Corriere 28.8.18
L’antica Grecia era multiculturale Una civiltà sbocciata da tanti semi
La contrapposizione tra l’Occidente e l’Oriente un tempo non esisteva affatto
Sono evidenti le analogie tra i miti ellenici e la tardizioni di altri popoli
Intensi rapporti di scambio hanno sempre caratterizzato il Mediterraneo
di Eva Cantarella
Sono evidenti le analogie tra i miti ellenici e le tradizioni di altri popoli
Intensi rapporti di scambio hanno sempre caratterizzato il Mediterraneo
Conoscere il passato è sempre importante. Purtroppo, anche a causa di una formazione scolastica che lascia ben poco (e sempre meno) spazio alle materie storiche, la conoscenza delle popolazioni antiche è spesso scarsa. Qualunque occasione di approfondirla è dunque importante e benemerita. Ma, ciò premesso, quando la storia che possiamo approfondire è quella della Grecia classica, il discorso acquista un valore ulteriore: cosa questa — è bene dirlo subito — che nulla ha a che vedere con la pretesa e per tanto tempo asserita superiorità della Grecia sulle altre culture antiche.
Il diverso valore dipende dal fatto che la cultura che i Greci ci hanno lasciato è stata ed è tuttora alla base di quella occidentale, nella quale viviamo. Il che non significa, peraltro, che alla base della nostra cultura stia solamente la Grecia. Oggi, fortunatamente, non si parla più del cosiddetto «miracolo greco», vale a dire il presunto fiorire quasi dal nulla, nella Grecia nel V secolo a.C., della filosofia, del teatro, dell’arte, della scienza e dei concetti di libertà e democrazia.
Oggi sappiamo che dietro a quel presunto miracolo stavano secoli di scambi culturali con le culture orientali, a confermare i quali è intervenuta, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, la decifrazione delle scritture cuneiformi, che ha reso possibile, tra l’altro, il confronto dei miti teogonici orientali con quelli greci. Ed eccone un esempio: grazie alla Teogonia di Esiodo, siamo a conoscenza, sin dai tempi della scuola, della storia di Urano, il primo re degli dèi greci, evirato e detronizzato da suo figlio Crono. Ebbene: nella Teogonia orientale del popolo mesopotamico degli Hurriti (tradotta in inglese come Kingship in Heaven, in italiano Regalità celeste), il re degli dèi Anu viene detronizzato ed evirato da suo figlio Kumarbi, che prende così il suo posto (così come Crono prende quello di Urano). Difficile pensare a una coincidenza. Anche se Greci e Hurriti erano separati dall’intera Anatolia e dalla Mesopotamia (e quindi probabilmente non vennero mai a diretto contatto), la religione degli Hurriti venne assimilata dagli Ittiti, che abitavano nell’Anatolia centrale, e in quella occidentale dai Luvii. E questi ultimi ebbero certamente contatti culturali con il mondo greco miceneo, che precedette la civiltà delle poleis.
All’interno degli intensi rapporti commerciali e intellettuali esistenti tra il continente asiatico, quello africano e la parte orientale di quello che oggi chiamiamo europeo, i miti viaggiavano insieme ai marinai e alle mercanzie, mescolandosi e fondendosi in un mondo di cui era parte integrante il territorio che sarebbe diventato greco.
E veniamo a un altro esempio: nei secoli VII-VI a.C. nella penisola anatolica, ove erano stanziate le colonie greche, esisteva una cultura comune. I Greci, avendo appreso l’alfabeto dai Fenici, lo avevano insegnato ai Frigi, e avevano adottato la moneta inventata in Lidia. Senza nulla togliere ai nostri infiniti debiti verso i Greci, come non riconoscere che questi avevano a loro volta (e noi con loro) dei debiti verso le popolazioni orientali, sia indoeuropee sia semite?
Non è poco, dunque, la necessità che oggi si pone a chi si avvicina al mondo antico, di riconoscere un modello multiculturale che spieghi la nascita e lo sviluppo della civiltà greca nel contesto di quelle che fiorivano sulle rive del Mediterraneo.
I problemi del rapporto tra le culture europee e quelle che si affacciano sulle coste mediterranee dell’Asia Minore e dell’Africa sono difficili e complessi: se è vero infatti che il Mediterraneo può essere un concetto senza tempo e trans-storico, quel che ricade nella sua orbita non è tale. Le diverse zone che compongono quel mondo sono connesse tra loro in modo che dipende dalle attività di chi le abita. E poiché l’estensione geografica di queste connessioni varia, quel che può essere chiamato Mediterraneo cambia al punto che, a volte, il centro di quel mondo può essere fuori dell’Europa, in regioni dell’Asia e dell’Africa, marginalizzate dagli studi su questo mare. Come accadde, ad esempio, nella tarda età del Bronzo, quando la Mesopotamia era parte del Mediterraneo, e questo (quantomeno quello orientale), era l’Oriente. La contrapposizione Oriente-Occidente allora non esisteva.
E oggi? Qual è il Mediterraneo di oggi? Quali popoli ne fanno parte, o ne hanno fatto parte nei tempi di un colonialismo le cui responsabilità sembrano dimenticate? Di chi è — tra i tanti problemi — il dovere di farsi carico dei popoli che tentano di attraversarlo? Alcuni decenni or sono Arnaldo Momigliano, il più grande storico antichista del secolo scorso, scrisse che «là dove tutta la civiltà è minacciata la conoscenza delle sue radici diventa essenziale». Mai come oggi io credo sia necessario ricordarlo, nel momento in cui quel mare che i nostri antenati Romani amavano chiamare mare nostrum, nostro (solo nostro) non è più da tempo, e non possiamo continuare a trattarlo come tale. Anche per questo serve approfondire la storia dell’antichità.
Il Fatto 28.8.18
È l’alternativa fra civiltà e barbarie.
La vera battaglia è per l’Europa
di Roberta de Monticelli
“L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi”. Anche solo per questa frase, l’appello lanciato da Massimo Cacciari e altre autorevoli figure della cultura italiana dovrebbe essere ascoltato. Ciascuno dovrebbe meditare la sua drammaticità. Ed è quello che Cacciari stesso ci invita a fare in un intervento successivo, invitandoci a comprendere “che l’indifferenza è ormai equivalente a irresponsabilità”, e ad assumere “le iniziative che ritiene più utili per contrastare la deriva in atto”.
Alla politica – cioè all’opposizione – l’appello chiede una “netta ed evidente discontinuità”, che ponga al centro “una nuova strategia per l’Europa”. Perché tutti coloro che vogliono resistere alla deriva sovranista abbiano la possibilità di non perdere le prossime elezioni europee (23-26 maggio 2019), preparando così il suicidio dell’Unione. Credo e spero di andare nel senso di questo appello se mi chiedo: la discontinuità riguarda anche lo spirito con cui si guarda a queste elezioni? Non ci fu niente di più insensibile al vero senso delle elezioni europee che la miope sicumera con cui Matteo Renzi attribuì a se stesso, al suo partito e alla sua politica nazionale l’inusuale consenso del 40% per il Pd nel 2014, come se appunto le elezioni del Parlamento europeo fossero un mezzo per rafforzare il partito e la sua politica nazionale, e non un mezzo per contribuire al compimento di una democrazia e di una politica sovranazionale. Eppure sono state quelle le prime elezioni in cui la coalizione o il partito sovranazionale vincente (il Ppe) ha espresso il presidente della Commissione (Juncker). In cui cioè ha cominciato a incarnarsi nell’istituzione il principio del trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale, che sarebbe compiuto quando la Commissione fosse veramente divenuta l’esecutivo della Federazione, avocando a sé alcuni cruciali poteri ora caratteristici degli Stati e dei governi, e del loro Consiglio. Altiero Spinelli nel suo Diario europeo 1948-1969 definisce il federalismo “un canone di interpretazione della politica”. Non soltanto un criterio d’azione, ma anche di conoscenza. “Tutta l’opera di Spinelli è espressione dell’esigenza di abbandonare il paradigma nazionale, con il quale la cultura dominante interpreta la realtà politica” (L. Levi, Introduzione a A. Spinelli, La crisi degli Stati nazionali). Come si giustifica questa esigenza? Ognuno dovrebbe ricordare l’incipit del Manifesto di Ventotene: “La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero”. Ecco come ragiona Spinelli. In termini di interna coerenza del principio universalistico di civiltà definito in tutta la sua radicalità dall’Illuminismo europeo. C’è un momento, pensa Spinelli, in cui questo principio di civiltà urta contro l’organizzazione delle società umane in Stati nazionali: perché tutti, anche quelli democratici, sono minati dalla polarizzazione della società in interessi organizzati “che si precipitano sullo Stato e lo paralizzano quando sono in equilibrio, e ne rafforzano sempre più il carattere dispotico, quando un gruppo o una coalizione di gruppi ha potuto sopraffare l’avversario e prendere il potere”. Questa polarizzazione degli interessi organizzati, che Spinelli, sulla scorta dell’economista Lionel Robbins, chiama “sezionalismo”, è la forza che corrode le democrazie: “Oggi lottare per la democrazia significa rendersi anzitutto conto che occorre arrestare questa insensata corsa, non solo italiana, ma europea, verso una società polarizzata in interessi organizzati che si precipitano sullo Stato e lo paralizzano quando sono in equilibrio, e ne rafforzano sempre più il carattere dispotico, quando un gruppo o una coalizione di gruppi ha potuto sopraffare l’avversario e prendere il potere”.
Questo pensiero sembra attraversare la stagione dei partiti di massa – e da noi della Prima Repubblica – poi volare alto sulla “liquidità” post-ideologica – e da noi sopra il liquame immobile della Seconda Repubblica – fino a fotografare non solo il perdurante ingranaggio delle “macchine d’affari” partitiche di oggi, ma il dato nuovo e antico: le “forze primordiali” che la norma etica, giuridica, politica è chiamata a controllare. “L’uomo civile è un prodotto complicato e fragile. I più grandiosi frutti della civiltà sono dovuti alla ferrea disciplina che questa impone al selvaggio animo umano… quella disciplina si può spezzare e lasciar emergere le forze primordiali”. È questo pericolo che dobbiamo leggere nello sciagurato linguaggio dei demagoghi che stanno picconando l’Europa civile. È l’alternativa fra civiltà e barbarie.
Il Fatto 28.8.18
Luciano Canfora
“La fiducia riposta nel M5S è già a rischio”
I rapporti di forza nel governo gialloverde: “Il fascismo è l’autobiografia dell’Italia”
intervista di Antonello Caporale
“La novità, se possiamo definirla così, è che i Cinquestelle si stanno svergognando già sul breve periodo. Non era detto, ma è accaduto e questo a mio avviso è un bene”.
Di Luciano Canfora si ammira la spigolosa nettezza dei suoi giudizi, e un’analisi asciutta, attenta e spesso definitiva. “Non è preveggenza. Le previsioni hanno sempre un che di infondato. Mi sembra piuttosto che la caratteristica genetica del Movimento 5 Stelle, aver raccolto un consenso così largo anche nelle opzioni politiche, quel grande fritto misto di un po’ di destra, di sinistra e di centro, lo abbiano messo nella condizione di essere sussunti”.
Leghistizzati.
Il povero Roberto Fico avanza continuamente riserve. Ma le sue parole cadono nel disinteresse. Uno come lui, che è di sinistra, è stato messo nel ruolo politicamente inconsistente di presidente della Camera. Mentre Luigi Di Maio, che credo provenga dai commerci, detta la linea. Anzi, se la fa dettare.
È Salvini l’asso pigliatutto.
Le pulsioni di tipo fascistico erano chiare ed evidenti a tutti già prima. E nemmeno l’Italia è un caso isolato. La Francia, che ha conosciuto Vichy, ha leader di simile caratura, e anche in Germania idee di uguale tono sono vive. La questione, non totalmente nuova, è questo spirito da Cavalier servente del Di Maio.
Non sembra avere la personalità.
Dico proprio di no. E non so se a Casaleggio, che a quel che leggo è il proprietario del Movimento, questa personalità così modesta sarà gradita ancora per molto.
Siamo all’epurazione?
Non lo so proprio. Dico che i proprietari sono per natura capricciosi. E quando non hanno soddisfazione dai dipendenti, li cacciano.
Perché è così duro il suo giudizio sui Cinquestelle?
Perché fanno di tutto per meritarselo. Hanno goduto di un tale consenso, e tanti sono stati gli elettori che hanno riposto, attraverso il voto, fiducia in loro.
Fiducia in loro o piuttosto sfiducia negli altri?
Ambedue le cose. Gli altri, in questo caso la sinistra, nella fattispecie il Pd, non potrà far altro che arretrare. È un partito morto, se non rimuove la sua classe dirigente, quel cenacolo renziano, non ha alcuna speranza non solo di tornare al governo, ma di essere soggetto minimamente credibile.
I grillini sembrano aver consumato il vantaggio competitivo sul resto della classe politica.
Assolutamente sì. Intravedo in Luigi Di Maio l’ossessione della poltrona. La parte inferiore del suo corpo fa oramai tutt’uno con la seggiola ministeriale. E questa ossessione, unita alla incapacità di tracciare il solco di una linea politica autonoma e originale, offre la cifra di una debolezza così grande, ma così grande.
La Lega accentuerà i suoi caratteri di destra?
