo campo di tensioni, spicca la figura di Reinhardt Heydrich, capo della polizia di sicurezza, officiante della seduta e vero architetto della «sostenibilità» dell’omicidio di massa. Durante i brevi lavori della conferenza non si decise il merito del genocidio degli ebrei. Gli esponenti ministeriali, figure altolocate nella piramide burocratica ma non al supremo vertice politico, non ne avevano i titoli, le attribuzioni e men che meno la delega. Né si pervenne alla definitiva identificazione del «come» procedere alla distruzione dell’ebraismo europeo. I fatti si erano già incaricati di dimostrare che nessuna procedura unitaria era fattibile se non ci si fosse costantemente confrontati con i continui mutamenti di scenario: esigenze belliche della Germania, disponibilità di mezzi di trasporto, competizioni tra amministrazioni naziste, conflitti di ruoli tra decisori ai massimi vertici istituzionali ma – soprattutto – l’oracolare «volere del Führer», che gli astanti erano chiamati a interpretare e tradurre in fatti concreti.
SEMMAI SI TRATTÒ di un evento all’insegna di un duplice movente: la corresponsabilizzazione per compromissione delle amministrazioni partecipanti e la delimitazione reciproca delle loro sfere di influenza.
Più che parlarci esclusivamente della volontà omicida del nazismo la conferenza di Wannsee ci restituisce quindi lo spaccato di un regime al medesimo tempo dittatoriale e policratico, dove la promozione e il perseguimento di obiettivi sempre più enfatici, estranei alla stessa condotta bellica, diventava il punto di raccordo e di sintesi tra l’ampissima articolazione di poteri e sottopoteri che costituivano lo Stato hitleriano. Peter Longerich nel suo ultimo lavoro dedicato a Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee (Einaudi, pp. 208, euro 26), pondera i fattori di quadro, restituendo al lettore il senso della complessità che stava alla base della definitiva trasformazione della Germania in una società omicida.
L’autore, docente di storia tedesca presso l’Università di Londra, e fondatore del Royal Holloway’s Holocaust Research Centre, in Italia è già conosciuto per un’ampia biografia dedicata a Joseph Goebbels, interamente costruita sui diari del ministro della propaganda. In questo nuovo libro si sforza di dare conto dei soggetti interessati, dei passaggi così come della mediazioni che compongo il processo decisionale che portò allo sterminio degli ebrei d’Europa.
L’INTELAIATURA e le procedure che legittimarono un tale esito, infatti, demandano perlopiù a eventi, gesti, affermazioni consegnati alla parola non scritta. Il doppio binario di un percorso che da una parte si poggiava sulle strutture dello Stato legale e, dall’altra, si rifaceva alla condizione di eccezione, ha reso difficile, spesso imprevedibile, non la comprensione dei risultati, ossia lo sterminio medesimo, bensì l’identificazione dei transiti intermedi, sottoposti ad un sistematico occultamento. Sono in realtà questi ultimi, invece, che ci restituiscono l’ampia compromissione di una pluralità di burocrazie nella realizzazione di un crimine ineguagliabile. Del pari, analizzando come fa Longerich documenti e fonti disponibili, delle quali il verbale della conferenza era solo un pur importante tassello, diventa molto più comprensibile il reticolo di apparati che, prima ancora di impegnarsi nella prassi omicida, fecero sì che essa potesse concretamente assumere una plausibilità pseudo-morale, per poi trasfondersi in azioni tanto concrete quanto continuative. Anche da ciò deriva al lettore la netta percezione della natura «moderna» dello sterminio, in quanto crimine burocratico, esercitato in una logica di totale anestetizzazione etica, dove i paradigmi dell’efficacia e dell’efficienza si sostituiscono a ciò che resta di una residua coscienza umana.

il manifesto 29.8.31
Un «salto» verso le contraddizioni dell’esistenza
Sergio Givone: “Quanto è vero dio”
Filosofia.Solferino editore
di Sonia Gentili


Con Quanto è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino editore, pp. 186, euro 16) Sergio Givone, noto e importante filosofo contemporaneo, affronta il grande tema dell’irrinunciabilità del pensiero religioso per la tradizione filosofica occidentale che ha affermato la morte di Dio. È una grande questione «russa» (in Tolstoj, Dostoevskij, Bulgakov il mistero del finalismo cristiano segna il limite dialettico del fine comunista progettato dall’uomo e per l’uomo) del tutto attuale: la lettura apocalittica di regimi novecenteschi intesi come occasione di svelamento di una verità e di un fine diversi, quando non opposti, rispetto a quelli previsti e programmati dalla ragione umana è stata resa in anni recenti da Massimo Cacciari e da Giorgio Agamben. Givone si richiama a questa lettura del momento politico, e siccome essa presuppone e non risolve il problema del male nella storia, sorretto da secoli di teologia razionalistica il filosofo affronta il rapporto tra Dio e il male risolvendolo col principio di non contraddizione: poiché Dio è amore, dire che Dio vuole il male significherebbe dire che «è l’Amore a odiare, il che è palesemente contraddittorio», scrive l’autore.
L’ARGOMENTO chiede e merita di essere preso sul serio; propongo dunque qualche spunto per future discussioni. È ammissibile l’applicazione al divino di categorie logiche umane? Davvero Dio è costretto – cioè «necessitato» – dal principio di non contraddizione? Il più geniale interprete novecentesco del mistero divino, Karl Barth, ci ricorda che la trascendenza di Dio è anzitutto radicale irriducibilità alla ragione umana.
IL CARATTERE anti-logico o alogico o paradossale del mistero divino comporta il suo essere non sintesi ma simultanea coesistenza: in questo senso Dio, spiega Gregorio di Nazianzo (sec. IV d.C.), Dio è pelagos ousìas, cioè «mare di essere» (di qui Dante in Paradiso, I, 112-13: «onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar dell’essere»). Il mistero di Dio è insomma anche quello della compresenza di opposti che si fondano reciprocamente recando in questo fondamento non solo il principio della reciproca sussistenza ma anche quello della reciproca negazione. Inoltre, anche ammettendo l’applicazione a Dio di categorie logiche, proprio sul piano logico l’essenza correlativa di due termini che si negano a vicenda e non sussistono l’uno senza l’altro costituisce il punto debole del principio di non contraddizione: il concetto non sussiste se non autocontraddicendosi, cioè implicando nel suo sussistere ciò che lo delimita e lo nega. Applichiamo il ragionamento a Dio: se è amore, implica in sé il principio di delimitazione del bene, cioè comporta e permette il correlativo sussistere del male.
CONCLUSIONE: la relazione tra Dio e il male o è, a norma di logica, positiva e sostanziale, o è, a norma di irriducibilità divina alla ragione umana, inconoscibile. È solo questa seconda opzione a lasciar spazio al «salto» della fede, cioè all’accettazione del mistero e alla «scommessa» sul bene, oppure al «salto» etico e laico di Albert Camus: poiché la sostanzialità del male è innegabile, combatterlo è una inconcludente fatica di Sisifo eppure è necessario per l’uomo «immaginare Sisifo felice»: agire e combattere come se il male fosse eliminabile. Alla possibilità generale – e perciò, in sostanza, astratta – che il male sia nell’uomo e coincida con una sua colpa, quella cioè del peccato originale ripresa da Luigi Pareyson con la celebre domanda sul perché «un essere malvagio e meschino come l’uomo dovrebbe avere un qualche diritto alla felicità», Camus avrebbe risposto che di fronte alla sofferenza concreta di un singolo innocente – di questo o quel bambino, per dire – non c’è ragionamento che tenga. Conoscere attraverso la sofferenza significa riconoscere la propria colpa, dice Givone (è l’intuizione di Antigone secondo cui «poiché soffriamo, capiamo che abbiamo sbagliato»), ma quanto si è detto comporta una conclusione opposta e non meno tragica, in base alla quale Antigone direbbe: poiché soffriamo essendo innocenti, capiamo che c’è un errore, e non è il nostro.

