domenica 26 agosto 2018

Corriere 26.8.18
«Ultimo tango a Parigi», un inno al bisogno di affetto»
di Maurizio Porro
Ultimo tango a Parigi, 1972, di Bernardo Bertolucci
Rai Movie, ore 23


Ogni anno, ogni mese, ogni giorno che passa Ultimo tango a Parigi diventa più bello perché fuori da quella pazza folla che si accalcava nel ’72 cercando ignara e curiosa la scena del burro. Il grande film urlo (come Munch, lo strazio) di Bertolucci trova il giusto grado di disperazione inseguendo i temi anti borghesi della sua carriera prima della rivoluzione.
Trattandosi di sesso, l’altoparlante è potente e la storia di un amore smodato, violento ma senza nome, tra un uomo e una donna che si trovano a Parigi in un appartamento da affittare, faceva crollare ogni sicurezza, per non dire di romanticismo. Ed invece se c’è un inno al bisogno di affetto, questo è proprio il Tango, che ne dimostra l’impossibilità. Ognuno muore solo e poche volte il cinema l’ha spiegato meglio: l’ultima parte del capolavoro di Bertolucci, la scena nella balera e il finale è una freccia che mira al cuore e ivi resta. Tanto che lo stesso Brando fu colpito da questo film rivelatore oltre l’Actor’s Studio e dal ruolo che lo mise a nudo. Per alcuni anni non rivolse più la parola a Bernardo, considerato colpevole di maieutica oscena e anche la Schneider ebbe seri problemi.
In Italia la censura era impreparata a tutto ma tra un sequestro e l’altro, fruttò al film incassi miliardari. Come per La dolce vita ci fu una preparazione psicologica facendo intendere che si sarebbe visto qualcosa di speciale. Ma la vergogna fu, oltre al processo, il fatto di aver tolto al regista per cinque anni i diritti civili e di voto. Alla fine quando il Tango tornò in sala ormai lo avevano visto quasi tutti: ma oggi conserva intatte le emozioni.
Anche merito del regista che aveva solo fatto sottile opera di convinzione e non per niente prima del ciak aveva fatto visitare al cast la mostra di Bacon a Parigi ponendo poi alcuni quadri nei titoli di testa. Rivedetelo è tutto indimenticabile e la musica jazz di Barbieri è un grande valore aggiunto.

La Stampa 26.8.18
Argentina 

Record di apostasie tra gli attivisti pro aborto
di Emiliano Guanella


Più di 4mila argentini hanno chiesto nelle ultime due settimane di essere sbattezzati in protesta contro l’impegno attivo della chiesa cattolica locale nel dibattito sulla legge dell’aborto che il Senato ha respinto lo scorso 8 agosto. Dopo 16 ore di dibattito, ha vinto la linea pro-life con 38 voti contrari e 31 favorevoli. La raccolta di firme per l’apostasia, questo il termine tecnico di abiura alla religione cattolica, chiedendo di essere tolto dal registro dei battezzati, è stata organizzata dal “Consiglio per uno Stato Laico” (CAEL) nell’ambito di una campagna per la separazione tra Stato e Chiesa, che è cresciuta in parallelo a quella per l’interruzione legale della gravidanza. Negli scorsi mesi ai fazzoletti verdi degli attivisti pro aborto legale si sono aggiunti quelli arancioni con lo slogan “Chiesa e Stato, due questioni separate”.
Basta stipendiare vescovi e prelati
Oltre alle richieste di apostasia, la campagna porta avanti una serie di rivendicazioni come la fine dei sussidi statali alle istituzioni cattoliche e delle esenzioni fiscali concesse ai luoghi di culto. Sulla questione è intervenuto anche Marcos Pena, capo di gabinetto del governo di Mauricio Macri, che ha spiegato che lo Stato argentino destina annualmente circa 3,6 milioni di euro per il pagamento del salario di vescovi e alti prelati. «Noi crediamo – ha spiegato a La Nacion l’avvocato del Cael Cesar Rosenstein – che la posta in gioco sia molto più alta, perché lo Stato finanzia diverse scuole e istituzioni private cattoliche e non fa pagare le tasse alla Chiesa».
Le firme raccolte sono state consegnate questa settimana alla Conferenza episcopale, che ora deve vagliarle e iniziare l’iter corrispondente. Non è la prima volta che il movimento anticlericale argentino insorge la Chiesa locale. Nel 2009, quando a Buenos Aires era cardinale Jorge Mario Bergoglio, la Chiesa lanciò una «campagna contro il demonio», per bloccare la legge sul matrimonio delle coppie dello stesso sesso, che fu poi approvata in Parlamento.
“Salviamo le due vite”
Dopo l’approvazione da parte della Camera del progetto di legge sull’aborto legale il mondo cattolico argentino è sceso fortemente in campo organizzando diverse manifestazioni in tutta l’Argentina con lo slogan “Salviamo le due vite”. I “fazzoletti blu”, alla fine, hanno vinto, ma il dibattito ha mostrato un’Argentina fortemente divisa, con la capitale Buenos Aires e i grandi centri urbani schierati maggiormente a favore dell’aborto legale, mentre il mondo rurale e le provincie più conservatrici tendenzialmente contrari.

Repubblica 26.8.18
La protesta
"Il mea culpa non basta, devono fare i nomi e aprire i loro registri"
Non basta dire come ha fatto Francesco che si ha vergogna per i preti pedofili
di Paolo Rodari


DUBLINO «Provo disappunto, ma non sorpresa. Non basta dire come ha fatto Francesco che si ha vergogna per i preti pedofili.
Occorre fare di più, colpire i vescovi che hanno coperto, colpire l’omertà pubblicando i nomi di chi ha sbagliato, aprire i registri. Ecco fare i nomi, questo è il minimo richiesto». Peter Saunders, inglese, sopravvissuto agli abusi sessuali del clero subiti in giovane età, se ne andò dalla Pontificia Commissione per la protezione dei minori di cui è stato membro dal 2014 al 2016 dopo aver criticato il trattamento «crudele» riservato alle vittime da parte del cardinale George Pell. Presente ieri a Dublino, ha ascoltato il Papa prima di parlare con Repubblica e poi insieme ad altre vittime riunite per l’occasione al Ballsbridge Hotel, una moderna struttura a meno di cinque minuti a piedi dallo Stadio Aviva e dall’Arena Rds.
Cosa dovrebbe fare la Chiesa?
«Anzitutto riconoscere che il tempo delle parole è finito. Ora serve azione».
Francesco non ha parlato chiaro secondo lei?
«Ha detto cose importanti, tuttavia ancora non sappiamo nulla di come cambieranno concretamente le cose. Perché non processano i colpevoli in Vaticano? Perché non li accusano direttamente?».
Ritiene, quindi, insufficiente l’azione della Chiesa?
«Occorre che le vittime che incontrano il Papa gli dicano apertamente che non basta, che deve fare di più. Non è sufficiente parlare contro gli abusi, fare mea culpa, se poi non seguono azioni concrete. Un vescovo che ha coperto non può più fare il vescovo a mio parere, un prete che ha abusato deve lasciare».
Lei subì abusi da parte di due sacerdoti gesuiti in una scuola nel sud-ovest di Londra.
«Una delle cose che mi guida oggi è proprio il ricordo di quanto accaduto, il fatto che uno dei miei due fratelli è andato nella stessa scuola in cui andavo io e che anche lui è stato abusato sei anni prima di me dallo stesso prete che ha abusato di me. Io sono sopravvissuto, mio fratello purtroppo no».
Francesco nella lettera ai cattolici dedicata agli abusi e pubblicata pochi giorni fa ha detto che la pedofilia è cultura della morte.
«Su questa cosa sono del tutto d’accordo con lui. Tuttavia, occorrerebbe anche ricordare che per ogni dieci sopravvissuti che riescono a condurre una vita quasi normale, ce ne sono altrettanti che non ce l’hanno fatta. Ci sono vittime che sono morte a causa di quello che è successo loro, che si sono tolte la vita».

Corriere 26.8.18
Dora in fuga da Freud (cioè la mia bisnonna)
Si chiamava Ida Bauer e per il medico che aveva da poco elaborato le proprie teorie fu una paziente prima e un fallimento poi. La donna diventata «un caso»
di Helmut Failoni


«New York 1941. Ida non riusciva a vedere nulla a parte schiene, cappelli, capelli e cielo, quando, poco prima dell’arrivo a Ellis Island, centinaia di passeggeri si accalcavano sul ponte della Serpa Pinto. (...) Al porto di New York salirono a bordo i medici. Nome? Ida Adler. Età? 58, colore della pelle, medium, colore dei capelli, grey». Ida Adler (nata Bauer, 1882-1945) è forse la paziente più famosa del Novecento, colei alla quale Sigmund Freud nel 1905 dedicò Bruchstück einer Hysterie-Analyse (Frammento di analisi di un caso di isteria, internazionalmente noto come Il caso di Dora), esemplificazione pionieristica del significato terapeutico dei sogni, della sessualità orale e della bisessualità. Quello che avete letto all’inizio è invece l’incipit del romanzo Ida, appena pubblicato dall’editore tedesco Rowohlt (nel 2019 uscirà la traduzione in italiano per Sellerio), a firma di Katharina Adler (classe 1980), pronipote di Ida. Nel corso degli anni la storia della sua bisnonna è stata per lei un aneddoto di famiglia. Ida: una parente lontana, forse anche nel pensiero, che soffriva di sintomi isterici, fra cui afonia, tosse, depressione, irritabilità, pensieri di suicidio.
«La stesura di questo mio primo romanzo — racconta Adler a “la Lettura” — mi ha tenuta impegnata sei anni, durante i quali ho pensato quasi essenzialmente a Ida, anche se in realtà l’idea la coltivavo già da prima, almeno da dieci anni...». Ci sono volute ricerche e c’è voluto il tempo necessario per fare sedimentare dentro di sé la storia e farla poi rinascere a nuova vita. «Ida — aggiunge la scrittrice — è a tutti gli effetti un romanzo, con un legame molto forte con la storia della mia famiglia: non è una biografia. Dove finisce il lavoro di ricerca comincia l’immaginazione. I fatti reali stimolano la fantasia, la rendono più viva».
Le fonti attraverso le quali l’autrice di Monaco di Baviera — che ha studiato Storia della letteratura americana e vissuto anche a Lipsia e Berlino — ha ricostruito la vita della bisnonna, oltre a romanzi, saggi e testi teatrali, sono costituite soprattutto da due archivi in particolare, il Verein für Geschichte der Arbeiterinnenbewegung (l’Associazione per la storia del movimento operaio) di Vienna e l’Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis (Istituto internazionale di storia sociale) di Amsterdam, dove sono custodite documentazioni importanti sulla vita di Otto Bauer (1881-1938), il fratello di Ida, che fu politico di fama e leader della socialdemocrazia austriaca fra il 1918 e il 1934.
Ida Bauer nacque da famiglia ebrea a Vienna, in un appartamento di Berggasse, al civico 32, vicino a casa di Freud. I nonni paterni si erano probabilmente spostati in Austria dalla Boemia per via delle pressioni antiebraiche scatenate dalle rivoluzioni del 1848. Suo padre Philipp possedeva un’industria tessile e morì di tubercolosi nel 1913; a sua madre Katharina Gerber Bauer era toccata la stessa sorte un anno prima. Ida gestì un salone di bridge e sposò Ernst Adler, un impresario e aspirante compositore, che lavorava come impiegato nella ditta del padre e dal quale ebbe un figlio, Kurt Herbert Adler (1905-1988): direttore d’orchestra, assistente di Arturo Toscanini al Festival di Salisburgo nel 1936, nel 1938 fuggì dal nazismo negli Stati Uniti, dove divenne prima maestro del coro della San Francisco Opera e successivamente direttore musicale. Ida lo raggiunse negli Stati Uniti, dopo una lunga separazione e una fuga dall’Austria che la porterà a New York, Chicago, attraverso Parigi, dove viveva il fratello Otto, e Casablanca. Ida Bauer si spense di cancro lì, nella «terra promessa», quattro anni dopo il suo arrivo, come una donna diversa, che non riusciva a entrare in empatia con gli altri. Il figlio Kurt, che nacque lo stesso anno della pubblicazione freudiana de Il caso di Dora e con il quale lei visse quell’ultimo periodo, la descrisse come se fosse «chiusa dentro un accordo dissonante».
Ed è proprio dall’autunno della vita della sua bisnonna, «nel punto più lontano possibile da Freud», che Katharina Adler dà inizio al romanzo. Quasi a voler porre una distanza metaforica tra Ida e Dora e mostrare — racconta ancora a «la Lettura» — una donna indipendente, «che non si poteva fare passare per tutta la vita come un’isterica, ma nemmeno esaltare come un’eroina». Cosa che ha fatto invece il femminismo americano degli anni Settanta, quando accese su Ida Bauer i propri riflettori, usando il suo caso per attaccare Freud e il suo (supposto) sguardo maschilista sulle proprie pazienti.
Ida aveva 14 anni quando venne sessualmente molestata da un amico di famiglia, il signor K. (la moglie di quest’ultimo, la signora K., era l’amante del padre di Ida). Freud diceva che glielo aveva raccontato la sua paziente, cosa che aveva fatto anche con i propri genitori, che però non le credevano. Ida aveva 18 anni quando il padre la accompagnò da Freud per farle curare i disturbi di afonia, dispnea e tosse nervosa. Siamo nell’autunno del 1900, Freud aveva 44 anni e non era ancora il guru della psiche che sarebbe poi diventato. Dopo neanche tre mesi di terapia Ida la interrompe, l’1 gennaio 1901, considerandola una battaglia dalla quale lei poteva uscirne solo come la perdente. Freud lo considera un fallimento personale. Dei due sogni che le ha raccontato la paziente, lo psicoanalista sosteneva che nell’inconscio di Dora coesistevano desideri sessuali rimossi nei confronti di tutt’e tre: il padre, il signor K. e la signora K.. Secondo Freud l’isteria di Dora si manifestava a causa della sua gelosia nei confronti del legame di suo padre con la signora K. e dell’ambivalenza e ambiguità che gli approcci sessuali del signor K. le avevano suscitato nel profondo.
«Nel romanzo — è ancora Katharina Adler a parlare — ho mantenuto tutte le considerazioni di Freud così come si trovano nei suoi libri (lo psicoanalista, oltre che in Bruchstück einer Hysterie-Analyse, fa riferimento a Dora in due lettere all’amico medico berlinese Wilhelm Fliess e nella Psicopatologia della vita quotidiana, ndr), non ho cambiato una virgola. Ma faccio fare a Ida le sue considerazioni, del tipo: “O scatola o chiave che sia, lui vede genitali ovunque” e si chiede “se il signor dottore vedeva queste porcherie anche in un uomo che teneva un bastone da passeggio”».
Il caso di Dora è un caso emblematico del dogmatismo ideologico del primo Freud. «Lui aveva le sue teorie — osserva ancora l’autrice — e cercava conferma a tutti i costi nei comportamenti dei suoi pazienti. C’è, in questo Freud, uno sfasamento, una crasi fra teorie, molte delle quali sono già in embrione ma non ancora formulate, e prassi, che invece è ancora in fase sperimentale. Freud è come se allora confondesse i fatti con le proprie opinioni. È stato importante per me mostrare il primo Freud. Quando Ida si sdraia sul divano del suo studio, lui non era nemmeno ancora professore, la psicoanalisi e i suoi metodi avevano soltanto un paio di anni di vita». Ma Freud ne trasse lezioni importanti per il suo percorso futuro, soprattutto per quanto riguarda il transfert. Patrick Mahony (1932), uno dei più innovativi e originali studiosi dell’opera dello psicoanalista, nel suo Freud e Dora (Einaudi, 1999), sostiene che il famoso caso in realtà è un esempio di rifiuto del paziente da parte del medico e quindi dell’incapacità di Freud di comprendere la sessualità femminile nelle sue dinamiche adolescenziali.
Il caso Dora tuttavia rimane un capolavoro della narrativa del Novecento. Al punto che nel 1930 per questo suo scritto Freud ricevette il Premio Goethe. E gli elogi di Thomas Mann e Herman Hesse.

Il Sole Domenica 26.8.18
Il «Dizionario» di Umberto Galimberti ha un approccio evolutivo
Nell’intreccio delle idee l’anima della psicologia
Nuovo dizionario di psicologia.Psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze
di Umberto Galimberti Feltrinelli, Milano, pagg.1637,€ 60
di Mauro Ceruti


Il nuovo Dizionario di Psicologia di Umberto Galimberti è uno strumento unico nel suo genere, e indispensabile per chi voglia accostarsi al Pluriverso delle psicologie, da studente, da studioso, da professionista di altre discipline, da curioso. Ma è anche una monumentale opera filosofica, che realizza una nuova idea di enciclopedia. L’organizzazione del Dizionario è assai consonante con le mappe del sapere proprie sia del Rinascimento, in cui venivano ricercate le reti di risonanza e di connessione fra il microcosmo individuo e il macrocosmo universo, sia degli albori della scienza moderna, quando la “filosofia naturale” era una prospettiva unificatrice in cui venivano discussi in forma integrata problemi che solo successivamente furono etichettati come «scientifici» o «filosofici».
L’ultimo secolo ha sgretolato l’immagine dell’edificio dei saperi e con essa l’immagine di uno sviluppo cumulativo delle conoscenze. Ogni possibile sistemazione del sapere, ogni progetto enciclopedico si può dipanare solo percorrendo dall’interno i sentieri di un territorio in continuo divenire, fatto di mutevoli aggregazioni problematiche e disciplinari. L’enciclopedia è una ricognizione creativa di percorsi e non già una sistemazione statica di risultati.
In questo orizzonte, Galimberti delinea una visione evolutiva e multidimensionale della psicologia, come un campo di idee e di ricerche eterogenee e in vari modi intrecciate.
Le disparità, le fratture, le relazioni fra le molteplici prospettive e le molteplici dimensioni della psicologia non vengono coperte da una patina linguistica e concettuale omologante, ma vengono intese come un’irriducibile riserva di fertilità e di ricchezza per l’intero impianto. I saperi psicologici sono situati rispetto a diversi punti di vista, ognuno dei quali risulta autonomo e originale: psicologie del profondo, psichiatria, psicologia con tutte le sue scuole, specializzazioni...
Galimberti non considera solo i modelli, le teorie quali risultati da mettere alla prova, da scartare, da adottare o da perfezionare. Attraverso un infinito gioco di rimandi, mette in luce la «vita delle idee», le molteplici radici e relazioni da cui fioriscono i concetti e le teorie della psicologia.
E mostra magistralmente come il mondo della psicologia non possa prescindere dalle sue contaminazioni con altri mondi: epistemologia, antropologia, sociologia, ermeneutica, linguistica, pedagogia, genetica, neurologia, neurofisiologia, endocrinologia... Attraverso le reti di queste contaminazioni definisce «un’ecologia delle idee» che il suo Dizionario dipana nella sua inesauribile complessità.
Perciò la sua opera è un salutare antidoto all’attuale prevalente organizzazione accademica della psicologia (e non solo), nella quale questa complessità del pensiero psicologico (e non solo) è dissolta nella frammentazione disciplinare, attraverso cui è veicolata l’idea che le «verità» della psicologia, in quanto «scientifiche», una volta acquisite siano indipendenti dalla storia e dai linguaggi che le hanno prodotte. Ciò porta a nascondere tutto l’intreccio delle matrici culturali di cui la psicologia si alimenta in quanto processo creativo.
Al contrario, Galimberti fa interagire anche le discipline psicologiche nel quadro generale della storia delle civiltà e della storia della specie umana, e le sincronizza con le “storie” dell’evo antico, della modernità e della contemporaneità.
Infine, ma soprattutto, Galimberti presenta la psicologia non solo attraverso «la fioritura dei suoi rami»ma anche attraverso «la profondità delle sue radici che affondano nel terreno della filosofia da cui è nata». Così questo Dizionario trae il suo respiro profondo dall’intera avventura filosofica del suo autore, che, come Husserl, sa che «la soggettività non può essere conosciuta da nessuna scienza oggettiva».
Sullo sfondo di questo Dizionario, Galimberti ripropone, in tutta la sua radicale fecondità, la contraddizione insuperabile in cui viene a trovarsi la psicologia che avendo voluto diventare scienza presume orgogliosamente di essersi emancipata dalla filosofia. Come altrove aveva scritto «... perché, se la scienza può nascere solo in presenza e a opera di un cogito depsicologizzato, se la non interferenza dello psichico è la prima condizione per la produzione di un discorso scientifico, se la soggettività empirica e individuale è proprio ciò che non deve intervenire dove l’analisi pretende di essere oggettiva, può la psicologia prodursi come scienza senza abolire se stessa?». E ripropone la consapevolezza di questa contraddizione quale condizione necessaria per rigenerare continuamente «l’anima» della psicologia.

