lunedì 27 agosto 2018

Il Fatto 27.8.18
L’ex nunzio negli Usa Monsignor Carlo Maria Carlo Viganò in un dossier di 11 pagine “scomunica” il Papa: “Coprì il pedofilo McCarrick”
L’ex nunzio apostolico degli Usa chiede a Bergoglio di dimettersi, proprio durante la visita del Pontefice nell’Irlanda segnata dagli abusi sessuali
Nel dossier ci sono anche altri nomi tra cui gli ex segretari di Stato Sodano e Bertonre
di Francesco Antonio Grana


“Papa Francesco sia il primo a dare il buon esempio a cardinali e vescovi che hanno coperto gli abusi di McCarrick e si dimetta insieme a tutti loro”. La richiesta, durissima e senza precedenti, arriva da monsignor Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, in una lunga lettera pubblicata su La Verità. Il diplomatico attacca Bergoglio accusandolo di aver coperto per 5 anni, ovvero dall’inizio del suo pontificato, gli abusi sessuali dell’arcivescovo emerito di Washington Theodore McCarrick, al quale recentemente Francesco ha tolto la porpora. Secondo Viganò il Papa non poteva non sapere quello che l’ex porporato statunitense aveva commesso, anche perché era stato lui stesso, appena 3 mesi dopo l’elezione, a comunicarglielo in un colloquio privato. Nel suo atto di accusa il diplomatico rivela che già “Papa Benedetto aveva comminato al cardinale McCarrick sanzioni simili a quelle ora inflittegli da Papa Francesco: il cardinale doveva lasciare il seminario in cui abitava, gli veniva proibito di celebrare in pubblico, di partecipare a pubbliche riunioni, di dare conferenze, di viaggiare, con obbligo di dedicarsi ad una vita di preghiera e di penitenza”. Sanzioni, però, che, come l’ex nunzio negli Usa riporta di aver costatato personalmente, non erano state minimamente rispettate. “Papa Francesco – scrive Viganò – ha chiesto più volte totale trasparenza nella Chiesa e a vescovi e fedeli di agire con parresia. I fedeli di tutto il mondo la esigono anche da lui in modo esemplare. Dica da quando ha saputo dei crimini commessi da McCarrick abusando della sua autorità con seminaristi e sacerdoti. In ogni caso – l’affondo – il Papa lo ha saputo da me il 23 giugno 2013 ed ha continuato a coprirlo, non ha tenuto conto delle sanzioni che gli aveva imposto Papa Benedetto e ne ha fatto il suo fidato consigliere”.
Un attacco che, non a caso, è arrivato proprio mentre Francesco era in Irlanda, un Paese duramente segnato dallo scandalo della pedofilia del clero, dove per 4 anni è stata perfino chiusa l’ambasciata della Santa Sede, poi riaperta nel 2014. Nell’isola il Papa ha più volte chiesto perdono per gli abusi sessuali su minori commessi dal clero e ha incontrato 8 vittime, tra cui Marie Collins che lui stesso aveva nominato nella Pontificia Commissione per la tutela dei minori e che si è poi dimessa accusando la Curia romana di ostacolare il lavoro di contrasto della pedofilia. Proprio su questo tema il Papa ha recentemente scritto una lettera ai fedeli di tutto il mondo condannando duramente gli abusi. Gesti e parole, però, che non gli hanno risparmiato la durissima accusa rivoltogli da Viganò: “Nel caso di McCarrick non solo non si è opposto al male ma si è associato nel compiere il male con chi sapeva essere profondamente corrotto, ha seguito i consigli di chi ben sapeva essere un perverso, moltiplicando così in modo esponenziale con la sua suprema autorità il male operato da McCarrick. E quanti altri cattivi pastori Francesco sta ancora continuando ad appoggiare nella loro azione di distruzione della Chiesa! Francesco sta abdicando al mandato che Cristo diede a Pietro di confermare i fratelli. Anzi con la sua azione li ha divisi, li induce in errore, incoraggia i lupi nel continuare a dilaniare le pecore del gregge di Cristo”. Ma il diplomatico è andato ben oltre mettendo nero su bianco i nomi di tutti i cardinali e i vescovi che, a suo giudizio, si sono resi complici coprendo la pedofilia di McCarrick, indicando anche coloro che farebbero parte della lobby gay.
Nelle parole di Viganò riemergono con forza anche i tanti veleni curiali che hanno logorato il pontificato di Benedetto XVI e che da tempo stanno tentando di incrinare quello di Francesco. La lettera del diplomatico, infatti, è intrisa dal suo forte risentimento per essere stato allontanato da Roma da Ratzinger per volontà del cardinale Tarcisio Bertone con il quale era entrato in forte contrasto. Viganò, come è emerso quando furono pubblicati alcuni documenti riservati del Papa tedesco nello scandalo Vatileaks 1, nutriva la certezza che sarebbe diventato cardinale, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. Un desiderio che neanche Francesco ha esaudito limitandosi a mandarlo in pensione nel 2016 al compimento dell’età canonica delle dimissioni.

Corriere 27.8.18
Il rapporto choc contro il Papa «Coprì gli abusi, ora si dimetta»
L’ex nunzio a Washington, leader dei conservatori: «Sapeva delle molestie
di McCarrick dal 2013 ma non fece nulla». L’eco del caso cileno e l’ombra
di una resa dei conti
di Massimo Franco


Chiedere le dimissioni di Francesco per avere coperto casi di pedofilia è più di un attacco: ha il sapore di una provocazione che si iscrive nel conflitto violento in atto dentro la Chiesa cattolica. Ma non si può ignorare la novità: ora sotto accusa è lo stesso Papa. Un rapporto dell’ex nunzio apostolico a Washington, Carlo Maria Viganò, sostiene che Jorge Mario Bergoglio avrebbe ignorato gli abusi sessuali del cardinale Usa, Theodore McCarrick, almeno dal giugno del 2013. In quell’occasione, sarebbe stato Viganò a informarlo che l’ex arcivescovo di Washington aveva commesso questi crimini per decenni. Secondo il nunzio, Francesco non avrebbe ascoltato le denunce perché McCarrick aveva favorito, dall’esterno, la sua elezione al Conclave. Anche se a luglio gli ha tolto il cardinalato: decisione senza precedenti.
L’attacco, pubblicato dal quotidiano La Verità, getta una luce inquietante sulla nomenklatura vaticana. E non serve chiedersi quanto siano nobili o meschini i motivi per cui è scattato. Viganò è ritenuto uno dei portavoce del fronte conservatore, ostile a Francesco. Ma il quadro, se confermato, sarebbe comunque devastante. Il pontefice argentino ha cercato di arginare, in Irlanda, la rabbia contro la Chiesa per i casi di pedofilia. Il «rapporto Viganò» mira a togliergli credibilità.
A renderlo insidioso non è tanto l’autore, personaggio controverso ma profondo conoscitore della Santa Sede. Il problema è che si insinua l’immagine di un Papa al corrente degli abusi; e incline a sottovalutarli per ragioni di realpolitik. A dilatare l’eco è quanto è avvenuto negli ultimi mesi in Cile. Bergoglio ha difeso vescovi colpevoli di abusi sessuali, liquidando come «calunnie» le accuse. Poi, di fronte alla reazione dell’arcivescovo di Boston, Patrick O’Malley, ha ammesso di essere stato informato male, e aperto un’inchiesta. E l’episcopato cileno si è dimesso in massa.
È stato fatto filtrare, però, che per tre anni la Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata fino al 2017 dal cardinale Gerhard Muller, aveva segnalato in alcuni rapporti scritti la situazione in Cile; e che Bergoglio li avrebbe sottovalutati, fidandosi delle rassicurazioni di alcuni cardinali cileni. Ma dal rapporto di Viganò escono delegittimati un po’ tutti. Angelo Sodano e Tarcisio Bertone, segretari di Stato con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI, sono additati per primi.
E a cascata compaiono decine di alti prelati: a conferma di una resa dei conti che si va incanagliendo. Al di là della possibile voglia di vendetta di un nunzio giubilato da Francesco, si ripresenta il problema della selezione degli ecclesiastici, si tratti di accusati o accusatori. A emergere bene dal rapporto sono pochi: soprattutto il Papa emerito Benedetto XVI, che cercò di isolare McCarrick, senza riuscire a imporre la sua volontà al Vaticano e ai vescovi Usa. Ma questo, forse, induce a chiedersi di nuovo quali furono i motivi reali della rinuncia di Joseph Ratzinger nel 2013.

La Stampa 27.8.18
“Francesco si dimetta. Sapeva del cardinale accusato di molestie”
L’attacco dell’ex nunzio negli Usa Carlo Viganò: “La Curia aveva il dossier sul caso di McCarrick”
di Domenico Agasso Jr


Il momento-polveriera non è finito. Per la Chiesa la miccia è sempre legata agli scandali pedofilia. E come una bomba a orologeria ora spunta una velenosa lettera dell’ex nunzio apostolico (ambasciatore della Santa Sede) a Washington, monsignor Carlo Maria Viganò. Nel documento di 11 pagine - pubblicato sul quotidiano «La Verità» e su alcuni media conservatori statunitensi - si legge che le autorità vaticane erano a conoscenza fin dal 2000 dell’esistenza di accuse contro Theodore McCarrik, promosso alla fine di quell’anno arcivescovo di Washington e creato cardinale da Giovanni Paolo II l’anno successivo: era noto che il prelato invitava i suoi seminaristi a dormire con lui nella casa al mare. Nel 2018 McCarrik - dal 2006 senza incarichi - è stato accusato e di recente sospeso anche dal collegio cardinalizio su iniziativa di papa Francesco, dopo che si è avuta notizia di una denuncia concreta di abuso su un minore da parte del prelato.
Una premessa: Viganò è da anni in rotta di collisione con la Santa Sede. Fu allontanato dal Vaticano per scelta di Benedetto XVI e inviato nella sede diplomatica di Washington nel 2011. La missiva di Viganò è ricco di date e circostanze, ed è chiaramente indirizzato contro Jorge Mario Bergoglio, del quale l’ex nunzio chiede le dimissioni perché a suo dire avrebbe tolto delle sanzioni esistenti contro MacCarrick dopo il conclave del 2013. Ripropone, circostanziandole, le voci già circolate almeno negli ultimi due mesi nella galassia mediatica antipapale e tradizionalista americana ed europea. Viganò afferma che le denunce del 2000, con testimonianze scritte contro McCarrick - accusato di molestare seminaristi (maggiorenni) e giovani preti - vennero trasmesse dai nunzi apostolici succedutisi nella sede di Washington. Questi report però rimasero senza alcuna risposta. Viganò incolpa di tutto ciò l’allora segretario di Stato cardinale Angelo Sodano - ma anche il Sostituto Leonardo Sandri, oggi cardinale Prefetto per le Chiese orientali - che a suo dire avrebbero coperto McCarrick. Viene da chiedersi: e Giovanni Paolo II, che nel 2000 approvò la nomina a Washington, e l’anno successivo il cardinalato del discusso arcivescovo? Scrive Viganò: «Fu la nomina a Washington e a cardinale di McCarrick opera di Sodano, quando Giovanni Paolo II era già molto malato? Non ci è dato saperlo. È però lecito pensarlo, ma non credo che sia stato il solo responsabile. McCarrick andava con molta frequenza a Roma e si era fatto amici dappertutto, a tutti i livelli della Curia».
Una seconda parte di accuse contro McCarrick è datata 2006. Lo stesso Viganò scrive di avere preparato due appunti contro il cardinale, inoltrandoli ai suoi superiori - in quel momento il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone (accusato di aver promosso troppi omosessuali in posti di responsabilità nella Curia e nella Chiesa). Pure l’esito di questi appunti tarda ad arrivare, anche se Viganò afferma che nel 2009 o nel 2010 Benedetto XVI stabilì delle sanzioni all’ormai dimissionato McCarrick, imponendogli di non vivere in seminario, di non apparire o celebrare più in pubblico, di non viaggiare. McCarrick però non prese sul serio queste sanzioni rimaste segrete. Basta navigare sul web per rendersi conto del fatto che anche dopo le presunte sanzioni di Ratzinger, il cardinale americano ha continuato a celebrare in pubblico e a tenere conferenze.
Ecco poi l’ultimo capitolo: nel giugno 2013 Viganò, durante un’udienza privata, a una domanda di Francesco su McCarrick avrebbe risposto che contro il cardinale c’era un dossier di accuse depositato alla Congregazione per i Vescovi. Viganò non afferma di aver trasmesso denunce contro McCarrick al nuovo Papa. Ma quelle poche parole scambiate gli sono sufficienti per affermare che Francesco non si sarebbe comportato correttamente: avrebbe in qualche modo aiutato il cardinale, che sarebbe anche diventato - afferma ancora l’ex nunzio, in questo caso senza riportare fatti precisi - ascoltato consigliere del nuovo Papa per nomine episcopali americane.