Il Fatto 29.8.18
Syriza, Tsipras punta sul fedele Skourletis
Grecia - Dopo l’addio della Trojka il premier cerca un rilancio cambiando la guida del partito
di Wanda Marra


“L’Acropoli e gli altri siti archeologici intorno, il cuore dell’antica Atene, sono il luogo dove emergono gli aspetti essenziali dell’identità europea: Democrazia, Filosofia, Teatro, Scienza, Arte”. In greco e in inglese, la scritta all’ingresso della rocca dominata dal Partenone, sembra un monito a presente e futura memoria, una sorta di ponte tra la bellezza simboleggiata dall’antica Grecia e la disperazione dovuta alla crisi economica. Ora Alexis Tsipras tenta un rilancio, proprio in vista della prossima sfida dell’Europa matrigna: le elezioni di maggio, primo test dopo l’uscita dall’austerità. Dietro l’angolo, anche il voto nazionale. Nessuno può prevedere se arriverà prima o dopo le Europee e neanche come andrà: i sondaggi nelle ultime consultazioni hanno sempre sbagliato. Tsipras però sa che Nuova Democrazia, la destra greca, batterà sui sacrifici da lui imposti alla popolazione per tornare al potere.
E così cambia partito e studia interventi sociali. Lunedì il comitato centrale di Syriza ha eletto segretario con l’87% dei voti Panos Skourletis, ministro dell’Interno, a fianco di Tsipras dagli inizi, spesso utilizzato come carta d’emergenza per sostituire altri membri dell’esecutivo troppo ribelli o considerati inadeguati (ultimamente ha preso gli interim della Protezione civile, dopo le dimissioni di Nikos Toskas in seguito agli incendi di luglio). Si aspetta per il fine settimana un rimpasto di governo. Ma soprattutto, il premier sta lavorando alla Finanziaria. Punti chiave dovrebbero essere l’estensione del salario minimo da 591 a 750 euro, anche per i giovani sotto i 25 anni, in deroga alla proroga del memorandum, oltre alla riduzione dell’Iva e delle tasse per i ceti medi.
E poi, il ritorno dei contratti collettivi, la facilitazione del credito alle piccole e medie imprese. Inoltre, l’obiettivo è non ridurre ulteriormente le pensioni, come veniva richiesto nel memorandum, grazie al saldo primario che ammonta a circa 2 miliardi di euro.
Syriza cura anche la sua rete internazionale. Osservata speciale, l’Italia. I rapporti tradizionali sono con LeU, Sinistra italiana, Rifondazione. Ma si guarda non senza perplessità al Pd per capire cosa deciderà di fare e se un’interlocuzione è possibile. In passato, Tsipras aveva sperato che Renzi facesse asse con lui: nessun segnale è arrivato, dicono a posteriori nel partito, l’ex premier ha preferito fare sponda con la Merkel e con Hollande.
Molta curiosità anche per i Cinque Stelle: Syriza vorrebbe aprire un dialogo con Roberto Fico, nel tentativo di intercettare l’ala sinistra del Movimento. Appuntamento dal 9 all’11 novembre a Bilbao, al Forum della Sinistra europea: ci saranno gli spagnoli di Podemos, i tedeschi di Die Linke, gli ambientalisti del Nord Europa, il Partito comunista francese. Sono partiti gli inviti anche per James Corbyn e per il governo di Costa in Portogallo. Obiettivo, costruire una rete, al di fuori del Pse (considerato politicamente troppo ambiguo), che si opponga alla “Destra alternativa”, che va da Salvini a Orbàn. Come per tutta la sinistra mondiale, una strada in salita.

il manifesto 29.8.31
Australia: No Way per migranti e aborigeni
Australia. Nella «civile» Australia 17 migranti arrivati dopo 1.400 giorni di tolleranza zero sono stati «catturati». In carcere - negli ultimi dieci anni - sono morti ben 147 indigeni, alcuni bambini
di Emanuele Giordana