Noto che Salvini usa il meglio del vocabolario mussoliniano. Le frasi più espressive del ventennio sono nel suo cuor: ‘Molti nemici molto onore’, la prima. Oggi ho letto un’altra sua perla: ‘Mi prendo l’Italia’.
Lei pensa che Salvini abbia in mano l’Italia?
Devo ricordarle Giolitti? Il fascismo è l’autobiografia dell’Italia. E certamente oggi c’è un consenso elevato, un leader scaltro che conosce gli italiani. Con Bossi la Lega aveva un odore campagnolo, gregaria di Berlusconi. Con Salvini la storia si capovolge: Forza Italia è al lumicino e tenterà di intrufolarsi nella festa. Le farà compagnia Giorgia Meloni che perlomeno è fascista per davvero. Il colpo può riuscire.
Ma se i Cinquestelle sono già ammaccati, a sinistra regna il deserto.
Riporto qui un giudizio abbastanza definitivo di Guglielmo Epifani: Matteo Renzi non riuscirà mai più a far vincere il Partito democratico, ma certo è fondamentale per continuare a farlo perdere.
La Stampa 28.8.18
Il Viminale alla sfida del diritto
di Ugo De Siervo
Il gran polverone che si è sollevato dopo la soluzione del caso della nave Diciotti e la notizia che il ministro Salvini sarebbe indagato in sede penale per reati commessi in questa occasione rischia di oscurare due punti fondamentali e molto seri che caratterizzano la vicenda.
Innanzi tutto la gravità degli avvenimenti scaturisce dal fatto che il ministro dell’Interno sembra aver trattenuto per vari giorni e del tutto abusivamente sulla nave, regolarmente attraccata nel Porto di Catania e quindi in territorio nazionale, i profughi e l’equipaggio. Ciò in assenza di ogni legge che lo preveda o lo permetta, come dovrebbe essere indispensabile essendo in gioco la libertà personale delle diverse persone interessate. Infatti il nostro ministro dell’Interno, che pure ha giurato fedeltà alla Costituzione repubblicana, sembra aver dimenticato che uno dei fondamenti del nostro sistema costituzionale consiste nel rispetto del basilare principio di legalità, secondo cui le autorità pubbliche, ivi compresi i ministri, possono utilizzare soltanto i poteri che sono previsti e disciplinati da leggi apposite, specie se in gioco sono le libertà delle persone.
Non a caso, la legislazione vigente disciplina il potere di espellere gli immigrati irregolari, individuando analiticamente procedure, organi e garanzie, così come prevede attentamente il potere di «respingimento» e cioè il potere di non fare entrare nel territorio nazionale coloro che alla frontiera pretendano di accedervi senza le documentazioni definite come indispensabili. Nulla, invece, si prevede relativamente a coloro che giungano nel nostro Paese, anche in forma irregolare, al fine di chiedere la tutela di alcuni essenziali diritti umani (il cosiddetto «diritto di asilo» e altre condizioni analoghe previste dagli accordi internazionali sottoscritti dal nostro Paese). Starà poi agli organi competenti decidere sulla fondatezza o meno di queste richieste ed eventualmente - in caso di giudizio negativo - porre le premesse per il rientro nel Paese degli interessati.
È quindi del tutto contrastante con il nostro sistema costituzionale che un ministro possa, al di fuori di ogni disciplina legale, decidere di far riportare indietro un immigrato, per quanto irregolarmente entrato, o addirittura di trattenerlo nel territorio nazionale impedendogli però di esercitare i diritti che Costituzione o leggi gli riconoscono.
Quindi nel fondo delle roboanti dichiarazioni di Salvini vi è la pericolosissima pretesa di decidere lui sulla libertà di un gruppo di persone, a prescindere da ciò che prevede la legge: ma, invece, negli Stati democratici non sono i ministri a decidere questioni del genere, riservate alle leggi informate ai principi costituzionali, leggi che semmai i ministri dovranno semplicemente applicare.
Poi ci sono tutte le forzature demagogiche e perfino le lagnanze del ministro di essere esposto ad arresti: ma Salvini sa bene che, al momento attuale, non potrebbe essere arrestato senza il consenso del Senato essendo (da tempo) un parlamentare; se poi si giungesse ad un giudizio su di lui per reato ministeriale, l’apposita legge costituzionale garantisce anch’essa la necessità della previa autorizzazione del Senato per limitazioni alla sua libertà personale.
Addirittura è dubbio che si possa giungere davvero a far giudicare Salvini dal Tribunale dei ministri (qualora quest’ultimo lo richieda), perché per procedere è necessaria un’apposita autorizzazione del Senato (per ora Salvini dice che chiederà che il Senato consenta il processo, ma occorrerà vedere cosa avverrà).
Inoltre è davvero molto discutibile che questa discussa iniziativa di Salvini sia stata davvero motivata dalla necessità di contribuire in tal modo a bloccare sostanzialmente le immigrazioni clandestine: a prescindere da tutte le ragionevoli obiezioni che fenomeni del genere possono essere ridotti soltanto attraverso costanti ed organici rapporti con gli Stati di provenienza, la realtà dei fatti dimostra facilmente che il grosso delle immigrazioni clandestine non si realizza con la traversata del Mediterraneo su barche precarie, ma con il passaggio dei confini terrestri e soprattutto con la normale entrata nel nostro Paese per asseriti fini turistici o per attività lavorative temporanee (altrimenti sarebbero incomprensibili le prevalenti presenze di stranieri «irregolari» provenienti dall’America Latina, dalla Cina, dal sub-continente indiano, dai Paesi del Centro e dell’Est Europa).
Il vero problema deriva dal fatto che la nostra amministrazione (per lo più dipendente dal ministero dell’Interno) non è riuscita a costruire canali minimamente efficaci di obbligato rientro nei loro Paesi dei tanti «irregolari», con tutte le ricadute del caso relativamente alla formazione di vere e proprie nuove e pericolose marginalità nelle più diverse aree del nostro Paese. Ma poi ci sono tutte le grandi responsabilità governative per la mancanza di vere e diffuse forme di integrazione e la grave assenza di controlli sullo sfruttamento di tanti immigrati.
Vi è quindi molto da lavorare, ove si sfugga finalmente alla superficialità e alla demagogia.
il manifesto 28.8.18
Istituto Cattaneo: gli italiani sono i più ostili ai migranti d’Europa
L'analisi sui dati Eurostat. Il 58% ritiene che gli stranieri provochino una riduzione dell’occupazione
di Adriana Pollice
Tra gli europei, gli italiani sono quelli che più sovrastimano la percentuale di migranti presenti nel proprio paese (circa il 18% in più rispetto al dato reale) mostrando il «maggior livello di ostilità verso l’immigrazione e le minoranze religiose». È quanto emerge dall’analisi Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione dell’istituto Cattaneo di Bologna. Rispetto alla media europea del 57%, il 74% degli intervistati italiani sono convinti che gli immigrati peggiorino la situazione della criminalità, con una differenza di 17 punti rispetto al resto dell’Europa. A considerare che una maggiore immigrazione comporti una riduzione dell’occupazione per i residenti in Italia è invece il 58% sul totale, mentre la media europea si ferma al 41%.
«È un tema che ha contribuito al successo elettorale della Lega e sul quale lo stesso Matteo Salvini ha impostato la propria agenda di governo (e di comunicazione) come ministro dell’Interno» scrive l’istituto, che sottolinea: «Su questo argomento i dati a disposizione dell’opinione pubblica sono spesso frammentari e talvolta presentati in maniera “partigiana”, stiracchiandoli da una parte o dall’altra in base agli interessi dei partiti. Il che contribuisce a proiettare un’immagine distorta della realtà. Chi ne ingigantisce la portata, è indotto anche a ingigantirne le conseguenze».
Anche gli altri paesi europei sovrastimano i dati reali ma in Italia il fenomeno è molto più accentuato. Infatti, di fronte al 7,2% di immigrati non Ue presenti negli stati, gli intervistati ne stimano il 16,7%. Ma gli italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco tra la percentuale di immigrati non Ue realmente presenti (7,6%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%. Gli altri paesi che mostrano un «errore percettivo» di poco inferiore a quello italiano sono il Portogallo (+14,6%) e la Spagna (+14,4%). Al contrario, la differenza tra la percentuale di immigrati reali e «percepiti» è minima nei paesi nordici (Svezia +0,3%; Danimarca +2,2%; Finlandia +2,6%).
«All’aumentare dell’ostilità verso gli immigrati – scrive ancora l’istituto Cattaneo – aumenta anche l’errore nella valutazione sulla presenza di immigrati nel proprio paese. L’Italia si conferma, su entrambi i fronti, il paese collocato nella posizione più “estrema”, caratterizzata dal maggior livello di ostilità verso l’immigrazione e le minoranze religiose». E ancora: lo scarto tra la percentuale di immigrati presenti in Italia e quella percepita dagli intervistati è maggiore tra chi si definisce di centrodestra o di destra. In quest’ultimo caso, la percezione è del 32,4%, superiore di oltre 7 punti rispetto alla media nazionale.
Infine, le differenze tra gli atteggiamenti degli italiani e quelli degli europei sono più sfumate quando si tratta di valutare il contributo dell’immigrazione al welfare state: «In Italia, la percentuale di chi pensa che gli immigrati siano un peso per lo stato sociale è pari al 62%, mentre tra i cittadini europei questa percentuale è inferiore solo di 3 punti (59%)».
Corriere 28.8.18
La ricerca dell’Istituto Cattaneo sullo scarto tra numeri reali e percezione
Gli immigrati? Oltre il 70% pensa che siano 4 volte di più
di Valentina Iorio
Milano. Gli immigrati in Italia sono il 7% (il 9 se consideriamo quelli provenienti da altri Paesi della stessa Unione europea), ma il 70% degli italiani crede siano circa il quadruplo. A dirlo è la ricerca dell’Istituto Cattaneo «Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione». Secondo lo studio, tra gli europei, «gli italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco tra la percentuale di immigrati non Ue realmente presenti nel Paese e quella percepita, pari al 25%». I Paesi in cui lo scarto è di poco inferiore a quello italiano sono Portogallo, Spagna e Regno Unito. In Italia, sottolinea il report, la differenza tra la percentuale di presenze reali e quelle percepite cresce all’aumentare della diffidenza verso gli immigrati e quindi non sarebbe solo frutto di una scarsa informazione ma anche di «pregiudizi radicati negli elettori». Lo scarto è maggiore tra coloro che si definiscono di centrodestra o di destra, scende invece al di sotto della media nazionale tra coloro che si considerano di centrosinistra o di sinistra. Anche gli intervistati di sinistra, tuttavia, credono che gli immigrati in Italia siano più del doppio di quelli realmente presenti. L’orientamento politico non è l’unico fattore che fa variare la distanza tra realtà e percezione. Un altro elemento da considerare è il grado di istruzione. «Per chi non è andato oltre la scuola dell’obbligo — rivela il rapporto — l’immigrazione in Italia supera il 28%, mentre tra i laureati la stima si riduce di oltre 10 punti, attestandosi al 17,9».
I dati variano anche in base all’area geografica di appartenenza. Nel Nord Italia il livello di immigrazione è stimato dagli intervistati al 20% circa, mentre al Sud arriva a superare il 27. «Questo — evidenziano dall’Istituto Cattaneo — è particolarmente significativo perché contrasta completamente con la realtà». Nel Mezzogiorno, infatti, gli immigrati sono meno del 5% della popolazione, mentre nelle regioni settentrionali sono circa il 10. La distorsione dipende anche dal fatto che «i dati a disposizione dell’opinione pubblica sono spesso frammentari e presentati in maniera partigiana».
Corriere 28.8.18
La creazione di invisibili che il governo rimuove
di Goffredo Buccini
Più dei proclami muscolari, più della tensione tra istituzioni, colpisce lo strabismo: la difficoltà del governo italiano a inquadrare la questione migratoria di questa estate. Eppure mai come ora ci sarebbero le condizioni per lavorare seriamente e iniziare a sciogliere i nodi più ingarbugliati.
Noi abbiamo un gigantesco problema sulla terraferma: l’accoglienza criminogena. Il nostro sistema cervellotico (quasi impossibile da spiegare già dagli acronimi: Cara, Cas, Sprar, Cie, Cpr...) si è perso 600 mila migranti negli ultimi anni (il dato è della Commissione parlamentare sulle periferie). Chi sono? Ragazzi che hanno attraversato il mare per cercare fortuna o salvezza e qui non hanno trovato niente, diventando buoni a nulla pronti a tutto. Il senegalese Mohamed Gueye, accusato di avere stuprato a Jesolo una quindicenne, è solo l’ultimo della lista. Piccolo spacciatore, balordo da bar, era stato espulso due anni fa (cioè gli avevano dato una pacca sulla spalla e gli avevano detto «vattene entro una settimana»). Lui non se ne è andato, anzi ha fatto un figlio in Italia e ci si è radicato. È una storia assai simile a quella di Innocent Oseghale, a processo per la morte di Pamela Mastropietro. Alla Commissione periferie la prefetta di Roma Paola Basilone spiegò con efficacia la «creazione degli invisibili»: «Quando la polizia ne ferma qualcuno, lo identifica e, accertata l’irregolarità della sua presenza sul territorio, gli consegna il foglio di via. Gli viene assegnato un termine entro cui lasciare l’Italia, dopo di che è finita lì». Che da «lì» comincino i nostri guai è di tutta evidenza.