Corriere 26.8.18
Storia clinica
Intuizione geniale che frenò la terapia
di Giancarlo Dimaggio


Stanley Kubrick si è mai chiesto se mettere in scena Il caso Dora di Freud? Avrebbe girato un gran film. Un racconto potente, torbido: «La casa era in fiamme; mio padre, in piedi accanto al mio letto, mi diceva di alzarmi; mi vestii in fretta». Un sogno, una finestra su un quadrilatero amoroso sghembo e malato. Il padre di Dora ha una relazione con la signora K., il signor K. tenta di sedurre Dora quattordicenne. Lei si presenta con sintomi isterici: afonia, tosse nervosa, emicrania. Si annoia. L’analisi fallì. Eppure Freud ci costruì sopra teorie che hanno rallentato il progresso della psicoterapia. Pierre Janet prima e Freud stesso fino ad allora attribuivano i sintomi isterici a eventi traumatici reali. Oggi sappiamo che è così e operiamo di conseguenza. Freud invece insistette sulle fantasie sessuali di Dora, che immaginava eccitata dalla corte del signor K.: i sintomi isterici nascevano da lì. Ci sono voluti decenni per tornare all’origine traumatica della sofferenza psichica. Oggi un terapeuta si concentrerebbe sull’impatto che la freddezza della madre e il comportamento ambiguo del padre avevano sulla ragazza. Cercherebbe di farle capire che i sintomi nascevano da motivi sensati: sei afona e chi non ha voce sa che non viene ascoltato. Eppure c’era del genio nel lavoro di Freud, dice Francesco Gazzillo, psicoanalista acuto. Il lavoro sui sogni: indagarli, perché offrono tracce del funzionamento intrapsichico e relazionale. Grande idea. E poi Freud capì che quello che chiamiamo transfert, il modo in cui il paziente vede il terapeuta, dipende sì dalla storia del paziente, dai suoi schemi relazionali. Ma in parte dalle caratteristiche reali del terapeuta. Siamo terapeuti ma anche umani, con una storia e una posizione del mondo. I pazienti si confrontano con questo.

Corriere 26.8.18
Il filosofo Salvatore Veca
Al Parini l’insegnante ci parlava di Mao in classe
«Il problema della sinistra è che si alza tardi al mattino Eco era meglio del cabaret»
di Pier Luigi Vercesi


Professor Salvatore Veca, filosofo militante: posso definirla così? Oltre all’insegnamento universitario, ai famosi seminari della Fondazione Feltrinelli, alla creazione di nuove istituzioni accademiche, alla stesura della Carta di Milano in occasione dell’Expo, sono quarant’anni che lancia granate nell’accampamento della sinistra. Tra un po’ rischia di non trovare più nemmeno una capanna, non crede?
«La sinistra potrebbe sparire. A meno che non cominci a guardare oltre il proprio ombelico. Un’idea ce l’avrei, è sotto il naso di tutti da settant’anni, basterebbe metterla in pratica».
Vale a dire?
«L’articolo 3 della Costituzione: pari dignità per tutti e l’impegno a rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona. Non è un discorso di sinistra? Però bisogna tornare a essere credibili, contrastando le povertà, garantendo cibo adeguato per tutti, abbattendo le diseguaglianze entro e tra le società, avviando politiche di crescita con lavoro dignitoso. Con questa classe dirigente non credo sia possibile, ci vogliono ragazzi nati nel nuovo mondo. Io, ad esempio, sono un vecchio signore del Novecento che può solo alzare la mano e dare qualche spunto di riflessione».
Marx è morto, le ideologie sono morte, il buonismo ha fatto danni e i dirigenti del Pd sono in coma. Resta il buon senso, mi pare di capire. Non è un po’ poco per ripartire?
«Sa qual è il problema? La sinistra si sveglia sempre troppo tardi la mattina. Ne so qualcosa. Per sette anni ho ingaggiato un corpo a corpo con Marx: nel ’77 scrissi che aveva pregi e limiti. Polverone a sinistra. Cercai allora di dare il mio contributo per innovare una cultura ossificata con il libro La Società giusta. Altro casino. Al Gramsci di Bologna mi processarono: traditore della classe operaia, riformista! In un’intervista a L’Espresso mi chiesero, con ironia, cosa significasse “società migliore”: “L’ho tratta da John Dewey e da un film con Robert Redford, The Runner, dove il candidato ripete: siamo il Paese più potente del mondo, perché nelle nostre scuole c’è l’apartheid, perché se uno si ammala e non ha soldi crepa? Ci sarà un modo per rendere migliore questa società”. Nell’89, con Michele Salvati, proponemmo di cambiare nome al Pci. Fabio Mussi alzò il sopracciglio e rispose che certe cose si fanno solo per cambiamenti epocali. Se il crollo del Muro di Berlino non bastava… Occhetto alla fine fece ciò che non poteva non fare. Allora cominciai a pensare che una sinistra democratica dovesse ispirarsi ai valori di una società aperta con l’obiettivo primario dell’equità e della qualità della vita. Ma la sinistra era impegnata nelle solite battaglie intestine per accorgersi che la gente si stava incazzando. Così, nella società della sfiducia, gli impresari della paura hanno inventato il popolo omogeneo delle brave persone e replicato la celebre massima di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Dunque, nulla di nuovo. La mia email ai giovani è questa: non mollate!».
Ma il mondo oggi è troppo diverso da quello in cui si è formato lei...
«Vero: la Milano della mia infanzia era disciplinata, frammentata in ceti e culture omogenee. I tempi erano scanditi dall’apertura delle fabbriche. Oggi prevale il disorientamento: mentre noi parliamo, gli algoritmi creano vincenti e perdenti. Non creda però che il Novecento sia stato una scampagnata. Mio padre era ufficiale a Civitavecchia e l’8 settembre i tedeschi lo arrestarono e lo spedirono in un campo di concentramento in Polonia, dove tentò due volte la fuga e venne inscenata la sua fucilazione. Alla fine del 1944 firmò una falsa accettazione della Repubblica di Salò per tornare in Italia. Io sono nato due mesi dopo la sua deportazione e l’ho visto solo dopo la Liberazione. Papà era affettuoso ma erogava un senso di disciplina. Appena mi vide con i boccoli da putto disse: “Fategli tagliare i capelli”. Nel frattempo era nato mio fratello Alberto e cominciai a frequentare le scuole elementari alla Leonardo Da Vinci. La mia maestra, Maria Bertin, mi insegnò a imparare e quel bagaglio mi aiutò fino agli anni del ginnasio al Carducci. In prima liceo studiavo poco e prendevo voti alti. Mio padre si insospettì e mi trasferì al Parini, struttura austera e gerarchica. Il professor Pelosi, insigne grecista, mi accolse chiedendomi: “Adesso anche i barbari entrano al Parini?”. Avevo finito di vivere di rendita».
Divenne «di sinistra» per reazione?
«Al Parini c’era un preside autoritario ma anche Maria Teresa Torre Rossi, la prof accusata di parlare di Mao in classe. Fu lei a svegliare la mia vocazione. Era legata al Piccolo di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Un giorno ci portò a teatro e ci fece scrivere un tema. Grassi lesse il mio e volle conoscermi: “Ti piacerebbe collaborare con noi?”. Era una macchina da guerra disciplinatissima: qualsiasi cosa facessi, Grassi ti mandava un biglietto con complimenti o critiche. Dava il meglio di sé nelle telefonate in cui esibiva, con nonchalance, il tal teatro di Zurigo o l’Ensemble di Brecht. Lo spiazzò il ’68: non poteva accettare di essere messo sotto inchiesta, come se, preservando tradizioni e istituzioni, fosse per ciò stesso autoritario. Si confondeva autorevolezza con autorità».
Ma preferì la filosofia: come accadde?
«Mi iscrissi a Lettere alla Statale. I docenti erano giganti: Mario Fubini per Letteratura italiana, Ignazio Cazzaniga Letteratura latina, Enzo Paci Filosofia teoretica, Ludovico Geymonat Filosofia della scienza... Cesare Musatti teneva le lezioni alle 8 di mattina per scoraggiare l’enorme afflusso di studenti. Enzo Paci trasmetteva una sorta di eros per la filosofia. Fu così che me ne innamorai».
Lei era già troppo grande nel Sessantotto?
«Ero assistente volontario. Io e Pier Aldo Rovatti negoziammo con Salvatore Toscano, Mario Capanna e Luca Cafiero la richiesta di contro-corsi: “Va bene, affianchiamoli ai corsi”. Capanna disse: “Sì, così finisce il Movimento. Noi dobbiamo rilanciare continuamente per mettere in moto una spirale crescente di consenso studentesco”».
Come ebbe il primo incarico?
«Una mattina, a Cervinia, rincoglionito perché avevo fatto notte, scesi a prendere i giornali e mi sentii chiamare: “Dottor Veca, anche lei qui?”. Era Norberto Bobbio, mi aveva visto una volta a Torino e si ricordava di me. “Facciamo una passeggiata”, disse: era un gran camminatore, io gli banfavo dietro; a ogni passo indicava una montagna, “quello è il Grandes Jorasses…”, ma se non le conosci, le cime sembrano tutte uguali. Col fiatone cercavo di interloquire: “Sì, sì magnifico”. Poi si fermò, mi fissò e disse: “All’università della Calabria cercano professori”. Nel 1973-74 ebbi il primo incarico e a Cosenza incontrai il più grande amico della mia vita, Marco Mondadori: ne avrei sposato la sorella».
Nicoletta, figlia di Alberto, primogenito di Arnoldo e fondatore del Saggiatore...
«Marco mi invitava spesso nella loro villa di Camaiore. Nell’estate del ’76, pochi mesi dopo la morte del padre, una sera mi capitarono in mano foto di Nicoletta. Non l’avevo mai vista, sapevo solo che aveva tre bambini e si stava separando dal marito. Qualche mese dopo, a casa di Marco, arrivò con un enorme carico di tende bianche. “Piacere Salvatore”: emanava un’attrazione magnetica col sorriso, la voce e quel suo modo di navigare nel mondo. Cominciammo a frequentarci. La sera andavamo al Tencitt, in via Laghetto. Suonavano sempre Genova per noi. Tra un gin tonic e un gin fizz correvano fiumi di storie. Dopo Natale passammo un weekend a Camaiore, io avevo una Renault 4, lei una 850 scassata. Al rientro bucammo una ruota, e la cambiai. Poco dopo se ne forò un’altra. Si fermò un tir francese. “Andiamo a Milano, in viale Tunisia”. “Mais oui, Tunìsia”. Da allora andai a vivere da lei in Tunìsia, con l’accento sulla prima “i”».
Dopo la Calabria il Dams di Bologna, quindi Milano e infine Firenze. Com’era insegnare al fianco di Umberto Eco?
«Serate esilaranti. Si usciva a cena con Furio Colombo e qualche assistente. Umberto e Furio insieme erano un numero di cabaret. I loro cavalli di battaglia erano il sottomarino e l’uomo cacciatore; cominciavano con luoghi comuni e andavano avanti inanellando battute. Eco aveva l’intelligenza di un funambolo. Lo conobbi a Villadeati a casa di Inge Feltrinelli; suonò il flauto fino alle tre di notte, poi disse: “Vado a dormire, domani devo dare un articolo al Manifesto e voglio scriverlo in latino”. La mattina dopo, alle 11, mi allungò un foglio con un testo che imitava lo stile delle encicliche».
Anche Eco è morto, non ci resta che tornare al presente.
«Ha ragione, le cose passate sono risucchiate in un tempo che non c’è più, ma senza il passato non c’è futuro e la malattia del nostro tempo si chiama presentismo».

Corriere La Lettura 26.8.18
La verità è viva nell’era del falso


Post-verità è stata la parola del 2016, l’anno del referendum sulla Brexit e dell’elezione negli Stati Uniti di Donald Trump. Da allora molti commentatori politici hanno scritto che viviamo proprio nell’«epoca della post-verità», nella quale le personalità pubbliche cambiano a loro piacimento i fatti pur di conquistare il favore degli elettori. Un atteggiamento, questo, che secondo gli esperti potrebbe mettere a rischio la democrazia. Simon Blackburn, professore di filosofia all’Università di Cambridge, ha un’opinione molto diversa. Nel suo nuovo saggio On Truth («Sulla verità», Oxford University Press, pp. 160, $ 12.95), scritto a 13 anni di distanza dal suo libro più famoso, Truth. A Guide («Verità. Una guida»), Blackburn spiega che la realtà è sempre stata manipolata dai politici e che non c’è motivo di stupirsi troppo. Al contrario. Il fatto stesso che oggi tanti siano turbati dall’agire politico di Trump e dalle sue bugie, per esempio, significa che riconosciamo alla verità ancora un valore molto prezioso e che siamo in grado di capire immediatamente quando viene distorta. Parlare di post-verità, secondo Blackburn, è un’indicazione del fatto che la verità continua a esistere.
La prima metà del saggio si concentra sui processi mentali attraverso cui dovremmo decidere in che modo qualcosa è vero mentre la seconda parte si sofferma sull’idea di verità, tra le altre, nella filosofia e nell’arte, discipline nelle quali viene messa sempre in discussione. Nel libro non mancano i riferimenti ai classici del pensiero. Tra questi il XVIII capitolo del Principe (1532), in cui Machiavelli spiega che chi governa deve saper mentire e dissimulare: un altro modo, per Blackburn, di dimostrare ai lettori quanto il fumo della propaganda e la distorsione della realtà esistano da sempre, da quando è stata «inventata» la politica. «Dichiarare il falso è sempre un crimine», puntualizza tuttavia lo studioso, anche se è un’abitudine antica. Per Blackburn accertare la verità fa parte di un processo lento e fallibile, che porta in definitiva ai risultati sperati: «Non si arriva alla verità con un unico grande salto. Bisogna cercarla ponendosi delle domande, senza affidarsi a dogmi precostituiti».

Corriere La Lettura 26.8.18
L’antifascismo non capì l’Italia delle leggi razziali
I comunisti e i socialisti di sinistra liquidarono le misure antisemite come un tentativo di deviare l’attenzione degli operai dai conflitti di classe. Ma anche coloro che videro la gravità della svolta, come Nenni e Rosselli, si limitarono a denunciare la barbarie di Mussolini assolvendo il popolo. Fuorviati dal mito della «brava gente», non colsero la modernità di una politica totalitaria efficace e coerente
di Alessandra Tarquini


Nel settembre del 1938, quando il regime fascista adottò le leggi razziali che trasformarono la vita dei cinquantamila ebrei italiani, nessuno prese le loro difese. Dalla Santa Sede, «L’Osservatore Romano» protestò perché venivano vietati i matrimoni misti, ma autorevoli intellettuali e noti politici si guardarono bene dal criticare pubblicamente i provvedimenti antiebraici. È vero che in uno Stato totalitario il pluralismo delle opinioni politiche è perseguito legalmente, e che se qualcuno fosse stato contrario avrebbe avuto non pochi problemi a esprimere il proprio punto di vista. Ma come spiegare la reazione della sinistra antifascista che, salvo rare eccezioni, non si interrogò sulle cause e sulla natura della legislazione razziale? Da una ricognizione quantitativa risulta che nel periodo 1897-1921, i giornali della sinistra pubblicarono circa seicento articoli sull’antisemitismo europeo, mentre negli anni 1922-1943, sugli stessi periodici, non si trovano più di trecento contributi. Nel momento in cui la violenza contro gli ebrei divenne un fatto politico di rilevanza nazionale e internazionale, con l’avvento di Adolf Hitler al potere e l’adozione in Italia di provvedimenti antiebraici, l’antifascismo non le riconobbe l’attenzione che ci si potrebbe aspettare.
La prima ragione risiede nella trasformazione della società italiana in uno Stato totalitario a partito unico. Alla fine del 1926 quasi tutti i dirigenti della sinistra erano stati arrestati e condannati a molti anni di reclusione. Chi era riuscito a fuggire affrontava la realtà dell’esilio, della solitudine e della sconfitta, disponendo di poche informazioni, per lo più ricavate dalla stampa di regime. Impegnati in una battaglia per la propria sopravvivenza, braccati da una rete capillare di informatori, gli antifascisti non sentivano come prioritario il tema dell’antisemitismo. È comprensibile immaginando la vita di uomini sconfitti, lontani dal loro Paese e dalle loro famiglie. D’altra parte, la realtà della clandestinità non è sufficiente a spiegare la sottovalutazione del problema, che dipese per un verso dalla cultura politica della sinistra, per un altro da una particolare interpretazione della storia d’Italia.
Come emerge dalle pagine de «Lo Stato Operaio» (la rivista fondata dal leader comunista Palmiro Togliatti nel 1927) dell’estate del 1938, per i marxisti italiani «la lotta antisemita» costituiva un «tentativo grossolano di far divergere le preoccupazioni crescenti e il malcontento delle masse popolari» «verso l’obiettivo di una lotta contro gli ebrei», un fatto «sovrastrutturale». Era, dunque, un aspetto della lotta di classe, uno strumento utilizzato dalla borghesia per esercitare la propria egemonia sulle classi subalterne.
All’interno di questo orizzonte ideologico, nessuno si chiese perché proprio gli ebrei fossero oggetto di una persecuzione che non aveva precedenti nella storia dell’Italia unita. Addirittura sull’«Avanti!» socialista un anonimo collaboratore si fece sfuggire uno stereotipo antisemita e nel luglio del 1938 scrisse che gli ebrei erano pericolosi due volte: come «capitalisti» e come «fascisti» — proprio in quanto «capitalisti», erano stati «fascisti entusiasti fin dall’inizio». Del resto, il fatto che la svolta antisemita avesse messo in allarme i Paesi «democratici», rimasti «insensibili alle persecuzioni dei proletari italiani», che fosse scattata un’immediata «solidarietà di classe», collocava gli ebrei sul fronte opposto a quello del proletariato.
Accanto alle difficoltà del marxismo di immaginare altra forma di violenza al di fuori di quella di classe, c’era poi una considerazione più generale: per la sinistra antifascista le masse proletarie non erano antisemite e tanto meno fasciste. Si trattava di una delle versioni del mito del «bravo italiano», per cui ad essere razzisti erano sì i fascisti ma non gli italiani. Nel dicembre 1938 Angelica Balabanoff, la segretaria del Partito socialista massimalista, quello più vicino alle posizioni dei comunisti e della Terza Internazionale, si diceva convinta che l’antisemitismo non avrebbe trovato terreno fertile in Italia, sia per l’esiguità della comunità ebraica sia perché «incompatibile con il carattere e la mentalità» del Paese.
In realtà, nel mondo della sinistra, solo Giustizia e Libertà, il piccolo movimento fondato nel 1929 da Carlo Rosselli, a cui aderirono molti intellettuali ebrei, e il Partito socialista riformista, che dal 1930 era guidato da Pietro Nenni, dedicarono attenzione al razzismo antisemita con una certa costanza.
Il primo si occupò della legislazione antiebraica in ogni numero della rivista omonima del suo movimento seguendo i molteplici aspetti della svolta razziale del 1938. Il secondo sul «Nuovo Avanti!» sottolineò come i provvedimenti antiebraici determinassero la rottura del principio di eguaglianza dei cittadini. Cominciata con gli antifascisti, l’esclusione dei «reprobi» dal corpo «sano» della nazione si estendeva agli ebrei e minacciava di colpire altri gruppi di italiani, mostrando la potenza del regime totalitario. Nessun diversivo per la classe operaia, nessuna realtà sovrastrutturale: l’antisemitismo di Stato seguiva lo «sterminio di diecine di migliaia di abissini» e derivava dalla volontà di Mussolini di eliminare gli ebrei.
Tuttavia, nel domandarsi quali fossero le cause e la natura di questo fenomeno, inedito in un Paese che non aveva un passato antisemita paragonabile a quello di altre nazioni europee, anche se l’antisemitismo di matrice cattolica era sempre esistito, gli stessi oppositori riformisti del fascismo restarono all’interno della tradizione politica di cui erano i rappresentanti. Proponendo un’interpretazione che avrebbe avuto ampia fortuna nel dopoguerra, quella secondo cui il regime non aveva prodotto una sua cultura, gli esponenti della sinistra riformista leggevano le persecuzioni antiebraiche come una delle espressioni della barbarie fascista, senza interrogarsi sulla sua specificità.
Da parte sua, Carlo Rosselli era convinto che il fascismo esprimesse i vizi profondi, le debolezze latenti, le miserie del popolo italiano. A suo avviso, ma su questo l’accordo con il mondo della sinistra non comunista era totale, si trattava di un fenomeno regressivo: la prova dell’incapacità degli italiani di diventare moderni, l’esito di uno sviluppo economico e politico diverso da quello degli altri Paesi europei, il prodotto di un’Italia retorica, cattolica, arretrata, illiberale e piccolo borghese. E come sul fascismo non vi era molto da dire, anche sull’antisemitismo non vi fu dibattito: per i collaboratori di «Giustizia e Libertà», le leggi del 1938 costituivano una conferma del carattere violento del regime che imponeva il proprio dominio sugli italiani con il terrore, e che, quindi, era meritevole di condanna e disprezzo, ma non di analisi approfondite.
Nessuno allora sostenne che l’Italia fosse un Paese razzista e antisemita; che il fascismo non fosse un fenomeno politico barbaro e reazionario, ma un esperimento moderno e totalitario; che moderna fosse la persecuzione degli ebrei, pericolosi perché considerati nemici della nazione, diversi da quell’italiano nuovo voluto dal regime mussoliniano, impegnato in una rivoluzione antropologica. Nel confinare l’antisemitismo di Stato alla classe dirigente, e nell’immaginare gli italiani brava gente, immune dal contagio razzista, la sinistra descrisse un Paese che, di fatto, non esisteva.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, e per i successivi quindici anni, sulle persecuzioni antisemite cadde il silenzio. O meglio, il silenzio proseguì da quel settembre del 1938 che cambiò la vita di cinquantamila nostri concittadini.