Diciassette migranti vietnamiti che per giorni hanno tentato di raggiungere le coste australiane sono stati «catturati» in una zona di mangrovie infestata da coccodrilli del Far North Queensland. Catturati è la parola giusta perché il sistema di sorveglianza australiano sta già provvedendo a spedirli a Christmas Island, un’isola a 1500 chilometri dalla costa dove, come a Nauru e Manus in Papua Nuova Guinea (la «Libia» australiana), si trovano i centri di detenzione per chi ha forzato il varco marittimo.
È LA PRIMA VOLTA che succede in quattro anni: una falla nel sistema di sorveglianza che, nelle parole di Peter Dutton, il ministro dell’Interno di Canberra, «per 1.400 giorni» ha garantito la tolleranza zero dell’Australia verso chi vi cerca rifugio. Quella politica di No way che piace tanto al suo omologo italiano. Ma non sono solo i migranti a passarsela male nel grande Paese dell’Oceania.
In questi giorni, già al centro di polemiche per il recente rimpasto di governo, una denuncia del Guardian sui decessi degli aborigeni nelle galere australiane sta surriscaldando il clima. Il giornale britannico ha documentato con un’accurata inchiesta la violenza costante verso i nativi. Violenza connotata, oltre che dalla negazione del diritto, anche dalla stessa venatura razzista che si proietta poi nelle politiche di protezione dai migranti.
Una violenza che si è consumata ai danni di 147 aborigeni – alcuni dei quali bambini – uccisi negli ultimi dieci anni dal sistema carcerario. L’inchiesta – il cui risultato è stato bollato dall’opposizione come «vergogna nazionale» – ha fatto chiedere ai gruppi indigenisti di consentire un immediato monitoraggio indipendente di tutti i centri di detenzione, specie se vi sono prigionieri nativi: benché solo il 2,8% della popolazione australiana si identifichi come indigena, gli aborigeni costituiscono il 27% di quella carceraria, il 22% dei decessi in carcere e il 19% delle morti durante «custodia» in centri di polizia. Le notizie riferite dal Guardian arrivano poi in un momento in cui è in corso un’inchiesta nell’Australia del Sud per la morte di Wayne Morrison, un uomo che è morto in ospedale tre giorni dopo un alterco con le guardie penitenziarie di una prigione di Adelaide.
UN FILMATO RESO PUBBLICO lunedì (disponibile sul sito del giornale britannico e su Youtube) mostra l’incidente che vede oltre una dozzina di funzionari di polizia affollare il corridoio dove alcuni colleghi stanno avendo ragione di Morrison. Nessuno interviene se non per dar man forte alle guardie.
MIGRANTE O GALEOTTO, peggio ancora se aborigeno, la vita è dura nella civile Australia, presa come modello dai fautori della tolleranza zero. Oltre 400 aborigeni sono morti dalle conclusioni di una Commissione reale che, quasi trent’anni fa, aveva delineato le modalità che avrebbero dovuto prevenire il decesso di chi si trova in carcere con l’aggravante di essere un nativo.
MA LE CONDIZIONI non sembrano affatto migliorate: gli aborigeni vengono trattati peggio sia sul piano sanitario sia sotto il profilo giudiziario. Sono i problemi di salute mentale a essere all’origine di quasi la metà dei decessi sotto custodia, mentre alcune famiglie hanno aspettato fino a tre anni per i risultati di inchieste relative al caso dei loro parenti.
LA SENATRICE DEI VERDI Rachel Siewert ha definito l’inchiesta del Guardian «un’iniziativa incredibilmente importante che fa luce su un problema devastante». Pat Dodson, un senatore laburista e aborigeno, ha commentato l’inchiesta con parole che sentiamo ogni giorno anche in Italia: «Come nazione stiamo andando indietro» La polemica per altro infuria su tutti i fronti dopo il rimpasto di governo di qualche giorno fa, che agli australiani non è affatto piaciuto e che ha visto il nuovo primo ministro Scott Morrison succedere a Malcolm Turnbull dopo una votazione del gruppo parlamentare del Partito liberale in quella che la stampa locale ha definito una civil war: una guerra interna partita dalla fazione più conservatrice contro quella «moderata» di Turnbull.
L’ultimo sondaggio pubblicato dall’Australian premia i laburisti che – nelle preferenze tra i due partiti – prevalgono con il 56% sul 44%. E il leader laburista Bill Shorten prevale nettamente su Morrison come premier futuro col 39% contro il 33 del rivale.
MORRISON, famoso per le battaglie contro la legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso e che era arrivato a proporre che fosse consentito ai genitori di allontanare i bambini dalle classi se si discuteva di unioni «non tradizionali», è uno dei grandi fautori del pugno di ferro: quando nel 2010, quarantotto richiedenti asilo morirono nelle acque della Christmas Island, Morrison criticò la decisione del governo laburista di pagare il viaggio a Sydney ai parenti delle vittime per i funerali, sostenendo che lo stesso privilegio non era esteso ai cittadini australiani (prima gli australiani!). Nel 2013 poi ha lanciato l’operazione Sovereign Borders, la nuova strategia del governo per impedire l’ingresso di imbarcazioni non autorizzate nelle acque australiane.
CAMBIERANNO LE COSE se i laburisti dovessero vincere? La domanda riguarda non solo chi è aborigeno o chi cerca di sbarcare in Australia ma anche, come abbiamo visto, chi è in galera: 40mila nelle prigioni nazionali, gli oltre 200 migranti detenuti a Christmas Island e i 1.600 profughi in «custodia» a Nauru e Manus.

La Stampa 29.8.18
Il ministro: “A settembre cambierò la maturità”
di Flavia Amabile