Noi non abbiamo un problema di sbarchi, invece: non adesso. Quest’anno se ne conta un 80 per cento in meno rispetto all’anno scorso. Il merito non è di Matteo Salvini (che se lo attribuisce) ma del suo predecessore Marco Minniti, il quale con un duro lavoro in Libia pose fine ai flussi che ci stavano seppellendo (pure) per scelte sbagliate del suo partito, il Pd: la «diga» scricchiola ma regge ancora (anche se prima o poi per battere l’immigrazione illegale bisognerà riaprire accessi legali).
Noi intanto, in quest’estate strabica, fingiamo che il problema, qui e ora, sia in mare e non a terra. Salvini fa di ogni sbarco un’emergenza nazionale. Colse il punto di principio con la nave Aquarius, quando riuscì a scuotere l’Europa dall’inerzia. Ma da allora si comporta come se dovesse fronteggiare flussi biblici e non qualche centinaio di disperati alla volta...
Dunque, perché il governo non si dedica a risolvere il problema a terra? Perché è più costoso, più difficile e ha tempi più lunghi, cioè non frutta dividendi di consenso. Bisogna fare più Cie (i centri dove contenere gli irregolari che chiedeva già Minniti con sdegno di parte della sinistra): ma per farli bisogna vincere le resistenze degli enti locali (chi lo vuole un Cie?). Bisogna impegnare forze dell’ordine per portare via da strade, stazioni e parchi migliaia di clandestini. Bisogna colpire la burocrazia e incidere sulla carne delle cooperative (facile a dirsi, ma si toccano interessi e voti). Bisogna trattare con Senegal, Niger, Mali, Etiopia eccetera, per fare costosi accordi di rimpatrio, bilaterali o via Europa (ma in questo caso non dovremmo mandare al diavolo l’Europa a ogni passo).
Salvini aveva promesso sotto elezioni di rispedire indietro i 600 mila invisibili. Sa che è impossibile. Così sospinge la nostra attenzione verso il mare. Fare la voce grossa in favore di telecamera con cento profughi eritrei è molto più facile. Rende moltissimo (la base pentastellata sta diventando salviniana). E costa poco. Al massimo un’inchiesta: quella per sequestro di persona dei migranti della Diciotti è il più grande regalo che i pm potessero fare al capo leghista, che infatti ha avuto un picco sui social, ma finché esiste uno Stato di diritto era un atto dovuto: con tanto di «reo confesso» che vuole politicizzare il caso quando e se arriverà al Senato.
A questo punto le prossime settimane sono decisive. Salvini ha un consenso senza precedenti per mettere mano ai meccanismi dell’accoglienza storta che il centrosinistra non ha potuto raddrizzare per timore di perdere la sua constituency. Lo faccia, portando in Parlamento un decreto Sicurezza che sia soprattutto utile allo scopo. O ci verrà il dubbio che voglia usare gli sbarchi come arma di distrazione di massa, fino al crudele autunno quando, per colpa del mare, non avrà più neanche quelli tra sé e la legge di Stabilità.
il manifesto 28.8.18
L’accusa al papa: «Sapeva degli abusi sui minori negli Usa»
Vaticano. Francesco ignorò le informazioni contro l’arcivescovo di Washington McCarrick, dice mons. Viganò. Anche la sua denuncia però arriva in ritardo
di Luca Kocci
C’è una spina nel fianco del pontificato di papa Francesco che periodicamente ritorna in superficie e sembra impossibile estrarre: la pedofilia del clero. Stavolta le accuse, formulate da un alto prelato, mons. Carlo Maria Viganò, già nunzio apostolico (ambasciatore) negli Usa, toccano direttamente il papa.
Francesco avrebbe ignorato le informazioni che lo stesso Viganò gli avrebbe comunicato circa gli abusi su minori e seminaristi compiuti dall’ex arcivescovo di Washington, Theodore McCarrick (oggi 88 anni), destituito da cardinale solo lo scorso 27 luglio, quando il pontefice ne ha accettato le dimissioni, disponendo contestualmente «la sua sospensione dall’esercizio di qualsiasi ministero pubblico» e l’obbligo di «una vita di preghiera e di penitenza», fino al chiarimento delle accuse.
Sull’aereo che domenica notte lo ha riportato a Roma da Dublino, dove si era recato per l’Incontro mondiale delle famiglie, interpellato dai cronisti, Francesco ha scavalcato la domanda. «Ho letto quel comunicato» (di Viganò), ha risposto il papa. «Leggetelo attentamente e fate il vostro giudizio. Io non dirò una parola su questo. Credo che il comunicato parla da sé, e voi avete la capacità per trarre le conclusioni. Quando sarà passato un po’ di tempo, forse io parlerò». Discorso chiuso, in modo decisamente sbrigativo.
Il «comunicato» di monsignor Viganò è in realtà una lunga testimonianza (11 pagine) che domenica è stata pubblicata in Italia dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro La Verità e sul blog del vaticanista della Rai Aldo Maria Valli (da qualche tempo attestato su posizioni molto critiche rispetto a Bergoglio), negli Usa sul conservatore National Catholic Register.
Un dossier in cui si documenta, coinvolgendo prelati come Sodano, Bertone e Parolin, come fin dal 2000 in Vaticano sapessero della «condotta immorale» di McCarrick, che tuttavia nel 2001 venne fatto cardinale da papa Wojtyla.
Nel 2006 e nel 2008 fu lo stesso Viganò (all’epoca officiale della Segreteria di Stato, delegato per le rappresentanze pontificie) a consegnare ai suoi superiori diversi rapporti sugli abusi sessuali che McCarrick avrebbe commesso, ma solo nel 2010 papa Ratzinger sarebbe intervenuto, disponendo che il cardinale statunitense «doveva lasciare il seminario in cui abitava» e proibendogli «di celebrare in pubblico, partecipare a pubbliche riunioni, dare conferenze, viaggiare, con obbligo di dedicarsi ad una vita di preghiera e penitenza».
Sanzioni che però non furono mai applicate, grazie anche alla connivenza dell’arcivescovo di Washington, il cardinale Wuerl, successore di McCarrick, dimessosi per raggiunti limiti di età.
Tanto che il 23 giugno 2013, ricevuto dal neoeletto papa Bergoglio, Viganò (da due anni nunzio negli Usa), riferì a Francesco le informazioni su McCarrick: «Se chiede alla Congregazione per i vescovi c’è un dossier grande così su di lui. Ha corrotto generazioni di seminaristi e di sacerdoti e papa Benedetto gli ha imposto di ritirarsi a una vita di preghiera e penitenza».
Anche in questo caso non accadde nulla, fino alla destituzione di luglio. Ecco perché Viganò conclude il suo documento chiedendo che, «in coerenza con il conclamato principio di tolleranza zero, papa Francesco sia il primo a dare il buon esempio a cardinali e vescovi che hanno coperto gli abusi di McCarrick e si dimetta insieme a tutti loro».
Che valore dare alle parole di Viganò? Da un lato c’è da dire che l’ex nunzio è un arrampicatore la cui carriera è stata stroncata già dai tempi di Bertone (il trasferimento a Washington è stato il classico promoveatur ut amoveatur) e che la sua denuncia – rilanciata dall’opposizione da destra a papa Francesco – arriva con un ritardo incomprensibile.
Dall’altro occorre ricordare che già nel caso dello scandalo pedofilia in Cile, inizialmente Francesco minimizzò, per poi fare retromarcia, riconoscere le proprie responsabilità e iniziare a rimuovere vescovi prima difesi a spada tratta. Sicuramente è la conferma della gravità della questione pedofilia nella Chiesa e di uno scontro di potere in Vaticano sempre acceso
La Stampa 28.8.18
Ecco fatti e omissis del dossier Viganò contro Francesco
di Andrea Tornielli
Credo che il comunicato di Viganò parli da sé, e voi avete la maturità professionale per trarre le conclusioni». Con queste parole Francesco ha invitato a leggere il dossier di 11 pagine divulgato dall’ex nunzio negli Stati Uniti che chiede le dimissioni del Papa.
L’accusa al Pontefice è di aver coperto l’83enne cardinale emerito di Washington Theodore McCarrick, che aveva avuto relazioni omosessuali con seminaristi maggiorenni e sacerdoti.
L’operazione anti-Francesco
La clamorosa decisione del diplomatico vaticano di violare il giuramento al Papa e il segreto d’ufficio è l’ennesima bordata contro Francesco portata avanti in modo organizzato dagli stessi ambienti che un anno fa avevano cercato di arrivare a una sorta di impeachment dottrinale (non riuscito). Viganò è infatti tra i firmatari della “Correctio filialisˮ che ha dichiarato Papa Bergoglio un propagatore di eresie, ed è ben collegato agli ambienti più conservatori Oltreoceano e in Vaticano.
La denuncia del 2000
I fatti, presumendo che quanto affermato da Viganò sia vero. Il 22 novembre 2000 il frate Boniface Ramsey, scrive al nunzio apostolico negli Usa Gabriel Montalvo e lo informa di aver sentito voci secondo le quali McCarrick aveva «condiviso il letto con seminaristi». Un giorno prima, il 21 novembre, Giovanni Paolo II nominava McCarrick arcivescovo di Washington. Viganò annota che questa segnalazione trasmessa dal nunzio alla Segreteria di Stato, guidata allora dal cardinale Angelo Sodano, non ebbe alcun seguito. L’anno successivo Wojtyla includeva McCarrick nel collegio cardinalizio. Nel suo dossier Viganò scarica - senza alcun indizio - la “colpaˮ della nomina su Sodano spiegando che il Papa all’epoca era già ammalato e quasi incapace di intendere e di governare la Chiesa. Chiunque abbia conoscenza di cose vaticane sa che ciò non è vero, almeno non lo era nell’anno 2000: Giovanni Paolo II vivrà per altri cinque anni. E sa anche che allora, nello stretto entourage wojtyliano che controllava le nomine, c’erano il segretario particolare del Papa Stanislaw Dziwisz (nome che Viganò omette) e il Sostituto della Segreteria di Stato poi Prefetto dei vescovi Giovanni Battista Re. Quella prima segnalazione, senza denuncianti che se ne assumessero responsabilità in prima persona, forse non era ritenuta attendibile?
Le “sanzioni” di Ratzinger
Nuove denunce arrivano nel 2006, quando il Papa è Benedetto, il Segretario di Stato è Tarcisio Bertone. L’ex prete e abusatore di bambini Gregory Littleton fa avere al nunzio negli Usa (in quel momento Pietro Sambi) una memoria nella quale racconta di essere stato molestato sessualmente da McCarrick. Viganò prepara un appunto per i superiori, che non rispondono. Vale la pena di ricordare che in quel momento McCarrick è già in pensione. Nel 2008 di nuovo circolano accuse di comportamenti impropri di McCarrick e di nuovo Viganò manda un appunto. Nel 2009 o nel 2010, Benedetto XVI interviene e ordina presumibilmente a McCarrick di fare vita ritirata, di preghiera e di non abitare più nel seminario neocatecumenale Redemptoris Mater da lui aperto a Washington.
Nessuno vigila
L’ordine di Benedetto non diventa pubblico. Indulgenza per un cardinale ormai vecchio e in pensione? Di certo durante gli ultimi tre anni del pontificato di Raztinger McCarrick non cambia il suo modo di vivere: lascia il seminario ma celebra ordinazioni, tiene conferenze, partecipa a udienze papali, viaggia. E anche Viganò, allontanato dal Vaticano per decisione di Benedetto XVI che lo “promuoveˮ nunzio a Washington, non appare così preoccupato della situazione, visto che sono documentate sue partecipazioni ad eventi pubblici con il porporato molestatore, come l’attribuzione di un premio a McCarrick (il 2 maggio 2012, Pierre Hotel in Manhattan). Perché ora che aveva il potere di arrivare direttamente a Benedetto XVI, in qualità di suo rappresentante in una delle sedi diplomatiche più importanti del mondo, Viganò non si ribella, non agisce, non chiede udienza, non fa rispettare le disposizioni restrittive?
Il coinvolgimento del Papa
Il Papa attuale, vero e unico bersaglio dell’intera operazione, entra in scena nel giugno 2013. McCarrick, ultraottantenne, non ha partecipato al conclave, è un cardinale pensionato ma iperattivo. Viganò va in udienza da Francesco e rispondendo a una sua domanda (non è il nunzio a fargli il nome di McCarrick, non gli porta documenti) fa presente che il cardinale «ha corrotto generazioni di seminaristi e di sacerdoti» e che in Vaticano c’è un dossier. Tutto qui. Passano quattro anni e mezzo e Oltretevere arriva, per la prima volta, notizia di un abuso su un minore commesso cinquant’anni prima da McCarrick, giovane prete. La denuncia è del 2018. Si apre il procedimento canonico, emergono nuove notizie. Con una decisione che non ha precedenti nella storia recente della Chiesa, Francesco non solo impone il silenzio e la vita ritirata a McCarrick, ma gli toglie pure la berretta cardinalizia.
Fatti e logica stravolta
C’è un Papa santo il cui entourage (molto meno santo) ha promosso e fatto cardinale un vescovo omosessuale che abusava del suo potere portandosi a letto i seminaristi. C’è un altro Papa oggi emerito che avrebbe ordinato a questo cardinale di vivere ritirato ma senza essere in grado di far rispettare i suoi ordini. E c’è un Papa che a quel cardinale, nonostante fosse anziano e pensionato da tempo, ha tolto d’imperio la porpora. Eppure è di quest’ultimo che l’ex nunzio chiede la testa, soltanto perché Francesco ha nominato negli Usa qualche vescovo non così conservatore come avvenuto nei decenni precedenti.