Il Sole Domenica 26.3.18
Nel ’78 il vangelo craxiano
Per un socialismo non marxista
Rinnovare la cultura del socialismo italiano
Bettino Craxi, Virgilio Dagnino e Luciano Pellicani
a cura di G. Scirocco, Nino Aragno, Torino, pagg. LVII-230, € 18
di Raffaele Liucci


Il vecchio e il giovane, protagonisti di un affascinante carteggio nel cuore degli anni Settanta, ben curato e introdotto dallo storico Giovanni Scirocco. Il vecchio è Virgilio Dagnino (1906-1997), banchiere libertario, già allievo di Carlo Rosselli all’Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Genova. Il giovane è Luciano Pellicani, un sociologo di belle speranze, nato nel 1939 da una famiglia napoletana comunista, laureatosi con una tesi su Gramsci («Mi convinsi che il comunismo non era una buona idea nata male. Era proprio un’idea sbagliata») e oggi professore emerito alla Luiss. Quando nel febbraio ’75 i due cominciano a scambiarsi lettere, il loro partito – il Psi – è in crisi acuta. Dopo la batosta alle elezioni del giugno ’76 (meno di un terzo dei voti del Pci, al suo massimo storico), Bettino Craxi s’imporrà come nuovo segretario di una forza politica inconsistente.
Che fare, di fronte al declino del socialismo italico? Occorre non soltanto rifondare il partito, ma anche rinnovarne la cultura. Di questo discutono animatamente il banchiere milanese e il sociologo romano, in missive ricchissime di nomi e di letture. Mentre la via italiana al comunismo incarnata da Enrico Berlinguer è al suo fulgore, in questo carteggio affiorano l’«obsolescenza delle ideologie» (per citare il titolo di un vecchio libro di Dagnino), la necessità di un «socialismo di mercato» in grado di correggere il «capitalismo assistenziale», la «pigrizia mentale» degli intellettuali organici al Pci.
È un colloquio stimolante, essendo i due amici di penna «abbastanza vicini e lontani per dialogare con profitto», come spiega Pellicani al suo interlocutore. «Vicini» sull’obiettivo finale: «una società libera, pluralista, progressista, gradualista, dove l’idea del gulag sia inconcepibile». «Lontani» sul come arrivarci. Pellicani auspica un superamento definitivo del marxismo messianico e palingenetico, in favore di un «socialismo pragmatico, che promette poco, ma che può mantenere le sue promesse. Su questa linea si sono mossi Bernstein, Russell, Rosselli e Salvemini». Dagnino, invece, non vuole buttare via il bambino (l’utopia) con l’acqua sporca (la sua degenerazione dogmatica). A suo parere, non di sola algida ragione vive l’uomo, ma anche di passioni e di speranze. Al che Pellicani gli replica: «Non voglio punto negare l’importanza e la funzione positiva del pensiero utopico, il quale è il sale del socialismo. Però quando c’è troppo sale, si sa, la minestra diventa immangiabile».
Nel frattempo, la stella di Pellicani inizia a brillare: «La congiura del silenzio intorno al mio nome è finita», annuncia il 4 giugno 1977: «Ora anche i comunisti mi citano, per dissentire, ovviamente. Ma è significativo che si sentano costretti a fare i conti con le mie tesi». La consacrazione giunge a fine agosto ’78, allorché l’«Espresso» pubblica un lungo articolo, intitolato Il Vangelo socialista. Firmato da Bettino Craxi, in realtà è stato redatto da Pellicani e riprende, in modo più prolisso, molti dei temi già affrontati da lui e Dagnino nelle loro conversazioni epistolari. Il Vangelo craxiano fu un sasso nello stagno. Riscoprendo Proudhon, che scorgeva nel comunismo un’«assurdità antidiluviana», annunciava infatti la buona novella di un socialismo non marxista, proiettato verso il nuovo decennio. Per il sociologo ghostwriter di Craxi, è il definitivo trampolino di lancio: «Questa notorietà che mi è piovuta addosso mi sta distruggendo», scrive all’amico a fine anno.
Nell’ultima lettera del decennale carteggio (5 febbraio 1985), con Craxi saldamente a Palazzo Chigi da un anno e mezzo, Pellicani lamenta la crescente vulnerabilità dei socialisti «sulla questione morale (troppi assessori corrotti, questa è la tragedia)». Erano le prime avvisaglie dell’inglorioso cupio dissolvi politico e affaristico del Psi, certificato nel 1992 da Tangentopoli. Oggi, non si può non avvertire il baratro tra la «poesia» delle idee scintillanti (spesso giuste e sacrosante) di questo epistolario e la «prosa» degli uomini poi chiamati a inverarle. Forse non è un caso se buona parte dei compagni di strada qui menzionati (ma non Pellicani) diventeranno armigeri di Berlusconi. Del quale tutto si può pensare, ma non che abbia mai avuto alcuna consuetudine con Bernstein, Russell, Rosselli e Salvemini.

Il Sole Domenica 26.8.18
Cento anni fa. Dopo l’attentato a Lenin si intensificò la guerra civile
La morte scampata e il terrore di massa
Lénine, l’inventeur du totalitarisme
di Stéphane Courtois,, Perrin, Paris, pagg. 498, € 25
di Emilio Gentile


Il 26 agosto 1918, dopo aver presieduto a Mosca il Consiglio dei commissari del popolo per discutere sulla mobilitazione degli operai che avevano prestato servizio in artiglieria e nel genio, Lenin si accinse a preparare i discorsi che avrebbe dovuto tenere nei giorni successivi. Forse, in quegli ultimi giorni di agosto, gli accade di pensare che solo un anno prima era nascosto in Finlandia, con 200mila rubli di taglia sulla testa, braccato dal governo provvisorio per il colpo di Stato tentato dai bolscevichi nel luglio 1917. Era fuggito travestito, dopo essersi tagliato barba e baffi, sicuro che l’avrebbero fucilato se l’avessero preso. Persino alcuni dei suoi compagni l’avevano accusato di codardia per la fuga. Ma ora, un anno dopo, per sua volontà aiutata dalla fortuna, era diventato il capo e l’artefice del primo regime socialista della storia, che pensava di dare inizio a una rivoluzione proletaria mondiale, mentre in Europa proseguiva la guerra mondiale, e in Russia imperversava la guerra civile contro i nemici del potere bolscevico.
Fin dall’inizio del conflitto europeo, disse Lenin il 23 agosto a Mosca, aveva dichiarato che «l’unico modo di uscirne consiste nella trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile». Dopo la conquista bolscevica del potere, proseguì, la guerra civile era necessaria per annientare la borghesia, perciò doveva «continuare ancora per molti mesi e, forse, per anni; e questo deve esser chiaro ai russi, i quali sanno come sia difficile rovesciare la classe dirigente e con quanta disperazione si battono i grandi proprietari fondiari e i capitalisti russi». Il 28 agosto ribadì: «Compagni, stiamo vivendo uno dei momenti più critici, significativi e interessanti della storia, il momento in cui la rivoluzione mondiale socialista è in ascesa». La guerra mondiale aveva smascherato agli occhi dei lavoratori di tutti i Paesi la menzogna della democrazia borghese, minando definitivamente la convinzione che essa «è al servizio della maggioranza». La Russia bolscevica era «il miglior esempio sul piano dell’agitazione e della propaganda per smascherare tutta la falsità e l’ipocrisia della democrazia borghese. Noi abbiamo proclamato apertamente il dominio dei lavoratori e degli sfruttati: sta qui la nostra forza e la sorgente della nostra invincibilità».
Lenin rinnovò le accuse alla democrazia borghese il 30 agosto parlando alla fabbrica Michelson. La mattina, alle 11, aveva saputo che era stato assassinato il capo della Ceka di Pietrogrado: per rappresaglia, la Ceka fece fucilare 500 ostaggi. Lenin non ascoltò la moglie che tentò di dissuaderlo dall’uscire quel giorno per recarsi alla fabbrica. Vi citò l’esempio dell’America,«il Paese più libero e civile. In America c’è una repubblica democratica. Ebbene? In America domina impudentemente un pugno non di milionari ma di miliardari, mentre l’intero popolo è ridotto alla schiavitù e alla servitù […] là dove regnano i “democratici” c’è la rapina autentica e senza fronzoli. La conosciamo la vera natura dei democratici! ». E concluse: «Abbiamo una sola scelta: vittoria o morte!».
Alla fine del discorso ebbe un’ovazione. Lenin rispose, come suo solito, sorridendo con un gesto di saluto. All’uscita, sostò a conversare con alcune donne, quando si udirono tre colpi di pistola. Mentre la folla si disperdeva, Lenin giaceva a terra, con la camicia sparsa di sangue, ma cosciente. Volle essere condotto in macchina a casa, dove si mostrò calmo alla moglie e alla sorella, prima di essere curato. A uno dei medici, disse: «Se la fine è vicina, me lo dica chiaro e tondo, affinché non debba lasciare questioni in sospeso». Ma i due colpi che si erano conficcati nel suo corpo non erano mortali. I chirurghi decisero che fosse meglio lasciarli dove erano. Poche settimane dopo, il tenacissimo capo bolscevico era già al lavoro nel suo ufficio al Cremlino.
Chi gli aveva sparato era una giovane donna, Fanya Kaplan, socialista rivoluzionaria, che nel 1906, a sedici anni, era stata condannata ai lavori forzati a vita per aver tentato di assassinare un funzionario zarista. Fu liberata solo dopo la rivoluzione di febbraio. All’interrogatorio della Ceka, rispose di avere sparato a Lenin perché lo considerava «un traditore. Più a lungo sopravvive, più a lungo respingerà l’idea del socialismo. Per decenni». «Ero a favore dell’Assemblea costituente e lo sono ancora». Fu giustiziata il 3 settembre con un proiettile alla nuca.
Per tradimento del socialismo,l’attentatrice intendeva l’instaurazione della dittatura bolscevica, rafforzata col terrore e la soppressione di tutti i partiti, compresi i socialisti rivoluzionari, che avevano ottenuto la maggioranza nelle libere elezioni per l’Assemblea costituente, soppressa da Lenin nel giorno stesso della prima riunione, il 18 gennaio 1918. Il capo bolscevico aveva compiuto «l’assassinio premeditato della democrazia russa», come lo ha definito lo storico francese Stéphane Courtois in una recente biografia politica di Lenin.
Già militante leninista-maoista fra il 1968 e il 1971, divenuto oppositore e studioso del comunismo, nel 1997 Courtois promosse e curò il volume Il libro nero del comunismo, tradotto in 25 lingue, dove, sulla base di nuovi documenti degli archivi russi, era documentato il ruolo primogenito svolto da Lenin nella creazione del regime terroristico a partito unico, edificato in nome della dittatura del proletariato, mentre in realtà, sostiene Courtois, fin dall’inizio «si è rivelato essere niente altro che la denominazione d’origine marxista del primo regime totalitario». Il termine “totalitario” fu coniato dopo il 1922 da antifascisti italiani per definire il regime fascista, ma è storicamente appropriato applicarlo al regime leninista, come fecero già, per la prima volta, in quegli anni, gli antifascisti italiani Giovanni Amendola, Luigi Salvatorelli e Luigi Sturzo.
L’attentato diede ai bolscevichi il pretesto per intensificare la guerra civile. Il capo della Ceka proclamò il terrore di massa. Il 31 agosto furono fucilati 800 ostaggi. Nel mese di settembre, furono 1.300 i fucilati a Pietrogrado, e durante l’autunno furono almeno 15mila le persone assassinate. Negli stessi mesi, la propaganda bolscevica avviò la creazione del culto di Lenin, «il più grande capo di Stato mai conosciuto dall’umanità». Anche se Lenin era personalmente restio, da allora il culto della sua figura divenne, col partito unico e il terrore di massa, pilastro principale del regime totalitario comunista e del comunismo mondiale. Su questi pilastri, col tocco della sua personale feroce ambizione, Stalin proseguì la costruzione iniziata da Lenin. Courtois demolisce la leggenda di un Lenin costretto dalle circostanze alla dittatura del partito unico e al terrore, pur di realizzare la liberazione del proletariato mondiale. La dittatura terroristica era stato sempre l’obiettivo della politica rivoluzionaria di Lenin. Forse ignaro del fatto, che i pessimi mezzi corrompono il migliore dei fini.

Corriere La Lettura 26.8.18
I neo aristotelici
di Giovanni Ventimiglia


Ho avuto la fortuna, o la sfortuna, di insegnare filosofia quest’anno in un corso di laurea magistrale in Svizzera a studenti inglesi e italiani. Al seminario sul pensiero di Aristotele l’atteggiamento degli inglesi, formati nelle scuole e nelle università anglosassoni nell’arte del dibattito e del pensiero originale a ogni costo, era pressappoco il seguente: «Aristotele la pensa come me»! Quello degli italiani, al contrario, ben istruiti in Italia nella storia della filosofia, era all’incirca questo: «Io la penso come Aristotele», anche nella sua variante «io non penso, mi limito a studiare».
Una cosa analoga avviene nel campo degli studi: da una parte i filosofi analitici anglosassoni «neo-aristotelici», dall’altra gli storici della filosofia specialisti del pensiero di Aristotele. I primi certe volte sembrano essere interessati ad Aristotele al solo scopo di trovare un alleato autorevole a sostegno delle loro tesi, i secondi invece lo studiano semplicemente per comprendere meglio il suo pensiero, non di rado, tuttavia, identificandosi con esso, oppure rinunciando tout court a fare filosofia.
Il neo-aristotelismo è uno dei fenomeni nuovi e più interessanti nel panorama della filosofia analitica contemporanea. Nata come anti-metafisica ai tempi di Rudolf Carnap e del Circolo di Vienna, la filosofia analitica è andata via via trasformandosi internamente per fare spazio a una corrente decisamente metafisica, impostasi ormai all’attenzione della comunità filosofica internazionale proprio come «metafisica analitica». Non tutti gli analitici però sono neo-aristotelici. Non lo sono i seguaci contemporanei di Willard Van Orman Quine, che è stato piuttosto un nominalista, non lo sono nemmeno tutti i metafisici che si richiamavano e si richiamano, in modi diversi, a von Meinong e in ultimo a Platone, come ad esempio Roderick Chisholm, Saul Kripke, Terence Parsons, Edward Zalta, Francesco Berto. Lo sono stati e lo sono invece a diverso titolo filosofi come Peter Strawson, David Wiggins, Elizabeth Anscombe, Peter Geach, Hilary Putnam, Martha Nussbaum, Jonathan Lowe, Michael Loux, Kit Fine, David Oderberg, Anna Marmodoro, Kathrin Koslicki, di cui è appena uscito Form, Matter, Substance (Oxford University Press), William F. Vallicella, Kris McDaniel, che ha pubblicato l’anno scorso The Fragmentation of Being (Oxford University Press). Nato con la Anscombe e Geach, il neo-aristotelismo analitico ha conosciuto un grande sviluppo negli ultimi anni. Basterà citare qui alcuni titoli rappresentativi: Neo-Aristotelian Perspectives on Contemporary Science (Routledge); Neo-Aristotelian Perspectives in Metaphysics (Routledge); Metaphysics. Aristotelian, Scholastic, Analytic (Ontos); Contemporary Aristotelian Metaphysics (Cambridge University Press).
Quali sono le caratteristiche di tale neo-aristotelismo, che lo distinguono dalle altre correnti della filosofia analitica menzionate? Anzitutto, il rifiuto di qualunque «identità senza entità», ossia di qualsiasi idea o proprietà universale esistente in sé e per sé, o di qualsivoglia mondo possibile. Per l’aristotelismo, di ieri e di oggi, insomma, a differenza che per il platonismo di tutti i tempi, non esistono «identità» in sé e per sé, come ad esempio la mafia, la corruzione, la bellezza, la giustizia e così via: esistono solo individui concreti che sono mafiosi, corrotti, oppure belli o giusti. Sei un aristotelico, in altre parole, se una frase come «la corruzione è diffusa in Italia», dove la parola «corruzione» è certo nella posizione di soggetto grammaticale, non ti porta ad ammettere l’esistenza di un soggetto ontologico, una «identità» universale sovra-individuale, quasi soprannaturale, la corruzione appunto, che se ne andrebbe in giro per l’ampio cielo a caccia di entità individuali ignare e innocenti, su cui buttarsi in picchiata, catturandole loro malgrado con i suoi artigli malefici. Sei un aristotelico, al contrario, se ritieni che esistano solo individui corrotti concreti, con nomi e cognomi, responsabili in prima persona delle loro azioni, la cui cattura eliminerebbe d’un sol colpo la corruzione.
Una seconda caratteristica del neo-aristotelismo è una concezione non univoca dell’esistenza, tipica invece delle altre correnti metafisiche analitiche. Per il neo-aristotelismo il senso del verbo «esistere» nella proposizione «esistono piante carnivore» è diverso dal senso dello stesso verbo nella proposizione «Amleto esiste». Nel primo caso si tratta in fondo, come voleva Quine, di una questione puramente numerica: il numero di esemplari di piante carnivore è uguale a zero oppure è maggiore di zero? Se è uguale a zero, allora dico che le piante carnivore non esistono, se invece il numero di esemplari è maggiore di zero, allora (invece di dire, appunto: «Il numero di esemplari è maggiore di zero») dico semplicemente, per comodità, «esistono». Il caso di Amleto, invece, secondo i neo-aristotelici, è diverso: non si tratta qui di una questione numerica, bensì di una vera e propria questione esistenziale, cioè di vita o di morte. Se Amleto «esiste», significa che non si è tolto la vita. Come aveva detto Aristotele, infatti, «nel caso dei viventi “essere” significa “vivere”».
Una terza caratteristica del neo-aristotelismo è il rifiuto del riduzionismo fisicalista nella spiegazione degli esseri viventi e il ricorso alle nozioni di forma e di scopo tipiche dell’ilomorfismo aristotelico. Qui il filosofo da menzionare è Putnam (1926-2016), protagonista di un clamoroso e onesto ripensamento, iniziato nel 1992, che lo aveva portato da una posizione funzionalista a una ilomorfica: l’anima non è riducibile a elementi fisici (fisicalismo), né ad una sorta di programma in grado di svolgere alcune funzioni in un computer (funzionalismo), ma è aristotelicamente la forma di una materia, o meglio la «formula», come il Dna, senza la quale quel determinato corpo non solo non potrebbe funzionare ma nemmeno esistere. Si tratta di una spiegazione che negli ultimi anni ha guadagnato sempre più consenso fra filosofi e scienziati.
Esistono altre caratteristiche del neo-aristotelismo analitico? Senz’altro. Vengono citate spesso, ad esempio, una «ontologia dei poteri causali» come pure un’«ontologia quadricategoriale». Qui tuttavia si comincia a notare qualche punto debole della corrente analitica neo-aristotelica. Già la terminologia si allontana dal vocabolario tipicamente aristotelico: è vero che la potenza è un concetto importante in Aristotele, ma ancor più lo è l’atto, e quindi bisognerebbe parlare piuttosto di ontologia dell’atto o, meglio, di una ontologia dell’essere come attività (segnalo in proposito un bel libro di Aryeh Kosman, The Activity of Being. 2013). Se poi si guarda ai contenuti di queste come di altre teorie «neo-aristoteliche» si vede, mi sembra, che, pur essendo le tesi nuove e interessanti, Aristotele è citato pochissimo e solo quel tanto che serve a dare man forte alle teorie proposte. Come dire: «Aristotele la pensa come me». Non è un caso che gli stessi neo-aristotelici in questione continuino a definire le proprie teorie «Aristotelian broadly speaking» (aristoteliche parlando in generale), espressione che di fatto spesso significa «non Aristotelian properly speaking» (non aristoteliche propriamente parlando).
Di tenore diverso, spesso opposto e parallelo, è invece l’atteggiamento degli storici della filosofia specialisti di Aristotele, che qualche volta sembra essere quello citato sopra: «Mi limito a ricostruire il pensiero di Aristotele», oppure, implicitamente, «io la penso come Aristotele». Qui sono da citare ad esempio: Julia Annas, formatasi a Oxford, allieva di Gwilym Ellis Lane Owen , che dirige gli Oxford Studies in Ancient Philosophy, Terence Irwin, Myles Burnyeat, Pierre Aubenque, Jean-François Courtine, allievo di Aubenque, specialista dell’aristotelismo medievale e moderno, Michel Crubellier. Per fortuna non mancano gli storici della filosofia che sono in grado di muoversi con disinvoltura e profitto sia nell’ambito dei dibattiti analitici che in quello dell’analisi storico-filosofica. Segnalo qui soltanto: Anthony Kenny, uno dei maggiori filosofi e storici della filosofia al mondo, Jaakko Hintikka, Charles Kahn, Christof Rapp, autore di ottimi saggi su Aristotele, nonché di una ottima introduzione alla metafisica analitica.
In ultimo, ma non da ultimo, non possiamo non menzionare il nostro Enrico Berti, autorità indiscussa a livello internazionale sia nel campo degli studi su Aristotele, sia in quello della ricezione del pensiero aristotelico nella storia della filosofia, inclusa la filosofia analitica. Ricordo qui soltanto il suo recente Aristotelismo (il Mulino), la sua magnifica traduzione della Metafisica (Laterza), l’imminente Storia della Metafisica da lui curata per Carocci. Mi piace citare in conclusione il suo pensiero circa l’atteggiamento verso i filosofi del passato: «Dopo più di 25 secoli di storia della filosofia, non sento il bisogno di inventare filosofie nuove, quanto piuttosto di riflettere sulle molte filosofie già disponibili, per vedere di ricavarne qualche indicazione utile».