Da settimane è in corso al Ministero il lavoro di smontaggio della Buona Scuola del governo Renzi. Dall’alternanza al piano di reclutamento pluriennale il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, indicato dalla Lega, racconta la scuola che verrà.
Avete modifiche allo studio per la maturità?
«È un lavoro che stiamo facendo con gli uffici del Ministero. Lo dettaglieremo a decisioni prese e, comunque, entro settembre. L’esame è sempre un tema delicato che mette in fibrillazione ragazzi e famiglie».
Il nuovo anno scolastico sta per iniziare, quali saranno le differenze che vorrebbe apportare rispetto agli anni precedenti?
«Intanto lavoro per una partenza ordinata. È un obiettivo serio e concreto che ci siamo dati, fin dal mio insediamento, insieme agli Uffici centrali e periferici del Ministero. Certamente è un lavoro complesso. E va detto con chiarezza che si svolge in condizioni molto difficili, che ereditiamo dal passato. La situazione delle scuole senza un dirigente – abbiamo oltre 1.700 reggenze – è frutto di sette anni senza concorsi. Si potevano bandire prima. Le carenze di insegnanti in alcune classi di concorso e sul sostegno sono l’eredità di gestioni miopi e di decisioni prese a rilento. Stiamo lavorando ad un piano di reclutamento pluriennale per arginare le emergenze e superarle».
Nonostante gli annunci e le promesse nel contratto di governo, per le maestre con diploma magistrale la soluzione è ancora lontana.
«Le cose non stanno esattamente così. Facciamo chiarezza. Con il decreto legge dignità abbiamo dato una prima importante risposta alla questione dei diplomati magistrali che non è stata affrontata per mesi dal governo precedente. Con le norme contenute nel decreto siamo intervenuti per consentire l’avvio del prossimo anno scolastico senza stravolgimenti o intoppi. In Parlamento è stato poi introdotto un emendamento specifico per questi insegnanti. Per loro è previsto un concorso straordinario. C’è un impegno preciso a risolvere la questione in tempi brevi».
La questione vaccini rischia di creare molta confusione al ritorno in classe tra autocertificazione richiesta dal governo, la bocciatura dei pediatri che ricordano come non sia ammissibile questa procedura in campo sanitario e le proteste dei presidi.
«Nessuna confusione. Eventuali responsabilità connesse ad autocertificazioni non veritiere ricadono esclusivamente sugli autori, non sui presidi. Nessuno scenario catastrofico. Lavoriamo insieme per tutelare al contempo il diritto alla salute e quello all’istruzione di tutti i bambini».
Le graduatorie sono ancora molte, tutte operative e piene di docenti in attesa. Sembra una situazione sempre più complicata. È impossibile azzerare le graduatorie? È impossibile superare la supplentite?
«Quella scolastica è una macchina complessa. Dobbiamo fare ordine. Ma dobbiamo agire nei tempi giusti, con un’analisi approfondita dei dati e delle questioni aperte. Il sistema scolastico nazionale negli ultimi decenni è stato caratterizzato da un precariato storico endemico che ha creato molti problemi. Non va bene. La regola infatti deve essere quella del docente di ruolo. Per questo, dobbiamo ricominciare a bandire regolarmente concorsi, analizzando i bisogni effettivi del sistema».
I concorsi regionali penalizzano le regioni del Sud dove non ci sono posti. Che cosa accadrà agli insegnanti meridionali? Condannati a rimanere supplenti o a cambiare lavoro? E ai meridionali che insegnano al Nord? Nessuna speranza di avvicinarsi a casa?
«Vogliamo un sistema di istruzione efficiente e di qualità in tutto il Paese. Nessuna penalizzazione del Sud. I concorsi che bandiremo terranno conto delle esigenze del sistema cercando di evitare di creare nuovo precariato. Diremo con trasparenza e chiarezza dove c’è più necessità di insegnanti, dove sono i posti. Non dovrà mai più accadere quello che è successo con la legge 107 del 2015, che ha provocato lo sradicamento improvviso e forzato di migliaia di docenti dal proprio territorio di appartenenza. Daremo regole certe. E lavoreremo per correggere le storture del passato».
Ha annunciato di voler modificare alcuni pezzi della Buona Scuola. Che cosa cambierà?
«Siamo già intervenuti cancellando la cosiddetta “chiamata diretta” degli insegnanti. Era stata attuata male. Ci siamo dati un metodo: analizzare nel dettaglio le criticità, studiare i dati, definire correttivi e condividerli con il mondo dell’istruzione. È così che agiremo per modificare ciò che non ha funzionato della legge 107. Stiamo lavorando anche per modificare il Piano nazionale scuola digitale, in modo da renderlo veramente efficace e non un contenitore vuoto, come spesso è avvenuto finora».
Già nel contratto di governo avete annunciato modifiche all’alternanza scuola-lavoro: pensate di renderla volontaria e di variare il numero di ore?
«Ne stiamo definendo meglio gli obiettivi per dare indicazioni precise a tutti gli attori coinvolti, i tempi, il minimo delle ore, le funzionalità. È una forma di orientamento importante per i ragazzi, ma deve essere di qualità. Attuarla senza adeguati strumenti significa dare seguito ad un mero adempimento. Siamo già partiti con la revisione delle linee guida e procederemo via via introducendo nuove migliorie».

Corriere 29.8.18
Il cenno fatale di monna Bice
Beatrice e l’amore con Dante Alighieri: il primo incontro da bambini e la folgorazione all’età di 18 anni quando entrambi erano già sposati per effetto di nozze combinate La morte prematura di lei e la definitiva ispirazione del poeta
di Paolo Di Stefano