Corriere 28.8.18
Dall’opacità alla doppia morale I quattro nodi del Vaticano
Il rapporto Viganò nasconde oscuri obiettivi, ma apre squarci inquietanti
di Massimo Franco
È difficile non ricordare che tutto cominciò negli Stati Uniti nel 2002, a Boston. E non constatare che a sedici anni di distanza, i casi più eclatanti di pedofilia nella Chiesa cattolica rimandano, di nuovo, oltre Atlantico, a Washington, col caso del cardinale Theodore McCarrick. Verrebbe spontaneo concludere che in questo arco di tempo non è successo né cambiato nulla. Ma non è così. In realtà è cambiato moltissimo: soprattutto nella percezione che l’opinione pubblica occidentale ha di questi scandali e del comportamento degli episcopati e del Vaticano. Semmai, il rischio è che dopo tre Papi, centinaia di processi e miliardi di dollari e euro spesi per risarcire le vittime, si sedimenti l’impressione che la Chiesa non si renda conto abbastanza di quanto le sia cambiato intorno il mondo.
Il rapporto dell’ex nunzio apostolico a Washington, monsignor Carlo Viganò, che chiama in causa papa Francesco sostenendo che ha coperto e insabbiato dal 2013 i crimini di McCarrick, conferma per paradosso questo ritardo. Lascia emergere almeno quattro cose che continuano a non andare: l’assenza di una cultura della trasparenza; una certa confusione tra omosessualità e pedofilia, perché la pedofilia è un crimine; una «doppia morale» nell’affrontare certi temi: una pubblica e una interna alla Chiesa; e la sottovalutazione del solco profondo che vicende così dolorose scavano tra Chiesa cattolica e nuove generazioni.
È vero che nel 2002 l’allora l’arcivescovo di Boston, Bernard Law, fu fatto venire precipitosamente in Vaticano, per sottrarlo alla giustizia statunitense: oggi un sotterfugio del genere non sarebbe accettato, e questo fa ben sperare. E infatti McCarrick non è più cardinale, sebbene il provvedimento papale appaia adesso tardivo, fuori tempo massimo. Dai tempi di Benedetto XVI era stato chiesto di impedirgli altri misfatti, ma le raccomandazioni di Joseph Ratzinger furono bellamente disattese.
Il fatto che dopo sedici anni la pedofilia rimanga un tema così scottante è la conferma di una grave rimozione. Si tratta di un argomento col quale, nonostante la «strategia del mea culpa» e le reiterate richieste di perdono, il Vaticano non riesce a fare i conti fino in fondo. Lo usa piuttosto come strumento di lotta interna. Rivela le storture della «cultura del segreto» quando si tratta di colpire e delegittimare gli avversari: perfino nel caso di Francesco. Sfrutta l’indignazione del mondo laico di fronte alle narrative contraddittorie di una Chiesa che ha perso l’«unipolarismo» in materia etica e religiosa. Per questo cresce l’impressione che le parole e quanto pure è stato fatto finora non bastino più.
Anche il pontificato di Bergoglio si scopre in affanno quando cerca una strategia che colpisca il problema alla radice. Il rapporto Viganò, che almeno finora non è stato smentito dall’autore, dice che la tesi del ritardo culturale può diventare un alibi per coprire silenzi, e perfino omertà e complicità. Se un documento come quello può arrivare a attaccare frontalmente papa Francesco e gran parte dei vertici della Chiesa, è perché la questione è stata lasciata incancrenire troppo a lungo. Ora il pericolo è che le accuse contro Jorge Mario Bergoglio sgualciscano l’icona tuttora più popolare del cattolicesimo; che oscurino la sua battaglia contro la pedofilia; e che si delinei uno «scandalo infinito» destinato a schiacciare ogni Papa sotto il peso del passato.
Sia chiaro: non si vede grande nobiltà nell’iniziativa di monsignor Viganò. Come minimo, c’è da chiedersi perché l’ex nunzio abbia aspettato cinque anni prima di raccontare le sue verità infamanti. Il dubbio che la sete di giustizia sia sovrastata da una voglia di vendetta e da una manovra degli avversari di Francesco è corposo. Rimane tuttavia il contenuto del rapporto: incontri, nomi, circostanze che vanno presi con le pinze ma non possono essere ignorati come frutto di un complotto. Significherebbe banalizzare una trama dai contorni inquietanti, e preparare altri complotti contro un Pontefice indebolito e più indifeso, non più forte.
L’altro ieri sera, tornando in aereo da Dublino, Francesco ha risposto alla richiesta di un commento sul dossier Viganò: «Leggete voi attentamente e fatevi un vostro giudizio». Non si esagera se si dice che quella lettura è sconcertante per quanto insinua e afferma, arrivando a chiedere provocatoriamente le dimissioni del Papa. Porta a pensare che, dopo il Conclave del 2013 tutto giocato su Vatileaks e sulla corruzione seguito alle dimissioni di Benedetto XVI, il prossimo possa essere scandito da una sorta di «processo» interno alla pedofilia. Con dinamiche laceranti e con Francesco, il «Papa rivoluzionario», nel ruolo inimmaginabile di capro espiatorio.
Il Fatto 28.8.18
Pedofilia, il prete condannato non paga i danni
Ha preso 14 anni, sfugge al carcere per “depressione” e la Curia non risarcisce le vittime
Pedofilia, il prete condannato non paga i dann
di Angela Camuso
Il Papa chiede perdono per i preti pedofili ma chissà se muoverà un dito per i ragazzi violentati dal sacerdote protagonista del più clamoroso caso di abusi sessuali in Italia. L’ex parroco della borgata romana di Selva Candida, don Ruggero Conti, 63 anni, all’epoca dei fatti anche economo della Curia di Santa Rufina è stato condannato nel 2015 in via definitiva a 14 anni e due mesi di carcere per aver violentato 7 minorenni (esclusi altri casi prescritti). I poveretti non hanno ottenuto neppure un euro di risarcimento, né dal sacerdote né dalla Curia. E il loro carnefice non è mai stato in galera escluso un periodo durante le indagini preliminari. Il pedofilo in questione infatti, già delegato alle politiche della famiglia dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, dopo essere stato arrestato una prima volta, nel 2008, si è visto ripetutamente concedere dal tribunale di Sorveglianza di Milano gli arresti domiciliari per motivi di salute. “Depressione”, è la diagnosi. Fatti i conti, nonostante lo scandalo sia scoppiato dieci anni fa, il prete ha vissuto dietro le sbarre per meno di due anni. Poi sempre in convento o in clinica.
Nel settembre scorso il Tribunale di sorveglianza di Roma, quando don Conti era in una casa di cura nei pressi della Capitale, aveva deciso che le sue condizioni fossero compatibili con il carcere e aveva mandato i carabinieri in clinica per arrestarlo. Don Ruggero però nottetempo era evaso, salendo a bordo di un taxi con destinazione Milano. Giunto nel capoluogo lombardo, il prete si era presentato al pronto soccorso del San Raffaele accusando un malore. Così era entrato nella giurissidizione del tribunale di Milano a esprimersi in merito alla sua salute ed è di nuovo ai domiciliari in una clinica lombarda, peraltro vicino ai suoi familiari dal momento che il prete è di Legnano.
Don Conti, secondo sentenza, è tenuto a risarcire i ragazzini che violentò, all’epoca fra i 13 e i 17 anni, per complessivi 230.000 euro. Le altre parti civili (le famiglie degli abusati e l’associazione antipedofilia “Caramella Buona”, che ha assunto la difesa di due vittime) attendono 57.000 euro. Il prete si è dichiarato nullatenente. Muro di gomma anche dalla Diocesi di Roma, a cui gli avvocati di uno dei ragazzi violentati si erano rivolti in via bonaria con una lettera all’allora vicario di Sua Santità, cardinale Agostino Vallini. L’arcivescovo aveva risposto che l’affare era di competenza della Curia di Santa Rufina di cui era economo lo stesso don Ruggero e a capo della quale è rimasto lo stesso vescovo indagato e poi prosciolto dall’accusa di aver coperto il prete pedofilo: monsignor Gino Reali, che ricevette più volte segnalazioni e persino la denuncia scritta a mano da parte di un ragazzo ma non denunciò don Ruggero, anzi lo riconfermò parroco.
“È una vergogna. Il Papa non potrà affrontare il problema della pedofilia nella Chiesa fin quando non avrà il coraggio o la forza di affrontarlo in Italia – dichiara Roberto Mirabile, presidente e fondatore di Caramella Buona –. Sono convinto che il Papa subisca fortissime pressioni in Vaticano affinché in Italia non si apra il Vaso di Pandora, perché scoppierebbe il pandemonio”.
il manifesto 28.8.18
Il manifesto è un giornale. Che informa, che produce idee, che propone.
E non ha la struttura organizzativa dei movimenti, delle associazioni, dei partiti, dei sindacati. La struttura necessaria per mettere in piedi una manifestazione di popolo.
Ma il manifesto è un quotidiano nazionale che può offrire visibilità e sostegno, facendosi parte promotrice, raccogliendo le adesioni, dal singolo cittadino ai gruppi organizzati.
Avviso ai naviganti. In questi giorni sono arrivate alcune proposte sulla manifestazione. Per questo attiviamo subito un indirizzo di posta elettronica dedicato all'iniziativa: lettere@ilmanifesto.it specificando «Avviso ai naviganti», che raccoglierà adesioni, suggerimenti, consigli, idee da mettere a disposizione di chi si farà carico di organizzare una giornata di lotta contro la barbarie politica e sociale
di Norma Rangeri
Chi manipola la sofferenza sociale e se ne serve per rivolgerla contro l’anello più debole della catena, i migranti, fino a privarli per giorni dell’assistenza sanitaria, come è accaduto sulla nave Diciotti, è una persona incivile, è un politico pericoloso che va combattuto a fondo e a viso aperto. Per questo, per rispondere ad una ignominiosa viltà ho scritto e confermo che ci vorrebbe una grande manifestazione di popolo contro le paure, le violenze, le prepotenze, in nome dei diritti, del rispetto, del senso di umanità che non dobbiamo perdere.
Una bella, ampia, forte, condivisa mobilitazione non sarebbe sufficiente per liberarci da un ministro della paura e del bullismo (che se ne farebbe anche vanto).
Ma viviamo in un paese dove milioni di persone hanno ancora la forza di opporsi, di battersi per le proprie idee, e disposte a fare argine al dilagare di comportamenti che non avevamo ancora mai visto prima in modo tanto sfacciato e violento. Perché il razzismo che viene istillato tra gli italiani – del Nord e del Sud, del periferie sociali e della piccola e media borghesia – fa davvero paura. E bisogna fermarlo. (La Chiesa lo ha già capito, basta leggere i loro mezzi di informazione per verificarlo.
E non a caso la Cei, a conclusione della vicenda Diciotti, ha reso pubblico un comunicato per dire che sono intervenuti «perché la situazione dal punto di vista umanitario era diventata insostenibile». Il ministro degli Interni di fronte all’intervento del Vaticano ha dovuto incassare il colpo e ha cercato di rialzarsi attaccando la magistratura: come faceva Berlusconi, perché Salvini è un suo figlioccio politico).
Il manifesto è un giornale. Che informa, che produce idee, che propone.
E non ha la struttura organizzativa dei movimenti, delle associazioni, dei partiti, dei sindacati. La struttura necessaria per mettere in piedi una manifestazione di popolo.
Ma il manifesto è un quotidiano nazionale che può offrire visibilità e sostegno, facendosi parte promotrice, raccogliendo le adesioni, dal singolo cittadino ai gruppi organizzati.
Perciò le nostre piccole forze da adesso in poi saranno in campo, come punto di chi vuole che il nostro Paese non venga soffocato da un clima di violenza, di intolleranza, di paura. In seguito ci saranno altri motivi per battersi, perché questo governo ha un ampio sostegno e durerà.
Per il momento vogliamo impegnarci per porre un argine all’odio alimentato da un ministro, e che per fortuna non viene condiviso in toto da chi fa parte della maggioranza (il presidente della Camera ha preso una debita distanza da Salvini e nel M5S è scoppiato un “mal di pancia” politico che durerà a lungo e prima o poi esploderà).
In questi giorni sono arrivate alcune proposte sulla manifestazione. Per questo attiviamo subito un indirizzo di posta elettronica dedicato all’iniziativa: lettere@ilmanifesto.it specificando nel soggetto della mail «Avviso ai naviganti», che raccoglierà adesioni, suggerimenti, consigli, idee da mettere a disposizione di chi si farà carico di organizzare una giornata di lotta contro la barbarie politica e sociale.
il manifesto 28.8.18
La Sinistra in piazza contro i sovranisti
Presidio a Milano. È la replica a Matteo Salvini e Viktor Orbàn, che si incontrano in prefettura nel capoluogo lombardo
di Ruggero Scotti
Oggi è il giorno del presidio antirazzista di Milano contro Matteo Salvini e Viktor Orbàn, che si incontrano in prefettura proprio nel capoluogo lombardo. Dopo le migliaia di persone accorse al porto di Catania, sabato pomeriggio, per chiedere lo sbarco dei migranti dalla nave Diciotti, oggi se ne attendono (almeno) altrettante a Piazza San Babila dove alle cinque è convocato il presidio. Le adesioni sono state numerose fin dal lancio della manifestazione, avvenuto sabato su iniziativa di Possibile, di Insieme senza muri e de I sentinelli di Milano.