il manifesto 26.8.18
In piazza contro il ministro ungherese
di Tommaso Di Francesco


Parafrasando Ennio Flaiano, la situazione è tragica ed insieme seria. Il ministro degli interni – mentre scriviamo la denuncia delle sue prevaricazioni arriva al Tribunale dei ministri – non è il rappresentante di governo della repubblica italiana che ha giurato sulla Costituzione nata dalla Resistenza. No, Matteo Salvini è un ministro degli interni «ungherese» e si affida alle decisioni che prenderà con il premier di Budapest Viktor Orbán – così ha ammesso nell’intervista al Corriere della sera di venerdì – nel vertice che terrà con il premier magiaro martedì prossimo. Per il quale i 5S si sono affrettati ieri a chiarire che di «incontro politico e non istituzionale si tratta». Un po’ goffamente, visto che nello stesso giorno il presidente del Consiglio Giuseppe Conte incontrerà a Roma il premier ceco Andrej Babic, piazzista di sistemi di controllo di confini e migranti.
Il fatto è che non un politico qualsiasi ma il ministro degli interni della repubblica è schierato con la linea di Orbán: non si limita infatti a diffondere odio, facendo credere che gli italiani siano assediati dai migranti, nella fattispecie dai 150 sequestrati sulla Diciotti e in condizioni sempre più disperate, impediti finora nel loro diritto internazionalmente riconosciuto a chiedere asilo, su una nave militare italiana che non può attraccare in un porto italiano – ci sarebbe davvero da augurarsi una indignazione morale degli uomini e delle donne in divisa.
Salvini di più insiste a strumentalizzare l’occasione per confermare la sua assoluta contrarietà all’Unione europea, proprio come i Paesi di Visegrad, introducendo di fatto l’Italia in quella compagine iper-nazionalista guidata Orbán: che non vuole un solo migrante, è contro lo stato di diritto, reprime la libertà di stampa e penalizza le Ong. Tragico e serio è il fatto che non sia solo, troppo spesso rincorso dal clone istituzionale Di Maio e dal presidente fantasma del Consiglio Giuseppe Conte che, ogni dove, si associano. Al punto da esternare l’intenzione di uscire dall’Ue: che altro è se non questo la minaccia, di memoria balcanica, di non contribuire al bilancio comunitario?
Restando alla fine più isolati di prima sulla redistribuzione dell’accoglienza. Ma la battaglia dentro l’Unione europea era ed è contro nuovi muri e fili spinati, contro l’esclusiva fortezza Europa e la sua logica solo monetaria, contro la lontananza dai temi del welfare e del lavoro. Invece con Salvini, Di Maio e Conte viene perfino minacciata l’uscita dall’Unione, verso un orizzonte sovranista di patrie identitarie.
In pochi mesi lo svelamento del contratto giustizialista-populista è completo, come la sua sintesi «culturale»: il consociativismo corporativo. Prevede la fidelizzazione degli italiani che «vengono prima» – con accorta strategia di annunci e sottofondo di applausi petroliniani da regime (la differenza con gli anni Venti è la cloaca digitale di Facebook) – tutti contrapposti ai «nemici» migranti; fin dalle spese di bilancio. Presentando così le risorse per l’accoglienza – inferiori ormai a quelle per la repressione delle migrazioni — in contrappozizione a quelle del reddito di cittadinanza, del welfare, dei terremotati, dei disabili, della ricostruzione del Ponte Morandi, dei «poveri», della sanità e dell’istruzione. Una manovra sporca e menzognera.
Perché i numeri dicono il contrario. I migranti arrivati in Italia e che hanno trovato lavoro contribuiscono al nostro reddito, a cominciare dal pagamento delle pensioni; e versano sangue raccogliendo il nostro rosso pomodoro; i nuovi arrivi sono crollati in un anno, dalle poco più di 80mila persone a meno 20mila. Ma grazie ai lager in Libia e tacendo che sono aumentati di più del 20% i morti nelle fosse comuni del Mediterraneo, e che si cancellano le vittime che ogni giorno perdono la vita nel tragitto selvaggio del Continente africano; mentre almeno 700mila persone secondo l’Onu vagano disperate dal conflitto in Libia del 2011 che l’Occidente ha voluto. Salvini, ignorante sul conflitto decennale nel Corno d’Africa, dichiara che in Eritrea «resta la pace», sancita invece sulla carta solo pochi mesi fa dopo le devastazioni che restano, con una dittatura feroce. Continua la farsa dell’«aiutiamoli a casa loro», quando invece dovremmo smetterla una buona volta di «aiutarli»: perché il nostro rapporto con l’Africa è di rapina delle risorse naturali, di sottomissione del loro commercio, di cattura delle loro finanze e monete, di devastazione ambientale e di libero mercato di armi per le guerre in corso.
Non contenti, dopo le missioni del nuovo governo, sulla scia di Renzi e Minniti, dalle inesistenti ma criminali «autorità libiche», il misfatto che si vuole consumare è l’avvio di un sistema concentrazionario di campi di concentramento in Africa e in Paesi non ancora nell’Ue. Ecco la «disponibilità» dell’Albania, proprio da dove negli anni Novanta arrivavano i primi profughi in fuga dalla guerra civile, ad accettare quella che sarebbe di fatto una deportazione fuori dall’Europa, senza diritto a chiedere l’asilo. Magari con coinvolgimento dell’Onu, insidiato dalle macerie provocate dal militarismo «umanitario» delle troppe guerre seminate non solo in Medio Oriente. Una prospettiva, per Africa e Balcani, che nega la costruzione di società democratiche e apre a istituzioni-lager condizionate ai fondi occidentali.
È tempo di dire basta, di manifestare queste verità. La differenza tra la democrazia e lo stato di diritto da una parte e e il populismo identitario-giustizialista dall’altra sta nelle sorti di quella nave Diciotti ancorata alla disperata nel porto di Catania, e di tutte le «navi Diciotti» precedenti e dei nuovi sequestri di persona e respingimenti che l’«ungherese» Salvini prepara. È tempo di ritessere il filo di una tela strappata, quello di una sinistra solidale e anti-nazionalista. Non basta più attaccarsi ad un ramo di Fico. È non solo necessario ma obbligo morale scendere in piazza subito in Italia, laboratorio di pratiche scellerate di governo, con una grande iniziativa unitaria a Roma ora, a settembre, contro le politiche del governo sui migranti – come ha scritto Norma Rangeri venerdì scorso. Per una forte rappresentazione del malessere diffuso e della rabbia che cresce (cominciano ad essere tante e importanti, come ieri a Catania, le proteste, i presidii, le voci, dai vescovi siciliani, ai sindacati, agli organismi umanitari. Per fare questo vale la pena appellarsi ormai a chi a sinistra, di fronte al disastro renziano, ha votato per il M5S. Per chiedere se non sia l’ora di risvegliare la proprio coscienza. Pena l’indifferenza complice. E noi, con Gramsci, odiamo gli indifferenti.

il manifesto 26.8.18
«Sequestro di persona», la procura indaga Salvini
Mercante di umani. Il vicepremier attacca il pm di Agrigento. L’inchiesta passa al Tribunale dei ministri
di Alfredo Marsala

La svolta è arrivata dopo gli interrogatori dei funzionari del Viminale a Palazzo di giustizia di Roma: Matteo Salvini è indagato. Dopo avere ascoltato Gerarda Pantalone e il suo vice, Bruno Corda, ai vertici del dipartimento delle Libertà civili del Viminale, il capo della Procura di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha trasmesso il fascicolo al tribunale dei ministri di Palermo. Nell’inchiesta, che era stata aperta contro ignoti, spuntano i primi nomi. Sono quelli del vicepremier e del suo capo di gabinetto al ministero. Sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio, sono le ipotesi di reato contestate al capo del Viminale e al suo più stretto collaboratore.
L’INDAGINE passa così al tribunale competente per i reati commessi dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni perché la magistratura ordinaria non può agire. Dopo avere valutato le informazioni ricevute dai due prefetti e la documentazione a supporto, il capo della Procura di Agrigento, che aveva aperto l’indagine per sequestro di persona e arresto illegale dei 190 migranti a bordo della Diciotti ormeggiata da sei giorni nel porto di Catania, codice alla mano, ha informato i colleghi di Palermo.
È lo stesso Patronaggio ieri sera a spiegare gli sviluppi dell’indagine diramando una nota nel tentativo di disinnescare eventuali, e sicure, polemiche: «La procedura, prevista e imposta dalla legge costituzionale 16/1/89 n. 1, permetterà, con tutte le garanzie e le immunità previste, di sottoporre a un giudice collegiale specializzato le condotte poste in essere dagli indagati nell’esercizio delle loro funzioni, uno dei quali appartenente ai qualificati soggetti indicati all’articolo 4 della norma costituzionale».
I MAGISTRATI ritengono che sia stato il ministro Salvini a capo della catena di comando, che ha imposto il trattenimento a bordo della nave Diciotti dei 190 migranti, costretta a rimanere per giorni al largo di Lampedusa prima di approdare nel porto di Catania su disposizione del ministro per le Infrastrutture, Danilo Toninelli. Sarebbe partito da Salvini l’ordine di vietare lo sbarco dei profughi attraverso il suo Capo di gabinetto, che avrebbe gestito le fasi della decisione che ha costretto il comandante della Diciotti, Massimo Korthmeir, a impedire ai migranti di lasciare la nave.
IL REATO IPOTIZZATO in prima battuta, quello di sequestro di persona e arresto illegale, potrebbe essere cambiato nel sequestro di persona a scopo di coazione, introdotto a marzo nel codice penale e punito con la reclusione fino a 30 anni. Senza l’autorizzazione del Parlamento, Matteo Salvini, in quanto senatore, potrebbe essere sentito solo come testimone e non come indagato. Il ministro incassa il colpo e attacca i magistrati: «Cosa porti a casa? Che ti indagano. Aspetto con il sorriso il procuratore di Agrigento, voglio spiegargli le mie ragioni. Aspetto un procuratore che indaghi i trafficanti e chi favoreggia l’immigrazione clandestina. Gli ricordo che gli scafisti comprano armi e droga che poi viene spacciata magari fuori dalle scuole dei nostri figli». E rilancia: «È una vergogna essere indagati per difendere gli italiani, serve la riforma della giustizia. Fate più in fretta a smaltire questi processi: non si possono trattenere tanti imprenditori in attesa di giustizia.
Faccio affidamento ai tanti magistrati per bene». Parole che Salvini pronuncia da Pinzolo, dopo avere appreso di essere stato iscritto del registro degli indagati. «C’è un popolo stufo di essere servo: bloccare l’immigrazione clandestina non è un diritto ma un dovere di un ministro; abbiamo fatto e speso anche troppo, lo dico soprattutto al popolo della rete non possono imbavagliare nessuno».
SEMBRA CEDERE rispetto alla linea intransigente mantenuta finora: «Gli immigrati della Diciotti sbarcheranno nelle prossime ore, ho ritenuto di farli sbarcare, vi dirò dove andranno. Chiedo di ridiscutere i miliardi che l’Italia manda a Bruxelles, è giunto il momento di tagliare i finanziamenti a un ente inutile».
Agli attacchi alla magistratura, nel pomeriggio, avevano replicato i consiglieri del Csm Valerio Fracassi, Claudio Galoppi, Aldo Morgigni e Luca Palamara che hanno chiesto che venga messo all’ordine del giorno del plenum, fissato per il 5 settembre, la verifica del rispetto delle norme. «Gli interventi a cui abbiamo assistito, per provenienza, toni e contenuti – hanno detto i quattro togati riferendosi alle critiche di alcuni politici – rischiano di incidere negativamente sul regolare esercizio degli accertamenti in corso». Per i togati «è necessario un intervento del Csm per tutelare l’indipendenza della magistratura e il sereno svolgimento delle attività di indagine».

Corriere 26.8.18
Chi è Patronaggio
Il pm e quelle parole sui migranti «che sono persone e non dei nemici»
di Felice Cavallaro

AGRIGENTO Sempre in lotta con il vento per il suo ciuffo scapigliato, 60 anni celati da un fisico asciutto, le giacchette strette, funzionario delle Poste nella prima vita, Luigi Patronaggio, il magistrato volato a Roma per indagare al Viminale fra gli uffici del ministro Salvini, ad Agrigento lo scrutano in tanti con timorosa diffidenza come il procuratore che non guarda in faccia nessuno.
E se ne sono accorti in tanti negli ultimi tempi per l’attenzione che la sua procura accende su appalti e pubblica amministrazione.L’ultimo ciclone giudiziario su un calderone di sospette raccomandazioni legate al pianeta di Girgenti Acque ha travolto perfino la carriera del prefetto Nicola Diomede, costretto a lasciare l’incarico. È la storia di un presunto giro di relazioni fra i potenti indicati da Patronaggio, compreso il padre del ministro Alfano. Così, il temuto procuratore è la seconda volta che in poco tempo si confronta in qualche modo con inquilini del Viminale.
Ai tempi di Falcone e Borsellino, che fece in tempo a conoscere definendoli «amici dell’ultima ora», indagò, subito dopo le stragi, anche su Rino Nicolosi, il presidente della Regione poi morto di cancro.
Di potenti ne ha incrociati tanti. Da Dell’Utri a Mori. Chiedendo da sostituto procuratore generale di Palermo la condanna per il co-fondatore di Forza Italia quando poi scappò in Libano per una incomprensione con il tribunale della libertà che non dispose l’arresto. Ed inquisendo il generale assolto per la mancata perquisizione della villa covo di Riina, (seppure recentemente condannato per la «trattativa Stato mafia»).
Grandi processi nei quali Patronaggio ha continuato a mantenere un certo distacco professionale, senza mai lasciarsi tentare da avventure come quelle che hanno portato suoi colleghi in salti acrobatici verso la politica. Padre di tre figli, a 38 anni, nel 1996 dopo avere indagato sugli assassini di Padre Puglisi, minacciato dalla mafia, decise di lasciare la procura di Palermo. Qualcuno insinuò una polemica contro l’allora procuratore Giancarlo Caselli. Equivoco soffocato immediatamente dallo stesso Patronaggio che definì il procuratore arrivato da Torino come il migliore in assoluto.
Ad Agrigento era già arrivato negli anni Novanta come capo dell’ufficio dei gip. Occupandosi di tanti processi di mafia. Il resto della carriera fra Mistretta, Trapani, Palermo. Infine il ritorno nella città dei Templi accompagnato per l’insediamento dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, pronto a tesserne le lodi. E lui a ringraziare ribadendo la sua idea di giustizia. Così come ha fatto all’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario quando ha in fondo indicato la strada che sta adesso ripercorrendo con l’ispezione sulla Diciotti e gli interrogatori al Viminale. Spiegando che «in un’area di frontiera come Agrigento, e quindi Lampedusa, bisogna fare i conti con il fenomeno dei migranti tenendo conto che si tratta di persone costrette a lasciare con dolore terra e affetti, a fuggire da guerra e miseria». Una ragione in più «per non considerarli nemici». Posizione gradita a tanti ambienti, a cominciare dal cardinale di Agrigento, Don Franco, presidente della Caritas italiana. Forse un po’ meno da chi oggi Patronaggio chiama a verbalizzare sull’ipotesi del sequestro di persona.

Il Fatto 26.8.18
Caso Diciotti: l’Italia contro l’Italia
di Furio Colombo


Quando il capo di metà del governo italiano (vincolato da un contratto ma da nessun principio comune con l’altra metà) ha detto “Non arretrerò di un millimetro”, si è capito che tutto avveniva fuori dalla politica. E dipendeva non da progetti di governo ma da trasalimenti di furore caratteriale non controllabile, di una persona isolata dalla media conoscenza del suo tempo e dei fatti umani.
Gli ingredienti sono: insulti per tutti; una serie di scenate in pubblico del tutto sconnesse con il ruolo istituzionale ma anche con la realtà.
Sta accadendo che da più di una settimana una nave della Marina militare italiana (Guardia Costiera) non può sbarcare il suo carico umano in un porto italiano (nel caso, prima Lampedusa, poi Catania) perché ha compiuto il gesto di raccogliere in mare e salvare dall’annegamento 177 naufraghi in fuga da guerre in terre come Somalia, Eritrea, Sud Sudan, dunque evidenti titolari del diritto di asilo. I naufraghi, accolti su nave italiana, sono già su Territorio italiano, lo sono dal momento in cui la marina italiana ha impedito che finissero di nuovo in mano ai libici (ci sono parecchie vittime del trattamento nelle prigioni libiche, a bordo). Lo sono dal momento in cui la marina italiana non è andata a scaricare i naufraghi a Malta (nonostante gli illogici ordini ricevuti) perché sono persone protette dalla nostra bandiera. Ma quando la metà leghista del governo ha detto ai profughi già accolti dall’Italia: “Non mi ubbidite? E io, che posso, vi faccio restare in mare”, ai profughi e alla Guardia Costiera italiana, quel mezzo governo ha violato di colpo leggi, trattati, consuetudini e Costituzione. Ed è incorso nel reato di sequestro di persona e lo ha fatto con la rabbia incontenibile con cui avviene un pestaggio fuori da una discoteca. La disputa esiste, ma il furore acceca e porta a volte a conseguenze tragiche molto al di là del previsto. A meno che qualcuno si intrometta e cerchi di fermare chi ha perso la testa. Quando il capo del mezzo governo leghista (titolare però di un terzo dei voti) ha preso a insultare, senza potersi fermare, il presidente della Camera, che rappresenta l’altro partito del contratto, si è capito che, in preda a una incontrollabile euforia del potere, il leader che stiamo discutendo, andava separato dalla preda e tenuto a distanza non “benché titolare di una simile carica” ma “perché titolare di una simile carica”.
È quello che forse stanno facendo i procuratori della Repubblica di tre città siciliane, anche a nome del presidente della Repubblica, che difficilmente può tollerare la chiusura dei porti italiani alla Marina italiana, per qualunque ragione al mondo. A meno che si tratti di ammutinamento e che dunque tutti noi, inconsapevoli tranne il ministro, stiamo assistendo al caso della corazzata “Diciotti” che, come la Potiomkin, dell’Ottobre russo, sta dando il segnale di una rivoluzione. Ma chi si ribella a chi, se il presidente della Repubblica e le Procure dello Stato danno ragione ai marinai? Fin dall’inizio della sua cacciata in mare dei reietti, il capo del mezzo governo leghista si era vantato di incredibili sondaggi (80 per cento a favore, fonte Sky) che lo sostenevano.
Mai dimenticare che certe cose (dalla Notte dei Cristalli al Ku Klux Klan) non possono accadere se non c’è una stragrande maggioranza di gente favorevole intorno.
La folla leghista ha sentito l’odore del sangue o è improvvisamente ansiosa di battersi per i confini della Patria. Tutto ciò dopo avere lavorato alla secessione, e mentre prepara i referendum di Lombardia e Veneto per l’autonomia. Ora appare ansiosa di partecipare allo scontro Italia contro Italia, così affine alla natura della Lega di Borghezio, Gentilini, Calderoli.
La folla leghista sembra aver capito la trovata crudele: tenere in ostaggio centinaia di salvati, segnati dalle torture nelle carceri libiche e dalla tensione dell’attesa insensata e dunque inspiegabile, umiliare la Guardia Costiera (non si è sentita mai la voce della titolare della Difesa) e profittare del caldo eccessivo del sole di agosto per far capire ai “negri” di questo esemplare episodio del governare con mano ferma, che “la pacchia è finita”. E che, come ha detto il capo dell’altro mezzo governo, ricordando i caduti di Marcinelle, l’importante è non emigrare.
Il nostro uomo però non si placa. Dice che sta adottando il metodo australiano, (abbandono di profughi in isole deserte) considerato disumano persino da Putin.