on c’è da augurare a nessuna giovane donna di diventare musa di un grande poeta, perché la fama eterna consegnata alle rime troppo spesso ha i suoi risvolti di autentica iella: la tanto gentile e onesta Beatrice morì poco più che ventenne; la nobildonna francese Laura de Noves, che fu il tormento di Petrarca, non arrivò ai quaranta; la povera figlia del cocchiere, Teresa Fattorini, diventata Silvia nella famosa canzone leopardiana, fu vittima della tisi a soli 21 anni...
Qualcuno ha pensato che si trattasse del frutto di una fantasia fin troppo poetica. Invece una vita, pur breve, Beatrice Portinari l’ha vissuta davvero. Chi era? Nel suo romanzo giovanile, la Vita nuova, Dante Alighieri ne indica (occultamente) l’anno di nascita, 1266: il primo folgorante incontro tra i due avviene quando lei ha otto anni e quattro mesi e Dante, nato tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265, ne compie nove. Siamo dunque nella primavera del 1274, mentre il secondo incontro avverrà allo scoccare dei diciott’anni: è di fronte al saluto e alla conseguente visione estatica che Dante cade nel deliquio e forse nello stato convulsivo tipico di un epilettico prima di addormentarsi e avere la premonizione, in sogno, della dipartita dell’amata.
Con un contorto giro mentale, fatto di complicate combinazioni numeriche centrate sul 9 e di allusioni allegorico-spirituali, il poeta specifica la data e quasi l’ora esatta della morte: un’ora dopo il tramonto dell’8 giugno 1290. Fu un evento di certo doloroso per Dante, il quale lo enfatizzò al punto da scrivere che quella morte precipitò nel lutto l’intera città di Firenze. Fatto sta che Beatrice defunta diventerà, per il poeta, l’ombelico del mondo (non solo poetico) e soprattutto dell’altro mondo.
La testimonianza più attendibile su «monna Bice» si deve a Giovanni Boccaccio, che la definisce «figliola di un valente uomo chiamato Folco Portinari, antico cittadino di Firenze» e «moglie d’un cavaliere de’ Bardi, chiamato messer Simone». La conferma di tali informazioni è arrivata dal ritrovamento del testamento di Folco, datato 15 gennaio 1288, dove si assegnavano 50 fiorini alla figlia Bice, sposata, appunto, con messer Simone dei Bardi.
Famiglia di ragguardevole sostanza, proveniente dalla Romagna e dedita al commercio e alla finanza, i Portinari risiedevano nello stesso sestiere degli Alighieri ed erano, come loro, politicamente affiliati ai Cerchi, futuri Neri. Alla generosità di Folco, morto il 31 dicembre 1289, fa riferimento Dante nella Vita nuova, alludendo al suo impegno nella fondazione dell’ospedale Santa Maria Nuova, la maggiore istituzione assistenziale fiorentina. Nello stesso libro, il fratello di Beatrice, Manetto, viene definito il secondo tra i suoi amici dopo Guido (Cavalcanti).
Al pari della futura Laura petrarchesca (maritata con un marchese), anche Beatrice era dunque sposata, così come Dante: ma il legame matrimoniale non impediva all’uno di amare l’altra e di essere (probabilmente) ricambiato. Condizione opposta rispetto a quella sofferta dai poveri Paolo e Francesca, gli adulteri che lo stesso Dante condanna all’Inferno tra i lussuriosi.
Ed era sposata bene, Beatrice: perché i Bardi erano una famiglia ben più illustre dei Portinari (e ovviamente degli Alighieri), essendo titolari di una delle maggiori compagnie bancarie del tempo (commissionarono a Giotto gli affreschi della cappella di famiglia in Santa Croce).
«Insomma — scrive Marco Santagata nella sua biografia dantesca — sposando il cavaliere Simone dei Bardi, Beatrice è entrata a far parte della più aristocratica élite di Firenze».
Ben altro prestigio rispetto al mediocre casato degli Alighieri che negli anni avrebbe espresso un solo priore (lo stesso Dante nel 1300), mentre Simone ricopriva alte cariche pubbliche ed era capitano del popolo a Prato già nell’anno in cui Beatrice morì forse per parto (il primo).
Neppure al poeta, per la verità, mancò l’occasione di accasarsi adeguatamente: era ancora bambino, Dante, quando la famiglia cominciò a cercargli un buon partito. E lo trovò ben presto nella ragazzina Gemma, coetanea di Dante, della potente famiglia dei Donati: un altro matrimonio combinato per ragioni politiche ed economiche sin dal 9 febbraio 1277, data in cui davanti al notaio si fissa l’ammontare della dote della promessa sposa, allora dodicenne come il futuro marito.
Un matrimonio felice? Boccaccio lo esclude: secondo lui, gli Alighieri avevano convinto il rampollo a sposarsi per consolarsi della morte di Beatrice. Ma è falso, visto che le nozze si celebrarono molto prima, tra il 1283 e il 1285. E fecero comunque un grande sbaglio, aggiunge quella malalingua di ser Giovanni. I contrasti tra i coniugi certo non mancarono, ed è vero che dopo l’esilio i due non si sarebbero più incontrati.
Del resto, il Divin Poeta era già divino e aveva in testa soltanto la «donna graziosa» che lo avrebbe guidato nelle sfere celesti.

Corriere 29.8.18
Soltanto Bontempelli disse no
1938-2018 Il paradosso dello scrittore che non si adeguò all’antisemitismo e fu poi sanzionato come fascista
Su 896 docenti universitari, fu l’unico a rifiutare la cattedra di un ebreo espulso
di Gian Antonio Stella