Le principali sigle del (fu) centrosinistra e della sinistra radicale hanno aderito: dal Pd milanese all’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, con la sua associazione Futura. Da Rifondazione Comunista a Diem 25 fino a +Europa. Presenti anche la Cgil, l’Arci e l’Anpi. Si tratta del primo banco di prova per pesare l’opposizione in piazza al ministro dell’Interno, Matteo Salvini. L’occasione per dare un connotato politico forte a un’opposizione finora debole e frammentata. Il collante è la prima visita ufficiale in Italia del primo ministro ungherese Viktor Orbàn, che già da tre anni ha chiuso con il filo spinato il suo confine meridionale con la Serbia e interrotto così l’ingresso all’Europa dai Balcani.
Il presidio di oggi rappresenta anche la possibilità per chiedere un Europa diversa, «un’Europa senza muri» appunto, come si legge nel titolo dell’iniziativa. Affianco delle varie associazioni, movimenti e partiti che hanno aderito, ci sarà anche il Movimento federalista europeo per chiedere il superamento del regolamento di Dublino, osteggiato in particolar modo da Orbàn e dal gruppo di Visegrad. I federalisti europei saranno in piazza anche perché L’Ue si doti «di istituzioni in grado di attuare vere politiche di asilo e immigrazione data l’evidente incapacità dei singoli Stati nazionali di gestire la situazione». E infine, si legge nella nota di adesione al presidio dei federalisti, per «una riforma della zona Euro con l’obiettivo di creare un governo democratico, dotato delle adeguate risorse per investire nei paesi europei e per avviare politiche di cooperazione nel Mediterraneo».
All’iniziativa di domani si aggiunge anche quella organizzata dalla squadra di calcio St Ambroeus Fc, la prima squadra di rifugiati a iscriversi alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, con un allenamento simbolico dei giocatori sempre in piazza San Babila. «Quando abbiamo saputo che Salvini e Orbàn sarebbero venuti qui a Milano – racconta il dirigente della squadra, Davide Salvatori, ai microfoni di Radio Popolare – abbiamo deciso di dare un segnale». E ancora: «Ci saremo per portare dei contenuti. Quello che in questo periodo abbiamo più a cuore è la nostra opposizione ai Centri di permanenza per il rimpatrio e a quello che rappresentano», conclude Salvatori preoccupato per la situazione difficile in cui si trovano i ragazzi della squadra.
il manifesto 28.8.18
Luigi Ferrajoli: «Per Salvini il consenso legittima qualunque abuso»
Diciotti. Il giurista di «Diritto e ragione» e «Principia Iuris»: «Su quella nave c’è stato un sequestro di persona. Il fatto che il ministro dell'Interno voglia perseverare nelle violazioni del codice penale e delle libertà fondamentali conferisce al suo comportamento un carattere eversivo»
Luigi Ferrajoli è autore di "Diritto e ragione" e "Principia Iuris"
intervista di Roberto Ciccarelli
Professor Luigi Ferrajoli è emerso un orientamento che spiega il comportamento del ministro dell’Interno Salvini sui migranti della nave Diciotti come un atto politico nell’esercizio delle sue funzioni. E che l’inchiesta per «sequestro di persona» sarebbe addirittura un «atto sovversivo». Cosa ne pensa?
È una tesi senza senso che attesta solo l’analfabetismo istituzionale del nostro governo e di quanti lo difendono. Nello stato di diritto tutti i poteri sono soggetti al diritto. In una democrazia costituzionale, quale è ancora quella italiana, la politica è soggetta alla Costituzione, il cui articolo 13 afferma che «non è ammessa» forma alcuna di «restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». La presa in ostaggio dei migranti sulla Diciotti è quindi chiaramente un sequestro di persona, come ha ipotizzato la procura di Agrigento, severamente punito dall’articolo 605 del codice penale e addirittura aggravato allorquando è commesso da un «pubblico ufficiale» quale è appunto il ministro dell’Interno.
Salvini ha promesso che se ci sarà un’altra nave non attraccherà in Italia…
È l’aspetto più grave della vicenda, che conferisce al comportamento del ministro un carattere eversivo: persisterà nella violazione del codice penale e delle libertà fondamentali costituzionalmente garantite. Il rischio è che questo ministro intenda – con il sostegno dell’intero governo e della sua maggioranza – alterare i fondamenti dello stato di diritto: non più la legalità costituzionale, ma il consenso elettorale quale fonte di legittimazione di qualunque abuso. Una simile pretesa era già stata avanzata da Berlusconi. Ma mai in maniera così sfrontata e arrogante come sta facendo Salvini.
Quanto pesa su questa situazione l’incapacità dell’Unione Europea che non riesce a fare rispettare le decisioni sull’immigrazione?
Moltissimo. Tutti i paesi membri sono variamente impegnati nella limitazione della libertà di accesso e di circolazione delle persone, in accuse e recriminazioni reciproche e in una guerra contro i migranti.
Luigi Di Maio appoggia Salvini, ma considera quello della magistratura «un atto dovuto». Come giudica questa posizione?
Scandalosa. Per anni hanno gridato «legalità!!!», «legalità!!!» ed oggi difendono un ministro indagato per un delitto gravissimo nella cui commissione, oltre tutto, intende perseverare. Eppure ci troviamo di fronte non a un qualsiasi reato, ma a un chiaro e consapevole disegno di alterazione del paradigma costituzionale della nostra democrazia. In passato ci eravamo distinti per il salvataggio di centinaia di migliaia di naufraghi, oggi stiamo diventando i capofila dei paesi del gruppo di Visegrad.
Nel comportamento di questo governo riscontra una continuità con i precedenti?
Una linea molto dura e crudele era già stata avviata con successo dal ministro Minniti del passato governo. La differenza è che la pratica disumana del respingimento, che in passato veniva negata e occultata, viene oggi sbandierata proprio perché fonte di facile consenso. Salvini non si limita a interpretare la xenofobia, ma la alimenta e la amplifica, producendo effetti distruttivi sui presupposti della democrazia.
Si dice che l’opinione pubblica sia insofferente, teme l’«invasione», l’emergenza…
Non esiste alcuna invasione e comunque gli arrivi, anche quando erano ben più grandi degli attuali, non hanno mai messo a rischio la sicurezza. Questa situazione è invece il risultato di una campagna disumana e immorale riscontrabile in formule come «prima gli italiani» o «la pacchia è finita» a sostegno dell’omissione di soccorso. È gravissimo che siano praticate ed esibite dalle istituzioni. Così facendo non sono solo legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano. Hanno screditato, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita venendo meno alla Convenzione di Amburgo del 1979, al diritto del mare e al diritto a migrare stabilito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici. Queste politiche stanno fascistizzando il senso comune. Stanno svalutando, insieme al principio della dignità delle persone solo perché persone, anche i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia. Tutti gli esseri umani hanno diritto di lasciare il loro paese. Fermarli a metà strada è comunque illegittimo.
Quali sono gli effetti di questa criminalizzazione dei migranti sulla società italiana?
Porta al mutamento delle soggettività politiche e sociali: non più le vecchie soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e sulle lotte comuni per comuni diritti, ma nuove soggettività politiche di tipo identitario – italiani contro migranti – i – basate sull’identificazione delle identità diverse come nemiche e sul capovolgimento delle lotte sociali: non più di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso, dei poveri contro i poverissimi. I migranti sono stati trasformati in nemici contro cui scaricare la rabbia e la disperazione generate dalla crescita delle disuguaglianze e della povertà.
il manifesto 28.8.18
Genova G8, la democrazia mai risarcita
Risarcimenti per danni d'immagine. Tre milioni per i risarcimenti pagati ai torturati, 5 per i danni d’immagine: tanto vale, per il pm della Corte dei Conti, la bella impresa compiuta il 21 luglio 2001 dalla nostra polizia alla scuola Diaz
di Lorenzo Guadagnucci
* Comitato Verità e Giustizia per Genova
Tre milioni per i risarcimenti pagati ai torturati (incluso il sottoscritto), 5 per i danni d’immagine: tanto vale, per il pm della Corte dei Conti, la bella impresa compiuta il 21 luglio 2001 dalla nostra polizia alla scuola Diaz.
Non si può invece contabilizzare la lesione inferta al corpo della democrazia, mai risarcita a causa della condotta tenuta negli anni dai vertici di polizia e dai ministri degli interni, che in nessun momento hanno pensato di schierarsi dalla parte dei cittadini sottoposti a tortura e quindi di operare per fare chiarezza e pulizia a beneficio del bene pubblico. Così lo stato si trova a fare i conti con l’eredità di Genova G8 solo in senso letterale, contando gli euro da recuperare.
Non è granché ed è successo lo stesso con la vicenda di Bolzaneto, quartiere genovese passato alla storia come il Garage Olimpo dei generali argentini, con la sua caserma di polizia divenuta sinonimo nazionale di tortura: per la Corte dei conti (sentenza dell’aprile scorso) l’ordalia di violenze fisiche e psicologiche inflitte a decine di malcapitati nella palazzina chiamata amichevolmente «Auschwitz» vale 6 milioni di euro, a carico di 28 agenti e sanitari penitenziari. Le cifre, in casi del genere, sono ben poca cosa, ma parlano anch’esse. Ad esempio dicono che i danni d’immagine, secondo i pm, valgono più di quelli patrimoniali, lasciando intendere che il tema della credibilità (perduta) delle forze dell’ordine è ben più importante di quanto si pensi a Palazzo. Non può sfuggire, sotto questo profilo, che fra i 25 funzionari chiamati a risarcire lo stato per il caso Diaz figurano personaggi che sono rientrati in polizia dopo aver scontato i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, nonostante la Corte europea per i diritti umani prescriva nelle sue sentenze, per i casi di tortura (l’Italia è stata condannata sia per la Diaz sia per Bolzaneto), la destituzione dei funzionari condannati.
Insomma, da qualsiasi parte si affronti l’eredità di Genova G8, ci si trova di fronte a un disastro: professionale, morale, politico, economico. Eppure poteva andare diversamente. Proviamo a immaginare un’altra storia. Un capo della polizia e un ministro dell’interno che il giorno dopo il disastroso blitz nella scuola aprono un’inchiesta interna, sospendono tutti i funzionari e chiedono il licenziamento di quelli maggiormente responsabili (fra parentesi,è quanto suggerì Pippo Micalizio, dirigente inviato dal capo della polizia per un’inchiesta lampo, in una relazione rimasta chiusa in un cassetto).
Contestualmente, continuiamo a immaginare, capo della polizia e ministro si dimettono, con il preciso scopo di tutelare la dignità e la credibilità del corpo e dello stato. I loro sostituti a quel punto collaborano con i magistrati, chiedono solennemente scusa e si impegnano a far sì che niente del genere possa mai più ripetersi. Il parlamento, intanto, avvia una riforma delle forze di polizia: regole di trasparenza, codici sulle divise, legge sulla tortura (una vera legge, naturalmente, non quella fasulla approvata l’estate scorsa e già bocciata da istituzioni come il Consiglio d’Europa e il Comitato Onu contro la tortura).
Un sogno, un’utopia? Forse, per una «democrazia reale» qual è la nostra, incapace di fare i conti con gli abusi di stato, ma un’ovvietà per una democrazia normale.
L’Italia ha scelto la via che conosciamo, lastricata di falsi e menzogne, una via che lascia sul corpo della polizia di stato lo stigma della tortura e sulla sua dirigenza il tratto dell’ambiguità, nonostante i lodevoli ma insufficienti sforzi dell’attuale capo Franco Gabrielli, anche lui rimasto invischiato nel pantano creato attorno a Genova G8. È la polizia che è stata consegnata ai nuovi uomini di potere. Oggi al Viminale siede un esponente della destra radicale che su questi temi ha sempre sposato le posizioni più arretrate e più oltranziste emerse in seno alla polizia. Non è il momento di improvvisarsi Cassandre e vaticinare chissà quali futuri eventi, ma se a volte capita di fare cattivi pensieri è (anche) perché siamo coscienti che dopo l’estate del 2001 non è stato fatto quanto necessario – tutt’altro… – per voltare pagina e garantire una seria opera di prevenzione.
Repubblica 28.8.18
A due settimane dalla prima campanella
Scuola, manca un preside su 4 servono segretari e bidelli In cattedra ottantamila precari
Avvio delle lezioni a rischio caos nonostante i 57mila contratti a tempo indeterminato Alle superiori è caccia ai prof di greco e matematica. E resta il rebus delle maestre diplomate
di Corrado Zunino
ROMA In provincia di Udine una maestra ogni tre non si è presentata alla chiamata in ruolo. Ha rifiutato il posto fisso, sì. Il grande disastro dei diplomati magistrali, tutt’altro che risolto, come si vede, offre nuova precarietà alla scuola italiana. La questione si spiega attraverso la sentenza del Consiglio di Stato che potrebbe colpire ogni singola maestra ( d’asilo e di scuola elementare) in qualsiasi momento dell’anno, togliendole il posto di lavoro e infilandola dal prossimo giugno — grazie al paracadute dell’ultima sanatoria Bussetti — nella graduatoria di merito da cui, prima o poi, tornerà al ruolo. Un gioco dell’oca. Diverse insegnanti del primo ciclo — 30 su 104 a Udine, si segnalano casi a Pordenone e nel Veneto — hanno preferito non abbandonare la certezza del tempo indeterminato in una paritaria e non si sono presentate alla nomina. Per ora, solo a Udine, 112 posti sono vacanti.