Repubblica 27.8.18
Da Vatileaks alla Pennsylvania
"Bergoglio sapeva, si dimetta". Così è nato il caso dell’ex ambasciatore
"Ne parlai con lui ma non fece nulla" Conservatore, 77 anni è un oppositore del Papa da molto tempo
di P. R.


DUBLINO Il "caso Viganò" esplode ieri, durante l’ultimo giorno della visita del Papa a Dublino, in Irlanda, per l’Incontro mondiale delle famiglie. Mentre Francesco dedica le sue ultime parole ancora una volta alla pedofilia e a un forte mea culpa per le ragazze madri della Case Magdalene rinchiuse nei decenni passati negli istituti religiosi perché considerate «impure » e con i propri figli dati in adozione, rimbalza sui media italiani e stranieri un dossier di una decina di pagine pubblicato su La verità e su alcuni media conservatrici statunitensi e firmato dall’ex nunzio apostolico a Washington, Carlo Maria Viganò. Il diplomatico, il cui nome entrò anche nel dossieraggio del primo Vatileaks, chiede esplicitamente le dimissioni di Francesco. Il presule sostiene che il Papa non abbia agito come avrebbe dovuto nei confronti dell’ex arcivescovo americano di Washington, Theodore McCarrick, riconosciuto colpevole di aver abusato dei seminaristi.
Francesco nei giorni scorsi ha tolto il cardinalato a McCarrick, proprio per l’emergere degli abusi. Ma per Viganò non basta: il Papa, dice, era informato da tempo degli abusi, dello scandalo della Pennsylvania — 300 sacerdoti accusati di aver abusato di oltre mille bambini — ma non ha fatto nulla. Diversi alti vertici della Chiesa cattolica, curia romana compresa, erano da anni — scrive Viganò — a conoscenza delle accuse di pedofilia e dei crimini, anche su maggiorenni, commessi dal cardinale.
L’ex ambasciatore vaticano in Usa Viganò, 77 anni, di area conservatrice, varesino, è vicino ad ambienti che si oppongono al pontificato di Francesco. Secondo alcuni, nel 2011 venne estromesso dal governatorato, dove lavorava, anche per aver denunciato nella sua veste di segretario generale una lunga fila di scandali che all’ombra del Cupolone diedero il via a Vatileaks.
In quelle lettere il monsignore rivelava l’esistenza in Vaticano di una sorta di lobby per l’assegnazione di appalti, il ricorso alla corruzione tramite mazzette e bustarelle, casi di nepotismo e gestioni allegre di beni della Santa Sede da parte di vescovi e monsignori. Accuse tutte respinte con una nota ufficiale della segreteria di Stato che portarono Viganò in rotta di collisione col cardinal Tarcisio Bertone, oggi accusato di aver favorito le carriere di personalità omosessuali.
Nel dossier di Viganò si fanno tanti altri nomi. C’è l’ex segretario di Stato Angelo Sodano, e gli ex sostituti Leonardo Sandri e Fernando Filoni, anch’essi accusati di non aver preso gli opportuni provvedimenti a carico di Mc-Carrick.
Ieri, in Irlanda Papa Francesco ha continuato a chiudere «perdono » per gli abusi, definendoli «di potere e coscienza». E anche per i casi di mobbing cui sono stati sottoposti molti e per tutte le volte in cui la Chiesa « non ha agito con azioni concrete nei confronti di questi abusi e non abbiamo mostrato alle vittime la giusta compassione e attenzione » . E, ancora, esplicitamente « per i bambini che sono stati allontanati dalle loro madri single». L’altro ieri otto vittime di pedofilia gli avevano chiesto parole esplicite in merito. Ieri il Papa le ha accontentate. « Questa piaga aperta — ha detto — ci sfida a essere decisi nella ricerca della verità e della giustizia».

La Stampa 27.8.18
Lo scontro sul corpo dei migranti
di Giovanni De Luna


Prima dell’intervento risolutore della Cei, era sembrato che a decidere chi far sbarcare dalla «Diciotti» dovessero essere i medici; un primo elenco comprendeva infatti 17 profughi: 11 donne seviziate e stuprate nei lager libici e 6 uomini malati, chi di scabbia, chi di tubercolosi. Il diritto ad essere soccorsi si fondava direttamente sui loro corpi, e i medici si sostituivano alle autorità civili, appellandosi alla tutela della salute come a un valore assoluto, gerarchicamente superiore anche alle leggi in cui si sostanzia la sovranità dello Stato.
Gli stessi profughi erano stati definiti «palestrati» dal ministro Salvini, e prima ancora si erano aperti dibattiti sulle unghie smaltate di Josefa, salvata dal naufragio, sui numeri tatuati sul braccio dei bambini, etc… Senza carte, senza passaporti, tessere, documenti anagrafici, spogliati dei requisiti a cui siamo soliti riferire i parametri della cittadinanza, i migranti sono oggi solo corpi. Anche quando protestano, come nel caso dello sciopero della fame tentato sulla «Diciotti», scelgono l’autolesionismo, usano la fisicità come l’unica arma possibile per ribellarsi a chi intende disporre dei loro corpi come oggetti, merci indesiderate che si respingono al mittente. È lungo questa strada che la politica diventa biopolitica e finisce per far crollare uno dei capisaldi concettuali della nostra democrazia. Dietro il braccio di ferro con l’Europa, le esibizioni muscolari di Salvini, le tensioni con la magistratura, non c’è solo il tentativo di trovare soluzioni efficaci ai problemi dell’immigrazione. E non si tratta solo di scelte di un governo attento a cavalcare l’onda favorevole dei sondaggi di opinione...
I regimi totalitari del ’900 ce lo hanno insegnato; la loro volontà di dominio era la diretta conseguenza di una «politicizzazione della vita» attraverso la quale il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche. Lo Stato non si limitava più a esercitare la sua sovranità sui cittadini, rispettandone i diritti e codificandone i doveri, ma si appropriava direttamente dei loro corpi, inserendo la loro esistenza biologica nella sfera pubblica, assoggettandola al suo potere; per Hitler, ad esempio, il popolo tedesco era un corpo organico bisognoso di una cura radicale consistente nell’asportazione violenta di una sua parte spiritualmente già morta, gli ebrei. Sia nell’eutanasia praticata su larga scala sui malati di mente, sia soprattutto ad Auschwitz e dintorni, questa forma di esercizio del potere rivelò l’essenza più profonda del nazionalsocialismo, la fusione tra politica, Politik, (lotta contro i nemici interni ed esterni dello Stato fino alla loro morte e all’annientamento) e polizia, Polizei, (la cura per la vita dei cittadini in tutte le sue estensioni).
Oggi niente lascia intravedere scenari in cui possano verificarsi simili eccessi. «Prima gli italiani» è uno slogan gridato nelle piazze con esplicito riferimento ai posti di lavoro, alla possibilità di accedere ai servizi pubblici di quel che resta del Welfare, alla disponibilità delle risorse finanziarie del nostro Stato. Pure, la proposta di una cittadinanza senza valori da condividere ma fondata solo su interessi da difendere e la corporeità che ispira la politica del governo nei confronti dei migranti segnalano un inquietante paradosso: la possibilità che l’anti-politica populista si intrecci con gli aspetti più sinistri della biopolitica.

La Stampa 27.8.18
Sylvie Goulard è vicegovernatore della Banca di Francia
“Roma rischia l’isolamento
La solidarietà arriva col dialogo”
di Marco Bresolin


«Andare allo scontro con i partner Ue porta all’isolamento. E al giorno d’oggi nessun Paese europeo può riuscire ad affrontare le sfide globali da solo». Ex consigliera di Romano Prodi durante la presidenza della Commissione, ex eurodeputata, da gennaio Sylvie Goulard è vicegovernatore della Banca di Francia (dopo una breve parentesi alla guida del ministero della Difesa di Parigi). È appena rientrata in Francia da Jackson Hole, dove ha partecipato al tradizionale appuntamento della Federal Reserve. «Vista da qui - spiega Goulard - l’Europa è un continente che fatica a trovare una prospettiva di potenza globale. Non è certo il momento di dividersi: la rivoluzione tecnologica ci insegna che se rimaniamo da soli non potremo mai essere competitivi e dunque offrire posti di lavoro per i nostri figli».
Eppure sono gli anni del sovranismo dilagante, soprattutto in Europa.
«L’idea dello Stato-territorio, così come l’abbiamo conosciuta in passato, oggi non è all’altezza delle sfide. Viviamo nell’epoca della tecnologia e dei cambiamenti climatici, temi che non conoscono frontiere. Da un lato certi sentimenti sono comprensibili, perché la paura di queste sfide esalta le identità. Si capisce benissimo l’angoscia dei cittadini: dobbiamo prenderli sul serio. Ma la gente va anche aiutata a capire che bisogna riflettere a medio-termine e chiedersi dove stanno i propri interessi: davvero un Paese europeo può farcela da solo nel mondo?».
L’Italia sta sfidando l’Europa sull’immigrazione: quali sono i rischi che corre il nostro Paese con questo atteggiamento?
«Certamente negli ultimi anni non è stata trovata una politica comune sull’immigrazione a livello dell’Unione Europea. L’Italia si trova alla frontiera esterna della Ue e le sue richieste d’aiuto sono comprensibili. Ma c’è una differenza tra chiedere aiuto e andare allo scontro. Per cercare le soluzioni e trovare un compromesso bisogna discutere, ascoltarsi e capire le rispettive ragioni. Un po’ di tattica è comprensibile, ma le rotture rischiano di portare soltanto all’isolamento».
E alla nascita di nuove alleanze: Roma ora volta le spalle alla Vecchia Europa e si avvicina alle capitali dell’Est, come Budapest.
«Se cerchi alleanze con Paesi che hanno un orizzonte strettamente nazionale, che dicono “my country first”, cosa pensi di ottenere? È chiaro che il loro obiettivo non è quello di aiutarti, ma di aiutare il proprio Paese. Non c’è una cooperazione possibile».
Così facendo, il governo pensa di poter contare di più ai tavoli Ue.
«In questi anni l’Italia è stata rappresentata a Bruxelles a ottimi livelli: non dobbiamo esagerare nella descrizione di un Paese che non ha nessuna influenza sul sistema, anzi. Se questo nuovo atteggiamento venisse confermato, mi chiedo: è un modo per trovare soluzioni pragmatiche oppure è solo un’illusione per dare l’impressione che si ottiene di più sbattendo i pugni sul tavolo? Se tutti vanno allo scontro, se saltano tutti i tavoli diplomatici, questo non cambierà la geografia dell’Italia. Che continuerà a rimanere di fronte all’Africa senza avere più legami con Paesi che rimangono suoi partner nella moneta unica, investitori in Italia e clienti delle imprese italiane».
È preoccupata per l’esito delle elezioni Europee del 2019 e per un possibile exploit della linea sovranista?
«Non so cosa potrebbe portare di positivo all’Europa un’alleanza fatta da Paesi che non vogliono cooperare tra di loro. Abbiamo la stessa moneta, un mercato unico, una politica commerciale comune. Servono nuove proposte per cambiare l’Europa in meglio, non la negazione dell’interdipendenza. L’isolamento non porta a nulla di buono. La Brexit sta dimostrando che uscire dall’Ue non è così facile. Resta ancora da provare se è davvero nell’interesse nazionale».
Il governo italiano però guarda fuori dai confini Ue e preferirebbe ottenere un sostegno economico da altri Paesi come Usa e Russia. Crede sia possibile?
«Se l’Italia ricevesse un aiuto da qualche grande Paese, sicuramente ci sarebbe un prezzo da pagare. Non esistono filantropi a capo delle grandi potenze mondiali. Ricordiamoci che forse l’Europa non è perfetta e va migliorata. Ma qui abbiamo delle regole, una Corte di Giustizia. Quali garanzie ci sarebbero con queste alleanze alternative? Chi può assicurare che la relazione sarebbe equilibrata?».