E solo Massimo Bontempelli disse no. Ottant’anni dopo, a rileggere la storia infame dei «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» firmati dal re Vittorio Emanuele III nella tenuta di San Rossore il 5 settembre 1938 («la data della vergogna per la cultura italiana», ha scritto lo storico Giovanni Belardelli) spicca il silenzio assordante degli 895 docenti universitari su 896 che dissero sì. E accettarono servili e contenti (quando non sgomitarono per contendersi il bottino) quelle cattedre regalate loro grazie alla espulsione dei professori ebrei.
Una pagina nera. Diventata nerissima quando, a guerra finita, i docenti espulsi, costretti all’esilio o scampati ai campi di sterminio, chiesero di riavere il loro posto. E si trovarono davanti a una montagna tale di ostacoli burocratici, accademici e politici (dice tutto il titolo del decreto del 27 maggio 1946: «Riassunzione in ruolo di professori universitari già dispensati (sic!) per motivi politici e razziali») che molti preferirono nauseati lasciar perdere, altri rimasero là dove si erano rifugiati e qualcuno si uccise per il doppio rifiuto. Come il biologo Tullio Terni, che si tolse la vita con una fiala di cianuro il 25 aprile 1946, primo anniversario della Liberazione. Alla vigilia di quel decreto firmato dal diccì Guido Gonella che, scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pavan nel libro La doppia epurazione (il Mulino, 2009), non voleva «turbare gli equilibri dati al momento della fine del conflitto».
Equilibri che chi aveva approfittato della «manna» (così la chiamò Ernesto Rossi) dell’espulsione di tutti quei docenti e di altri 727 studiosi ebrei buttati fuori dalle accademie e dalle istituzioni culturali, ringhiosamente difese, rivolgendosi perfino alla magistratura neo-democratica per non restituire il posto arraffato grazie alle leggi fasciste. Una vergogna tale, ricorderà Giorgio Israel ne Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime (il Mulino, 2010), che dopo decenni era «assai facile trovarsi di fronte a reazioni virulente per aver soltanto osato ricordare i trascorsi razzisti di alcuni maestri di cui ancora oggi gli allievi, o gli allievi degli allievi, coltivavano un’adorazione intatta!».
Basti ricordare, come fece anni fa sul «Corriere della Sera» Paolo Mieli, il matematico Mauro Picone, che in una lettera del 1939 scriveva: «Urge che gli scienziati di razza ariana collaborino il più attivamente possibile per mostrare come la scienza possa egualmente progredire anche senza l’intervento giudaico» e solo sette anni dopo, ricordando il matematico Guido Fubini morto esule nel 1943 a New York, «ebbe la sfrontatezza di scagliarsi contro “gli stolti, infami provvedimenti razziali”, da lui a suo tempo applauditi e ora definiti “eterna vergogna”».
«La reintegrazione dei docenti ebrei», ha scritto Pierluigi Battista ricordando l’esempio pisano, «fu registrata con estrema freddezza dalle autorità accademiche che affrontarono la questione con il distaccato stile burocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza». Una vergogna rimasta a lungo velata, fino ai libri di denuncia come L’università italiana e le leggi antiebraiche di Roberto Finzi (Editori Riuniti, 1997) e altri ancora.
Ecco, in questo impasto di orrori, furbizie, omertà, complicità e ipocrisie che infettarono l’università italiana a cavallo tra il «prima» e il «dopo» le leggi razziali, la guerra perduta e la lotta di Liberazione, Massimo Bontempelli pagò dazio due volte. Prima perché marchiato dai fascisti come «idiota e carogna», poi perché bollato dagli «antifascisti» (compresi certi convertiti dell’ultima ora) come un «voltagabbana» dal passato destrorso.
Nato a Como nel 1878, studente anarchico («fui orgoglioso di portare qua e là pacchi di manifesti sovversivi»), laurea in Filosofia con una tesi sul libero arbitrio e in Lettere con una sull’endecasillabo, docente, poeta, interventista, corrispondente di guerra, collaboratore del Fascio politico futurista di Filippo Tommaso Marinetti, tessera del Partito fascista fatta insieme col suo amico Luigi Pirandello (dirà: «Mai fatto vita di partito; anzi fino al 1948 non ero mai stato iscritto ad alcuno: il fascista non conta, non era un partito, era un’anagrafe»), cominciò a staccarsi dal regime nel 1936, dopo la guerra d’Abissinia. La prova? «Molti episodi documentatissimi», scriveranno anni dopo vari intellettuali (dal critico Luigi Baldacci al poeta Eugenio Montale, dal musicista Goffredo Petrassi al pittore Renato Guttuso) indignati per una feroce critica a Bontempelli di Mario Picchi, che sull’«Espresso» aveva scritto d’una «miserabile coscienza morale» per poi rincarare: «Artista piccolino, fascista grandicello».
«Bontempelli è stato vittima d’un trattamento disonesto e di un abuso», scriverà Carlo Bo. «Eppure nei famosi vent’anni del periodo fra le due guerre è stato uno degli spiriti più vivi e attenti ai moti della società italiana».
Certo è che diede prova d’aver la schiena dritta almeno in due momenti chiave. Il primo, dicevamo, quando fu l’unico (unico!) docente a rifiutare il dono di una cattedra «per chiara fama» rapinata a un ebreo, nel suo caso il grande Attilio Momigliano. Il secondo quando, nel novembre di quel 1938, ricordò Gabriele d’Annunzio, davanti ai gerarchi convenuti a Pescara, denunciando «il nuovo costume intonato al feticismo della violenza». Denuncia che gli costò non solo gli insulti di Achille Starace («Ho tolto la tessera all’accademico Bontempelli perché più idiota e carogna di così si muore»), ma l’ostracismo totale: vietata la ristampa dei suoi libri, vietato chiedergli conferenze… Più l’imposizione del domicilio coatto: Venezia. Ma solo per sopire lo scandalo. «Fu il periodo più bello della sua vita», scriverà Bo nel suo ricordo dopo la morte, definendolo «un prosatore stupendo» e «il più libero e nello stesso tempo più depurato del secolo». «Nel palazzo sul Canal Grande che lo ospitava diventò per la parte più responsabile della cultura italiana un riferimento, un piccolo faro d’indipendenza». Cosa che non gli bastò, anni dopo, a evitare l’umiliazione più grande della sua vita.
Scampato dopo l’8 settembre 1943 alla condanna a morte decretata contro di lui dai nazisti per un libro del 1919 contro la Germania, sopravvissuto alla guerra, candidato a Siena col Fronte delle sinistre alle elezioni del 1948, Massimo Bontempelli fu eletto al Senato, ma subito trascinato davanti alla Giunta per le elezioni. Gli rinfacciarono d’aver firmato nel 1935 un pezzo intitolato Milizia santa su un’antologia (Oggi) di letture per le scuole medie contenente, come tutti i libri dell’epoca, parole d’esaltazione per il regime e il Duce. Antologia, tra l’altro, che lo scrittore aveva delegato, secondo il critico Franco Petroni, «a un perseguitato dal fascismo, che aveva bisogno di fare un po’ di soldi e non poteva firmare col proprio nome».
Un peccato secondario, rispetto a quelli dei tanti razzisti riciclati come il fisiologo Sabato Visco, che era stato «capo dell’ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop», o il giurista Gaetano Azzariti, già a capo del Tribunale della razza (e destinato perfino alla presidenza della Corte costituzionale), o l’ex segretario di redazione della «Difesa della razza» Giorgio Almirante (eletto in quella stessa tornata) e altri ancora.
Eppure fu lui, che Bo definiva «tutto fuor che uno scrittore impegnato e questo perché la sua fantasia non accettava nessun legame con la realtà», ad essere buttato fuori dal Senato come fascista. Il solo che, dopo quelle leggi infami sull’università, aveva avuto il fegato e la dignità di dire no.