L’anno scolastico ai tempi del governo grillo- leghista — il ministro Marco Bussetti è solito dire: «I precari non scompariranno mai, un serbatoio di supplenti è sempre necessario e fisiologico nella scuola, ma un sistema non può basarsi su un precariato storico di lunga durata » — a due settimane abbondanti dalla sua partenza ( il 12 settembre per molte regioni, a Bolzano si inizia il 5) mostra alcune novità tempestive e molti problemi. Nell’ordine, le assunzioni in corso sono e saranno 57.322, cinquemila in più dell’anno passato (ma 36 mila in meno del 2015 della Buona scuola). Si sta procedendo. I supplenti di lunga durata — nove mesi — si stimano già in 80mila e quindi sarebbero diecimila in meno rispetto al 2017- 2018. Poi — ma questo si saprà il primo settembre negli uffici scolastici regionali che viaggiano con celerità — ci sono le cattedre vuote. Quelle per cui non si trova docente di ruolo, né supplente. Nessuno. Non saranno poche. Il Lazio ne prevede 1.500, in Piemonte i sindacati parlano di oltre 4.000 posti: settecento maestre sono andate in pensione e il corso di Scienze della formazione dell’Università di Torino sforna solo 250 laureati l’anno. Iniziano a fare supplenze durante gli studi, alcuni già al secondo anno. Ci saranno caselle vuote, ancora, per alcune materie in cui le graduatorie sono ormai esaurite: matematica, latino e greco alle scuole superiori.
In Lombardia la Cgil ha denunciato una procedura informatica per il reclutamento vecchia e fallata ( Sigeco): « Sta escludendo centinaia e centinaia di docenti dai ruoli » . Lo scarso personale presente nell’Ufficio scolastico di quella regione sarebbe alla base di « esclusioni e cancellazioni arbitrarie » . Il provveditorato ha voluto ridimensionare il problema, ma la questione — nazionale, questa — è il costante peggioramento della macchina amministrativa scolastica, che sia centrale o periferica, del provveditorato o dell’ultima scuola professionale. E senza quella cinghia s’inceppa la didattica, la trasmissione del sapere.
Nel Paese manca un dirigente amministrativo ogni tre scuole: 2.400 posti vacanti su poco più di ottomila istituti. In Emilia Romagna i posti scoperti sono 230 su 536 scuole, oltre il 40 per cento. A metà luglio il ministro Bussetti ha inviato alla Pubblica amministrazione la richiesta di bandire il concorso per 2.004 posti da Direttore dei servizi generali amministrativi: non si fa da quindici anni. Si attende risposta. Il concorso per presidi — ne manca uno su sei e uno sui quattro è a mezzo servizio in quanto reggente di altre scuole — è partito a inzio estate, ma ci sono due problemi: con i pensionamenti dello scorso giugno il 2018- 2019 sarà l’anno peggiore per i vuoti delle dirigenze scolastiche e, due, la lunghezza della selezione non riuscirà a dare nuovi presidi ( 2.425 per l’esattezza) neppure per settembre 2019. Lo staff del ministro sta studiando come accorciare il concorso. Mancano anche amministrativi e bidelli, nelle scuole italiane: il Miur ne ha immessi 9.838, ma le segreterie sono al collasso. In Campania, patria del sovraffollamento da docenti, i concorsi per abilitati sono finiti a luglio, ma le graduatorie non vengono pubblicate per timore di ricorsi. E trecento vincitori non entrano in ruolo.
In estate, Bussetti ha aperto al rientro dei "deportati al Nord" nelle province meridionali di provenienza ( che quest’anno insegneranno al posto dei precari locali, infuriati), quindi, dopo aver aperto all’assunzione dei diplomati magistrali, ha assistito sbigottito all’approvazione alla Camera di un emendamento Leu che porta nelle graduatorie una valanga di nuovi precari. La sua maggioranza dovrà rimediare all’errore al Senato.
Repubblica 28.8.18
Per gli alunni con disabilità
Sostegno, aumentano i posti ma non ci sono specialisti "Si va avanti con i supplenti"
Sulla carta 13mila incarichi in più: senza insegnanti con una formazione ad hoc, li copriranno figure a termine. "Per i ragazzi l’effetto è devastante"
di Ilaria Venturi
«Non so ancora se mia figlia comincerà la seconda elementare con la stessa maestra di sostegno, non posso nemmeno prepararla.
E se cambierà per lei sarà una tragedia: era brava e si era affezionata». Scuote la testa Barbara Montanari, una figlia di 8 anni affetta da sindrome di Down. Un’altra mamma aggiunge: «Per mio figlio epilettico era arrivato un insegnante di musica, alla prima difficoltà mi chiamava: non sapeva come fare».
Testimonianze, quelle di tante famiglie che ogni anno subiscono la giostra dei docenti sulla pelle dei loro figli disabili. Il nodo sta tutto qui: insegnanti di sostegno precari e non specializzati, uno dei mali annosi di cui soffre la scuola. E quest’anno andrà anche peggio, denunciano i sindacati.
Sul sostegno, i posti a tempo determinato (in linguaggio tecnico, "in deroga") nel 2018-2019 saranno 45mila, un terzo del totale. Altrettanti — si stima — gli insegnanti che saliranno in cattedra per occuparsi dei ragazzi disabili senza però avere un titolo ad hoc: diecimila di loro occuperanno posti "di ruolo", ma sempre come supplenti. Così, dei 13mila nuovi posti di sostegno teoricamente autorizzati per il 2018-19 ne saranno coperti solo tremila, denuncia la Flc-Cgil.
Insomma, le cattedre a tempo indeterminato, quelle di cui gli alunni disabili avrebbero bisogno ancor più dei loro compagni, ci sono. Ma saranno coperte con i precari. Possibile?
Sì perché le università che li devono specializzare non ne sfornano abbastanza (sono 9.949 i posti per i corsi di specializzazione negli atenei autorizzati dal Miur nel 2017), in più con la riforma del reclutamento alle medie ealle superiori i tempi si allungano ben oltre l’anno che prima occorreva per ottenere il titolo.
La Cisl scuola sta preparando un dossier da presentare al Miur in questi giorni: la mancanza di docenti specializzati non è omogenea, ci sono in regioni come la Calabria e la Campania, mancano in Sardegna e al Nord.
In Lombardia i posti di ruolo da assegnare entro fine mese sul sostegno alle medie e superiori sono 2.990. Ma le persone disponibili preparate ad hoc sono appena 500. E non potranno nemmeno essere assunte ora perché la loro gradutoria non è ancora stata pubblicata. L’anno scorso in Veneto l’assegnazione di 1.200 cattedre di sostegno è andata a vuoto, «e quest’anno saranno ancora di più», anticipa Marta Viotto, segretaria Flc-Cgil regionale. Il tutto in un quadro che vede gli insegnanti di sostegno passati da 110.216 nel 2014 a 154.432 tre anni dopo.
Anche gli studenti disabili in dieci anni, dal 2007, sono lievitati: all’appello alzano la mano in sessantamila in più (da oltre 174mila a quasi 235mila). Il segno di una scuola che include, modello in Europa. Ma se gli insegnanti non sono stabili e non sono adeguatamente preparati l’integrazione s’inceppa. «Per tutte le elementari e medie mio figlio ha cambiato anche più di un docente o educatore all’anno.
Quello dell’insegnante di sostegno non può essere un lavoro precario — commenta Piero Perini, papà di un ragazzo con una disabilità cognitiva — L’integrazione di cui ci vantiamo non è attuata». In Emilia Romagna quest’anno, oltre ai 5.870 posti di sostegno assegnati nell’organico di diritto, sono stati concessi 3.395 posti in deroga.
Significa il 40% di precari. E poi c’è il problema di chi cambia in fretta, dopo la nomina. «Ci sono due diritti che devono essere garantiti, quello degli insegnanti alla mobilità e quello dei bambini con disabilità alla continuità didattica. Fra i due interessi ritengo sia prioritario quello degli alunni, purtroppo oggi le cose vanno diversamente», l’amara osservazione del direttore dell’ufficio scolastico dell’Emilia Romagna Stefano Versari che reclama un intervento normativo. «Nella nostra esperienza di genitori il posto di sostegno è stato spesso preso come un trampolino di lancio per arrivare a insegnare nella propria materia», racconta Barbara Bertoni, una figlia disabile. Invece, «noi chiediamo stabilità e preparazione specifica». Quello che non viene garantito e che mancherà anche al suono della nuova campanella.
Repubblica 28.8.18
Germania
Caccia allo straniero a Chemnitz neonazi sfilano sotto la statua di Marx
I raid e le proteste dopo che domenica un 35enne tedesco è stato accoltellato a morte da un iracheno e un siriano
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO Quando i neonazisti hanno cominciato a tendere il braccio per il saluto hitleriano, la situazione nel centro di Chemnitz era già fuori controllo. La polizia stava già cercando di dividerli con gli idranti dai contro-manifestanti di sinistra, più o meno da quando nel corteo di estrema destra "Pro Chemnitz" erano cominciati ad apparire manifestanti incappucciati.
La giornata di scontri durissimi tra manifestanti di estrema destra e antifascisti si è chiusa con alcuni feriti.
Quelle avvenute ieri in quella che una volta si chiamava — ironia della sorte — Karl-Marx-Stadt, sono scene che non si vedevano da tempo, in Germania. E i neonazisti si erano dati appuntamento — altra beffa — sotto la statua del padre del comunismo.
Nonostante i ripetuti appelli alla calma da parte della polizia, la giornata si è conclusa con gli scontri.
Gli incidenti di ieri arrivano dopo un fine settimana di fuoco: domenica mattina un 35enne tedesco era stato accoltellato a morte da un 22enne iracheno e un 23enne siriano. Nel pomeriggio alcune centinaia di manifestanti di estrema destra avevano sfilato per le strade di Chemnitz dando la caccia a profughi e migranti. Ieri mattina il portavoce del governo, Seibert, aveva condannato duramente l’episodio, definendo la caccia «inaccettabile». «In Germania — ha detto — non c’è posto per la giustizia fai-da-te, per i gruppi che vanno in strada a spargere odio». Ieri pomeriggio, l’ulteriore deriva.
Repubblica 28.8.18
Germania
La polemica con la Namibia
Il genocidio africano quella ferita aperta che imbarazza Berlino
Un secolo fa l’eccidio degli Herero e dei Nama ma per i discendenti nessun risarcimento
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO Quindici tra teschi, ossa e scalpi degli Herero e dei Nama massacrati un secolo fa dai tedeschi saranno restituiti domani alla Namibia. Ma la cerimonia attorno a uno dei rari gesti riparatori della Germania verso due minoranze che furono le prime, accertate vittime di un genocidio nel ’900 — un decennio prima di quello armeno — è già al centro di enormi polemiche. Il governo tedesco continua a voler trattare soltanto con quello namibiano, mentre i rappresentanti delle minoranze perseguitate chiedono di sedere al tavolo della difficilissima trattativa sulle indennità. Ad oggi la Germania, pur avendo riconosciuto nel 2004 il genocidio in Namibia, non ha chiesto scusa, né vuole riconoscere alcun risarcimento ai discendenti dello sterminio.
Nel 1904, dopo un’insurrezione contro le feroci condizioni cui erano costretti nelle loro terre, gli Herero e i Nama furono perseguitati dal generale tedesco Lothar von Trotha. Il militare sassone non si accontentò di sconfiggerli i battaglia. Ne ordinò lo sterminio, un genocidio di Stato. «Devono lasciare il Paese o li fucileremo», sentenziò. E dopo la sanguinosa battaglia di Waterberg, le truppe del Reich cacciarono gli sconfitti nel deserto di Omahele, sapendo di condannarli a morte. I rari sopravvissuti furono rinchiusi in campi di sterminio che secondo storici autorevoli come Juergen Zimmerer furono un antipasto di Auschwitz. Anche in questo caso, un comandante del campo, Berthold von Deimling, promise: «Nessun Nama lascerà Shark Island». Ed è in quel campo che a decine di Herero e Nama fu tagliata la testa. Una volta bollite, ai famigliari fu inflitto l’atroce compito di scarnire quelle teste mozzate con dei pezzi di vetro.
«Ai nostri antenati fu chiesto di strappare la carne dalle teste dei loro padri, dei loro mariti», ci ha ricordato ieri la presidente della Commissione namibiana sul genocidio dei Nama, la parlamentare Ida Hoffmann. Per lei è importante che il governo restituisca tutti i resti dei loro antenati: «Vogliamo che le loro anime riposino in pace». Come ricorda lo storico Christian Kopp, che presiede l’ong "Völkermord verjährt nicht" ("Il genocidio non cade in prescrizione"), impegnato da anni nella restituzione dei teschi e delle ossa namibiani, «a tutt’oggi non c’è trasparenza su quanti se ne trovino ancora nelle università e negli ospedali tedeschi». Un secolo fa furono portati in Germania per essere studiati dagli pseudoscienziati che cercavano di dimostrare presunte differenze tra razze.
Furono gli ispiratori dei boia dell’Olocausto, dei macellai dello sterminio degli ebrei.