Il Fatto 26.8.18
La denuncia di Libertà e Giustizia: “Svolta eversiva”


Non usa mezzi termini Libertà e Giustizia, che denuncia “la condotta programmaticamente eversiva del ministro dell’Interno Matteo Salvini”. Lo fa attraverso una nota dove denuncia pubblicamente la violazione dell’articolo 13 della Costituzione e “una serie di reati di cui si dovranno occupare le procure della Repubblica”. L’associazione è preoccupata dalla “nuova svolta autoritaria” che avanza nella “drammatica l’assenza di opposizioni credibili ed efficaci” e della “del tutto inadeguata la reazione delle massime magistrature repubblicane: la subalternità del Presidente del Consiglio, la timida dichiarazione di principio del presidente della Camera, il silenzio della presidente del Senato, le pressioni solo private del Capo dello Stato”.
Secondo Libertà e Giustizia, presieduta da Tomaso Montanari, “l’eversione di Matteo Salvini va fermata prima possibile”. Non c’è solo lui a creare inquietudine. L’associazione è anche allarmata dalla “sistematica denigrazione e umiliazione dei valori della Costituzione” e dal “disprezzo per le massime figure della democrazia rappresentativa”, come le dichiarazioni del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti che “facendo leva sugli irresponsabili entusiasmi per una ‘democrazia diretta’ (si rammentino le dichiarazioni di Casaleggio junior contro il Parlamento come istituzione)” ha rilanciato l’idea di una riforma costituzionale “che porti all’elezione diretta di un presidente della Repubblica trasformato da garante a capo dell’esecutivo”, una “nuova svolta autoritaria” che si avvicina ad “alcuni progetti di riforma costituzionale già presentati dal Pd in questa legislatura” e alla “filosofia di fondo della sconfitta riforma Renzi-Boschi”. Per LeG il leader della Lega usa “la vita dei migranti per costruire la propria immagine di uomo forte del Paese, in attesa di consacrare questa sua posizione attraverso una manomissione della Costituzione”.

La Stampa 26.8.18
Un ciclone si abbatte sul governo
di Marcello Sorgi

Non cercava altro, non sperava di meglio, Matteo Salvini: trovarsi indagato per sequestro di persona, arresti illegali e abuso d’ufficio, come ieri sera ha annunciato il procuratore della Repubblica di Agrigento Patronaggio, era quello che desiderava, «medaglie» ha definito le accuse che piovevano sul suo capo, prima ancora che si materializzassero, soddisfatto di poter dettare le proprie generalità alla magistratura, che adesso dovrebbe processarlo, e intanto di proseguire la sua campagna a un ritmo sempre più incalzante. Il bilancio degli ultimi giorni è spaventoso: a parte questo epilogo - il ministro dell’Interno, cioè l’uomo che dovrebbe garantire l’ordine pubblico e assicurare serenità ai cittadini, sotto inchiesta per aver volontariamente e platealmente violato la legge - tra le macerie di questi giorni restano: i rapporti dell’Italia con l’Europa, ormai al lumicino dopo una valanga di insulti e minacce a cui s’è associato anche l’altro vicepremier Di Maio, e nuovamente calpestati dall’incontro annunciato per martedì tra Salvini e il primo ministro ungherese Orban; il ruolo del presidente del Consiglio Conte, zittito perché voleva prendere le distanze da un evento come questo che allontana il Paese dalla sua tradizionale collocazione internazionale; gli sforzi del ministro degli Esteri Moavero Milanesi, che ha cercato in ogni modo di evitare una rottura definitiva con l’Unione Europea, ma per risolvere il problema della redistribuzione dei migranti ha partorito un accordo con Albania, Serbia, Montenegro e Irlanda del Sud, in una cornice che non fa che sottolineare l’isolamento dell’Italia rispetto ai suoi interlocutori abituali.
Inoltre, a completare il quadro, in questi stessi giorni, mentre lo spread continua a salire, il ministro dell’Economia Tria sta tentando di convincere la Cina a sottoscrivere titoli di Stato del Tesoro; quello degli Affari europei Savona ha parlato dell’eventualità di una garanzia russa sul debito pubblico italiano, una novità abbastanza sorprendente, visto che il governo ha confermato le sanzioni nei confronti di Putin, e il premier Conte ha lasciato filtrare che in questo campo anche Trump gli aveva promesso aiuto.
C’è molta confusione: troppa, è il caso di dirlo. I ministri vanno in ordine sparso e nell’approssimarsi delle scadenze d’autunno, la legge di stabilità, la manovra economica, il primo appuntamento vero con le promesse elettorali del taglio delle tasse e del reddito di cittadinanza, la sensazione è che anche l’intesa tra i due principali leader della maggioranza gialloverde sia messa a dura prova. Di fronte al dilagare dell’alleato Salvini, il Movimento 5 stelle è sotto pressione, comincia a farsi strada al suo interno l’idea che il leader leghista abbia accettato di imbarcarsi nell’avventura del governo al solo scopo di usarla per fare propaganda, preparandosi a far saltare il tappo al momento più opportuno per lui. Il problema dell’immigrazione, su cui la Lega ha costruito le sue fortune recenti, è da sempre il terreno preferito di Salvini, una sorta di riserva esclusiva su cui Di Maio può cercare di fargli concorrenza solo fino a un certo punto, come dimostrano le esplicite divisioni emerse tra i pentastellati a cavallo della vicenda della «Diciotti».
Possibile, quindi, che Salvini si prepari a rompere e ad affrontare il processo che lo attende (e per il quale, c’è da aspettarselo, chiederà al Parlamento di concedere una rapida autorizzazione) da semplice imputato, protagonista e vittima predestinata: dell’Europa non solidale con l’Italia, della burocrazia, del sistema, in nome dei cittadini e con lo slogan «non mi ferma nessuno». Invece occorre che qualcuno lo fermi, prima che diventino irreparabili i danni provocati in questi primi tre mesi di governo - se davvero questo è un modo di governare.

Repubblica 26.8.18
Dietro il flop delle espulsioni
Quei rimpatri impossibili senza accordi con l’Africa
di Fabio Tonacci


ROMA Dietro la storia criminale del senegalese Mohamed Gueye — l’ingresso in Italia con visto turistico, un decreto di espulsione snobbato e reso nullo dalla nascita di un figlio, l’accusa, infine, di stupro di una minorenne — si intravede la partita politica più complicata per chi, in Europa, è chiamato a governare il fenomeno migratorio. Quella del rimpatrio forzato degli irregolari.
Sono bastati due mesi di governo gialloverde per capire che il «rimanderemo a casa 500.000 clandestini», urlato da Matteo Salvini durante la campagna elettorale, altro non era che una inesaudibile promessa. Una delle tante. Al ritmo attuale — 866 rimpatri a giugno e luglio — ci vorrebbero, infatti, "solo" 95 anni. E però il problema esiste. È comune ad altri membri dell’Unione. E, soprattutto, è oggetto di una dialettica diplomatica e riservata con i governi degli stati africani di partenza, che, talvolta, sconfina nel ricatto.
Prendiamo il 25enne Mohamed Gueye, ad esempio. Il suo permesso di soggiorno per motivi di lavoro era scaduto nel gennaio 2015. Il 25 luglio 2016, dopo aver commesso alcuni reati contro il patrimonio, gli è stato notificato dalla questura di Venezia il decreto di espulsione: un foglietto di carta con l’ordine di allontanarsi volontariamente dall’Italia entro sette giorni. Era il massimo che le nostre autorità potevano fare con lui, visto che con il Senegal l’Italia (a differenza di altri Paesi europei, come la Spagna) non ha alcun accordo bilaterale per i rimpatrio forzati: il governo senegalese non l’ha voluto e ora non è disponibile a riconoscere l’identità dei suoi cittadini espulsi dall’Italia. Ecco perché Gueye, dopo il provvedimento di due anni fa, è rimasto a Venezia.
Nella politica della gestione dei flussi, sono questi accordi che fanno la differenza, quando sui piatti della bilancia si mettono nuovi ingressi e rimpatri. L’Italia è ferma ai quattro stipulati con Marocco, Tunisia, Egitto e Nigeria. Pochi, considerando gli arrivi massicci da paesi come Niger, Mali, Etiopia e, appunto, Senegal. Pochi e anche costosi: per ottenere la firma del governo di Tunisi, per dire, l’Italia si impegnò ad acquistare e a donare alla loro guardia costiera motovedette che valevano un centinaio di milioni.
Nel 2017 i quattro accordi hanno consentito all’Italia di rimandare indietro solo 7.045 irregolari.
Nello stesso periodo l’intera Europa ne ha rimpatriati meno di 200.000. Un risultato lontano da standard accettabili e dovuto, spesso, all’uso politico che alcuni governi africani fanno della collaborazione con l’Ue: si spiega così perché il tasso di rimpatrio del Senegal è sceso dal 12,5 per cento del 2016 al 9 per cento del 2017 (i dati sono contenuti nell’ultima relazione della Commissione al Parlamento Europeo), fino al 7 di quest’anno.
Contropartite, segreti do ut des, le diplomazie europee che lavorano con i diplomatici africani nel silenzio e con la certezza, a questo giro, di avere il coltello dalla parte della lama.
Senza riconoscimento da parte dei loro Paesi, gli espulsi rimangono nei Centri di Permanenza e Rimpatrio per 90 giorni, poi escono col foglio di via che nessuno, o quasi, rispetta.
Con l’ennesimo post su Facebook («Se un clandestino stupra, ruba, uccide o spaccia, se ne torna a casa subito») il ministro Salvini ha annunciato di voler riscrivere col Decreto Sicurezza anche la normativa sulle espulsioni, spingendola ai limiti delle garanzie costituzionali, e forse oltre. Potrebbe non bastare lo stesso.
Mohamed Gueye, infatti, gode di un’ulteriore "protezione", per la quale deve ringraziare il figlio che ha concepito con una donna italiana. Il Testo unico sull’Immigrazione, infatti, non consente l’espulsione (salvo quando venga messa a rischio la sicurezza nazionale) dei minorenni, delle donne incinte e degli stranieri conviventi con i parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di nazionalità italiana. «La norma serve a tutelare il diritto all’unità familiare del cittadino italiano, in questo caso la mamma», spiega Giulia Crescini, avvocato dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione giuridica. «È un principio che vale anche quando l’immigrato irregolare ha un fratello o un coniuge italiani». Se uno straniero privo di permesso di soggiorno (ma con un passaporto valido) si sposa con un cittadino di nazionalità italiana, ottiene automaticamente la "Carta di soggiorno per familiare di cittadino europeo". Diventa inespellibile. Così come se ha un figlio riconosciuto, pur in assenza di matrimonio. E se poi lo straniero si rende responsabile di reati gravi? «I permessi di soggiorno concessi per il diritto all’unità familiare sono giuridicamente molto robusti. Se la questura non li vuole rinnovare, si può fare ricorso e i giudici, quasi sempre, danno ragione ai migranti»

Repubblica 26.8.18
Le sfide dell’integrazione
Salviamo il modello Riace il borgo dove l’Italia riparte dall’accoglienza
L’appello di Saviano: tutti nel paese calabrese che ha fatto dei migranti un’occasione di rinascita
di Roberto Saviano


Andate a Riace! Quello che sta accadendo lì da anni deve essere misurato con le proprie iridi, sentito con i propri timpani, accolto tra le proprie braccia. Potrei come elemento d’approfondimento dire... ma andate a Riace! Bisogna riempirsi i polmoni di quell’aria. Il modello Riace è una cattedrale di libertà che innestatasi su un deserto lo ha reso florido di vita. Provate a fare un elenco di tutti gli argomenti utilizzati nella propaganda politica degli ultimi anni, metteteli in fila: gli immigrati invadono, portano malattie, tolgono lavoro a chi lavora, arrivano a far da schiavi, sono destinati a diventare le nuove leve criminali, i centri di accoglienza sono solo soldi in più alle mafie.
Queste argomentazioni genereranno lo stesso indignato stupore che ora gli studenti hanno quando scoprono l’apartheid, e che ci fu un tempo in cui uomini bianchi e uomini neri avevano i bagni separati, in cui sui tram c’era uno spazio per i white vietato ai black. Ma non siamo ancora in quel futuro, oggi dobbiamo impegnarci: tocca alla nostra generazione smentire le bugie sovraniste e populiste e farlo con costanza, forza senza temere l’ingaggio. Ebbene, a Riace vi è la prova di quanto siano false queste asserzioni: 1) A Riace i migranti sono arrivati e hanno attivato un paese che era desertificato.
2) Non hanno portato epidemie, anzi hanno aiutato a rendere più salubre il territorio bonificando campagne, ristrutturando case umide, aiutando anziani in difficoltà e portando nuova e sana vita nel territorio.
3) Non hanno tolto lavoro, anzi ne hanno generato. Riaprendo scuole, ristoranti, laboratori in cui sono coinvolti molti italiani.
4)Non essendo stati accolti in un ghetto non sono divenuti manovalanza di mafie.
5) Le navi che li hanno salvati li hanno restituiti alla vita e a Riace non sono stati inseriti nella filiera del caporalato nei campi.
6) Non hanno sostituito la popolazione, anzi con il loro arrivo c’è stato anche un ritorno di alcuni emigranti calabresi.
7) A Riace l’accoglienza è stata gestita con spese di gran lunga inferiori a qualsiasi altro centro e ne è prova l’esiguità dei fondi impegnati.
A Riace vivono circa 1.700 persone che hanno accolto più di 600 profughi del Corno d’Africa, dell’Afghanistan, dell’Iraq creando una comunità in armonia. Tutto questo grazie al sogno di un uomo, Mimmo Lucano, di amici e collaboratori. Ma come è stato possibile che una piccola e dimenticata terra della Locride, circondata dalla potenza delle famiglie di ‘ndrangheta, divenisse un spazio di convivenza attiva, un luogo di gestione sano? Come nasce questo miracolo? Il cambiamento in meglio di questo territorio è stato proprio innescato da uno sbarco. Uno sbarco vissuto come una rinascita e non come un guaio da subire.
Era il 1998. Sulla marina di Riace si arena una nave: sopra ci sono 66 uomini, 46 donne e 72 bambini.
Scappano dalla Siria, dall’Iraq e dalla Turchia, diverse nazioni ma sono tutti di un unico popolo: sono curdi. A Riace sbarcano e vengono accolti, e iniziano ad essere sistemati nella parte alta della città. È quasi deserta, sono tutti emigrati negli anni da un borgo dove si vive di agricoltura e pastorizia. La mattina dopo lo sbarco i bambini che parlano ad alta voce, le madri che li richiamano, gli uomini che iniziano a sistemare le case fanno svegliare i riacesi con stupore: il paese è tornato ad avere i suoni della vita.
Mimmo Lucano, all’epoca non ancora sindaco, vede che il paese inizia a respirare, è un’occasione per costruire uno spazio di giustizia. Unire due disperazioni: l’abbandono calabrese e la ricerca di una vita diversa, energie che diventano lievito. Mimmo, sostenendo la idea di aprire le porte a chi vuol costruire, vivere, fare, diventa sindaco e inizia ad accogliere. E dove li mettono?
Nessun hotel in disuso, nessuna caserma diroccata. Da Riace sono partite negli ultimi cinquant’anni migliaia di persone dirette in Argentina, Canada, Usa. Mimmo raggiunge i nipoti, i figli degli emigranti calabresi e chiede se sono disponibili a dare le loro case. Tutti rispondono sì. Si passano il testimone, l’assioma è chiaro: noi fummo costretti ad andare via per cercare una nuova vita, ora chi arriva a Riace cerca ciò che noi abbiamo trovato attraversando l’Atlantico. Le case sono state ristrutturate, il modello Riace ha iniziato a vivere. Insieme migranti e riacesi hanno riattivato gli uliveti ormai abbandonati e nascono i vigneti in terre che non davano più niente perché troppo costoso coltivarle. Gli anziani del paese che hanno i nipoti lontani sono diventati i nonni dei bambini arabi e africani che ormai parlano tutti con accento calabrese.
Mimmo subisce le intimidazioni della ‘ndrangheta: nel 2009 gli avvelenano i cani e sparano ancora, questa volta vicino a palazzo Pinnarò, la sede di Città Futura dove si coordinano i progetti. Ma le famiglie ‘ndranghetiste vedono che la comunità a protezione di Mimmo è forte e indietreggiano.
Nel 2016 arriva l’ispettore del Servizio centrale dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati): a Riace resterà solo due giorni e al termine scriverà una relazione negativa segnalando «criticità per gli aspetti amministrativi e organizzativi». In 16 pagine segnala che il quadro di accoglienza è «estremamente confuso». Sostanzialmente la colpa è una: il sindaco tiene i migranti oltre i tempi del progetto. Dovrebbero essere cacciati una volta finito il piano e una volta finiti i soldi. Mimmo invece non li manda via.
La relazione negativa viene subito data da Il Giornale: parte così la macchina del fango che parla di "business Riace" e "Parentopoli" (Mimmo, con la sua scelta, si è separato e ha perso la sua famiglia che non vive a Riace). Gli ispettori della Prefettura reggina aprono la strada a un’indagine della procura di Locri che, dal 2017, è ancora in corso: Lucano è indagato per «abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata». Lo accusano di non aver rendicontato alcune spese, di non aver pagato le imposte sulle carte d’identità (poiché non avevano i soldi per i documenti, spesso li ha dati gratis ai migranti, e per questo li ha resi gratuiti per tutti).
Il 26 gennaio 2017, però, viene resa nota, dopo un anno di infinite richieste di Lucano, una nuova relazione fatta da altri ispettori che sottolineano il carattere unico del modello riacese: «Un microcosmo strano e composito che ha inventato un modo per accogliere e investire sul futuro».
Ma dopo l’indagine sono stati bloccati i fondi Sprarda parte della Prefettura e del Viminale.
Bloccare il modello Riace è l’assassinio di un corpo nuovo, di un modello di rilancio ammirato da tutto il mondo.
Fattiifattitoi è la versione mafiosa del menefrego squadrista. Riace, nella Locride, ha smontato questo imperativo culturale. Per provare a sostenere il modello riacese si può versare un aiuto, per dare ancora ossigeno in questi mesi in cui hanno bloccato i finanziamenti. Ecco le coordinate: Destinatario: Recosol. Iban: IT92R0501801000000000179515 Causale: Riace.
Codice Bic ( per bonifici bancari internazionali): CCRTIT2T84A.
Oppure si può fare una donazione con Paypal: utilizzate la app # Paypal; indicate come contatto per inviare la donazione la mail coordinamento @ comunisolidali. org.
Invito a donare: donate e andate a vedere che progetto il vostro impegno ha l’onore di sostenere.
Qualunque sarà il destino del nostro Paese, chi non si riconosce in questo governo, chi non si riconosce in ciò che sta accadendo, deve ripartire da qui.
È a Riace che bisogna andare, è da questa nuova Atene di democrazia che può rinascere un nuovo modello di prassi sociale. E dobbiamo esser pronti a mettere i nostri corpi a difesa di questo modello perché è da qui che può ripartire il percorso per un nuovo Paese. Mimmo Lucano ha provato a seppellire qui, in questo pezzo di terra brulla e argillosa, un raggio di sole. L’immagine è di Victor Hugo, a riferirla è un suo personaggio che, per descrivere l’operato del filosofo Averroè, parla proprio di un raggio di sole sepolto. Ecco, proprio dal filosofo arabo viene una suggestione in grado di smontare uno dei più violenti attacchi che il ministro Matteo Salvini ha fatto a Mimmo Lucano, definendolo uno zero assoluto. Salvini ovviamente non conosce la storia dello zero, concetto portato dagli arabi in Europa. Ebbene riporto le parole di Kaplan, storico dello zero, che seguendo una suggestione di Averroè dice: guarda lo zero e vedrai nulla, guarda attraverso lo zero e vedrai l’infinito. Mimmo Lucano è uno zero, come tutti coloro che stanno costruendo e vivendo a Riace. Ossia guardando attraverso di loro è possibile vedere l’infinito di una vita diversa.