Corriere 29.8.18
La filosofia è un’esigenza che sgorga dalla vita. Genera le nostre scelte individuali e collettive
L’opera che passa in rassegna autori, questioni, correnti di pensiero. Con la ricerca sui fondamenti dell’esistenza l’umanità ha avviato una rivoluzione permanente che significa liberazione dall’ipocrisia e apertura a un rapporto dialettico essenziale per qualsiasi società
di Pierluigi Panza


La filosofia non è utile o inutile, è imprescindibile. È una seconda pelle appiccicata all’individuo e alla società. Invano l’umanità ha cercato di strapparsela di dosso in favore della religione, della scienza oppure, oggi, delle pratiche tecnologiche: qualsiasi scelta che si compie è una scelta dettata da una ragione, ovvero una scelta filosofica. Per predisporre delle leggi, per commentare le notizie, per determinare la propria vita ci si muove da una conoscenza cumulativa delle cose che è la filosofia. La filosofia, intesa come campo ermeneutico e retorico, è ciò che ci guida — consapevolmente o meno — nelle scelte.
La filosofia non è solo conoscenza della natura (aspetto di competenza delle scienze dal XVII secolo), non è solo studio del modo in cui avviene il ragionamento (logica) o conoscenza delle cose ultime, ovvero metafisica, sulla quale grava il pregiudizio di qualcosa di astruso. È anche storia delle idee e azione di critica e selezione di ciò che scegliamo e facciamo; e proprio lo sviluppo contemporaneo delle tecnologie, l’articolarsi delle problematiche politiche, giuridiche, artistiche e teologiche, invece di «mandare in pensione» la filosofia, ha finito per aumentarne la necessità.
La filosofia è un’esigenza che sgorga dalla vita e dalle sue ineludibili domande; non è una disciplina a se stante. Al punto che l’uomo, come non può fare a meno di respirare, non può fare a meno di fare filosofia. È questo l’orientamento che sottende alla pubblicazione della collana Filosofia. Storia, parole, temi, curata da Nicola Abbagnano (1901-1990), Giovanni Fornero, Paolo Rossi (1923-2012), tre grandi storici del pensiero, proposta dal «Corriere della Sera» con Utet. Quest’opera non è un testo estemporaneo, ma frutto di un lavoro sedimentato negli anni (due dei tre autori sono scomparsi). È un «classico» che ha già conseguito un’autorevolezza che va al di là della contingenza (fu recensita con grande approvazione da Eugenio Garin e Norberto Bobbio). Si tratta dell’insieme di tre «monumenti» della cultura filosofica italiana: la Storia della filosofia e il Dizionario di filosofia di Abbagnano e La filosofia diretta da Paolo Rossi. Sono invece una novità le brevi introduzioni pensate per un largo pubblico. Queste si presentano come una fotografia di insieme: essere chiari è un dovere in una società democratica.
Dalle discussioni sulla globalizzazione a quelle sui nuovi diritti; dalle analisi sul rapporto uomo-Dio nelle società secolarizzate a quelle sulle influenze dei media; dalle riflessioni sull’intelligenza artificiale a quelle sui concetti di democrazia, uguaglianza e pluralismo, ogni scelta sulle realtà contemporanee s’incontra o scontra con problemi filosofici.
Anche se non sembra, gli uomini del nostro tempo si interrogano spontaneamente su questioni di natura filosofica attestando un diffuso «bisogno di filosofia». Eppure, anziché ammettere questo portato, sembra che si voglia esaltare il suo contrario: l’incompetenza. L’incompetenza al potere sembra aver sostituito quell’«immaginazione al potere» di moda negli anni Settanta come sistema di lotta alle storture della società. Mentre in quegli anni si trovavano nelle pagine di filosofi come Marcuse, Adorno, Horkheimer le parole d’ordine per combattere il «Sistema» imperialistico e borghese, oggi la battaglia contro il «Sistema» delle élite e della finanza globalista si combatte attraverso il rifiuto delle competenze e, ingenuamente, il superamento della cultura umanistica.
Questo apparente disprezzo per la cultura e gli esperti (rimando al testo di Tom Nichols La conoscenza e i suoi nemici, edito da Luiss University Press) delle forze cosiddette «populiste» è responsabilità delle vecchie élite che, tradendo gli ideali illuministici — quelli di offrire una crescita collettiva attraverso una buona scuola, libri, meritocrazia, libero esercizio critico, istituzioni aperte — hanno chiuso il sistema culturale, impedendo la crescita dei singoli individui. Da qui il rifugiarsi dei giovani in un autistico universo digitale fintamente libero e nell’apprendimento di pratiche tecniche ad obsolescenza immediata. Ma anche l’arrivo di questi «nuovi barbari» è una «rivoluzione filosofica», forse utile per passare a un rinnovato paradigma nel quale ridare posto a una conoscenza aperta, liberata da un incancrenito ancien régime universitario, giornalistico, editoriale...
Per altro, la rivoluzione di questi «nuovi barbari» avviene sotto l’egida di due parole filosofiche: identità e libertà. La filosofia è rivoluzione permanente ed è liberazione dall’ipocrisia, apertura a un dialettico rapporto tra esperti e cittadini.
La filosofia è come una Bibbia laica. Il filosofare si identifica con l’esistenza degli uomini: come voleva Platone, non si può essere uomini senza essere filosofi. Tanto più che «Ogni uomo vive in una cultura, in un certo tipo o forma di civiltà, e partecipa agli usi, ai costumi, alle credenze che la costituiscono. E usi, costumi, credenze, delineano nel loro insieme un atteggiamento di fronte al mondo che a sua volta obbedisce a una visione complessiva del mondo stesso», scriveva Nicola Abbagnano, padre delle storie della filosofia italiane e coautore dei volumi che presentiamo.
«Per queste caratteristiche e per la sua rinnovata capacità di fungere da disciplina in cui si dibattono i grandi temi che riguardano la nostra vita e il nostro sapere — scrive Giovanni Fornero — la filosofia risulta quindi attuale e per molti aspetti inevitabile». Soprattutto in una realtà planetaria problematica e complessa come la nostra, che pone una serie di sfide intellettuali ed esistenziali di inedita portata. Il celebre detto latino primum vivere, deinde philosophari («prima vivere, poi filosofare») è, non a caso, un detto filosofico e testimonia come la filosofia sappia anche collocarsi un passo indietro quando è necessario. Restando, però, sempre lì, accanto.