Ida Hoffmann fa parte di una delegazione di rappresentanti di Herero e Nama che è stata ricevuta ieri mattina dal ministro della Giustizia di Berlino, Dirk Behrendt, che ha chiesto scusa a nome della capitale e ha ricordato che lo sterminio «non fa quasi parte della memoria collettiva dei tedeschi» e il governo federale dovrebbe «finalmente riconoscerlo e assumersene la responsabilità». Wolfgang Kaleck, l’avvocato dell’Ecchr, lo studio legale che sta aiutando Herero e Nama a portare avanti la loro causa collettiva, ha parlato di un «fallimento» della Germania.
L’11 agosto ricorre l’anniversario del genocidio e «nessun rappresentante tedesco era presente, quest’anno, né c’erano corone di fiori: una vergogna». Da sempre, su questo oscuro capitolo della storia tedesca, la Germania preferisce girarsi dall’altra parte.
«Willy Brandt si inginocchiò davanti al ghetto di Varsavia», ha ricordato ieri Esther Utjiua Muinjangue, presidente della Commissione sul genocidio degli Herero. «Qual è la differenza, che quelli erano europei e noi africani?».
Il Fatto 28.8.18
Rohingya, un massacro sotto gli occhi del Nobel per la Pace
L’accusa - L’Onu vuole un processo per il capo dell’esercito Min Aung Hlaing: è responsabile della persecuzione verso la minoranza musulmana
Rohingya, un massacro sotto gli occhi del Nobel per la Pace
di Roberta Zunini
I vertici dell’esercito birmano devono essere processati per genocidio e crimini di guerra contro la minoranza musulmana dei Rohingya, denuncia il rapporto della missione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, creata nel marzo 2017.
A un anno dalle agghiaccianti immagini di donne, bambini e vecchi derelitti in fuga dalle violenze dei soldati e dei nazionalisti buddisti, l’Onu non solo ritiene che ci siano prove per dimostrare che i militari hanno deportato civili inermi, ma abbiano pianificato e perpetrato un genocidio per questioni etnico-religiose. Ovvero i più infamanti crimini di guerra, commessi peraltro sotto gli occhi di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e fino a 8 anni fa leader della resistenza birmana dalla casa-prigione dove era stata confinata per 15 anni, su ordine della giunta militare allora al governo del Paese.
Secondo il rapporto della missione d’inchiesta indipendente dell’Onu, sul Myanmar, l’attuale consigliera di Stato e ministro degli Esteri “non ha usato la propria posizione di capo del governo de facto, né la propria autorità morale, per arginare o impedire gli eventi in corso nello Stato di Rakhine”.
Nonostante gli investigatori delle Nazioni Unite siano consci che “le autorità civili birmane – si legge nel documento – avessero poco margine, attraverso le proprie azioni e omissioni hanno contribuito alla realizzazione di crimini atroci”.
L’ambiguità di The Lady
Se è vero che l’ambigua The Lady era ed è senza ombra di dubbio in una posizione difficile, dato che la Costituzione assegna tre ministeri ai generali dell’esercito, è altrettanto acclarato che li ha appoggiati. Del resto mettersi contro il generale Min Aung Hlaing, il comandante in pectore delle forze armate non è affare da poco ed è, ovviamente, molto rischioso. Hlaing inoltre gode di grande popolarità da parte della maggioranza dei birmani per il suo passato di strenuo oppressore di tutte le minoranze etniche che compongono il puzzle demografico del Paese e che per anni hanno combattuto contro lo Stato centrale.
Con le elezioni del 2015 sembrava che le cose potessero cambiare, che Aung San Suu Kyi potesse provare a limitare il potere dell’esercito e imporre, col tempo, un governo senza più divise. Ma non è andata così, soprattutto per la determinazione del comandante sessantenne, diventato capo dell’esercito nel 2011. Colui che due anni prima aveva guidato le operazioni militari nel Myanmar occidentale contro due minoranze etniche, gli Shan al confine con la Thailandia e i Kokang al confine con la Cina: decine di migliaia di persone furono costrette a lasciare le loro case e a superare il confine, e l’esercito fu accusato di uccisioni, stupri e incendi sistematici, le stesse violenze usate negli ultimi mesi contro i Rohingya nel nord del Rakhine, Stato occidentale del Myanmar.
Hlaing così come The Lady continua a sostenere che i Rohingya siano di origini bengalesi, ossia provengano dal confinante Bangladesh.
Un modo per giustificare decenni di persecuzioni ed emarginazione. Prima di diventare l’uomo più potente del Myanmar, Min Aung Hlaing aveva studiato Legge in attesa di superare l’esame di ammissione alla più prestigiosa accademia militare birmana che lo respinse per ben tre volte. Il New York Times lo ha descritto così : “Era conosciuto per il suo sorriso, ma la sua attitudine a far ricadere le proprie colpe sugli altri gli procurò molti nemici”.
La strategia dei “quattro tagli”
Anche i colleghi d’accademia non lo amavano perché sembra avesse il vezzo di bullizzare i nuovi arrivati. Quando nel 1977 divenne ufficiale di fanteria iniziò a mettere a punto la strategia dei cosiddetti “quattro tagli” contro le riottose minoranze: isolare i ribelli dai civili interrompendo i rifornimenti di cibo, di soldi, la trasmissione di informazioni e il sostegno popolare.
A volerlo nominare a tutti i costi comandante dell’esercito fu il suo predecessore, il generale Than Shwe perché lo riteneva leale al punto che, in cambio della massima promozione, avrebbe evitato di metterlo ai ceppi per le brutalità commesse durante il mandato e per la fortuna accumulata in servizio, accaparrandosi i proventi della vendita di pietre preziose e legname di cui il paese è ricchissimo.
Secondo la Costituzione del 2008 all’esercito è garantito anche un quarto dei seggi nel Parlamento birmano, così da permettergli di porre il veto a riforme sgradite; la nomina di tre ministri importanti; il comando della polizia e delle guardie di frontiera e il controllo di ampi settori dell’economia. I militari continuano inoltre ad avere enorme potere nella gestione delle terre, che in Myanmar sono per lo più di proprietà del governo. Finora al Comandante era andato dunque tutto liscio, e non è detto che il trend positivo si interrompa a causa delle accuse dell’Onu. Anzi, la popolazione potrebbe al contrario sostenerlo maggiormente per ‘spirito di patria’ e nominarlo capo dello Stato nelle elezioni del 2020. Carica a cui aspira senza nascondersi.
La Stampa 28.8.18
San Suu Kyi, il tramonto del simbolo della pace
di Alessandro Ursic
La stella di Aung San Suu Kyi, almeno agli occhi di chi in Occidente l’aveva idolatrata per decenni, era in caduta da tempo. Ma ora siamo al fondo: un Premio Nobel per la Pace che guida un governo in sostanza allineato a un esercito in cui l’Onu vede un «intento genocida» contro i Rohingya. La «Signora» non è a rischio di finire all’Aja. Ma «non ha usato la sua posizione di leader di fatto del governo, né la sua autorità morale, per limitare o impedire gli eventi nello Stato Rakhine», si legge nel rapporto delle Nazioni Unite. Un giro diplomatico di parole che vale come un dito puntato.
Non sono passati neanche tre anni dal trionfo elettorale della «Lega nazionale per la democrazia» di Suu Kyi. Doveva essere il coronamento della «primavera birmana», il lieto fine di una dittatura militare durata mezzo secolo che si faceva da parte. E invece. L’esercito è in saldo controllo, con ministeri chiave ed enormi interessi economici. Suu Kyi non ha mai neanche pronunciato il nome «Rohingya» nonostante il resto del mondo la implorasse di contrastare la marea montante di intolleranza contro la minoranza, esplosa un anno fa con i pogrom che hanno inorridito il mondo. E i birmani, gli stessi che una volta odiavano i militari, ora vedono l’esercito come un baluardo contro la minaccia demografica dei musulmani.
La popolazione ha ancora un enorme rispetto per Suu Kyi. E finché lei viene percepita come ostile ai disprezzati «bengalesi» il quadro non cambierà, anche se i giovani non hanno memoria dei suoi sacrifici. Alcuni fan occidentali di Suu Kyi cercano ancora di convincersi che il suo gelido atteggiamento di chiusura di fronte alle sofferenze dei Rohingya sia dovuto alla inerente debolezza della sua posizione. Dicono: se si mostrasse tollerante, alle elezioni del 2020 sarebbe un tracollo. Se si mettesse contro l’esercito, sarebbe la sua fine politica. Meglio avere Suu Kyi al comando per permettere alla fragile democrazia birmana di mettere radici.
Ma sono sempre in meno a pensarla così. Le hanno girato le spalle altri Nobel per la Pace, con una lettera aperta pregandola di prendere posizione. «Se il prezzo politico della tua ascesa a leader del Myanmar è il tuo silenzio, il prezzo è senza dubbio troppo alto», le scrisse l’arcivescovo Desmond Tutu. Quasi una decina di riconoscimenti per i diritti umani le sono stati ritirati nell’ultimo anno. Ma lei non mostra ripensamenti. Sentirsi accusata la rende ancora più gelida. E con quale risultato? Le minoranze etniche - un terzo del Paese - non le credono più. L’esercito è più popolare ora di tre anni fa. Lei ha 73 anni, è fragile di salute, e la sua mania di controllo ha precluso qualsiasi speranza di veder emergere un erede. Sempre se ci sarà qualcosa da ereditare.
La Stampa 28.8.18
Lenin, fucili e soldi di plastica
Nel cuore della Transnistria, la repubblica sovietica che non c’è
Lo Stato moldavo si è autoproclamato indipendente nel ’90. È riconosciuto solo da Abcasia e Ossezia. Niente bancomat né telefono, il tempo è fermo al comunismo. E i soldati russi pensano alla sicurezza
Reportage di Antonio Scurati
Se arrivi fin qui, ci arrivi per il confine. Ed eccolo lì, il confine. Appare dopo una svolta della strada, in una radura aperta nel mezzo di un boschetto di platani. La Transnistria, l’ultima, leggendaria, fantomatica e famigerata Repubblica dei Soviet sulla faccia della Terra, sta oltre questa fila di automobili e vecchi camion disciplinatamente accodati davanti a una guardia di frontiera.
Il primo dei tre check point è del tutto ordinario: un doganiere moldavo in divisa grigia, piantato sulla linea di mezzeria, getta un’occhiata distratta ai passeggeri dell’automobile e regola il transito con un lieve cenno di assenso della testa. Ma già al secondo punto di controllo, pochi metri più avanti, irrompe il brivido della sanguinosa storia del Ventesimo Secolo. Un fante della ex Armata Sovietica si avvicina all’auto imbracciando un fucile d’assalto. La suggestione mi suggerisce che si tratti di un AK-47, un Kalashnikov, ma non potrei giurarci. Di certo è un carro armato di fabbricazione sovietica il veicolo da combattimento che sorveglia il ciglio della strada. Con un idiotico riflesso condizionato da turista globale, alzo il mio smartphone verso il parabrezza dell’auto per scattare una foto.
«Abbassa subito quell’aggeggio. Altrimenti ci tengono qui tutto il giorno. Se ci va bene». Alfredo, il nostro accompagnatore, mi fulmina con un tono di voce perentorio che non aveva mai adottato finora.
I punti di controllo
Dopo la gincana tra i rostri anticarro, al terzo check point, un funzionario ci restituisce i passaporti intonsi ma corredati da un tagliando stampato a caratteri cirillici. L’autoproclamata Repubblica moldava di Transnistria (Pridnestrovie) non può, infatti, disporre nemmeno di un proprio visto da apporre sul passaporto dei suoi rari visitatori. Così come non può disporre di una targa automobilistica propria, della convertibilità della propria valuta, del collegamento internazionale del proprio sistema bancario e via dicendo. Niente bancomat, niente telefoni, nessuna relazione diplomatica. Oltre questo confine, fino a pochi mesi fa, cessava perfino il valore delle coperture assicurative automobilistiche stipulate nel resto del mondo. Oltre questo labile confine si apre, insomma, una falla nella rete dell’interconnessione globale che oramai si estende pressoché sull’intero Pianeta.
Il ministero degli Esteri italiano sconsiglia il viaggio per assenza di relazioni diplomatiche
E, del resto, il sito Viaggiare Sicuri del ministero degli Affari Esteri italiano sconsiglia di attraversarlo, perché oltre questo confine, in assenza di relazioni diplomatiche, l’Italia dichiara di non poter far nulla per i propri cittadini. Soltanto due nazioni al mondo riconoscono, infatti, ufficialmente questa autoproclamata repubblica sovietica di Transnistria: l’Abcasia e l’Ossezia del Sud. Non ne riconosce l’esistenza nemmeno la Russia, che pure la garantisce con i propri soldati. Una sorta di punto cieco sulla mappa delle relazioni internazionali, una terra incognita nella cartografia della contemporaneità. Hic sunt leones.
Le monete giocattolo
Noi il confine lo attraversiamo senza intoppi. Non appena superata la linea di demarcazione, prima sosta per cambiare il leu moldavo nel rublo transnistriano in un piccolo supermercato sormontato da una vistosa insegna che urla al mondo il proprio nome in caratteri latini: Sheriff. Oltre a banconote cartacee, ci vengono consegnate alcune monete di plastica simili ai gettoni delle roulette-giocattolo. Pare che un microchip interno ne garantisca la validità. E pare che anche questa sia un’altra unicità assoluta a livello mondiale. In ogni caso, ci viene detto che avremo ben poche occasioni di spenderle.