Repubblica 27.8.18
Intervista a Stefano Vella, presidente dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa)
"Sulla Diciotti il mio governo ha negato le cure Come medico dovevo dimettermi"
di Michele Bocci


Una lettera scritta di notte per lasciare uno degli incarichi più ambiti in campo sanitario, la presidenza dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Stefano Vella se ne va in polemica con la gestione «intollerabile» del caso Diciotti da parte di Matteo Salvini. Accusa il governo di essere venuto meno al dovere costituzionale di tutelare la salute pubblica. Il suo è un rarissimo caso di alto dirigente di un ente dello Stato che decide di dimettersi da un ruolo non soggetto a spoils system. E infatti la sua scelta ha scatenato tante reazioni e gli ha riempito il telefonino con centinaia di messaggi.
Dottor Vella, perché si è dimesso?
«Da un po’ di tempo mi frullava in testa questa idea. Già durante il caso Aquarius la situazione mi pareva insostenibile. Per lavoro giro parecchio il mondo e mi dava fastidio essere guardato male. Poi c’è stata la vicenda Diciotti, una cosa assurda e intollerabile dal punto di vista medico. Mi sono arrabbiato, non condivido molte delle scelte di questo esecutivo.
Visto che lavoro per un’istituzione legata al governo, vigilata da due ministeri, mi dimetto da presidente del cda di Aifa».
Cosa le ha dato fastidio?
«Mi occupo anche di migranti per l’Istituto superiore di sanità, abbiamo fatto le linee guida per la loro salute in Italia. La Diciotti è territorio del nostro Paese, e nella nostra Costituzione c’è scritto che la Repubblica è obbligata a curare tutte le persone che si trovano sul nostro territorio. L’articolo 32 della Carta è straordinario, dice che vanno assicurate cure gratuite agli indigenti. Nel caso della nave siamo rimasti fuori dalla Costituzione, una cosa che mi ha fatto arrabbiare. Non si possono trattare così le persone in Italia, non si possono negare le cure. Come medico lo ritengo intollerabile. A Catania si è messa in dubbio la civiltà di cui siamo portatori».
Quando ha scritto la lettera di dimissioni? A chi l’ha mandata?
«La notte di venerdì ho deciso che era il momento di scrivere. Ho inviato la lettera a chi mi ha nominato, cioè agli assessorati alla Sanità delle Regioni e all’ufficio di gabinetto del ministero».
La ministra Grillo l’ha sentita?
«Per ora no. Mi ha chiamato il capo di gabinetto anche a nome suo e mi ha chiesto se erano dimissioni irrevocabili. Certo. Solo in Italia esiste l’usanza di ritirare le dimissioni».
Quanto guadagnava come presidente di Aifa?
«Circa 60mila euro lordi l’anno. Il mio incarico scadeva a metà del 2019 con il cda dell’Agenzia. Ma i soldi in questa storia non sono importanti».
Le pesa la sua scelta?
«È una cosa molto dolorosa, la presidenza di Aifa è un incarico di prestigio, scientificamente molto stimolante. Poi, in questo periodo storico, ci sono delle belle sfide, come l’arrivo dei nuovi farmaci sul mercato e il trasferimento dell’Agenzia europea Ema a Amsterdam. È un po’ come se mi fossi strappato un braccio. Però nessuno è indispensabile».
Ora cosa farà?
«Continuo a lavorare all’Istituto superiore di sanità, dove dirigo il Centro di salute globale. Abbiamo circa 25 progetti, molti dei quali europei, anche sulle diseguaglianze di salute».
Chissà quanti, tra coloro che sono ai vertici di apparati dello Stato, non sono d’accordo con questo governo ma restano al loro posto.
«Non saprei quanti sono ma, per quanto mi riguarda, volevo esprimere in modo chiaro il mio dissenso. Per farlo, la scelta deve essere accompagnata da un gesto.
Non basta twittare o fare un post.
Io dissento su quasi tutto quello che dice il vicepremier Salvini, però lui ci mette la faccia, e ho pensato che deve fare lo stesso anche chi non è d’accordo con lui».
Lei però lascia quando ormai la vicenda Diciotti è risolta, almeno dal punto di vista sanitario. I migranti sono scesi.
«Questo non ha importanza, è solo un capitolo della storia. Ce ne sono stati altri prima, come appunto Aquarius, e temo che ce ne saranno altri in futuro».
Cosa ha a che fare Aifa con una vicenda come quella della Diciotti?
«Intanto, in quanto agenzia che si occupa di farmaci, lavora ad esempio per darli agli indigenti e anche ai Paesi in difficoltà che ne hanno bisogno. Ma ciò che conta qui, è che si tratta di un ente che si occupa di salute pubblica, al di là del singolo aspetto a cui è dedito. E io dissento da una posizione del mio governo su un tema che è anche di salute, quindi sono deontologicamente incompatibile».
Come valuta il comportamento del ministero alla Salute nel caso della nave attraccata a Catania?
«Una cosa l’ha fatta. Ha mandato gli ispettori che hanno chiesto di far sbarcare le persone malate».
Dopo le sue dimissioni ha ricevuto chiamate e messaggi?
«A centinaia. Quasi nessuno mi ha detto che ho sbagliato. Sono sorpreso dalle reazioni, solo su Whatsapp ho avuto 1.000 messaggi. Mi hanno anche scritto: "Finalmente qualcuno che alza la testa". Ma a me sembrava un gesto doveroso e non l’ho fatto per pubblicità personale. Anzi, mi sembra di non aver fatto nulla di speciale. O forse è speciale alzare la testa nel nostro Paese in questo momento?».

La Stampa 27.8.18
“Trattarli così è disumano. Ecco perché mi dimetto”
di Nicola Lillo


1 Il professore Stefano Vella si è dimesso dalla presidenza dell’agenzia italiana del farmaco Aifa per denunciare il trattamento riservato ai migranti della nave Diciotti. Cosa ha fatto scattare questa scelta?
«In questo Paese non basta solo indignarsi. L’Italia - spiega - ha bisogno di gesti forti, perché se andiamo avanti solo a colpi di tweet non arriviamo da nessuna parte. Per tutta la vita mi sono occupato di salute nel mondo, di disuguaglianze, di migrazioni. E la politica di questo governo sui migranti mi ha fatto davvero arrabbiare. Siamo davanti a un problema epocale, che non si risolve certo chiudendo i porti».
2 La sua è una protesta politica?
«No, è deontologica. Faccio il medico e mi indigno. Non dico che vanno aperte le porte a tutti. Il problema vero è il modo in cui vengono trattati essere umani sul nostro territorio. La nave Diciotti è suolo italiano. Quei migranti hanno il diritto alla salute come ogni essere umano che calpesta la nostra terra».
3 Il ministro Matteo Salvini è indagato. Che ne pensa?
«Questa notizia non mi riguarda, dicono sia un atto dovuto. Ciò che conta, ripeto, è che quelle persone andavano curate. Tanto è vero che l’ispezione del ministero della Salute ha trovato diversi malati a bordo».
4 La sua comunque è una scelta rimasta isolata.
«È una scelta forse inconsueta per il nostro Paese, non per gli altri. Ed è stata molto dolorosa. Ho però ricevuto molti messaggi di approvazione. Bisogna alzare la testa. Non possiamo continuare a lamentarci senza fare alcun gesto».
5 Ora cosa farà?
«Continuo a fare il mio lavoro all’Istituto superiore di sanità, al centro di salute globale. So che il mio gesto non farà cambiare le cose, ma serve a dire che nel nostro Paese c’è anche chi non è d’accordo con questa politica. Bisogna farlo capire, alzando la voce».

La Stampa 27.8.18
Gli «eretici valdesi»
“Noi che siamo stati perseguitati vi diciamo: accogliere è un dovere”
di Lodovico Poletto


Il «Padre nostro» cantato in francese alla fine rito. Le offerte raccolte sulla porta del tempio: «Grazie, andrà tutto per gli sfollati di Genova». Il the col latte sul prato all’inglese accanto alla casa valdese, sotto un sole sa già di settembre.
Eccoli qui gli «eretici valdesi». Con i loro riti e le loro tradizioni. Ma sempre graffianti quando parlano di sociale, come quando in tema di gay dicevano «sì» alle unioni civili. Anche oggi si fanno sentire Hanno scelto di parlare dell’ accoglienza. E lo fanno forti di un manifesto firmato dalla Federazione delle Chiese Evangeliche (di cui fanno parte). Certo, nella Federazione non ci sono tutte quelle esistenti, ma sono un bel po’ e fanno riferimento a 350 - 400 mila persone.
Lì, c’è scritto già molto di ciò che si diranno in questa settimana: dalle critiche alla campagna politica contro gli immigrati, all’opposizione alle politiche italiane ed europee di chiusura delle frontiere. Questo è il fil rouge delle riflessioni. Anche perché il tema è caldo, e questa non è - ancora - una valle dove la Lega ha fatto il pieno.
Certo, il Sinodo detta la linea sull’accoglienza, ma i temi sul tappeto sono una quantità. Per dire: in un momento di sintesi e di riflessione come questo puoi mica non parlare del numero dei fedeli che cala. Qui, come nella Chiesa cattolica, come in tutti i culti tradizionali. «Ma noi i ragazzi li abbiamo. Non sono qui, perché questo è il Sinodo. E i delegati sono persone che hanno esperienza. Ma i ragazzi ci sono, eccome» sentenzia Eugenio Bernardini, che è il direttore della Tavola valdese. Un incarico a scadenza, e questo è il suo ultimo anno. E dove sono i ragazzi? «Sono nelle chiese che si trovano in tutti i paesi di questa vallata. Sono nelle chiese sparse in giro per l’Italia. Non fatevi trarre in inganno: ce ne sono tanti qui, quanti nel mondo cattolico».
Se è così non c’è da preoccuparsi se oggi a Torre Pellice - e per tutta la settimana - dominerà un mondo «over». Over quaranta. Che discute di temi sociali e compra gadget sotto il tendone. Oggetti fatti a mano, certo. Ma anche magliette, candele e ciondoli simbolo. E i gli incassi andranno tutti in beneficenza. «Perché i Valdesi sono aperti al resto del mondo. Sono attenti ai bisogni degli altri. I Valdesi sono stati vittime di persecuzione, ed è per questo che sanno andare in soccorso di chi soffre. Per qualunque ragione sia» dice la signora delegata da Milano. Vuol dire che i Valdesi di allora sono come i migranti di oggi? «Non farei un paragone così netto, ma noi sappiamo cosa vuol dire essere perseguitai. O rifiutati».
E mentre lo spiega ci sono ventenni ascoltano. Già, tra i 180 delegati da tutta Italia, l’infilata enorme di ospiti delle chiese evangeliche e metodiste di tutto arrivati dall’estero ci sono anche due ventenni. Il più giovane - 21 anni- di nome fa Lorenzo Fantini e, manco a dirlo, viene da uno dei paesi di questa vallata, Pinasca. Dice: «La modernità della nostra Chiesa che parla di accoglienza o di gay si scontra talvolta con tradizioni che rendono il culto troppo vecchio o troppo barocco». Perché modernità? «Perché parlare di accoglienza in questo momento vuol dire essere attuali, attenti e non soltanto dogmatici». E l’accoglienmza in queste valli si pratica? «Noi la pratichiamo». Tutti valdesi lo fanno? «Non lo so. Ma questa è la posizione della nostra Chiesa».
Alle 7 di sera un gruppo di ospiti di lingua tedesca discute animatamente di migranti davanti alla Casa valdese: «L’Italia è diventata come la Germania: siamo tutti troppo cattivi con chi viene da lontano».