Corriere 29.8.18
Fine dialettica in Grecia Spirito pratico a Roma
La cultura ellenistica fu recepita dai vincitori privilegiando sempre le applicazioni concrete
Nicola Abbagnano è l’autore
di Livia Capponi


O i filosofi diventano re nei nostri Stati, oppure quelli che noi chiamiamo re devono impegnarsi seriamente e perseguire la filosofia: ci dev’essere un incontro fra il potere politico e l’intelligenza filosofica, altrimenti i problemi che minacciano gli Stati e la stirpe umana non avranno fine. Più o meno questo affermava Platone, nella Repubblica (473d). Il nesso fra filosofia e politica fu recepito molto bene dal popolo più pragmatico della terra, i Romani. Con la consueta modestia, Cicerone descriveva il suo consolato e il proconsolato d’Asia rivestito da suo fratello come realizzazioni del sogno platonico.
Con la conquista della Grecia, a metà del II secolo avanti Cristo, vi fu un afflusso di ostaggi greci in Italia, fra cui retori e filosofi, che furono poi inviati a governare città e province, e usati come diplomatici in virtù della loro capacità di parlare e soprattutto di convincere. Nel 155 a.C. una delegazione ateniese composta dallo stoico Diogene, dal peripatetico Critolao e dallo scettico Carneade si recò a Roma per chiedere il condono di una multa. Catone il Vecchio commentava: «Questi uomini discutono così bene che potrebbero ottenere qualsiasi cosa vogliano». Durante il soggiorno nell’Urbe, i tre tenevano lezioni pubbliche: un giorno Carneade discettò della giustizia naturale come guida della politica negli affari internazionali, e il giorno dopo sostenne, con pari abilità, l’inesistenza della giustizia naturale stessa. Catone allora spinse il Senato a concludere i patti al più presto, cosicché i Greci tornassero ad Atene e i Romani si rimettessero a studiare la loro legge e le loro magistrature.
Soprattutto dal I secolo a.C., i rampolli della nobiltà romana presero ad andare in Grecia a completare gli studi, ma nella classe dirigente rimase ferma la convinzione che la superiorità intellettuale dei sudditi greci, come tutti gli aspetti della cultura ellenica, dovesse essere sottomessa al diritto, alla politica, alla forza militare di Roma.
Lo stoicismo ebbe particolare successo, e di fatto predominò per due secoli, a partire da Augusto. Mentre l’oratoria, frutto della libertà repubblicana, si spegneva, la tranquillitas e la securitas stoiche sembravano l’antidoto migliore alle frustrazioni politiche e ai postumi delle guerre civili. Anche gli epicurei godettero di un discreto pubblico. Nella sontuosa Villa dei Papiri di Ercolano, Calpurnio Pisone, suocero di Cesare, s’intratteneva con Filodemo di Gadara, caposcuola epicureo in Campania, seguito anche da Virgilio e Orazio. Chi mal tollerava le coercizioni della politica del I secolo a.C. poteva trovare nell’atarassia e nel piacere epicureo una via di fuga.
Nel periodo imperiale i filosofi si trovarono a un bivio: contestare il potere monarchico o diventare maestri e consiglieri dei prìncipi? La filosofia poteva aiutare il sovrano a porre la domanda più importante: che differenza c’è fra un re e un tiranno? Com’è prevedibile, il rapporto fu burrascoso — basti pensare a quello fra Nerone e Seneca, conclusosi con il suicidio del maestro. Spesso i filosofi furono visti come pericolosi fomentatori di ribellione e furono periodicamente cacciati da Roma, con misure tanto crudeli quanto inutili.
Nel frattempo la filosofia si integrò progressivamente nella vita romana, raggiungendo un pubblico assai vasto. Il Trimalcione di Petronio, che si vantava di non aver mai ascoltato un filosofo, parla di concetti stoici, come l’uguaglianza di tutti gli uomini compresi gli schiavi. Più avanti, Luciano descrive una ragazza che, fra un pasto e un’acconciatura, ascolta il filosofo di casa discettare sulla castità, argomento evidentemente concesso alle donne.
Quando l’imperatore Marco Aurelio nel 177 d.C. propose al Senato di stabilire un tetto per i vertiginosi prezzi dei gladiatori, rinunciando alle tasse che lo Stato traeva da questa compravendita, fu elogiato per la coerenza con il suo orientamento stoico. Ma si trattava di un’eccezione; più spesso, come sostenne la studiosa Miriam Griffin, i monarchi romani trovarono nella filosofia greca non tanto direttive o soluzioni precise, ma un lessico, un vocabolario morale per soppesare alternative e giustificare decisioni politiche, in una società dove la religione tradizionale era poco metafisica, e ancor meno etica.

Corriere 29.8.18
Socrate, Aristotele, Epicuro, gli scettici Un panorama di straordinaria ricchezza


Esce in edicola oggi con il «Corriere della Sera», al prezzo speciale di e 1,90 più il costo del quotidiano, il volume Il pensiero greco di Nicola Abbagnano (1901-1990), dedicato ai grandi filosofi classici dell’antichità, che parte dagli autori presocratici e giunge fino al neoplatonismo, passando per Socrate, Aristotele, Epicuro, gli stoici. Si tratta della prima uscita della collana Filosofia. Storia, parole, temi, realizzata in collaborazione con Utet: un percorso firmato da studiosi di grande prestigio come appunto Abbagnano, Paolo Rossi (1923-2012) e Giovanni Fornero. L’opera, costituita da 22 volumi (nel grafico a destra i primi 15 titoli), include diverse sezioni: i titoli successivi al primo saranno in vendita al costo di e 8,90 più il prezzo del giornale. Si parte con la Storia della filosofia di Abbagnano, completata e ampliata, con nuove introduzioni, da Fornero. I volumi dall’11 al 14 propongono il Dizionario di filosofia realizzato da Abbagnano, anch’esso aggiornato da Fornero. Si passa poi, dal volume 15 in avanti, all’opera La filosofia, diretta da Rossi, composta da vari saggi di illustri studiosi. (c. br.)

Corriere 29.8.18
Il capolavoro di Lev Tolstoj in sei puntate


Il monumentale romanzo di Tolstoj diventa una serie kolossal in sei puntate prodotta dalla Bbc. Mentre l’armata di Napoleone marcia verso la Russia, le vite di tre giovani cambie-ranno per sempre: Pierre Bezukhov (Paul Dano), figlio illegittimo di un ricco nobile, che sa che verrà escluso dall’eredità; Andrei Bolkonsky (James Norton), che sogna di prendere parte alla guerra; e la giovane Natasha (Lily James, foto con Dano e Norton), in cerca del vero amore.
Guerra e pace Canale 5, ore 21.25