Repubblica 26.8.18
Intervista a José "Pepe" Mujica
"La sinistra in crisi può ancora salvarsi ma deve pensare di più alla felicità"
di Antonello Guerrera


ROMA « Pepe? Está durmiendo ». È appena arrivato a Roma per il suo nuovo tour italiano e José "Pepe" Mujica, dopo 83 anni di lotte, passione e il recente addio al seggio in Senato, si gode la sua siesta. Come quando è stato il presidente uruguaiano "contadino" (2010-2015) , l’ex guerrigliero tupamaro ha rinunciato a quasi tutto il suo compenso, la pensione. A Mujica i soldi non servono, a lui basta la vita vera. «Ma eccomi qui!», esclama improvvisamente alle spalle, mentre avanza verso il tavolino dell’hotel con una camicia color kaki, gli occhietti vispi e la chiave della stanza 319 che contempla per tutta l’intervista.
Presidente Mujica, benvenuto in Italia, il Paese di sua madre, migrante di origine ligure.
«E quanti italiani ha accolto l’Uruguay nei decenni... abbiamo preso tutti i vostri pregi e difetti.
L’immigrazione ha portato in Sudamerica tanta civiltà, come la cultura sindacale».
Oggi invece l’Italia è uno dei Paesi più duri sull’immigrazione, in un contesto europeo sempre più pilatesco.
«Il vero problema non sono i migranti ma il fatto che voi europei siete un continente vecchio: avete bisogno di forza lavoro e invece la respingete. Anzi: se i flussi si sanno amministrare, questa è un’enorme possibilità a medio termine. Il vero problema è il cambiamento climatico e l’imminente disastro ambientale su cui la codardia politica dell’Occidente è inerte».
Molte persone votano per partiti sovranisti, antieuropeisti o xenofobi.
«Quanto siamo smemorati. L’Ue avrà molti difetti, ma ha garantito la pace per quasi un secolo, quando nell’ultimo millennio l’Europa è stata sempre in guerra. Per il resto, più è ricca una società, più rischia di essere egoista. Trump e i suoi simili sono stati votati soprattutto dalla classe medio-bassa spaventata da un’economia transnazionale che aumenta le disuguaglianze del libero mercato, che solo la politica può mitigare. Ecco perché la politica è più importante che mai.
Ma è ferma».
Perché?
«Perché ha perso consenso. Perché è bloccata, anche per alcuni effetti collaterali dello stesso capitalismo. Siamo consumisti compulsivi, confondiamo l’avere con l’essere, a volte la politica è un mezzo per raggiungere soldi e potere. Ma la politica non può essere mai questo.
La politica è una necessità umana perché non siamo felini, ma gregari: solo se si uniscono ,gli uomini lasciano il segno nella Storia. Lo diceva anche Aristotele: l’uomo è un animale politico. L’obiettivo della politica è superare le divisioni tra gli uomini in un contesto sociale. Oggi, in un’era profondamente individualista e tecnologica, ciò è enormemente difficile e la politica perde fiducia e credibilità».
E come se ne esce?
«La politica può commettere errori, perché è umana. Ma la politica è cruciale, perché sostiene le nostre basi democratiche. Senza politica, concederemmo l’istruzione, il welfare, la sanità e i nostri diritti ai gruppi più forti e spietati di un Paese. E qui arriviamo al punto: la politica, quella libertaria, deve capire che può sopravvivere solo se torna a dare un messaggio di fiducia, di uguaglianza e soprattutto se torna a vivere come vive la maggioranza della popolazione. Quando la politica assume valori e forme dei settori più potenti o aristrocratici della società, muore. E ipoteca la democrazia».
In questo contesto, la sinistra, di cui lei è mito contemporaneo, è agonizzante in Occidente.
«La sinistra ha innanzitutto un peccato originale: si spacca, sempre e ovunque. Questo nella Storia ha favorito personaggi come Franco, Mussolini e Hitler. I quali però erano molto popolari nelle classi medio-basse, un po’ come i leader populisti oggi. Ma non possiamo dare la colpa agli operai se oggi la sinistra non riesce ad arrivare a loro: non li stiamo rappresentando. In America Latina, per esempio, siamo riusciti ad aumentare i consumatori, ma non i "cittadini".
Per rinascere, la sinistra oggi non deve solo pensare allo sviluppo economico, ma deve farsi carico della felicità umana, due cose che spesso non coincidono. E poi deve tornare a osare. La sinistra ha spesso contribuito a generare civilizzazione, diritti, e non si è mai accontentata. Questa dovrebbe essere ancora oggi la sinistra».
Lei però ha mollato, si è dimesso.
«Ma io non rinuncerò mai alla politica, anche se adesso sono un po’ stanco. Non posso rinunciare all’aria che respiro. Farò quel che posso, darò consigli, come tutti i vecchi».
La passione politica e le persecuzioni che negli anni ha subito dalla dittatura le hanno fatto trovare l’amore della sua vita Lucía Topolansky (oggi vicepresidente uruguaiana, ndr), ma non le hanno permesso di avere figli, per esempio.
« Volevo cambiare il mondo e non sono riuscito ad avere nemmeno un figlio... certo, questo mi ha segnato. Ma è un prezzo da pagare in una vita molto intensa. Noi essere umani abbiamo molta più capacità di sognare che di raggiungere risultati. È il difetto e la virtù dell’uomo».

La Stampa 26.8.18
Usa, via gli aiuti ai palestinesi
Olp: i ricatti non ci fanno paura
di Paolo Mastrolilli


Trump ha deciso togliere oltre 200 milioni di dollari in aiuti per i palestinesi, destinati a progetti umanitari a Gaza e in Cisgiordania. Una nuova iniziativa, dopo il taglio dei fondi per la United Nations Relief and Works Agency di gennaio, finalizzata ad aumentare la pressione sull’Autorità guidata da Abbas in vista della possibile presentazione di un piano di pace elaborato dal genero Jared Kushner. L’annuncio è stato fatto venerdì dal dipartimento di Stato, a seguito di una revisione delle pratiche di assistenza richiesta dal capo della Casa Bianca. Fonti diplomatiche hanno aggiunto che ora Foggy Bottom lavorerà con il Congresso per determinare la nuove priorità politiche a cui destinare i fondi risparmiati. Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell’Olp, ha risposto che l’amministrazione Usa sta usando «il gretto ricatto come strumento politico. Il popolo palestinese e la leadership non si lasceranno intimidire e non soccomberanno alla coercizione». L’ambasciatore a Washington Zomlot ha aggiunto che «usare gli aiuti umanitari e per lo sviluppo come armi non funziona».
I rapporti tra l’amministrazione Trump e la leadership palestinese sono precipitati dopo la decisione della Casa Bianca di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferire l’ambasciata. Questo ha di fatto paralizzato i colloqui sulla proposta di pace a cui stanno lavorando Kushner, il consigliere Greenblatt e l’ambasciatore Friedman. A gennaio gli Usa avevano ridotto di 65 milioni di dollari il loro contributo da 125 milioni all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu fondata nel 1949 per assistere i rifugiati palestinesi costretti a lasciare le loro case. Il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton ha definito questa struttura «un meccanismo fallito», mentre Kushner aveva scritto in mail pubblicate da Foreign Policy che «è importante avere un onesto e sincero sforzo per demolire l’Unrwa», perché «perpetua lo status quo, è corrotta, inefficiente, e non aiuta la pace». Ora segue il taglio agli aiuti umanitari e per lo sviluppo.
Kushner sta ancora lavorando ad un piano di pace, con l’appoggio dell’Arabia Saudita, ottenuto in cambio del mutamento di linea verso l’Iran. Era circolata anche l’ipotesi di presentarlo durante la prossima Assemblea generale dell’Onu, ma i palestinesi si oppongono. Greenblatt ha incontrato in segreto il figlio di Abbas, Tarek, che gli ha detto di non ritenere più possibile la soluzione dei «due Stati», perché gli insediamenti israeliani l’hanno resa impraticabile. Lui chiede invece un solo Stato, con diritti uguali per tutti i cittadini. Trump però avrebbe detto al re giordano Abdullah che questa ipotesi, per ragioni demografiche, «porterebbe all’elezione di un premier israeliano di nome Mohammed».

Repubblica 26.8.18
Israele, il ricatto di Kushner "Niente soldi ai palestinesi"
Il genero del presidente, incaricato del piano di pace, dietro alla scelta di tagliare 200 milioni di dollari di aiuti a Gaza e Ramallah, che rifiutano di collaborare con lui
di Francesca Caferri


L’avvertimento era sul tavolo da tempo. Lo aveva lanciato Donald Trump in persona, ovviamente via tweet, già a gennaio: « Diamo ai palestinesi centinaia di milioni di dollari ogni anno e non ci rispettano. Perché dobbiamo continuare?» . Alle parole erano presto seguiti i fatti, con il congelamento dei fondi per l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi. Ma la situazione sul campo non era cambiata, anzi semmai dal punto di vista degli americani era peggiorata. Così qualche settimana fa era arrivato l’ultimatum di Jared Kushner, genero del presidente e incaricato di elaborare un piano di pace regionale: «Israeliani e palestinesi devono fare degli sforzi per incontrarsi a metà strada, ma non sono affatto certo che il presidente Abbas voglia farlo».
A stretto giro, anche questa volta sono arrivati i fatti: venerdì sera, il dipartimento di Stato americano ha annullato 200 milioni di dollari di aiuti destinati ai palestinesi. «Su richiesta del presidente, reindirizzeremo più di 200 milioni originariamente previsti per programmi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza: questo denaro ora andrà a programmi ad alta priorità altrove», ha detto ai giornalisti un alto funzionario del Dipartimento di Stato. La scelta «tiene conto delle sfide che la comunità internazionale deve affrontare per fornire assistenza a Gaza, dove Hamas mette in pericolo la vita dei cittadini e deteriora una situazione umanitaria ed economica già disastrosa», ha concluso l’uomo.
La mossa non è arrivata a sorpresa: i rapporti fra i palestinesi e l’Amministrazione Trump sono gelidi, con Ramallah che rifiuta di riconoscere il ruolo di mediatore di Washington dopo la decisione di Trump di spostare a Gerusalemme l’ambasciata americana in Israele, riconoscendo la città contesa come capitale dello Stato ebraico.
Da mesi inoltre i fondi del dipartimento di Stato destinati agli aiuti internazionali sono nel mirino: ultimo taglio annunciato, quello dei programmi di assistenza alla Siria. Ma questa volta il quadro è più complesso: perché tocca un tasto delicatissimo, come quello dei rapporti fra Israele e i palestinesi, ma anche perché la decisione, spiega la ben informata Radio pubblica NPR, è stata presa direttamente da Kushner. E per questo, denunciano i palestinesi per bocca del loro inviato a Washington Husam Zomlot, ha il sapore del ricatto.
Dopo più di 18 mesi di lavoro insieme all’inviato speciale per il Medio Oriente Jason Greenblatt, infatti Kushner non ha ancora ufficializzato il tanto atteso piano di pace: causa principale del ritardo, secondo gli analisti, è il rifiuto dei palestinesi di accettare lo spostamento della loro capitale ad Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme, invece che nella parte Est della città.
Per risolvere lo stallo, Kushner e Greenblatt nei mesi scorsi avevano deciso di ignorare il governo di Ramallah che controlla i Territori, e di concentrare sforzi — e finanziamenti — su Gaza, con la speranza che un miglioramento delle condizioni di vita nella Striscia — dove vivono due milioni di persone — avrebbe spinto la leadership palestinese a miti consigli.
Così non è stato, anzi il riaccendersi della violenza ha messo gli uomini di Trump a confronto diretto con Hamas, il gruppo islamista che controlla la Striscia. Con una mossa inedita, i due negoziatori avevano scritto editoriali sulla stampa per sottolineare la necessità che Hamas fermasse ogni violenza verso Israele se voleva che gli aiuti americani continuassero ad arrivare. L’appello non ha avuto successo: così è seguito, implacabile, il taglio degli aiuti.

Corriere 26.8.18
La paura delle yazide: «Chi ci ha torturato ora è in Europa»
Dopo il racconto della giovane che ha ritrovato il suo carceriere in Germania, altre donne denunciano
di Marta Serafini


Non c’è solo Ashwaq. Sarebbero almeno dieci le yazide che, in Germania, si sono trovate faccia a faccia con i loro carnefici dell’Isis. A denunciarlo con un’inchiesta è stato ieri ilDaily Telegraph. Il punto di partenza è la storia — incredibile — che una giovane yazida ha raccontato ai media e di cui abbiamo dato notizia anche sul Corriere. Fuggita dall’Iraq, dopo essere stata venduta a un miliziano di Isis che l’ha stuprata e seviziata per mesi, una volta arrivata vicino a Stoccarda, l’ha incontrato davanti al supermercato sotto casa. Denunciato l’accaduto non è riuscita a far arrestare l’uomo e ha deciso di far ritorno in Iraq.
Secondo gli attivisti yazidi e siriani presenti in Germania quello di Ashwaq non è un caso isolato. Dopo l’assalto a Sinjar nell’agosto del 2014 si stima che almeno 1800 giovani siano state rapite e seviziate dall’Isis. Una volta riuscite a fuggire o dopo che la famiglia ha pagato il loro riscatto, in 60 mila hanno trovato rifugio in Europa. In Germania decine di loro si trovano proprio nella zona di Stoccarda dove sono stati avviati di programmi di supporto per 95 milioni di euro. Ma ancora una volta queste giovani rischiano di non sentirsi al sicuro e, anzi, rivivono i loro incubi peggiori, come confermato al Telegraph da Jan Kizilhan, psicologo che assiste le yazide in Germania.
Ma come è potuto succedere che questi criminali godano degli stessi diritti delle donne che hanno torturato? «In Europa sono fuggiti o rientrati almeno 900 membri di Isis», spiega alCorriere Aghiad Al Kheder, originario di Deir Ezzor in Siria, e ora portavoce dell’associazione Sound and Picture. Alcuni affiliati al gruppo terroristico hanno rubato l’identità ad altri siriani e hanno fatto richiesta di asilo approfittando della politica delle porte aperte di Angela Merkel. Altri ancora sono arrivati illegalmente mentre un terzo gruppo è rappresentato dai returnees, i foreign fighters che hanno combattuto in Siria e poi sono tornati in Germania. Per quest’ultima categoria il governo di Berlino non prevede la revoca della cittadinanza. A far sperare la comunità yazida, d’altro canto, è il fatto che la Germania è uno dei pochi Paesi che permette di procedere contro un soggetto per reati commessi al di fuori della sua giurisdizione.
Ed è proprio dalla Germania che gli yazidi fanno partire le denunce contro i jihadisti per portarli, un domani, di fronte alla Corte dell’Aja.

il manifesto 26.8.18
Matthiae: il mio leggendario Vicino Oriente, prima della guerra
Storia dell'archeologia. Sostenuto da una passione ancora vivissima, in «Dalla terra alla storia» (Einaudi) Paolo Matthiae racconta le principali scoperte di scavo tra XIX e XX secolo, alla ricerca delle civiltà «preclassiche»
Scoperta della statua in pietra nera di un principe di Mari (attuale Siria), XIX sec. a. C.
di Valentina Porcheddu


Dal 2015 i siti archeologici del Medio Oriente sono balzati sui media internazionali per effetto delle violente e perlopiù irreversibili distruzioni compiute dallo Stato Islamico. Il caso più emblematico è rappresentato da Palmira, attrazione turistica per eccellenza della Siria fino allo scoppio del conflitto nel 2011. L’immediata identificazione dei monumenti della cosiddetta Sposa del deserto nelle radici greco-romane sta alla base dell’ondata emotiva provocata in Occidente in seguito all’abbattimento dei templi di Bel e Baalshamin, delle torri funerarie e di altri significativi edifici. Al contrario, città di straordinaria importanza quali Nimrud in Iraq sono state rase al suolo dall’Isis senza suscitare empatia alcuna.
Senso di familiarità
Nel suo recente Dalla terra alla storia (Einaudi «Saggi», pp. 567, euro 48,00), Paolo Matthiae sostiene che nell’immaginario comune sia proprio l’identità l’aspetto maggiormente fascinoso degli scavi archeologici e delle prospezioni sul terreno. D’altra parte, l’archeologo militante ha l’abitudine di formulare l’interpretazione delle sue scoperte in funzione del senso di familiarità che esse gli ispirano, processo che innesca inevitabili mistificazioni, in quanto il rifiuto dell’alterità preclude lo studio delle culture del passato nei loro caratteri distintivi. Il sempiterno confronto con i valori dell’impero romano nonché l’applicazione di definizioni anacronistiche come «democrazia sumerica» o «borghesia babilonese» distorce una realtà comprensibile solo se inserita nel contesto d’origine. L’obiettivo perseguito da Matthiae con questo corposo volume, scritto sul filo di una passione che non accenna a spegnersi, è dunque di raccontare scoperte leggendarie effettuate nel Vicino Oriente tra XIX e XX secolo, con un’attenzione particolare all’epoca contemporanea. È infatti negli ultimi cinquant’anni che, grazie al progresso delle tecniche di scavo e al coinvolgimento di archeologi locali, le civiltà preclassiche dell’Oriente hanno riconquistato un posto di rilievo nella storia universale. Il rigore scientifico con cui l’autore affronta le tematiche scelte – il testo è suddiviso in dodici sezioni e spazia dal regno dei faraoni alle tombe delle regine di Assiria, dalle sorprendenti pitture minoiche di Avaris, capitale degli Hyksos, alla favolosa eco del Tempio di Salomone a Gerusalemme –, assieme a una visione che abbraccia diverse discipline, assicura una lettura ricca di dettagli (ben curato anche l’apparato grafico) seppur impegnativa. Il libro ha anche il merito di tenere alta l’attenzione su luoghi che rischiano di scomparire per il perdurare della guerra civile in Siria.
Fra questi non poteva mancare Tell Mardikh, circa cinquantacinque chilometri a sud di Aleppo, alla cui conoscenza Matthiae ha consacrato la sua carriera restituendo alla comunità scientifica e civile una città di cui per secoli si erano perse le tracce: Ebla. L’istituzione di una missione archeologica italiana a Tell Mardikh per conto dell’Università La Sapienza di Roma nell’ormai lontano 1964 si deve alle potenzialità dell’insediamento, suscettibile di aprire nuovi orizzonti su una cultura urbana periferica alla Mesopotamia e indipendente rispetto al mondo paleobabilonese. Decisiva, a questo proposito, era stata l’esplorazione di Alalakh (attuale Tell Atshana) condotta tra il 1936 e il 1949 da Leonard Woolley successivamente all’epica impresa dello scavo di Ur. L’archeologo inglese – insignito, come Arthur Evans, del titolo di baronetto – riportò infatti alla luce nella piana di Antiochia un centro urbano sorto durante il II millennio a.C. tra l’Eufrate e il Mediterraneo, all’ombra dell’antica Aleppo.
L’estensione di Tell Mardikh (quasi sessanta ettari) faceva presagire, invece, un’influenza politica di importanza non secondaria mentre la sua morfologia – un’area ellissoidale tripartita in acropoli, città bassa e cinta muraria – tradiva la presenza di un tessuto urbano connesso a una forte complessità sociale. I primi scavi permisero di stabilire una successione cronologica degli stanziamenti, collocando il periodo di massima fioritura nella prima metà del II millennio a.C., e di mettere in evidenza strutture architettoniche quali il Tempio di Ishtar, pregevole antecedente del celebre Tempio di Gerusalemme attribuito a Salomone. La prima scoperta eclatante avvenne nel 1968, quando il rinvenimento di un torso acefalo di una statua reale in basalto con un’iscrizione votiva in akkadico sciolse l’enigma sul nome antico del sito: l’ignoto Ibbit-Lim, che dedicava la scultura alla dea Ishtar, si proclamava re di Ebla.
Ma è dalle indagini sistematiche nel cosiddetto Palazzo Reale G, prottratesi per ben quarantasei anni fino al 2010, che sono arrivati risultati rivoluzionari per lo studio delle lingue e delle società mesopotamiche: tra il ’74 e il ’76 emersero infatti circa quattromila tavolette cuneiformi appartenenti agli Archivi Reali. Gli oggetti si trovavano in situ, disposti nei vani per la conservazione e sigillati dallo strato di distruzione della città risalente al regno di Sargon di Akkad. Dall’arresto forzato delle ricerche a Tell Mardikh non si hanno notizie certe sullo stato di conservazione dell’antico abitato, seppur lo stesso Matthiae non abbia nascosto in occasione di dibattiti pubblici l’elevato rischio di degrado delle fragili costruzioni in mattoni crudi.
Il conflitto siriano
Fra i progetti interrotti a causa del conflitto siriano vi sono anche il completamento degli scavi nel Tempio del dio della tempesta ad Aleppo e la sua difficile musealizzazione, finalizzata a proteggere le rovine e a organizzarne al meglio la fruizione. La straordinarietà di questo monumento, oggetto di uno dei capitoli più seducenti del libro, deriva non già dall’imponenza dei suoi resti quanto dall’essere incastonato nella Cittadella, scrigno di cinque millenni di storia cantati da poeti e viaggiatori. Sovrastato da testimonianze architettoniche ellenistiche, romane, medievali e moderne dai tempi degli emiri hamdanidi e ayubbidi all’età mamelucca e al periodo ottomano, il tempio preclassico della divinità della tempesta riemerse durante gli scavi della Missione archeologica siro-tedesca nel 1996. Nel ripulire il vecchio sondaggio intrapreso da Georges Ploix de Rotrou, dal ’29 al ’41 conservatore del Museo archeologico di Aleppo, Kay Kohlmeyer e Wahid Khayyata si resero conto che il nobile francese aveva raggiunto la faccia posteriore di una lastra in posto – la prima di una lunga serie di lastre databili al 900 a.C. – senza accorgersi che sulla faccia anteriore recava un rilievo con due tori affrontati ai lati di una pianta sacra. Fino al 2010, in quindici anni di scavi, nei quali si raggiunse una profondità tra i sei e gli otto metri dal livello attuale della Cittadella, venne così riportata alla luce gran parte della cella dell’edificio di culto con una sontuosa decorazione scultorea di epoche differenti, fondamentale soprattutto per la conoscenza della cultura figurativa neosiriana.
Negli anni settanta del Novecento un altro santuario, fondato secondo il mito dal dio solare Shamash a Sippar nella regione settentrionale della Babilonia, ha riservato la scoperta di una biblioteca costruita su tre livelli sovrapposti e formata da una cinquantina di scomparti della profondità di 70 cm realizzati con vimini impastato di fango. Il tempio di Ebabbar, la «Casa risplendente», del VII-VI secolo a.C. con il suo lascito di saperi – le tavolette rinvenute spaziano da testi letterari a composizioni poetiche fino a opere di carattere religioso o mantico – insegna che l’archeologia, anche quella più distante dal «gusto» occidentale, riconduce sempre ai bisogni e alle aspirazioni più sublimi dell’uomo. Il libro di Matthiae è un invito ad addentrarsi nell’intricato ma luminoso cammino delle civiltà orientali, affinché rinascano a ogni ricordo.