La Stampa 27.8.18
Salvini, 90 giorni per le indagini
Poi sul caso deciderà il Senato
Fascicolo al Tribunale dei ministri in 15 giorni, dopo ci vorrà l’autorizzazione a procedere
di F. Grignetti - R. Arena


Entrato in campo il tribunale dei ministri di Palermo, per Matteo Salvini si apre la nuova fase, «inusuale» dicono i suoi, di ministro dell’Interno e di indagato per tre reati gravi, quali il sequestro di persona, l’arresto illegale e l’abuso d’ufficio. Domani incontra Viktor Orban; subito dopo affronterà decidere se nominare un avvocato di fiducia o affidarsi all’Avvocatura dello Stato.
Con il tribunale dei ministri, entra in scena un giudice uno e trino, che indaga più che valutare le prove. Entro 90 giorni, il collegio presieduto da Fabio Pilato e composto da Filippo Serio e Giuseppe Sidoti, due Gip e un magistrato della sezione fallimentare, dovrà quindi decidere se archiviare il caso (ipotesi in cui emetterà un decreto impugnabile solo in Cassazione per motivi di diritto) oppure rimandare gli atti all’ufficio inquirente, in questo caso la procura di Palermo diretta da Francesco Lo Voi. Quest’ultimo, a sua volta, si dovrà rivolgere al Senato, il ramo del Parlamento a cui appartiene Salvini, per ottenere l’autorizzazione a procedere. Il paradosso è che la decisione finale potrebbe investire la speciale commissione presieduta da Maurizio Gasparri, di Forza Italia, un falco che da sempre chiede che si faccia esattamente quello che Salvini ha fatto: bacchettare la Guardia costiera, bloccare gli umanitari delle Ong, linea dura con i migranti e poche storie. I giudici intanto affronteranno già stamattina il problema della competenza, se è corretto che proceda Palermo oppure girare il fascicolo ai colleghi di Catania.
Inizia una partita giudiziaria, dunque, ma soprattutto politica. E Salvini fa sapere che, politicamente parlando, si sente più forte che mai. Ha incassato la solidarietà di Berlusconi e di Forza Italia, dopo che si era toccato il minimo nei rapporti. Registra con soddisfazione che Di Maio è sempre lì, e anzi, citando i«poteri forti» che lavorano contro il governo, è un assist alla sua polemica diretta contro la magistratura. E ha scoperto con soddisfazione che la sua pagina Facebook ha superato i 3 milioni di «followers» e su Twitter in centomila gli esprimono solidarietà. Dopodiché l’arrabbiatura c’è e non la nasconde. Sabato, nel pomeriggio, mentre era impegnato per arrivare a quella soluzione che poi s’è vista, dal ministero lo hanno avvisato che il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, aveva chiesto alla questura di comunicare gli estremi del ministro e del suo capo di gabinetto, il prefetto Matteo Piantedosi (il quale ci ha tenuto a far sapere di sentirsi «sereno, tranquillo, determinato, convinto di non avere commesso alcun reato»). Era il segnale che di lì a qualche ora sarebbe esplosa la bomba.
Sa già che presto sarà ascoltato dai magistrati. Difenderà la sua decisione, sia sotto il profilo giuridico, sia soprattutto come legittima azione dell’Esecutivo. A suo favore giocano due precedenti importanti: nel 2006, un altro ministro dell’Interno, Beppe Pisanu, fu indagato e poi archiviato per abuso d’ufficio, relativamente a un respingimento da Lampedusa in Tunisia; e nel 2009, toccò a un altro predecessore, Bobo Maroni, che ordinò la riconsegna alla Libia di 227 migranti recuperati da una motovedetta italiana in acque di competenza maltese. Anche lui indagato e poi archiviato, anche se quel caso è poi finito davanti alla Corte europea di Giustizia e l’Italia è stata sanzionata per «respingimento illegittimo».
Sta a lui maneggiare il caso, ora. E per non dare il segno di essere ossessionato solo dalla immigrazione clandestina, sceglie di annunciare un nuovo Piano straordinario contro la droga nelle scuole in 15 principali città italiane, coinvolgendo i Comuni che avranno 2,5 milioni per incrementare i controlli. Lo schema è simile a quello sperimentato per i controlli contro gli abusivi nelle spiagge. È anche l’occasione per una ennesima frecciata alla magistratura: «Io continuo, orgoglioso, il mio lavoro. Sperando di poterlo fare senza essere indagato».

Repubblica 27.8.18
Chi deciderà sul vicepremier
Quel tribunale dei ministri che ha spesso indagato a salve
Introdotto dalla riforma del 1989 ha subito il muro del Parlamento che "graziò" tra gli altri Lunardi e Tremonti
di Enrico Bellavia


Roma Per almeno 90 giorni il destino di Matteo Salvini è appeso alla decisioni dei tre magistrati del tribunale dei ministri di Palermo. Estratti a sorte e in carica per un biennio, hanno il compito di indagare sul sequestro di persona e l’abuso d’ufficio contestati dal procuratore di Agrigento.
Se dovessero decidere per l’archiviazione, sulla vicenda della Diciotti calerà l’oblio tombale. I precedenti di questo organismo, introdotto dalla riforma dell’ 89, che ha riservato ai ministri perfino più garanzie che ai parlamentari, non depongono a favore. Archiviato, ad esempio, è stato Angelino Alfano a Roma per la vicenda dei voli di Stato e per il trasferimento di un prefetto. Ma anche Pier Carlo Padoan e il premier Mario Monti per la risoluzione dei contratti sui derivati di Stato. Lì però fu la stessa procura a chiederlo. Qui, invece la procura si è mossa d’iniziativa e con una corposa memoria.
Fu la Camera a bloccare il processo per favoreggiamento a carico dello scomparso Altero Matteoli avviato a Livorno, rivendicando di dover dare l’autorizzazione mai chiesta. Giulio Tremonti fu risparmiato dal Senato nell’affare della consulenza Finmeccanica al suo studio, vicenda poi archiviata. Così come il Parlamento fece quadrato intorno a Pietro Lunardi per gli affari di Propaganda Fide. Invocarono senza successo il tribunale dei ministri Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti.
Se adesso i giudici di Salvini dovessero decidere che il reato c’è, allora la procura dovrà chiedere l’autorizzazione a procedere al Senato. Con un esito parlamentare prevedibile.
Il sorteggio che ha deciso per loro ha messo insieme tre magistrati di orientamenti diversi, due dei quali hanno però avuto a che fare con l’immigrazione.
Filippo Serio, 44 anni, palermitano, è all’ufficio del giudice delle indagini preliminari dopo l’esperienza al tribunale del Riesame. Nel 2011 finì nelle liste di proscrizione di "Costantino", legato al forum dell’internazionale neonazista Stormfront, fondato dall’americano Don Black, già leader del Ku Klux Klan che lo indicò come " amico degli stranieri". Insieme con altri due colleghi aveva deciso la scarcerazione di un presunto trafficante nigeriano per la mancata nomina di un interprete. E tanto bastò a bollarlo come nemico pubblico. Più di recente, da giudice, ha firmato 45 archiviazioni bipartisan nell’inchiesta sulle spese pazze al parlamento siciliano.
Ha una lunga esperienza da giudice tutelare che si è spesso confrontato con il tema della custodia dei minori stranieri non accompagnati, Fabio Pilato, 52 anni, attivo nella corrente di centro di Unicost, anche lui ora all’ufficio gip del tribunale della sua città dove ha prima respinto e poi accolto la richiesta di archiviazione a carico dell’ex governatore siciliano Rosario Crocetta e dell’ex collega pm Antonio Ingroia, indagati rispettivamente per abuso e falso.
Completa il trio Giuseppe Sidoti, originario di Fossano, 57 anni, giudice civile alla sezione fallimentare. Suo il no al crac per la Palermo Calcio. E c’è la sua firma sul documento con il quale, nel pieno del terremoto che ha travolto la sezione misure di prevenzione con il caso Saguto, è stata introdotta una rigida turnazione negli affidamenti delle curatele.

La Stampa 27.8.18
Turista violentata, indagati due allievi poliziotti
Tedesca di 19 anni stuprata in un ostello a Rimini. La questura: non indosseranno mai la nostra divisa
di Franco Giubilei


Nuovo caso di stupro a Rimini, solo che stavolta i presunti autori sono giovani italiani che, per la scelta di vita che hanno fatto, dovrebbero dare l’esempio: a essere accusati di violenza sessuale di gruppo, invece, sono due allievi siciliani della Scuola di polizia di Brescia di 21 e 23 anni che, nel tardo pomeriggio di sabato, avrebbero abusato di una turista tedesca.
La ventenne, che ieri ha fatto ritorno in Germania insieme alle amiche, sarebbe stata violentata nella camera dell’ostello della gioventù dov’erano alloggiati gli aspiranti poliziotti e dove anche lei occupava una camera insieme con due coetanee. I due ventenni, denunciati a piede libero, sono già tornati a Brescia dove di certo li aspetta un provvedimento disciplinare severo, in attesa che le indagini accertino le loro responsabilità penali: la sospensione e, con buona probabilità, l’espulsione. In ogni caso, fanno sapere dalla questura di Rimini, è praticamente escluso che indosseranno mai la divisa della polizia di Stato.
L’incontro
La vittima è una studentessa che si trovava in vacanza a Rimini da una settimana con due amiche. La conoscenza con i due italiani è nata all’interno dell’ostello in cui le ragazze tedesche avevano preso una stanza vicina a quella dei giovani allievi. Fonti di polizia rivelano che i primi contatti fra i due gruppi ci sono stati venerdì, quando la pioggia battente ha trattenuto gli ospiti dentro la struttura. Sempre il maltempo, sabato pomeriggio, ha favorito un nuovo incontro, stavolta nella camera degli allievi: le tre ragazze ci sono andate e hanno bevuto qualcosa insieme agli altri, passando il tempo a chiacchierare, poi due di loro sono rientrate nella loro stanza, lasciando la ventenne da sola coi due amici, sicuramente senza immaginare che cosa stava per capitarle. Quando è riuscita a uscire, la ragazza ha raccontato alle amiche di essere stata costretta a un rapporto sessuale di gruppo e ha chiesto aiuto al responsabile della struttura, che ha chiamato la polizia. Secondo gli investigatori non era ubriaca, ma saranno le analisi del sangue a chiarire questo aspetto.
Verso le 18 gli agenti della squadra mobile di Rimini sono intervenuti per identificare i due giovani, seguiti dagli esperti della scientifica che hanno esaminato la stanza. Gli inquirenti, coordinati dal pm Davide Ercolani, hanno lavorato fino a tarda notte per ricostruire la dinamica dell’aggressione: dopo aver ascoltato le tre amiche e aver avviato gli accertamenti medico-legali sui reperti, sono scattate le denunce per violenza sessuale. La vittima è stata accompagnata subito al pronto soccorso, dove i medici hanno trovato riscontri al suo racconto. Gli indagati pare sostengano che la ragazza fosse consenziente, ma secondo fonti investigative il quadro delle accuse a loro carico è «abbastanza chiaro». Nei confronti dei due allievi il direttore della Scuola agenti di polizia di Brescia ha già avviato la procedura di sospensione, ratificata dalla direzione del personale a Roma. Se le loro responsabilità saranno confermate, saranno espulsi dalla scuola e non prenderanno mai servizio.
Il Comune di Rimini ha espresso solidarietà alla vittima e si costituirà parte civile nell’eventuale processo. Sempre a Rimini, nella notte fra il 25 e il 26 agosto, quattro stranieri abusarono brutalmente di una turista polacca e di una trans.