L’ultimo atto della guerra
Dopo una visita all’imponente fortezza rinascimentale che da secoli sorveglia la sponda europea del fiume Nistro (Dnestr) – a testimonianza del fatto che da sempre questo è un confine di sangue – sbarchiamo nella città contesa di Bender, ancora sulla riva destra del fiume. Qui, nel luglio del 1992, si consumò l’ultimo, sanguinoso atto della cosiddetta Guerra di Transnistria che tenne a battesimo questo Stato fantasma. In estrema sintesi, le cose andarono così: per secoli contesa tra Occidente e Oriente, tra Romania e Russia, tra Europa e Asia, tra fantasticherie democratiche e reali dispotismi ancestrali, crollata l’Urss, la Moldavia, spalleggiata dai cugini romeni, se ne proclamò indipendente, chiedendo alla 14esima Divisione dell’esercito Sovietico d’istanza in Transnistria di abbandonare quello che i Moldavi consideravano parte del proprio territorio nazionale.
Nel ’92 le forze moldave entrarono a Bender. I russi minacciarono: “Fermi o vi invadiamo”
A seguito del rifiuto dei generali russi di consegnare i colossali depositi di munizioni e la loro più avanzata testa di ponte verso l’Europa, i rappresentanti della minoranza russa e ucraina della popolazione (poco meno del 50%) si dichiararono a loro volta indipendenti dalla Repubblica di Moldova. Ogni velleità militare dei Moldavi fu frustrata nel giro di un paio di mesi dai miliziani transnistriani, sostenuti da volontari accorsi da varie regioni della Russia, da corpi speciali dell’esercito russo e da soldati della guarnigione che combattevano senza mostrine. Quando, nel giugno del 1992, le forze moldave entrarono a Bender minacciando il ponte sul Nistro, il generale Lebedev ordinò ai cosacchi acquartierati a Tiraspol – l’attuale capitale, a soli 11 km di distanza, oltre il fiume – di riversarsi in città. Poi telefonò al presidente della Repubblica di Moldova minacciandolo così: «Se viene esploso ancora un solo colpo sulla sponda sinistra del Nistro, domattina farò colazione a Tiraspol, pranzerò a Chisinau e cenerò a Bucarest». Fine dei giochi.
Stranieri come alieni
I colpi di artiglieria sparati dai russi contro la fiancata del municipio di Bender sono ancora ben visibili quindici anni dopo la battaglia. Crateri nel cemento lasciati lì come monito per eventuali rivalse irredentistiche. Ci vengono mostrati sulla strada per il mercato kolchoziano di Bender, dove i contadini dell’Urss, riuniti in cooperative agricole, potevano vendere quote dei prodotti della collettivizzazione. In qualsiasi altro luogo del pianeta, questo genere di mercato è, oramai, solo una pagina di storia. Qui a Bender è ancora realtà. Ci aggiriamo tra batterie di bilance Anni 50 che farebbero la felicità delle boutique di modernariato di Milano e tra piramidi di salsicce. Il mercato è vivace e il nostro passaggio calamita gli sguardi.
Il mondo un po’ l’ho girato, anche in luoghi remoti e sperduti, ma mai mi sono sentito tanto «straniero» quanto in questo lembo estremo d’Europa. Bender dista soltanto due ore d’auto da Chisinau, capitale della Moldova, e Chisinau soltanto due ore di volo da Milano. Eppure, la presenza di due milanesi al mercato kolchoziano di Bender suscita più scalpore di uno sbarco alieno. C’è sorpresa, però, non ostilità e nemmeno diffidenza. Una giovane macellaia tardo-sovietica, con il proverbiale fazzoletto annodato sul capo, volta addirittura una testa mozzata di maiale perché io possa fotografarla. La afferra per le orecchie – che qui sono considerate una prelibatezza – e la gira in favore di camera. Poi, però, si rifiuta di essere fotografata a sua volta. Non vuole diventare un souvenir. Il maiale decapitato ok, ma lei no. Non mi sento di biasimarla.
Falce e martello
Quando, finalmente, attraversiamo il ponte sul Nistro per raggiungere Tiraspol, la capitale, aumenta la straniante sensazione di percorrere una sorta di geografica terra di nessuno, un territorio impigliato in una sensazione extratemporale aperta dalla contraddizione tra insuperabile tra un passato che non passa e un futuro irraggiungibile. È come se un eccesso di coscienza storica – la memoria del comunismo e delle guerre patriottiche – avesse trattenuto questo lembo di terra al di fuori del tempo storico. Le insegne e i simboli del comunismo – falce e martello, martello intrecciato a spighe di grano, stelle a cinque punte – si moltiplicano lungo il Viale degli eroi ma si intrecciano, a loro volta, a emblemi parossistici di un capitalismo mal digerito. Costeggiamo uno stadio ultramoderno – il Tiraspol gioca in Europa League, mi dicono, ma le squadre ospiti soggiornano sempre a Chisinau – sovrastato anch’esso dall’insegna della Sheriff, scorgiamo le vetrine di una boutique multimarca che sfoggia le griffe dell’alta moda europea ma sfiliamo su un immenso viale deserto e rigorosamente geometrico in perfetto stile sovietico che culmina nel mausoleo agli eroi della Resistenza. Statue in marmo nero di combattenti della Seconda guerra mondiale affiancano quelle degli «eroi del ’92» sotto l’egida di un carro armato che, sollevato su di una pedana di basalto, punta il suo cannone verso l’orizzonte. Dall’altro lato della strada, una grandiosa statua di Lenin svetta in cima a una colonna monumentale. Anche il suo sguardo punta verso un orizzonte lontano che, in verità, è già alle sue spalle. Il vento di una storia estinta gli gonfia un mantello di pietra. Dietro di lui, il palazzo del Soviet Supremo, barriera di cemento e vetro, chiude, definitivamente, ogni altro orizzonte.
Sull’altro versante della passeggiata, l’unico ristorante che si scorge nel centro di Tiraspol evoca l’altra leggenda che aleggia sulla Transnistria, alimentata in Italia da libri e film di successo, presto dimenticati, e da sensazionali scoop televisivi: la leggenda dello Stato criminale dove è lecito ogni traffico illecito, dove si può acquistare una bomba all’uranio impoverito ad ogni angolo di strada. Il ristorante propone cucina italiana e si mostra fiero di chiamarsi Mafia. È uno dei pochissimi locali commerciali di tutta Tiraspol che non sia di proprietà della Sheriff, holding pressoché monopolistica controllata dall’oligarchia politica che governa questo Paese che non c’è.
La sottile malinconia
Ma nessuna traccia di quella supposta essenza criminale è visibile ai nostri occhi di turisti della sclerosi storica. Vediamo soltanto ampi viali ordinati e puliti – non una cicca per terra -, monumenti a eroi caduti, insegne della Sheriff, palazzi per l’educazione della gioventù sovietica, busti di Lenin, le insegne delle ambasciate di Abcasia e Ossezia che, neglette dal resto del mondo, si stringono l’una di fianco all’altra come a volersi tener compagnia.
Qualche cittadino si tuffa nel fiume Nistro da una sponda sabbiosa per sfuggire alla calura agostana. Compriamo qualche souvenir in un negozio che non vende souvenir. Le commesse parlano solo russo. Ogni comunicazione è per noi impossibile. Pranziamo con due lire in un locale alla buona al piano superiore di un supermercato sovrastato dall’insegna Sheriff. Poi riprendiamo la via di casa. La sottile malinconia esalata da questa scheggia di storia del Novecento incistata sotto pelle a un secolo senza storia ci accompagna.
L’economia è in mano alla Sheriff, holding dell’oligarchia politica che governa il Paese
Oltre il confine, nella Repubblica di Moldova che guarda all’Europa, le contraddizioni invalidanti non sono, poi, meno estreme. Il governo in carica ha da poco annullato le elezioni comunali che avevano eletto sindaco un rappresentante dell’opposizione e l’erario pubblico ancora non è riuscito a recuperare l’enorme somma che un precedente Presidente aveva sottratto alle magre casse dello Stato trasferendola su un proprio conto all’estero. Vista dalla sponda occidentale del fiume Nistro, l’Europa del libero mercato, dei diritti civili, della democrazia liberale appare senz’altro più vicina ma, a ben guardare, potrebbe trattarsi dell’inganno di un genio maligno della storia. Eppure, mentre i cugini transnistriani rimangono fieramente fossilizzati come insetti preistorici nella loro goccia d’ambra sovietica, un milione di moldavi possono già oggi circolare liberamente in Europa grazie ai doppi passaporti generosamente rilasciati dalla vicina Romania.
Ci attende, indubbiamente, per gli anni e per i decenni a venire, il compito di una profonda meditazione sui confini.
La Stampa 28.8.18
Vaticano e Alleati sordi agli appelli non salvarono gli ebrei a Ferramonti
Il campo di internamento di Ferramonti presso Tarsia (Cosenza) fu inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940
di Mirella Serri
Il presidente del World Jewish Congress, Stephen Wise, a fine dicembre 1942 inoltrò una lettera dal contenuto assolutamente inquietante a Myron Taylor, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Wise univa una forte e decisa personalità a una grande prudenza, cercava di non fare passi falsi ed era molto legato a personaggi illustri che lo stimavano, come Albert Einstein. Non a caso si rivolse a Taylor che, prima di assumere un ruolo diplomatico, era stato un imprenditore di enorme successo: confidava sul suo attivismo per individuare rapide soluzioni. La lettera era un grido di dolore proveniente dallo sperduto Comune di Tarsia, in provincia di Cosenza. Nel campo di Ferramonti presso Tarsia, inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano rinchiusi ebrei, cittadini stranieri e apolidi. Nella missiva da loro inviata al governo degli Stati Uniti e poi arrivata a Wise, gli ospiti del campo non usavano perifrasi. Non solo in quella zona malarica si diffondevano epidemie ma con il procedere del conflitto mancavano cibo e medicine, e arrivavano con dovizia di terribili dettagli le notizie sugli ebrei deportati in Polonia. I lager polacchi non erano luoghi di lavoro ma di sterminio. A Tarsia si temeva una sorte analoga e si chiedeva un permesso di transito per l’Africa o il Medio Oriente.
Lo spettro della Polonia
Attraverso vari passaggi, la proposta planò sul tavolo di Luigi Maglione, nominato da Pio XII nel 1939 cardinale Segretario di Stato. Vi fu anche una presa di posizione di Giovanni Montini: il rastrellamento e la spedizione in Polonia «sembravano imminenti», osservava il futuro papa Paolo VI. «La deportazione in Polonia degli ebrei… significa la loro condanna a morte». Furono valutati seriamente questi disperati appelli? Per nulla. Gli Alleati e la Santa Sede non mossero un dito per passare il Rubicone e salvare la vita di migliaia e migliaia di ebrei italiani e stranieri che avevano trovato rifugio nella Penisola: lo testimonia il tourbillon di lettere e risposte, fino a oggi inedito in Italia, che Michele Sarfatti, notissimo studioso di storia della Shoah, porta alla luce nella riedizione di Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi).
In coincidenza con la ricorrenza degli 80 anni dall’emanazione delle leggi razziali annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, il saggista nell’ampia ricerca utilizza documenti reperiti negli American Jewish Archives e presso la World Jewish Congress Collection. E offre una drammatica testimonianza sulle reazioni negative a questa prima tornata di allarmi provenienti dal Congresso mondiale ebraico: la notizia che i tedeschi si attivassero per la deportazione «è destituita di fondamento», protestava con sicumera Francesco Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia.
Tutto precipita
I tempi della shoah sono rapidissimi, ricorda lo studioso, e tutto cambiò in un breve arco di tempo: prima dello sbarco alleato in Italia, gli ebrei di Ferramonti desideravano fuggire dal Sud della penisola. Ma nel luglio 1943 il rappresentante a Washington del World Jewish Congress fece un’audace proposta: tutti gli ebrei italiani, anche quelli risiedenti al Nord, dovevano essere spostati in massa al Sud. Era una soluzione assolutamente praticabile. Vennero mandati cablogrammi alla rappresentanza vaticana e all’ambasciatore svizzero negli Usa nei quali si diceva: quattro milioni di ebrei sono già stati uccisi. Che aspettiamo? Gli appartenenti alla comunità ebraica italiana vanno dislocati nel Mezzogiorno. Ma Berna e Washington si tirarono indietro: non c’era nulla da fare, affermarono, un intervento sul governo italiano non avrebbe nessun successo. Il 6 agosto la Santa Sede garantì che avrebbe fatto «tutto il possibile a favore degli ebrei». Nulla fu attivato. Il maresciallo Pietro Badoglio, alla richiesta del presidente del Wjc che fosse garantito lo spostamento al Sud degli ebrei, promise che avrebbe facilitato «lo spostamento in zone che possano destare minore preoccupazione». Era una menzogna. Non voleva prendere iniziative sgradite all’alleato tedesco che stava per tradire.
«Tutti i governi sapevano dello sterminio», scrive Sarfatti. E rileva che «i tempi della diplomazia non conobbero accelerazioni particolari». Dispacci e lettere, al contrario, procedevano a passo di lumaca. Né il Vaticano né il governo statunitense «risultarono adeguati alla situazione». Per salvare la pelle al Sud però vi si trasferirono lo stesso Badoglio e la casa reale. Abbandonando i cittadini italiani e le comunità ebraiche al loro destino.