Corriere 26.8.18
La nuova serie dedicata ai fondamenti della conoscenza
Un sapere che non si piega alle apparenze e mette tutto in discussione
La filosofia serve ma non è servile Vuole capire e cambiare la realtà
di Mauro Bonazzi


La coraggiosa lezione dei Greci per spazzare via arroganza e pregiudizi
«L’eredità lasciata dalla Grecia alla filosofia occidentale è la filosofia occidentale». Molti anni fa lo storico Moses Finley chiese ad alcuni eminenti colleghi di riflettere su quello che la nostra civiltà ha ereditato dal mondo antico. La lista è lunga: dalla democrazia al teatro, molte delle istituzioni e tradizioni che regolano le nostre vite sono nate proprio in Grecia, qualche millennio fa. Vale anche per la filosofia, naturalmente. Con una particolarità, però, che evidenziava Bernard Williams, uno dei più importanti pensatori di questi ultimi anni, nella frase appena citata. Non si tratta soltanto di ricordare che la filosofia si è formata in Grecia per poi svilupparsi altrove. In filosofia non ha senso parlare di progressi o evoluzioni. L’eredità della filosofia greca è la filosofia, semplicemente: siamo sempre lì. Il problema è capire che cosa sia la filosofia.
Una delle prime occorrenze del termine si trova in uno storico, Erodoto, quando parla di Solone, un poeta, e dei viaggi che aveva compiuto alla scoperta del mondo mediterraneo. Per questo Erodoto lo chiama philosophos. Per Pericle, il grande politico ateniese, philosophoi erano addirittura tutti gli Ateniesi, sempre pronti ad andare a teatro e sempre curiosi di ogni novità. Per Eraclito, invece, era un insulto: philosophoi sono quelli che si perdono dietro al vano desiderio di erudizione e non capiscono le poche cose che contano. È curioso: uno dei primi filosofi rifiuta con sdegno la parola, che invece altri sono ben contenti di usare. Per fare un po’ di ordine, bisognerà aspettare Platone.
Che cosa significa philosophia? La risposta è semplice: un desiderio, un amore (philo-) per il sapere e la conoscenza (sophia). Sembra banale: siamo animali razionali, è evidente che l’uso del cervello, la conoscenza e il sapere, siano importanti per la nostra vita. Diventa meno banale quando ci rendiamo conto che conosciamo molto meno di quello che pensiamo. Philosophia è il desiderio di sapere. Ma il desiderio è sempre di quello che non si ha. E infatti su ciò che davvero conta non sappiamo anzi quasi nulla: chi siamo? Da dove veniamo e dove andiamo? Che cos’è la giustizia: esiste o è una semplice convenzione? E Dio o l’amore?
Non si tratta di problemi astratti o polverosi, come spiega Socrate a Trasimaco. Se non sappiamo cosa è bene e cosa è male, è difficile pensare di poter vivere felicemente. Ancora peggio: se crediamo di sapere e invece non sappiamo, se crediamo che sia bene qualcosa che è male, l’infelicità è assicurata. Non resta dunque che riflettere e ragionare, liberandoci delle convinzioni infondate, cercando ciò che davvero importa. L’ambizione della filosofia è imparare, e insegnare, a pensare bene per vivere bene.
Non è un compito facile e a volte sembra che si giri a vuoto con discussioni inconcludenti. Non stupisce allora che fin dai tempi di Platone l’obiezione sia sempre la stessa: filosofare non serve a nulla. Da un certo punto di vista è così: ed è la grandezza della filosofia. La filosofia non serve a nulla, perché non è un sapere servile, perché non si piega alla realtà, accettandola come viene presentata: la mette in discussione pensando a nuove soluzioni e alternative, ricordandoci che le cose potrebbero andare diversamente da come vanno, e magari pure meglio. Senza però, e questo è il punto più importante, voler imporre nulla a nessuno.
Era la lezione di Socrate, il filosofo per eccellenza per tutti (o quasi: Epicuro lo considerava un insopportabile trombone). Interrogava le persone che incontrava, mettendone alla prova il sapere (spesso più apparente che reale), cercando di liberarle dai pregiudizi. Ma non si pretendeva in possesso di alcuna verità: sapeva di non sapere. Criticava senza offrire risposte definite. Aiutava a mettere a fuoco i problemi e le domande; invitava a pensare, riflettere, ragionare. Ognuno poi, ciascuno singolarmente preso e ogni generazione nel suo insieme, avrebbe dovuto trovare la propria risposta. È la sfida più bella. Sarebbe un peccato non accettarla.
Per farlo bisogna evitare un errore decisivo. Tutti siamo naturalmente filosofi, perché i problemi della filosofia sono i problemi di tutti. Ma dobbiamo anche imparare a filosofare, vale a dire a ragionare, che è meno facile di quanto si creda. Per ragionare bene bisogna prima comprendere di che cosa si discute, quali sono le vere questioni, e come possono essere affrontate. A questo servono manuali, dizionari e storie, quando sono fatti bene. E per questo vale la pena, ancora oggi, di dedicarsi a Eraclito e Parmenide, Platone e Aristotele, Epicuro e gli Stoici, con le loro idee originali, a volte strampalate ma sempre appassionanti.
Tanto, piaccia o non piaccia, della filosofia non si può fare a meno, spiegava Aristotele: «Chi pensa che sia necessaria la filosofia, farà filosofia; e chi pensa che non sia necessaria, dovrà comunque filosofare per dimostrare che non si deve filosofare: dunque si deve filosofare in ogni caso, o andarsene di qui dando l’addio alla vita, perché tutte le altre cose sono solo chiacchiere e vaniloqui». Se lo dice lui…

Corriere La Lettura
La fine cell’Europa
Crear la moneta unica è stata una scelta tutta politica e molto presuntuosa che ha inasprito differenze e diffidenze tra i Paesi membri.
Le elezioni del 2019 vedranno crescere nazionalisti e populisti in tutta l’Ue, che rischia di diventare terreno di conquista per Usa, Cina e Russia. Difendere
la valuta comune non basta più
di Danilo Taino


Una cosa è chiara: uscire dall’euro sarebbe un disastro, per qualsiasi Paese, Italia in testa. Un’altra cosa, però, è chiara, anche se quasi sempre la si spazza sotto il tappeto: la moneta unica ha fallito la missione di unire l’Europa. Il risultato di queste due evidenze è che l’Unione Europea è in una gabbia nella quale probabilmente resterà rinchiusa per anni… se le cose andranno bene: perché potrebbe succedere di peggio. E che avrà un ruolo passivo — se addirittura non diventerà terreno di conquista — nello stabilire un nuovo ordine internazionale in questa era di competizione tra grandi potenze. Riassunto: l’europeismo degli scorsi tre decenni, dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, è stato un flop storico le cui conseguenze non sono facili da immaginare.
Affrontare la crisi dell’Europa — profonda e conclamata — significa cercare di pensare out of the box, fuori dagli schemi che da anni costringono la conversazione politica su binari obbligati, con emarginazione del dissenso. Schemi che oggi risultano non solo datati, ma soprattutto sconfitti dall’ondata di nazionalismi e di populismi irrazionali che attraversano il Vecchio Continente. Le elezioni per il Parlamento europeo dell’anno prossimo saranno un passaggio cruciale nella ridefinizione del dibattito sul futuro della Ue e dell’Europa.
Lo scorso giugno, il commentatore economico capo del «Financial Times», Martin Wolf, ha scritto un articolo piuttosto «forte» che in Italia (ma anche a Bruxelles) è stato lasciato cadere, poco notato e discusso. Un peccato. Iniziava così: «L’euro è stato un fallimento». In sostanza, Wolf condivideva quanto aveva scritto, sempre in giugno, Andreas Kluth sul quotidiano tedesco «Handelsblatt»: «Si supponeva che una valuta comune avrebbe unito gli europei. Invece li divide sempre di più». Le due citazioni servono a dire che anche nel cuore degli establishment britannico e tedesco — forse i più rilevanti quando si tratta di analizzare le vicende economiche e politiche europee — la saggezza della scelta di creare l’euro inizia a essere messa in discussione. Nei motivi, nei modi e nei tempi con cui è stata realizzata.
Ashoka Mody, un docente che insegna all’università di Princeton, ha da poco pubblicato un libro che ripercorre la nascita dell’euro e sta facendo onde alte, Euro Tragedy (Oxford University Press, pagine 672, $ 34.95). Una delle convincenti ricostruzioni che ne emergono è che la moneta unica non fu affatto una decisione fondata su analisi economiche, sulla presunta necessità di una valuta comune per garantire il mercato unico. E ancora meno fu una macchinazione delle banche e della finanza, come alcuni sostengono. Fu pienamente una scelta politica. Perseguita per primi dai francesi già negli anni Settanta, che volevano agganciare il marco tedesco al loro franco (più debole). Sin dagli inizi, molti economisti avvertirono che senza un’unione fiscale, dei bilanci dei diversi Paesi membri, e quindi senza una conseguente unione politica, la nuova valuta non avrebbe funzionato. La Germania resistette a lungo all’idea. Cedette solo quando il cancelliere Helmut Kohl accettò ciò che il presidente francese François Mitterrand pretendeva: una moneta unica per legare il marco al franco e al resto delle valute europee in cambio della riunificazione tedesca seguita alla caduta del Muro di Berlino, riunificazione che spaventava un po’ tutti per la forza che la nuova Germania avrebbe avuto.
Nonostante le opposizioni della Bundesbank e di buona parte dell’establishment tedesco, Kohl procedette, ovviamente senza l’impossibile unione fiscale e politica. E di fatto impose, sempre per ragioni politiche, anche l’ingresso dell’Italia nell’euro sin dalla sua creazione, altro motivo di conflitto con l’ortodossia monetaria prevalente in Germania. L’euro fu insomma una creazione del tutto politica, fondata sull’idea che unificare le valute avrebbe fatto convergere le economie e diretto verso l’unione politica. Teoria che più o meno somiglia al credere di potere guidare un cane tenendolo per la coda. Le crisi finanziarie del 2008 e degli anni seguenti hanno messo a dura prova la costruzione voluta da Mitterrand e Kohl (rifiutata da Margaret Thatcher e dai successivi governi britannici). Con il risultato che le divisioni tra i Paesi membri sono aumentate invece di diminuire: tra Nord e Sud del continente, tra creditori e debitori, tra formiche e cicale, tra internazionalisti e nazionalisti. E naturalmente sono cresciute le divisioni tra chi era nell’euro e chi no: di fatto innescando un processo di divergenza politica che poi ha portato alla Brexit. Anche l’esperimento di straordinario successo del mercato unico, incompleto ancora oggi, non è stato aiutato dalla moneta comune: probabilmente le tensioni sollevate da quest’ultima lo hanno anzi relegato in secondo piano.
Dall’inizio degli anni Novanta, gran parte delle energie mentali e politiche dell’Europa sono dunque state dedicate all’euro, alla sua costruzione prima e a preservarlo dalla sua crisi poi. Questa è una delle ragioni, non l’unica, per le quali la Ue si concentra da anni su se stessa. L’Eurozona e per simpatia la Ue sono state vittime prima dalla hybris per la quale ritenevano di stare costruendo qualcosa di unico nella storia, poi dal quasi panico per i piedi d’argilla dell’intera costruzione, salvata dall’attivismo della Banca centrale europea e dall’unica possibilità che restava, a crisi scoppiata, cioè imporre la medicina della convergenza economica e finanziaria: a Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e anche Italia.
Nella battaglia per salvare l’euro c’è insomma stato un peccato di presunzione che ha sostenuto l’ideologia della Ue di oggi (a differenza di quella pragmatica delle origini): l’idea di essere non solo un esperimento unico nella storia, cosa che effettivamente è, ma di essere centrale nel mondo, un modello che avrebbe potuto essere replicato altrove. Fondato sulla tendenziale estinzione degli Stati senza sostituirli con altre legittimazioni democratiche; sull’idea che sia stata solo la volontà degli europei a garantire decenni di pace in un continente in passato violento, tesi che sottovaluta il ruolo dell’America e della Nato; sul ritenere i valori usciti dal Sessantotto l’essenza dello spirito europeo; sull’illusione di essere ancora il centro del pianeta quando la globalizzazione stava rovesciando i tavoli: in sostanza sulla presunzione di poter vivere contando solo sul proprio brillante soft power, sulla convinzione che il resto del mondo avrebbe copiato il modello europeo.
Il problema è che l’Europa non è più da tempo il centro del mondo. La lunga fase d’ordine mondiale ricalcato sul modello eurocentrico iniziata con la pace di Westfalia (1648), come ha ben spiegato Henry Kissinger, è arrivata alla fine, al momento sostituita da un disordine globale. La capacità di attrazione del modello europeo è sempre minore. Persino all’interno della Ue i Paesi ex socialisti dell’Est tendono a non riconoscersi in esso. In Europa c’è una divisione tra imitati e imitatori che è in crisi, ha scritto in luglio il politologo Ivan Krastev sulla rivista «Foreign Policy»: «La vita degli imitatori (i Paesi dell’Est, ndr) inevitabilmente mixa sentimenti di inadeguatezza, inferiorità, dipendenza, perdita d’identità e involontaria insincerità. Gli imitatori non sono mai persone felici. Non possiedono mai i loro successi, possiedono solo i loro fallimenti». E non funziona cercare di «comprarli» con i fondi di coesione di Bruxelles.
In un mondo nel quale evapora l’idea di essere un modello pacifico per gli altri, l’Europa si trova a dovere fare i conti con la competizione tra grandi potenze che sì usano il soft power (quando ce l’hanno), ma che oggi si confrontano tra loro con i muscoli dell’economia e delle sanzioni, spesso con la negazione della democrazia, con l’esaltazione del nazionalismo e soprattutto combattono per essere il cuore di un nuovo ordine internazionale nel quale la forza militare ha un grande ruolo. Di fronte a Donald Trump, a Vladimir Putin, a Xi Jinping, ma anche più in piccolo al turco Recep Tayyip Erdogan e all’iraniano Ali Khamenei, i leader europei, Angela Merkel, Emmanuel Macron e gli altri continuano a giocare le carte dell’attraente, grande mercato interno della Ue e del giusto rispetto delle regole internazionali. Ma appaiono deboli.
Non è obbligatorio essere superpotenze: si potrebbe ritenere meraviglioso che l’Europa diventasse una grande Svizzera, ricca e neutrale: per molti versi già lo è. Il guaio è che gli altri non sembrano essere d’accordo. Nel caos globale odierno, il Vecchio Continente rischia di essere il trofeo prezioso nella lotta tra un’America confusa e sempre più lontana dalla dimensione atlantica e una Cina che immagina una «sua» Eurasia, cuore dell’ordine mondiale futuro, nella quale l’Europa sarebbe la penisola occidentale di un super-continente dominato da Pechino. Wess Mitchell, assistente segretario di Stato per gli Affari europei ed euroasiatici nell’amministrazione Trump, sostiene che «l’Europa è incontestabilmente un posto di competizione geopolitica» e che questo dato di fatto «l’America lo deve prendere seriamente».
Anche l’Europa lo dovrà prendere molto sul serio. Se non vuole che i suoi errori, diventati debolezze, diventino anche assoggettamento a un nuovo mondo illiberale e pericoloso. Difendere l’euro non basta più.

Corriere La Lettura 26.8.18
Oblìo
Polacchi, cechi e ungheresi: cresce l’insofferenza per i valori democratici
I Paesi dell’Est scordano le lotte per la libertà
di Federigo Argentieri


Il giovane nonno e leader ungherese Viktor Orbán — la cui figlia maggiore si è fatta beccare mentre gettava un pannolino sporco per terra in Croazia, mettendo così in pratica il sovranismo ambientale (tenere pulito solo in casa propria) — ha assunto ufficialmente nelle scorse settimane la guida della destra continentale, sia dell’Est che dell’Ovest: convinto che le elezioni europee del 26 maggio prossimo rappresenteranno un’occasione unica per ottenere la maggioranza e rimodellare l’Unione Europea a proprio piacimento, si è già candidato a presiederla.
Molti sono gli elementi a favore di questa ipotesi. In ordine sparso, il sostegno da parte di Trump e Putin; lo stato di quasi completo disorientamento in cui si trovano le forze liberali, democristiane e socialdemocratiche costruttrici dell’Europa; ma soprattutto il fatto che Orbán è sempre riuscito a giocare d’anticipo sui suoi avversari, sia a Budapest e nella regione che a Bruxelles. Tanto per dare qualche segnale, ha proseguito imperterrito l’opera di riportare la capitale ungherese a come era fino al 18 marzo 1944, non esitando a spostare il monumento a Imre Nagy, leader della rivoluzione del 1956, dalla piazza del Parlamento alla riva del Danubio, in ossequio al principio secondo cui anche un comunista «buono» resta pur sempre un comunista.
A questo proposito, anche a Praga l’anniversario dell’invasione del 1968 è stato celebrato in sordina, con alti livelli di disaffezione nonché di ignoranza da parte di molti cittadini cechi, slovacchi ed europei (per non parlare dei russi). Per chi ritiene la Primavera di Praga una parte integrante del patrimonio democratico del continente, questa è un’altra brutta notizia, non sufficientemente compensata dall’esistenza nella capitale ceca di un eccellente e rinnovato Museo del comunismo che, contrariamente ad altri nella regione, è altamente istruttivo ed esauriente.
La battaglia è e sarà in primo luogo culturale, tra chi fa leva sulle paure e i pregiudizi e chi vuole ragionare. Per cominciare, bisogna chiedersi perché proprio i tre Paesi — Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria — che combatterono coraggiosamente le dittature comuniste in nome degli ideali europei, oggi guidino la battaglia contro di essi.

Corriere La Lettura 26.8.18
Doppio allarme Italia Siamo l’anello debole
di Michele Salvati


La raccolta di diciannove brevi saggi di ottimi economisti curata per il Mulino da Andrea Goldstein, Agenda Italia 2023, mi ha suggerito la metafora della geriatria: non c’è organo del nostro sistema economico-sociale che non sia intaccato da qualche malanno. I malanni sono tanti, come spesso capita ai vecchi, e aggredirne uno può aggravare gli altri: occorre una strategia, un ordine di priorità, un piano di lungo periodo, soprattutto tempo e pazienza, e in ciò consiste l’arte di questa branca della medicina.
La metafora però finisce qui, perché un corpo sociale, una collettività nazionale, non è un corpo fisico, un individuo, e questo comporta due principali differenze. La prima è ovvia: per quanto abile sia il geriatra e robusto il paziente, nel caso di un individuo il decadimento fisico è destinato inevitabilmente a concludersi con la morte. Non è questo l’esito necessario del declino di uno Stato e di una collettività: ci sono Stati falliti e collettività che si frantumano, ma questi sono eventi rari nei Paesi politicamente ed economicamente avanzati. Invece è probabile che le condizioni di declino si cronicizzino e il Paese entri in un circolo vizioso dal quale è sempre più difficile uscire.
La seconda differenza riguarda le cure e la scelta del medico. Nel caso di un vecchio malandato, il paziente può avere difficoltà nell’identificare il medico adatto, o può mutare opinione in proposito. Ma non v’è dubbio che sta cercando un professionista cui concedere la propria fiducia, e ciò avviene sulla base delle migliori informazioni di cui dispone. Nel caso di uno Stato che versa da tempo in condizioni di declino economico, il medico può essere soltanto un «buon governo» e la ricerca è condotta — stiamo riferendoci a Paesi democratici — attraverso le istituzioni della democrazia. In queste la scelta, da ultimo, è delegata a tutti i cittadini e agli imprenditori politici che ne influenzano le opinioni. Ed è piuttosto difficile che essa produca il migliore governo possibile, quello che dispone della diagnosi più corretta del declino che ha colpito il Paese e del programma più affidabile per uscirne: la democrazia, com’è noto dai tempi degli antichi Greci, non consente scelte su basi scientifico-professionali, prese alla luce di obiettivi di benessere largamente condivisi.
Di qui i sogni ricorrenti di un «governo dei saggi e dei migliori», sogni che inevitabilmente ritornano quando la democrazia liberale e rappresentativa produce governi che non soddisfano le aspirazioni della maggioranza dei cittadini, ciò che ormai avviene da molti anni in non pochi Paesi occidentali.
Meglio questi sogni, naturalmente, che farneticazioni di democrazia diretta mediante referendum continui in rete, ma sia l’ipo-democrazia epistemica — quella dei saggi e dei «migliori» — sia l’iper-democrazia informatica — quella di Davide Casaleggio — non sono in grado di sostituire la democrazia rappresentativa che conosciamo: manipolazioni avventate dei meccanismi di quest’ultima possono solo produrre una seria restrizione dei caratteri liberali dei nostri governi. Ma se un governo ideale è fatto della sostanza dei sogni, un governo accettabile richiede solo che le forze politiche che si alternano al potere abbiano un’idea sufficientemente realistica dei problemi che il Paese deve affrontare per mantenere condizioni di crescita e di benessere: insomma, grosso modo i problemi che la raccolta di Goldstein passa in rassegna per il caso italiano e che altri Paesi sono riusciti bene o male a risolvere.
Non così l’Italia: il nostro è l’unico grande Paese industriale in cui soffrono vistosamente sia il sistema politico — sono al potere forze populiste — sia il sistema economico — il reddito reale pro capite ristagna dall’inizio del XXI secolo. In nessuna delle grandi democrazie con le quali ci confrontiamo questa doppia crisi si manifesta in modo altrettanto grave. Tra le due crisi esiste ovviamente una connessione: il declino economico genera esasperazione politica e favorisce i partiti populisti, e l’incapacità dei governi di risolvere quelli che ho prima indicato come «problemi Goldstein» causa o aggrava il declino. Probabilmente entrambe le influenze sono all’opera. E generano un circolo vizioso da cui è difficile uscire.
È più grave la crisi politica: nessuno dei «problemi Goldstein» è al di fuori dalla portata e dalle capacità di forze tecniche, economiche e politiche di cui l’Italia potrebbe avvalersi. Il problema è che — se si eccettuano brevi periodi e momenti di emergenza — non si riescono a formare governi capaci di utilizzarle. Soprattutto si è rivelato impossibile mantenerle al potere abbastanza a lungo da consolidare una efficace strategia di riforma: dissidi ed errori politici delle forze riformiste, abilità e aggressività di quelle populiste, impazienza e ignoranza degli elettori alla ricerca di soluzioni semplici, rapide e indolori, interrompono troppo presto l’esperimento. E se questo è interrotto prematuramente, il declino è destinato ad aggravarsi e l’esasperazione sociale che l’accompagna può favorire ulteriormente partiti e movimenti che sostengono politiche dannose. A meno che qualche evento traumatico apra gli occhi agli elettori, come la grande sfera dell’impresa di demolizione fece rinsavire gli orchestrali rissosi di Prova d’orchestra, il profetico film di Federico Fellini.
Ma mentre gli effetti dannosi di un trauma — ad esempio, di un’insolvenza dello Stato e di un regime della Troika come nella Grecia del 2015 — sono certi, quelli di un «rinsavimento» sono assai dubbi: è sorprendente come sia facile per i populisti, in un contesto di esasperazione e di nazionalismo, scaricare su cause esterne le conseguenze di guasti di origine interna e antica, e che essi stessi non sanno come affrontare.
L’Italia è oggi l’anello debole di quel sistema di democrazia liberale al quale dobbiamo le straordinarie condizioni di progresso economico, sociale e politico di cui abbiamo goduto in questo dopoguerra. Il sistema è in difficoltà quasi ovunque e dev’essere seriamente riformato, come Yascha Mounk argomenta con intelligenza e passione nel libro Popolo vs democrazia (Feltrinelli). Se cedesse l’anello italiano, questa non sarebbe un’occasione di riforma, ma probabilmente l’inizio di un periodo di turbolenze che si estenderebbero all’intera Europa. E ridurrebbero l’Italia, da orgoglioso protagonista dell’Unione Europea, a un Paese semi-sottosviluppato ai margini di essa. O di quanto ne resterà.

Corriere La Lettura 26.8.18
Usa e Russia finti rivali. Intesa già prima di Trump
di Manlio Graziano


La sfera emotiva di Donald Trump, si sa, è soggetta a repentini sbalzi, che lo portano sovente ad affermare oggi l’opposto di quanto affermato ieri, o anche solo poche ore fa. Però alcuni suoi sentimenti sono inalterabili: la cieca venerazione di sé stesso, per esempio, o, altro esempio, l’infatuazione per Vladimir Putin. Trump ammira e invidia Putin per la sua capacità di governare la Russia con il pugno di ferro, di circondarsi di fidati e tremebondi yesmen e di procedere senza un barlume di pietà contro i suoi oppositori.
Ma l’interferenza dei sentimenti del presidente americano nei confronti del collega russo, come d’altronde l’interferenza del presidente russo nell’elezione del collega americano, non spiegano, di per sé, lo stato attuale delle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Anzi, aggiungono confusione su un argomento intorno al quale si è sollevato il più denso polverone ideologico di tutta la storia delle relazioni internazionali.
Per dirla papale papale: da un punto di vista geopolitico, Stati Uniti e Russia non hanno, e non hanno mai avuto, rivalità dirette. Le rivalità dirette, in geopolitica, sono quelle tra potenze i cui interessi si sovrappongono e si elidono a vicenda: rivalità territoriali (tra Russia e Cina, per esempio, o tra Cina e India), rivalità storiche (tra Cina e Vietnam, o tra Corea e Giappone), rivalità economiche (tra Stati Uniti e Cina, o tra Stati Uniti ed Europa), o un insieme delle tre (tra Cina e Giappone). Stati Uniti e Russia non hanno mai avuto rivalità territoriali, né storiche né tanto meno economiche.
Non avere rivalità dirette non significa, beninteso, non avere alcuna rivalità. L’anima delle relazioni internazionali è la competizione tra gli interessi diversi di tutte le potenze; la rivalità, quindi, è un dato di fatto ineludibile e permanente. Ma non tutti sono rivali allo stesso modo. Non si fa necessariamente la guerra a tutti gli antagonisti; anzi, in alcuni casi, la maniera migliore di disfarsi di un rivale è allearsi con lui.
Nella (breve) storia degli Stati Uniti, il principale antagonista diretto è stato il Regno Unito. La prova empirica a posteriori è che sono gli Usa ad aver soppiantato Londra come potenza egemone mondiale. Certo, l’ultima guerra tra americani e britannici risale al 1815; certo, è stata la protezione garantita dalla flotta di sua maestà che ha permesso nel 1823 al presidente James Monroe di proclamare la sua enfatica (e, all’epoca, irrealizzabile) «dottrina» che mirava a escludere ogni interferenza delle potenze europee nelle Americhe; certo, è in alleanza con Londra che Washington ha piegato i comuni rivali tedeschi e giapponesi. Ma, si noti, in ciascuna di quelle tappe gli Stati Uniti si sono rafforzati e la Gran Bretagna si è indebolita, fino a perdere l’impero. E fino a essere umiliata, dagli Stati Uniti in combutta con l’Unione Sovietica, nella crisi di Suez del 1956. Per tutto l’Ottocento, ha scritto Henry Kissinger, «la Gran Bretagna fu considerata la più grande sfida agli interessi americani, e la Royal Navy la principale minaccia strategica»; ma è anche vero che, fino al 1956, l’America fu la più grande sfida agli interessi britannici, finché Londra dovette prendere atto, come aveva pronosticato l’economista John Maynard Keynes nel 1945, di essere stata ridotta dagli americani a «un ruolo di potenza di seconda classe, come la Francia».
Per tutto l’Ottocento, però, i rivali che inquietarono maggiormente Londra non furono gli americani, ma i russi e i francesi. Nel 1861, il ministro degli Esteri britannico lord Clarendon sarebbe stato felice di sfruttare la Guerra civile per «precipitare la definitiva e irrecuperabile rovina» degli «ex Stati Uniti», ma temeva che Parigi e Pietroburgo ne approfittassero per fare «in Europa qualcosa per noi inaccettabile». La Russia, in effetti, non ha perso nessuna occasione per sostenere gli americani contro gli inglesi: lo fece all’epoca della guerra di Indipendenza, e poi all’epoca della Guerra civile, quando l’ambasciatore di Washington a San Pietroburgo scriveva: «L’Inghilterra non potrà mai essere nostra amica… il nostro amico è in Russia. Verrà un giorno in cui sarà per noi un potente amico».
L’amicizia si consolidò nel 1867, con l’acquisto dell’Alaska da parte di Washington: la Russia ottenne denaro fresco da investire nella sua espansione in Asia ai danni degli inglesi e, soprattutto, ottenne una zona-cuscinetto amica tra un Canada britannico ostile e lo stretto di Bering. Gli Stati Uniti, dal canto loro, crearono le condizioni per un accerchiamento dello stesso Canada, a cui i britannici risposero unificando tutti i loro possedimenti in America del Nord nella forma di Dominion confederale.
È vero che, nella guerra del 1904-1905, il presidente americano Theodore Roosevelt appoggiò il Giappone contro lo zar Nicola II, ma proprio perché sapeva che la Russia poteva essere una carta americana solo a condizione di non diventare troppo potente; e infatti, una volta che i giapponesi ebbero vinto quella guerra, Theodore Roosevelt giocò da «onesto sensale» per impedire a Tokyo di trasformarsi in minaccia per gli interessi americani nel Pacifico.
Durante la Grande guerra, americani e russi si trovarono dalla stessa parte del conflitto; e nel settembre 1918, gli Stati Uniti presero parte all’attacco contro il potere rivoluzionario sovietico, ma, scrive Niall Fergusson, il loro scopo era essenzialmente impedire che i giapponesi ne approfittassero per prendersi la Siberia orientale. L’impegno americano fu «poco convinto», prosegue Ferguson, e anzi il presidente Woodrow Wilson si mostrò «fiducioso» nei confronti del governo bolscevico, e si disimpegnò «al più presto possibile».
A partire dal 1941, con l’attacco della Germania nazista all’Urss, la Russia divenne il «potente amico» dell’America. Scrive Kissinger che Franklin D. Roosevelt «trovò in Churchill un compagno d’armi, ma in Stalin vedeva un partner nella preservazione della pace post-bellica»; al punto di considerare il sanguinario dittatore «un uomo che combina una determinazione tremenda e implacabile con un sano buon umore», «ragionevole, ponderato e comprensivo», e persino «un gentiluomo cristiano». Più delle parole, però, contarono i fatti: gran parte delle operazioni militari americane in Europa ebbe come effetto di favorire l’Urss e danneggiare la Gran Bretagna. La politica della «resa incondizionata», il rifiuto di invadere i Balcani, l’apertura del «secondo fronte» nel punto più lontano dall’Europa centrale, la svogliata conduzione delle operazioni in Italia e, soprattutto, l’ordine di arrestare l’avanzata sulle rive dell’Elba nella primavera del 1945, lasciando ai sovietici il tempo di arrivare a Berlino e Praga, furono tutte decisioni che imbestialirono Winston Churchill e deliziarono Iosif Stalin. Non furono «errori» o «ingenuità», come si è voluto far credere; all’origine di quelle scelte vi era il semplice fatto che l’Europa è, per gli Stati Uniti, un rivale diretto, mentre la Russia non lo è.
George Kennan, l’«inventore» del containment, la strategia americana di contenimento dell’espansionismo sovietico, fece nel 1946 un’impietosa disamina delle misere condizioni in cui versava l’Urss e, prima che la «lotta al comunismo» diventasse il vessillo ideologico della guerra fredda, si lasciò sfuggire che «il marxismo è la foglia di fico della rispettabilità morale e intellettuale» dei dirigenti sovietici, senza la quale essi sarebbero apparsi come «l’ultima incarnazione di quella lunga successione di sovrani russi crudeli e dissipatori che hanno incessantemente spinto il Paese verso nuove vette di potere militare per garantire la sicurezza esterna dei loro deboli regimi interni». L’Urss di Stalin, insomma, era la solita Russia degli zar, come Kennan confermò in un testo del 1970.
Durante la guerra fredda, ogni movimento anticoloniale fu salutato con favore (e sostenuto) tanto da Washington quanto da Mosca. Nel fatidico novembre 1956, mentre le truppe sovietiche schiacciavano nel sangue la rivoluzione ungherese a Budapest, un furente Dwight Eisenhower esigette la fine immediata dell’aggressione… britannica e francese in Egitto; per piegare Londra, bloccò un prestito del Fondo monetario internazionale e si dispose a vendere tutti i titoli di Stato del Regno Unito in mano al governo americano. In meno di 48 ore, britannici e francesi lasciarono l’Egitto con la coda tra le gambe. E Budapest? Eisenhower condannò l’intervento sovietico, certo, ma fu molto più risoluto nel mettere a tacere Radio Free Europe, sostenuta dalla Cia, che farneticava di un possibile aiuto occidentale agli insorti ungheresi. L’accordo tra russi e americani in Europa era chiaro fin dal 1945: nella propria sfera di influenza, ciascuno fa quello che gli pare. Fu così in Grecia, quando Stalin abbandonò al suo destino l’insurrezione comunista; fu così in Germania Est nel 1953, in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 e in Polonia nel 1981. Tutti Paesi sacrificati sull’altare del comune interesse sovietico e americano a intralciare l’Europa e il Giappone, le vere potenze che dovevano essere «contenute».
Uno dei cardini della politica estera di Washington era, ed è, la teoria geopolitica secondo cui è vitale impedire che una grande potenza industriale (Germania o Giappone) stabilisca in qualche modo una relazione duratura con il cuore della massa eurasiatica (cioè la Russia), dando vita a una superpotenza in grado di sfidare la supremazia americana. La Russia, dunque, può diventare rivale diretta degli Stati Uniti solo se si lega in pianta stabile alla Germania (leggasi Europa) o al Giappone. Se no, può essere una carta da giocare contro i veri rivali diretti. Da un paio di decenni a questa equazione si è aggiunta la Cina, che negli anni Settanta era stata usata da Washington per controbilanciare l’Unione Sovietica in Asia dopo il fiasco della guerra in Vietnam.
Oggi non si può escludere che i responsabili della politica estera americana stiano meditando di servirsi di nuovo della Russia come fecero nella guerra fredda, ma questa volta anche per «contenere» la Cina. È una delle possibili opzioni di Washington. La guerra fredda, però, ha insegnato che la carta russa è di gran lunga più efficace se accompagnata da strali, maledizioni e sanzioni contro Mosca; per questa ragione, ogni forma di palese infatuazione nei confronti di Putin non può che ergersi come ulteriore ostacolo sulla strada degli interessi americani.

Corriere La Lettura 26.8.18
Divide et impera Xi avanza
La Cina gioca una partita su più tavoli E vince
di Maurizio Scarpari


Vista da Pechino, l’Europa — maggior partner commerciale della Cina per esportazioni — appare come la parte terminale dell’Eurasia, il continente che si estende per oltre un terzo delle terre emerse e comprende due terzi della popolazione mondiale. Tra i due estremi avvengono scambi commerciali che coinvolgono 5 miliardi di persone e per conquistare questo mercato il leader Xi Jinping ha inaugurato il progetto Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta, che ha come principale obiettivo la creazione di una rete infrastrutturale tecnologicamente avanzata in grado di connettere in tempi rapidi la Cina con il resto del mondo: linee ferroviarie superveloci, autostrade, aeroporti, porti, ma anche gasdotti, oleodotti, reti di comunicazione, ecc.
Attualmente sono oltre una settantina i Paesi direttamente coinvolti e il loro numero è in crescita costante. L’imponente progetto, destinato a ridisegnare gli assetti geopolitici globali, nasce dall’ambizione di ricollocare la Cina al centro del mondo e rappresenta un’iniziativa che non ha precedenti nella storia dell’umanità per l’estensione dei territori interessati, la mole degli investimenti e la complessità degli obiettivi, non solo commerciali, ma anche politici e culturali. Persino militari, secondo alcuni. La politica trumpiana America First rappresenta la reazione, da parte della prima potenza economica, politica e militare del pianeta, al rischio, percepito come reale, di perdere nel giro di pochi decenni il ruolo egemonico conquistato dopo la Seconda guerra mondiale e consolidato nel corso dei settant’anni successivi. Anche Donald Trump intende ridisegnare gli assetti geopolitici ed economici del mondo, mantenendo però in posizione dominante gli Stati Uniti, e lo fa con una politica di hard diplomacy, basata sull’imposizione del modello e dei prodotti americani, facendo un uso strumentale e spregiudicato di dazi e sanzioni nei confronti di chi non intende assoggettarsi. Xi, dal canto suo, non mira a imporre ad altri Paesi il modello cinese: almeno a parole auspica una gestione del potere pacifica, condivisa e multipolare, anche se le sue ambizioni autoritarie (in casa) ed egemoniche di stampo imperialistico (all’estero) inducono a pensare che non sia del tutto così.
In questa competizione tenta di inserirsi, con scarso successo, la Russia, mentre l’Europa annaspa, non riuscendo a ritagliarsi ruoli di rilievo, sempre più votata all’irrilevanza politica e vittima di una fragilità strutturale che non riesce a superare. L’incapacità europea di formulare politiche unitarie incisive e la mancanza di leader autorevoli che possano contrastare il protagonismo reboante e aggressivo di Trump e l’avanzata discreta ma incontenibile di Xi, fronteggiando al contempo le spinte disgregatrici che minano alle fondamenta il progetto europeista, rendono problematico per le autorità cinesi impostare un dialogo coerente ed efficace a livello comunitario.
Se infatti da una parte l’Unione Europea sta tentando di limitare in parte il raggio d’azione della Cina attraverso la creazione di nuovi strumenti di controllo, dall’altra ogni singolo Stato si muove secondo logiche di interesse nazionale. Questa situazione schizofrenica favorisce la Cina che si trova spesso a giocare la stessa partita su tavoli diversi, con interlocutori in competizione tra loro.