La Stampa 27.8.18
Scuola Diaz, Corte dei Conti chiede 8 milioni ai poliziotti
di Marco Grasso


Oltre otto milioni di euro di danni per le violenze alla scuola Diaz. La Corte dei Conti chiude il cerchio sulle inchieste legate al G8, dopo che i giudici contabili alcuni mesi fa aveva inflitto risarcimenti da oltre 6 milioni a membri delle forze dell’ordine e medici coinvolti nelle torture avvenute all’interno della caserma di Bolzaneto. Anche in questo caso i pm hanno chiesto sia i danni patrimoniali (3 milioni di euro) che il danno d’immagine arrecato allo Stato (poco più di 5 milioni). Il caso Bolzaneto aveva coinvolto 26 persone. Per i pestaggi alla Diaz, dove manifestanti inermi furono massacrati e arrestati illegalmente, il pm contabile cita a giudizio 27 appartenenti ed ex appartenenti alla Polizia di stato. Nei prossimi mesi sarà fissata l’udienza davanti ai giudici contabili che dovranno decidere nel merito. Tra i dirigenti e i funzionari per i quali si chiede la condanna a risarcire ci sono Francesco Gratteri, allora direttore del servizio centrale Operativo e il suo vice Gilberto Caldarozzi; il capo della Digos di Genova Spartaco Mortola, il comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, il suo vice comandante e i capisquadra; l’ex capo della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri; oltre agli altri funzionari coinvolti nei fatti. Per la Procura, devono risarcire un danno patrimoniale indiretto, ovvero i risarcimenti alle parti civili pagati dal Ministro dell’Interno, oltre alle spese legali per i processi, il tutto per oltre 3 milioni, e devono essere condannati anche per il danno d’immagine quantificato in 5 milioni.
Il procedimento penale, che si era chiuso nel 2012 con la sentenza di condanna della Cassazione per reati che vanno dal falso in atto pubblico, a lesioni, calunnia, violazione di domicilio, perquisizione arbitraria, violenza privata, danneggiamento, percosse e arresto illegale. Molti reati erano andati prescritti a causa delle lungaggini del processo, ma la Corte dei Conti sottolinea come «sia per i fatti per cui vi è stata una condanna, che per quelli per cui è intervenuta la prescrizioni, si sia accertate le responsabilità e vi è stata condanna al risarcimento danni e al rimborso delle spese, nonchè il riconoscimento di provvisionali in favore delle parti civili». La procura contabile ligure ha aperto altri procedimenti per danno patrimoniale, per gli stessi fatti, in quanto vi sono cause civili di risarcimento danni in corso e ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Corriere 27.8.18
La campagna d’autunno del vicepremier 5 Stelle per smarcarsi dall’alleato
di Alessandro Trocino


ROMA «Noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi». Il vecchio tormentone di Nanni Moretti (ma il Michele di Palombella Rossa era un dirigente della sinistra in crisi) si presta bene a descrivere lo stato d’animo di Luigi Di Maio. Che si trova stretto tra l’irruenza estrema e antisistema di Matteo Salvini e gli scrupoli etici e politici di una parte degli eletti e degli elettori 5 Stelle. Da vicepremier, Di Maio condivide la strada sterrata e impervia che ha preso l’altro vicepremier, che gli sembra in sintonia con gli umori della popolazione (e quindi degli elettori). Ma da leader del Movimento, sa anche che i 5 Stelle sono un movimento con molte anime. E che, per non farsi fagocitare dalla Lega, devono mantenere una loro identità. Per questo, ieri ha dato due segnali ben precisi: si è smarcato sull’arrembaggio contro i magistrati «del Pd», chiedendo rispetto per la magistratura; e ha annunciato una campagna d’autunno «caldissimo», spingendo sui temi cari ai 5 Stelle.
Di Maio sa bene che la formula «due pesi due misure», rimproverata ai magistrati in riferimento alle indagini per il ponte di Genova, può essere usata contro di lui. Fu lui stesso a twittare che Alfano si doveva dimettere «entro cinque minuti», quando l’allora ministro ebbe l’avviso di garanzia per abuso di ufficio. Oggi non più: il ministro può rimanere al suo posto. Ma una volta assicurata la solidarietà sostanziale a Salvini, Di Maio aggiunge: «Noi non attacchiamo i pubblici ministeri». In una linea di continuità con un Movimento da sempre vicino ai magistrati (vedi Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo). E che l’ha visto contrapposto a Berlusconi, non a caso tornato sulla scena proprio in soccorso di Salvini. A questo si aggiunga che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non ha affatto gradito le risposte sprezzanti di Salvini nei confronti del magistrato e il vicepremier M5S non può non tenerne conto.
Salvini e Di Maio sono destinati a fare ancora un tratto di strada insieme, breve o lungo che sia. Ma le «convergenze parallele» dei due sono destinate a essere contrappuntate da non pochi ostacoli e allontanamenti, che sia un gioco delle parti o una vera diversità. Ieri Di Maio ne ha dato un saggio. Spiegando, in modalità dialogante, che «se l’Europa desse segnali di aiuto potremmo ravvederci». E annunciando che il «no way» australiano, ovvero la linea di tolleranza zero verso gli immigrati, «non è nel contratto di governo». Parole che arrivano sulla scia della nota dei capigruppo con la quale il Movimento prendeva le distanze dall’incontro che Salvini terrà domani con il premier ungherese Orban.
L’altra preoccupazione del leader dei 5 Stelle è quella di tenere testa allo strapotere mediatico di Salvini, abilissimo nel manovrare i social e nel cavalcare le emergenze. Il timore è che a settembre il leader leghista usi come un ariete il decreto sicurezza e la legittima difesa. Per questo ieri Di Maio ha lanciato la sua campagna di autunno. Annunciando l’impegno in una serie di temi che non sono tanto del governo, quanto del Movimento 5 Stelle.
Naturalmente c’è il tema favorito dai 5 Stelle, ovvero quello dei «privilegi», per i quali si prevede un’ulteriore stretta: e quindi si riaffronteranno le «pensioni d’oro», i vitalizi degli ex senatori, le doppie indennità dei parlamentari e le auto blu. Ma ci saranno anche il «daspo per i corrotti», il reddito di cittadinanza e il superamento della Fornero. Zero o poche citazioni, invece, per la flat tax e la sicurezza. Perché è su questo, sulla ribalta mediatica e sui soldi necessari per portare a casa le misure identitarie dei due Movimenti, che si giocherà la campagna d’autunno.

Repubblica 27.8.18
Intorno al consenso per Salvini cresce l’idea della Lega a 5 Stelle
I grillini attratti dal nuovo leader
Per gli italiani è l’uomo politico più proiettato verso il futuro Il vicepremier interpreta bene il ruolo del "Difensore cinico" In un anno tra gli elettori del M5s quelli favorevoli a respingere gli immigrati sono saliti dal 27% al47%
di Ilvo Diamanti


La politica italiana è sempre in viaggio.
Sempre in fuga.
Inseguendo un Aquarius.
Oppure una Diciotti. Ieri come oggi: una nave carica di migranti in fuga dalla loro terra e in viaggio verso l’Europa. In transito, necessariamente, per l’Italia. Il regista di questa rappresentazione - ricorrente - è sempre lo stesso. Matteo Salvini.
Leader della Lega. Vicepresidente del Consiglio. E ministro dell’Interno. Responsabile della difesa dei nostri confini dai nemici che ci minacciano. Minacciano di invaderci. E garante della nostra sicurezza. Ma, anche, a maggior ragione, della nostra in-sicurezza.
Dalla quale origina una parte rilevante dei consensi al suo "partito personale". LdS. E, dunque, a Salvini stesso. Perché Salvini, nella "Mappa delle parole" realizzata da Demos-Coop in base alle opinioni degli italiani, risulta il "leader del futuro". Non certo il più amato, ci mancherebbe. Chi sfida le nostre paure deve, al tempo stesso, alimentarle.
Altrimenti rischierebbe di perdere il lavoro… Tuttavia, secondo gli italiani, Salvini è il soggetto maggiormente proiettato verso il futuro. La figura che interpreta meglio il sentimento del presente. E del tempo che verrà. Insieme (più precisamente: un poco sotto) a Papa Francesco. Il quale riscuote sentimenti molto più favorevoli (seppure in calo, rispetto agli ultimi anni). Tuttavia, questa simmetria è significativa.
Emblematica. Perché permette di azzardare una definizione forse "dissacrante", ma, a mio avviso, (proprio per questo) efficace.
Salvini: è l’anti-Papa.
Stigmatizzato da Famiglia Cristiana in una copertina che ha sollevato dibattito e polemiche. Il volto del vice-premier leghista appariva sotto-lineato da una didascalia feroce, nella sua semplicità: "Vade retro Salvini". E la Chiesa, in particolare la CEI, ha svolto un ruolo importante in questa occasione, offrendo la propria disponibilità all’accoglienza. Nella "Mappa delle parole" di Demos-Coop, peraltro, Papa Francesco è associato, anzitutto, alla "solidarietà". L’anti-Papa Matteo: all’intento di "respingere gli immigrati". Ma anche all’immagine del Leader Forte, che sta giusto in mezzo alla Mappa.
Parole-chiave utili a definire la nostra visione del futuro. E i nostri valori del presente. Matteo Salvini evoca, dunque, il ri-sentimento e le paure che fanno sentire gli italiani vulnerabili. Interpreta il ruolo del "difensore cinico". E agisce di conseguenza. In modo consapevole ed efficace. Da vero specialista dell’Opinione Pubblica. Così, sceglie con cura i nemici, seleziona i temi più ansiogeni. E li agita, li persegue senza mezze misure. Senza mediazioni e senza timori. D’altronde, un sondaggio di Demos condotto nello scorso giugno aveva rilevato un consenso elevato (quasi 60%) intorno alla decisione del governo e, dunque, di Salvini, di impedire alla nave Aquarius di sbarcare nei porti italiani. Mentre le stime di voto dei principali istituti demoscopici segnalavano una grande rimonta della Lega, anzitutto, ma non solo, sul M5s. (Il Centro-Sinistra, ormai, fatica perfino a comunicare la propria presenza). Non penso che gli italiani, nel frattempo, abbiano cambiato opinione. (Lo verificheremo presto. Nei prossimi sondaggi. Che faremo non appena si sarà compiuto il rientro dalle ferie, che, almeno secondo me, condizionano la rappresentatività campionaria delle indagini). Oggi l’operazione si ripete. Con una cornice scenica ancor più ampia.
Ancor più accurata. Perché il "carico" di paura trasportato dalla Diciotti è rimasto lì. Fino a ieri.
Davanti al porto di Catania. Sotto i riflettori. In tempo reale. In un periodo nel quale le notizie latitano. La politica latita. Meglio: latitava. Negli anni scorsi. Mentre oggi è attratta e risucchiata dai temi – e dai bersagli - imposti da Salvini. Le critiche rivolte al ministro dell’Interno per l’incontro con il Presidente dell’Ungheria, Viktor Orban, campione del neo-populismo della Nuova Europa, suggeriscono come il problema cominci ad apparire evidente al gruppo dirigente del M5s. Che si vede oscurato, sempre più all’ombra di Salvini. Ma questa reazione avviene con molto – forse troppo - ritardo. Perché, ormai, appare chiaro lo slittamento progressivo degli elettori del M5s verso lo stesso bacino della LdS.
Attratti dalla leadership di Salvini.
Il vero "uomo forte" alla guida della coalizione di governo.
Non per caso, nella Mappa semantica Demos-Coop, Di Maio sta sotto a Salvini. Accanto al M5s.
Ma, soprattutto, è significativo osservare come gli elettori del M5s, sul tema degli immigrati (da respingere), si siano avvicinati, più degli altri, agli orientamenti dei leghisti. Nell’ultimo anno, infatti, nella base del M5s, l’adesione a questo "obiettivo" è salita di 20 punti percentuali: dal 27 al 47%.
Mentre fra i leghisti è rimasta costante, poco sotto al 60%. Nello stesso periodo, fra gli elettori del M5s, il sostegno al leader della Lega è cresciuto vertiginosamente. Dal 12 al 50%.
Così intorno a Di Maio si incontra l’elettorato più salviniano. Dopo la Lega (di Salvini). Infine, tra gli elettori del M5s i "favorevoli" alla LdS si allargano sensibilmente: dall’11 al 37%. Ricambiati, nella stessa misura, dai leghisti.
Ma è possibile che la rottura fra Salvini e i Magistrati, storici "nemici" di Berlusconi, in futuro riavvicini, almeno un poco, gli elettori della LdS e di FI. Mentre le parole di Di Maio, in difesa dei magistrati, risultano, nuovamente, tardive. E timide.
Insomma, ci attende un autunno (politicamente) caldo. Più ancora dell’estate. Perché l’in-sicurezza, le paure e le tensioni (politiche) costituiscono un terreno di coltura favorevole, anzi, ideale, per la Lega di Salvini. Che difficilmente rinuncerà alla "strategia della tensione", dalla quale ha ricavato consensi e centralità politica. Soprattutto in vista delle prossime elezioni politiche, che potrebbero essere anticipate alla primavera del prossimo anno. (Soprattutto se convenisse a Salvini…). A quella scadenza potrebbe partecipare una nuova (e, al tempo stesso, vecchia) formazione politica, che oggi sembra crescere e coagularsi intorno all’Uomo Forte: la L5s.
La Lega (a) 5 stelle.

Repubblica 27.8.18
Salvini all’incasso del populismo
di Massimo Giannini


La macabra danza sovranista intorno alle povere vite di 150 disperati sembra concludersi in gloria per Salvini. Può ergersi a martire di fronte alle masse impaurite e adoranti, e lucrare un altro tesoretto di consensi persino su un avviso di garanzia inseguito e provocato a ogni costo.
Il "ministro della mala vita" non meritava questo "favore", dicono quelli che la sanno lunga. E non hanno tutti i torti, vista la cinica astuzia con la quale il Conducator leghista ha trasformato subito un possibile inciampo giudiziario in un sicuro dividendo politico.
Ma cosa deve fare una democrazia occidentale, di fronte a un uomo di governo che per incassare un altro pugno di voti viola scientemente le leggi dello Stato e le norme del diritto internazionale? Deve auto-limitarsi nel funzionamento delle garanzie costituzionali e del bilanciamento dei poteri, per non fare il gioco di un ministro che, indagato, grida in piazza "gli italiani sono con me"?
La squallida bravata salviniana sulla nave Diciotti, e quelle che verranno nelle prossime settimane, hanno nientemeno che questa posta in palio: se non la tenuta, la qualità democratica del Paese. E non è un’esagerazione, con buona pace delle anime belle che consideravano eccessivi gli allarmi sulla natura tecnicamente "eversiva" dell’alleanza legastellata. Qui non c’è solo una rottura già insanabile con l’Europa (per quanto l’Unione sia scandalosamente inadempiente su molti fronti). A distribuirsi quel manipolo di eritrei rappresentati come "emergenza" abbiamo chiamato l’Irlanda e l’Albania. A elemosinare il riacquisto dei nostri Btp, che da gennaio la Bce smetterà di comprare, siamo andati in America, in Cina, in Russia.
"Italexit" è già quasi compiuta. Il "governo del cambiamento" ha davvero già cambiato gli orizzonti e i riferimenti geopolitici dell’Italia, collocandola di fatto fuori dall’Europa dei Padri Fondatori. Non ancora la Polonia di Kaczynski o l’Ungheria di Orban (al quale domani il responsabile del Viminale bacerà la pantofola). Ma non più la Germania di Merkel o la Francia di Macron. Questo è il claustrofobico Club delle Piccole Patrie nel quale ci sta relegando la coalizione gialloverde a trazione salviniana.
Ma stavolta c’è di più. Salvini può imporre il suo Nuovo Ordine Sovranista per due ragioni. La prima è che ha ormai il comando della coalizione, avendo ridotto Conte e Di Maio al ruolo di "utili idioti". La seconda è che può farlo — fregandosene della Ue, della magistratura, dell’opposizione — perché si considera protetto dall’unica fonte di legittimazione che riconosce, cioè il popolo. Se il popolo è con lui (e in buona misura lo è) non esistono codici né procure.
È un dispositivo di potere aberrante, che abbiamo già conosciuto. Salvini porta a compimento il piano avventurista e plebiscitario del suo ex alleato Berlusconi che oggi, in questa Italia senza memoria, sembra diventato De Gaulle. L’Unto del Signore fu il primo a considerarsi al di sopra della legge, in virtù del consenso elettorale che cancellava i suoi reati e i suoi peccati. Il vicepremier in cravatta verde segue le stesse orme. Sostituite le "toghe rosse" con i "pm politicizzati", i "comunisti" con i "radical chic", e il gioco è fatto. C’è un’inquietante coerenza tra la vecchia destra berlusconiana e la nuova destra salviniana. Qualunque forzatura diventa lecita, se è quello che la massa indistinta condivide o pretende.
Nel Ventennio berlusconiano il sistema seppe reagire. Il Quirinale rinviò alle Camere la legge Gasparri sulle tv e la legge Castelli sulla giustizia. La Consulta e i giudici ordinari ressero l’urto, e la stessa cosa fece talvolta il Parlamento, che almeno non votò con i due terzi la mostruosa riforma costituzionale del 2005. Tra difficoltà e cedimenti, le istituzioni furono più forti di chi avrebbe voluto snaturarle, piegandole ai suoi bisogni e ai suoi disegni. Oggi la sfida si ripete. Persino più insidiosa, complice l’eclissi di una sinistra che, come dice Marco Minniti, «ha lasciato orfana la sua gente». Ma anche stavolta la democrazia italiana deve essere capace di difendersi, e di difendere il popolo da sé stesso.

Il Fatto 27.8.18
A metà tra Nato e Putin. Praga oggi ha due facce
Nel 1968 mesi di dura rivolta, nel 2018 solo pochi giorni di protesta. Ci sono tre parole all’ingresso del ‘Muzeum Komunism’: sogno, realtà, incubo
di Michela A. G. Iaccarino

La loro bandiera non può fermare l’invasione, ma ai ragazzi non importa: decidono comunque di arrampicarsi sul carro armato sovietico per sventolare il tricolore del loro Paese. Quei giovani cechi rimangono lì immobili da 50 anni nella stessa, celebre foto in bianco e nero. Uno scatto che fece il giro del mondo per raccontare l’agosto di Praga del 1968. Esattamente 50 anni dopo, i nipoti di quegli uomini che scesero per strada contro le truppe del Patto di Varsavia, hanno messo la memoria della loro Primavera nel Muzeum Komunismu, nel centro della Capitale, fermata della metro Mustek. All’ingresso dell’edificio ci sono tre parole tra un’enorme stella rossa e la statua di Marx: “sogno, realtà, incubo”. Ma che cosa sia stato quel pezzo di storia i cechi sembrano non averlo ancora deciso. È passato mezzo secolo da quell’agosto a questo, da quei lunghi mesi di rivolta a questi giorni di breve protesta, alternati da lunghi silenzi e fischi. Tra est ed ovest, tra Mosca e Washington, tra ieri e oggi: in biperenne bilico rimane la memoria e l’oblio di Praga.
Ieri, 1968. Dopo le dimissioni di Antonin Novotny dalla Presidenza della Repubblica, si rafforzò la nova vlna, la nuova onda ceca, che richiedeva democrazia e libertà al regime socialista. Fu battezzata Primavera. Seguirono mesi di tentativi di liberalizzazione e riforme nel Paese, ma l’esito di quella stagione fu l’intervento delle truppe del blocco di Mosca. I carri armati sovietici finirono per le strade di Praga, la firma di Aleksander Dubecek, che aveva preso il posto di Novotny, invece finì sul protocollo d’intesa con il Cremlino per “normalizzare” la situazione politica. Il ’68 praghese fu silenziato dai cingolati. Dubecek, rappresentante del “socialismo dal volto umano”, poi fu espulso dal partito e finì i suoi giorni da manovale in un’impresa forestale. Oggi, 50 anni dopo, il premier filoeuropeista di Praga è un tycoon milionario, fischiato dai giovani praghesi quando si è presentato cinque giorni fa alla commemorazione per le vittime di allora.
Perché dalle porte girevoli da quell’epoca a questa sono passati in molti, ma soprattutto il premier stesso. Andrej Babis, slovacco di nascita, 63 anni, il “Berlusconi di Praga” è figlio di un ufficiale della nomenklatura comunista. Diventò membro del partito della falce e martello nel 1980, in seguito informatore della sua polizia segreta, anche se ha più svolte smentito questa notizia dopo le indagini a suo carico alla corte di Bratislava. “Booh” urlarono ai sovietici i giovani cechi nell’agosto 1968 e “booh” nel 2018 i ragazzi di Praga hanno urlato a lui quest’estate.
Praga oggi rimane una città a due teste: una è quella filo-NATO di Babis, l’altra è quella del presidente filorusso Zeman, alleato fedele di Putin, che ha deciso di sottrarsi del tutto alle commemorazioni dell’invasione russa. Secondo il suo portavoce, Zeman si è già opposto nel 1968, “quando per le sue critiche ai sovietici perse il lavoro da insegnante universitario”. Per riempire la sagoma dell’assenza del presidente del loro Paese, non sapendo bene cosa fare, le tv ceche hanno deciso di mandare in onda il discorso di commemorazione del suo omologo slovacco, Andrej Kiska.
Musei e memorie. Dal Muzeum a Mustek, dopo un paio di minuti sottoterra, si arriva alla metro Staromesto, Città Vecchia. Alla facoltà di Filosofia, il memoriale di Jan Palach – lo studente di 21 anni che per protesta agli invasori decise di cospargersi di benzina e darsi fuoco nel gennaio 1969 – è coperto da una protezione in legno. Chi vuole lasciargli fiori rossi si rammarica, rinuncia e torna indietro. A ricordare Jan, simbolo della resistenza ai sovietici, ci sono nel parco di fronte due sculture e una poesia su una lapide di bronzo. L’intero edificio dell’Università Carlo IV dove studiava Palach, nella piazza oggi ribattezzata in suo onore, è coperto da un enorme telo blu: è in perestroika, ricostruzione. Intorno vagano visitatori ignari, con cani al guinzaglio e bastoni da selfie. Poi picnic di visitatori distratti al sole. Ieri erano invasori: oggi i russi sono turisti – decine di migliaia all’anno -, ma soprattutto imprenditori e, in politica, fraterni alleati di ritorno.
Secondo l’ultimo sondaggio fatto a Mosca, per un terzo dei russi, le truppe del Patto di Varsavia fecero bene ad “intervenire” in questa città, ma secondo più della metà “boh”: perché i russi di oggi non sanno nemmeno cosa è successo allora e qui, nel 1968 a Praga.
Dal 1968 al 2018. Da un Jan all’altro: se ieri era Palach, oggi è Kuciak. Migliaia di persone anche in Repubblica Ceca continuano a ricordare il reporter slovacco ammazzato, Jan Kuciak, ucciso sei mesi fa nella sua casa insieme alla fidanzata, perché indagava sulle connessioni della ’ndragheta calabrese e gli esponenti politici corrotti del suo Paese, che fino al 1993, era parte di questo: la Cecoslovacchia.
Quando il presidente Zeman è tornato a insultare la stampa nazionale, suo bersaglio preferito, il 15 marzo scorso, i giovani cechi di piazza Venceslao hanno invaso le strade urlando “vergogna” e hanno agitato in aria i cellulari. Quei led contro il buio erano contro il loro governo e per la memoria di Jan, che a differenza del primo, Palach, è divenuto martire senza volerlo, ultimo simbolo di quest’epoca nuova. Per lui in Repubblica Ceca in migliaia più volte sono scesi strada, in Slovacchia invece ci sono state le più grandi proteste mai viste dal 1989: marce che hanno portato alle dimissioni del premier slovacco Robert Fico, quello che chiamava i giornalisti “sporche prostitute” e che ha dominato la scena politica per una decade. Mentre gli slovacchi pianificano altre manifestazioni, i cechi silenziosi dai ponti della loro città attentamente osservano i fratelli slavi. E chi è venuto qui cinquant’anni dopo a cercare scintille di quella Primavera a Praga, deve andare a Bratislava.

Il Fatto 27.8.18
Gli inviati italiani nella Primavera delle illusioni
di Massimo Novelli


“Cara Valeria, approfitto della gentilezza del collega Ochetto della tv per scriverti. Qui la faccenda continua e spero di poter rientrare giovedì: ma non lo so. Sto vedendo se posso avere il visto della Polonia che, per fortuna, viene negato anche ai colleghi comunisti”. È il 9 aprile del 1968 quando la signora Valeria, moglie di Piero Novelli (1929-1983), inviato speciale della Gazzetta del Popolo di Torino, riceve la lettera del marito dalla Cecoslovacchia. Sono i giorni in cui la Primavera di Praga, il tentativo di un “socialismo dal volto umano” intrapreso da Alexander Dubcek e dagli altri riformatori, fa precipitare i rapporti con Mosca. In quelle ore Davide Lajolo, il comandante “Ulisse” della Resistenza e il biografo di Cesare Pavese, comunista non ortodosso e già redattore capo di Novelli a l’Unità, annota sul diario (pubblicato in Ventiquattro anni): “I commentatori dei giornali sovietici, di solito tardivi a pronunciarsi su fatti sgradevoli, cominciamo a schierarsi apertamente contro i rinnovatori” di Praga. Mancano più di 4 mesi all’invasione russa del 21 agosto, che nessuno, salvo forse i sovietici, ha messo in conto. Pure il segretario del Pci Luigi Longo, narra Lajolo, è andato a Praga e ritorna “convinto che la strada intrapresa dai rinnovatori è giusta”.
Insieme a Enzo Bettiza, Giorgio Bocca, Igor Man, Valerio Ochetto (che sarà arrestato a Praga nel 1972), e a Gianfranco Piazzesi, Bernardo Valli e Giuseppe Boffa (de l’Unità), anche Piero Novelli detto Pierino, ma il suo vero nome era Dario, va su e giù dalla Cecoslovacchia. La possibilità di riformare il socialismo in senso democratico, come sta facendo Dubcek, emoziona chi, come Novelli, era stato comunista e poi aveva abbandonato il Pci dopo i fatti d’Ungheria del 1956. In una corrispondenza del 14 agosto 1968, a una settimana dall’arrivo dei carri armati del Patto di Varsavia, Novelli incontra i redattori del settimanale Literàrni listy, che aveva contribuito a demolire il regime di Novotny, favorendo l’avvento di Dubcek alla guida del Partito comunista. Scrive che gli raccontano che “le copie si esauriscono in un baleno e pensano a un rinnovo e ampliamento sia nella veste editoriale che nella tiratura. Sono tutti al fianco di Dubcek e sanno che il loro destino è legato al segretario”.
L’occupazione sovietica, l’arresto di Dubcek, la repressione (circa 200mila esuli, 500mila espulsi dal partito), coglie Novelli in Italia. Nel giro di pochi giorni, passando dalla frontiera con l’Austria grazie a un capitano dell’esercito ceco che simpatizza con i rinnovatori della Primavera, è di nuovo in Cecoslovacchia.
In un’altra lettera inedita dell’Archivio Famiglia Novelli, un diplomatico italiano, Gino Tozzo, rievocherà da Helsinki a Piero, nel ’72, quei giorni, così come la crisi di Cipro. Di questa dice: “È ancora viva in me l’avventurosa serata di Nicosia di tanti anni fa”, nel “campo dei soldati greco-ciprioti a bere metaxa”. E aggiunge: “Pure nel famoso agosto ’68 mi trovavo a Praga, e lei, sono quasi certo, alloggiava al mio stesso albergo, il Park Hotel. Ho vissuto tutta la vicenda del popolo cecoslovacco, e anche da lì ho seguito con interesse i suoi articoli”.
Quando Ochetto verrà arrestato a Praga per aver introdotto un manoscritto giudicato ostile al regime, Tozzo si diede da fare per la scarcerazione. “Quanto lavoro! – scrive – Quante ore alla cifra e alla telescrivente!”. Era il ’72, la Primavera un lacerato ricordo. Piero Novelli (che era mio padre) aderì a molte iniziative per far liberare Ochetto. Non tutti i suoi colleghi dell’agosto 1968 risposero all’appello.

La Stampa 27.8.18
Putin costretto a cedere agli oligarchi
Niente prelievi sui tesori miliardari
Dopo le proteste, il Cremlino rinuncia a finanziare il programma sociale con i soldi dei grandi imprenditori
di Giuseppe Agliastro


Gli oligarchi devono investire seguendo gli ordini del Cremlino. Alla fine lo Stato russo ha desistito dall’idea di sottrarre diversi miliardi di euro a 14 giganti della siderurgia, della petrolchimica e dell’industria mineraria, ma in cambio queste grandi imprese dovranno aiutare Putin a raggiungere gli obiettivi economici e sociali che ha promesso per il suo quarto mandato presidenziale. Come? Spendendo ingenti somme di denaro in infrastrutture, digitalizzazione e nuove tecnologie. L’accordo, che sa di compromesso, è stato raggiunto venerdì in un incontro tra il consigliere economico del Cremlino, Andrey Belousov, e alcuni top manager e oligarchi delle società interessate. Si tratta di colossi come Severstal, Evraz e Metalloinvest (siderurgia), Sibur (petrolchimica), Polyus (oro) e Alrosa (diamanti). E quindi di paperoni come Dmitry Mazepin, Alisher Usmanov e soprattutto il “re dell’acciaio” Alexiei Mordashov, considerato nel 2016 l’uomo più ricco della Russia con i suoi 17 miliardi di dollari.
Tutto nasce dal cosiddetto “Decreto di maggio” con cui Putin, fresco di trionfo elettorale, ha annunciato i traguardi che si prefigge per i prossimi sei anni da capo dello Stato: l’ingresso della Russia nella top 5 dell’economia mondiale, l’aumento della speranza di vita da 72,5 a 78 anni, l’innalzamento del reddito reale dei cittadini, la crescita demografica, una maggiore qualità dell’istruzione pubblica. Ma anche lo sviluppo tecnologico e un crescente peso delle tecnologie digitali nel sistema produttivo. Tutti ottimi propositi. Come realizzarli, però, con un’economia che comincia solo ora a riprendersi dalla batosta del 2014 causata dal crollo dei prezzi del petrolio e dalle sanzioni occidentali per la crisi ucraina? A suggerire a Putin una possibile soluzione è stato il suo consigliere Andrey Belousov: prendere 513,7 miliardi di rubli (circa 6,5 miliardi di euro) a 14 grandi imprese siderurgiche e petrolchimiche che l’anno scorso hanno registrato profitti record e un margine operativo lordo di quasi 20 miliardi di euro.
La minaccia delle sanzioni
Belousov ha scritto una lettera a Putin per illustrargli la sua proposta, giustificata, secondo lui, dal fatto che queste aziende sono sottoposte a una pressione fiscale minima, mediamente del 7%, e dovrebbero quindi contribuire maggiormente al successo del loro Paese, minacciato da sempre nuove sanzioni americane.
L’idea di Belousov però è stata subito bocciata da tutti i ministeri interpellati e stroncata dall’Unione russa degli imprenditori e degli industriali. Il motivo del “nyet” è semplice: il breve effetto positivo del “sequestro” o della “super tassa” sarebbe azzerato dalla riduzione degli investimenti, da possibili tagli del personale e da eventuali perdite di quote d’esportazione. «Un ulteriore aumento del carico fiscale e un’appropriazione dei profitti delle imprese da parte del governo non sono all’ordine del giorno», si è affrettato a precisare il ministero delle Finanze.
Alla fine, Stato e imprenditori hanno trovato un’intesa. Dopo l’incontro di venerdì con i top manager, Belousov ha detto di essere stato «piacevolmente colpito» dal fatto che «le aziende siano pronte a impegnarsi per realizzare il programma sociale dei prossimi sei anni». «Gli stessi imprenditori - ha affermato il consigliere di Putin - si sono detti pronti a investire, ma bisogna suggerirgli dove, fornirgli un modello e il sostegno statale». Gli investimenti - sempre stando a Belousov - interesseranno le infrastrutture e lo sviluppo tecnologico. Secondo il presidente dell’Unione degli industriali, Aleksandr Shokhin, non si tratta di creare «un sacco in cui raccogliere il denaro di una colletta da far gestire al governo». Per decidere come aiutare Putin a realizzare il suo programma sarà invece creato un gruppo di lavoro a cui parteciperanno gli imprenditori e che sarà guidato dallo stesso Shokhin e dal vice premier e ministro delle Finanze Anton Siluanov. Belousov ha inoltre ridotto da 513 a 200-300 miliardi di rubli (2,5-3,8 miliardi di euro) il sostegno che si attende dagli oligarchi. «Qualcuno - ha detto - sarà recalcitrante, ma se ne occuperà l’Unione degli industriali». «L’importante - ha ribattuto il presidente della Confindustria russa - è che non se ne occupi il Comitato investigativo».

Il Fatto 27.8.18
I cellulari compromettono la qualità dell’insegnamento
Gli strumenti elettronici in aula andrebbero proibiti. La lezione universitaria è un’arte molto semplice: una persona parla e gli altri ascoltano con un atteggiamento attivo e una partecipazione attenta
di Maurizio Viroli


Ho raccontato a ottimi colleghi italiani che da qualche anno proibisco l’uso di cellulari, tablet e computer agli studenti che seguono le mie lezioni. Io stesso non utilizzo strumenti elettronici in aula se non per proiettare immagini indispensabili alla lezione. Ovviamente accade che ci siano casi eccezionali, ma eccezionali, appunto. Se uno studente trasgredisce la regola, tolgo un punto nella valutazione finale; se trasgredisce una seconda volta lo espello dall’aula. Naturalmente spiego bene le regole e le ragioni delle regole durante la prima lezione e tutto è scritto nella descrizione del corso. Nessun comportamento arbitrario da parte mia, ma inflessibilità. Una cara collega, docente di letteratura italiana, ha sostenuto che, invece, a suo giudizio i supporti elettronici aiutano a migliorare la qualità della lezione. Mi ha spiegato che così gli studenti possono verificare all’istante se le interpretazioni del docente sono corrette, possono arricchire le analisi con altri riferimenti testuali, possono criticare le idee citando testi diversi.
Le sue parole mi hanno indotto a riflettere, ma resto fermo nella mia convinzione che gli strumenti elettronici compromettono seriamente la qualità dell’insegnamento e danneggiano gli studenti. La lezione universitaria, almeno nelle mie materie (filosofia politica, ma credo che il discorso valga per tutte le discipline umanistiche) è un’arte molto semplice: una persona parla e gli altri ascoltano. Quando parla il professore gli studenti ascoltano; quando parla uno studente il professore e gli altri studenti ascoltano. Ascoltare, ci ha insegnato Guido Calogero nell’aureo libretto L’abbiccì della democrazia (1946), esige il rispetto di chi parla (non ascoltiamo persone che disprezziamo), convinzione di avere qualcosa da imparare (se fossimo certi di sapere tutto non ci sarebbe ragione di ascoltare gli altri) e soprattutto un atteggiamento attivo e una partecipazione attenta. Ascoltiamo davvero quando siamo presenti non solo con il corpo ma anche con la mente e con lo spirito e quando nulla ci distrae. Tutti i sensi devono partecipare all’ascolto e aiutare la comprensione dell’argomento trattato.
Orbene, quando gli studenti con i loro iPhone sono collegati a tutto il mondo non sono ‘lì’; sono ovunque, ma non lì. Quella particolare e fragile comunità che è l’aula universitaria non esiste più. Al suo posto c’è una stanza con una persona che siede in cattedra e parla a persone che siedono dietro a banchi. Aggiungo a questa anche un’altra riflessione. Poiché nelle mie aule le regole sono chiare e note a tutti, considero grave mancanza di rispetto trasgredirle sia nei miei confronti sia nei confronti dei compagni che si attengono a quelle regole. Là dove non c’è rispetto per il docente e per gli studenti, ancora una volta, non c’è aula universitaria. Meglio sarebbe, per tutti, sospendere le lezioni e andare a impiegare il proprio tempo in altro modo.
I risultati della mia severità sono, però, confortanti. Senza iPhone e computer l’attenzione degli studenti è intensa e continua. Posso guardarli negli occhi e capire quando riesco a suscitare la loro curiosità, o addirittura, il loro stupore. Vedo che si commuovono quando spiego Se questo è un uomo di Primo Levi o i discorsi di Martin Luther King. Posso adattare la lezione alle sensibilità degli studenti. Non paia autocelebrazione ma, con mia sorpresa, le valutazioni di fine corso sono sempre molto positive.
Gli esseri umani, ci insegnano i classici, sono fatti per contemplare il cielo, vale a dire cercare il divino e l’ideale. Tratto caratteristico della persona libera è saper guardare gli altri negli occhi; segno certo del vero vivere civile sono uomini e donne che dialogano guardandosi. La libertà morale che consiste nell’avere principi propri, cercati e capiti esige l’abito di guardare dentro di sé e interrogare in silenzio la propria coscienza. Mi auguro di sbagliare, ma a me pare che stiamo assistendo a una vera e propria trasformazione antropologica: al posto degli esseri umani che guardano al divino e all’ideale, agli altri e in se stessi, cresce attorno a noi il numero di persone, giovani e vecchi, con gli occhi sempre volti in basso sull’ iPhone, incapaci di conversazione civile, che non sanno neppure cosa voglia dire raccoglimento interiore o porsi una domanda morale.
La scuola in generale, e l’università in particolare, non deve in alcun modo assecondare questa tendenza ma combatterla con il massimo impegno. Prima ancora di insegnare nozioni, metodi d’indagine e tecniche di varia guisa, deve cercare di ispirare l’amore per la libertà morale, per la profondità del pensiero, per la vera conversazione civile.

giù la testa!!!
La Stampa 27.8.18
Sparatoria al campionato di videogames, quattro morti
di Paolo Mastrolilli


Sparatoria nel centro di Jacksonville, in Florida, dove almeno quattro persone sono morte e undici sono rimaste ferite, durante un attacco lanciato all’interno di una sala giochi. I colpi sono stati registrati in diretta mentre avvenivano, e tra le vittime c’è anche il presunto killer.
Ieri pomeriggio al GLHF Game Bar della città, nella zona del Jacksonville Landing, era in corso il Madden 19 Tournament, un torneo di video game dedicato al football della Nfl. Dalla registrazione che era in corso, all’improvviso si sentono una serie di spari, almeno una ventina. L’audio è raggelante. I presenti si accorgono in fretta di cosa sta accadendo, e cominciano ad urlare. Uno grida: «Perché stai sparando??!!». Altri iniziano ad urlare per il dolore delle ferite.
Probabile lite tra bande
La polizia ha subito lanciato l’allarme, invitando la popolazione ad evitare la zona del Landing. Il timore era che si trattasse di un attacco premeditato, condotto da più persone. Quando gli agenti hanno raggiunto il Game Bar, almeno quattro persone erano state uccise e undici erano rimaste ferite. Tra i morti c’era anche il presunto omicida. Incerta invece la presenza di un complice.
Il bilancio della sparatoria non era ancora definitivo quando il giornale è andato in stampa, ma l’attacco sembrava finito. Le cause sono incerte, però il sospetto è che si sia trattato di una lite fra bande. Solo due giorni fa, una persona era morta e due erano rimaste ferite sempre a Jacksonville, dopo una rissa scoppiata alla fine di una partita vera di football. La polizia aveva poi confermato che si era trattato di una lite tra le gang locali.
L’episodio di ieri potrebbe essere un regolamento di conti scaturito da questa vicenda, oppure una nuova esplosione di violenza. Sui social media sono state diffuse speculazioni sul coinvolgimento di un supremacista bianco, ma queste notizie non hanno trovato conferme nel rapporto iniziale della polizia.
Alcuni testimoni hanno detto che la sparatoria era cominciata dopo che una persona aveva perso al videogame, si era infuriata, e aveva cominciato a colpire gli altri giocatori. Le stesse fonti hanno detto che forse l’omicida si è tolto la vita, quando gli agenti stavano arrivando. In attesa di conoscere meglio la dinamica della sparatoria, è tornato anche il dibattito sulla diffusione delle armi negli Stai Uniti, che contribuisce a favorire queste tragedie, qualunque ne siano le cause scatenanti e le motivazioni dei killer.

Corriere 27.8.18
I 105 anni di Pahor: «Al mattino pillola e 7 fettine di pane»
Lo scrittore: da quando sono uscito dal lager il passare del tempo mi lascia indifferente
intervista di Marisa Fumagalli


Buon compleanno, Pahor, come va? «Sto facendo colazione».
Al telefono, le parole dello scrittore triestino arrivano nitide, squillanti. Questa è una giornata speciale per lui che compie 105 anni. «Oh, non ci penso proprio. Le ore e i giorni scorrono come al solito. Ecco, se non fosse per una fastidiosa ernia iatale di cui soffro starei meglio», taglia corto il grande vecchio. E aggiunge: «Ascolti: da quando sono uscito vivo dal campo di concentramento il passare del tempo mi lascia indifferente. Non mi soffermo, guardo avanti. Ogni anno che la Natura mi concede è un privilegio ed io le sono riconoscente. Ammetto che me ne ha regalati molti».
Sono le 10 di domenica mattina (ma lui è sveglio dalle 5 e 30) e pare di vederlo, seduto al tavolo della piccola sala da pranzo davanti alla quotidiana tazza di caffè e latte. Aggiunge dettagli, Boris Pahor, che completano efficacemente la scena immaginata: «Accompagno la mia bevanda calda con pane burro e marmellata. Precisamente, il panino rotondo, che qui chiamiamo rosetta, viene diviso in sette fettine. Prima provvedevo io stesso, ora a tagliarlo pensa Nora, la mia bravissima aiutante (Pahor non usa mai la parola «badante», piuttosto dice «gentile signora», ndr). Spalmo le fettine con il burro buono che arriva dalla Slovenia e sopra ci metto un velo di marmellata».
Fin qui, l’esistenza dello scrittore di nazionalità slovena è stata intensa, drammatica, avventurosa e attiva. La racconta con scioltezza e lo stesso tono di voce — spazientendosi talvolta se l’interlocutore non gli sta dietro come vorrebbe — sia citando le piccole abitudini quotidiane, sia indugiando sulle gravose esperienze che lo hanno segnato nel profondo.
Narra il suo piccolo mondo chiuso nella villetta dove abita, che guarda il mare di Trieste, il pranzo di compleanno che lo aspetta — «Ho poco tempo, mi devo vestire» — ma poi ritorna sul libro-verità che lo ha reso famoso, Necropoli, il cui iter di pubblicazione fu esso stesso un’avventura. Confida il segreto della sua memoria: «Ogni mattina, appena mi sveglio, assumo una compressa a base di ginkgo biloba. Aiuta a tenere sveglio il cervello. Me la consigliò un amico, tanti anni fa, nel 1990 a Parigi. Non l’acquisto personalmente, mi mandano le confezioni dalla Francia. Costano pochi euro». Funziona. Quasi un elisir di lunghissima vita.
Boris Pahor, nato nel 1913 nella Trieste asburgica, è stato testimone diretto delle discriminazioni verso la sua minoranza, quella slovena, e della deportazione nazista, durante la seconda Guerra Mondiale. «Scrivere e parlare di cose brutte del passato aiuta a scaricarle, oltre che a non dimenticare», dice. La prima cosa brutta che ha visto si perde nell’infanzia: l’incendio del Narodni Dom, la casa della cultura slovena, ad opera dei fascisti. Lui aveva sette anni e non l’ha dimenticata.
Ma adesso, nel giorno del suo 105esimo compleanno, gli piace sottolineare come Necropoli, l’opera oggi considerata un capolavoro, scritta nel lontano 1967 per fissare il dramma dei suoi giorni nei lager, fu tradotta in italiano (Pahor, per scelta identitaria, scrive in lingua slovena) e pubblicata nel nostro Paese la prima volta nel 1997, dal Consorzio Culturale del Monfalcone. Diffusione inesistente. «In Francia, ben prima mi riconobbero come scrittore; il mio libro fu pubblicato nel 1990 — ricorda —. Agli editori italiani, invece, sembrava non interessare. Neppure lo leggevano».
In breve, Necropoli andò nelle librerie soltanto nel 2008, grazie alla casa editrice romana Fazi. Per merito del giornalista Alessandro Mezzena Lona, responsabile delle pagine culturali del Piccolo, che trovò il canale giusto. Poi si moltiplicarono le traduzioni e le edizioni in vari Paesi stranieri. E Pahor fu candidato al Nobel.
Avevamo lasciato il grande vecchio in mattinata. Lo risentiamo dopo il pranzo di compleanno organizzato a Sezana, piccolo centro sloveno di confine, presso la trattoria Pri Dragici. Com’è andata? «C’erano i figli, i nipoti e l’amica Cristina Batocletti, curatrice della mia autobiografia. Vuole la verità? Il menu non faceva per me. Hanno rimediato portandomi crostini in brodo e carne trita. La torta di crema l’ho mangiata, mi piace molto».
Brindisi? «Sì, ma nel mio bicchiere c’era acqua fresca. Non bevo vino».

Repubblica 27.8.18
Università
La corsa dei 70mila per un futuro da dottore stavolta 1 su 6 ce la farà
di Ilaria Venturi


Al via i test per il numero chiuso. Più posti disponibili, ma per Medicina resta l’imbuto specializzazioni. Continua il calo di iscritti ad Architettura
Resiste il fascino del camice bianco, mentre la professione dell’architetto continua a perdere appeal. Oltre 83mila ragazzi si preparano ad affrontare, tra qualche giorno, le prove per accedere ai corsi di laurea a numero chiuso a livello nazionale. Appese al filo di un test si giocano le attese di chi tenta di avvicinarsi alla professione scelta per la vita — e talvolta anche dei genitori. La corsa è soprattutto per Medicina e Odontoiatria, dove dal 2015 il trend dei candidati è in costante crescita.
Non siamo ancora ai numeri di 5 anni fa, quando i candidati furono 84.103, ma dopo il crollo nel 2015 a 60.635 la curva degli aspiranti medici è in costante aumento: 66.907 l’anno scorso, un centinaio in più quelli che affronteranno la prova il 4 settembre. Ma da considerare è anche il boom della laurea in inglese: 7.660 iscritti, 639 in più dell’anno scorso. In palio ci sono 679 posti in più, entrerà un candidato ogni sei. In un Paese dove da anni i medici, ordine e sindacati, battono il tasto sulla carenza di camici bianchi — tra dieci anni il 60% dei medici andrà in pensione, il fabbisogno nello stesso periodo di tempo oscilla dai 20 ai 40mila medici di medicina generale e ospedalieri — il miraggio del posto sicuro ha fatto crescere le domande.
«L’aspetto occupazionale rende attrattiva Medicina — osserva Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici — ma conta anche il fascino che continua ad avere questa professione che incarna i valori della solidarietà e dell’umanità». Il nodo — da conoscere per chi sogna questa strada — sta nella strettoia successiva alla laurea, per la scarsità di posti nelle scuole di specializzazione. Il rapporto è di novemila laureati all’anno contro solo 7.500 borse di specialità. «Abbiamo diecimila laureati parcheggiati: più che aumentare i posti per accedere al corso di laurea, bisognerebbe far crescere le borse nelle specializzazioni », spiega Anelli. Un punto che sarà discusso con la ministra della Salute Giulia Grillo ai primi di settembre. L’Ordine chiederà di allargare la possibilità di finanziare le borse anche alle fondazioni.
Il problema opposto ce l’hanno gli architetti. In cinque anni il numero di chi insegue il sogno di fare il mestiere di Massimiliano Fuksas e Renzo Piano è quasi dimezzato: oltre 15mila candidati nel 2013, poco più di 10mila e cento nel 2016, appena 7.986 alla prova del 6 settembre. I candidati possono rilassarsi, o quasi: le domande sono più o meno pari ai posti disponibili (7.211). «L’architetto è in cerca di una nuova identità, c’è un problema di crisi della professione che conosciamo bene da anni», la lettura di Pier Giorgio Giannelli, presidente dell’Ordine degli architetti di Bologna. Considerando che in Italia gli architetti sono 155mila, un terzo di quelli d’Europa, la preoccupazione dei professionisti del settore non è alta: «Non è detto che il calo di iscritti al test sia necessariamente un male, semmai occorrerà rivedere a fondo i piani di studi e ridurre le facoltà, puntando solo sulle eccellenze», ragiona Giannelli. Anche Veterinaria soffre di un calo: quest’anno ci sono 104 posti in più (759) e i candidati sono 8.136 (erano 8.431 nel 2017).
Per tutti saranno 60 i questiti da risolvere in cento minuti. Poi arriveranno le prove per le professioni sanitarie e per chi aspira a entrare nel corso di laurea che sforna insegnanti per scuole materne ed elementari. E in ogni Ateneo altri esami di accesso attendono i neodiplomati, visto il numero crescente di barriere programmate a livello locale. Una corsa a ostacoli, sognando l’alloro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA