sabato 25 agosto 2018

Corriere 25.8.18
Sequestro di persona


Il sequestro di persona è un reato previsto dall'articolo 605 del codice penale, secondo il quale «chiunque privi taluno della libertà personale è punito con la reclusione da 6 mesi a 8 anni» (da 3 a 12 anni, se la vittima è un minore). Questa è una delle accuse ipotizzate dalla Procura di Agrigento nell'ambito dell'inchiesta per «trattenimento illecito» dei migranti a bordo della Diciotti.

Il Fatto 25.8.18
“Abusi sessuali, da Papa Francesco solo promesse”
Colm O’Gorman - L’attivista in occasione della visita di oggi e domani di Bergoglio in Irlanda: “Deve chiedere conto a chi ha insabbiato”
“Abusi sessuali, da Papa Francesco solo promesse”
di Sabrina Provenzani


L’uomo che ha fatto causa al Vaticano risponde al telefono dagli uffici dublinesi di Amnesty Ireland, di cui è direttore esecutivo. È la vigilia della visita pastorale di Papa Francesco, la seconda di un papa in Eire.
“Ricordo bene i giorni della visita di Giovanni Paolo II, nel 1979 – racconta Colm O‘Gorman – ero un tredicenne devoto, invidioso dei miei fratelli maggiori che avevano il permesso di andare a vedere il Papa al grande raduno di Phoenix Park; 18 mesi dopo fui violentato da un prete cattolico”.
Gli abusi continuano fino ai 17 anni di età. Poi O’Gorman trova il coraggio di denunciare i suoi carnefici: ottiene un risarcimento, collabora a documentari, fonda l’associazione One in 4 a supporto degli abusati. Ed è fra gli organizzatori di Stand4Truth, manifestazione a sostegno delle vittime della Chiesa Cattolica organizzata a Dublino per domenica, in contemporanea con la messa solenne di Papa Francesco.
L’arcivescovo di Dublino ha ammesso che il numero delle vittime di preti cattolici in Irlanda è “immenso”. Di cosa parliamo?
Solo fra il 1930 e il 1970 sono state 173 mila le vittime dirette, cioè i bambini in istituzioni cattoliche e soggetti ad ogni sorta di abuso, sessuale, fisico e psicologico, incluso lavoro minorile e tortura, su base quotidiana. Poi ci sono le donne e le ragazze private della loro libertà e dei loro figli nelle Magdalene Laundries; le fosse comuni, le inchieste in corso. E i danni degli abusi hanno conseguenze permanenti, travolgono vite per sempre. È un impatto incalcolabile.
Le risulta che questi abusi siano ancora in corso?
Non possiamo escluderlo. Ma speriamo che la nostra continua vigilanza e le riforme legali e sociali abbiano creato una cultura in cui un minore abusato abbia la forza di denunciare subito.
Le rivelazioni sugli abusi hanno azzoppato la Chiesa irlandese. L’Irlanda si è secolarizzata e le chiese sono vuote. Le gerarchie hanno fatto ammenda?
No, la Chiesa irlandese non ha pagato, in nessun senso. Il grosso dei risarcimenti economici alle vittime è a carico dei contribuenti, e soprattutto nessuno ai vertici ha ammesso le proprie responsabilità, né per il passato né per le ferite che le vittime si portano tuttora addosso. La versione è sempre che le gerarchie non erano consapevoli.
Eppure solo lunedì Papa Francesco, in una lettera aperta ai fedeli, per la prima volta ha chiamato quegli abusi “crimini”, ha chiesto perdono, ha parlato apertamente di coperture e ha promesso tolleranza zero. Lei non vede cambiamenti con questo papa?
Vedo solo interventi cosmetici, un cambio di retorica, promesse, nessuna azione concreta. Nella lettera parla di coperture, ma non indica i responsabili. Chiede perdono, ma non dice cosa dovremmo perdonare. Parla di responsabili ma non dice chi siano. I vescovi? Ma è lui, come capo dei vescovi, l’unico che può chiedere loro conto di aver insabbiato. E non lo fa, perché non si è trattato di iniziative individuali, ma di persone che hanno eseguito direttive dei vertici, basate su leggi e norme del diritto canonico.
Cosa significa questa visita per i sopravvissuti?
Forse può essere di conforto per i pochi che, solo dopo l’insistenza dell’arcivescovo di Dublino, il Papa ha accettato di incontrare in questi giorni. La solita scena, cinica, inaugurata da Benedetto XVI a beneficio dei media: il Papa ascolta, piange, condivide il dolore. Ma se davvero fosse dalla parte delle vittime non verrebbe a Dublino, sarebbe in Pennsylvania a costringere i suoi vescovi ad aprire i loro dossier, perché i vertici sapevano tutto. Nulla può cambiare davvero finché il Papa non dirà la verità, e non si assumerà pubblicamente la responsabilità di quello che è stato fatto, e continua ad essere fatto, a centinaia di migliaia di vittime in tutto il mondo.

La Stampa 25.8.18
Il Papa a Dublino per le famiglie, con l’ombra dello scandalo abusi
Francesco parte per l’Irlanda e visita una Chiesa scossa dagli scandali del passato che sta combattendo efficacemente il fenomeno della pedofilia clericale
di Andrea Tornielli


Città del Vaticano Francesco arriva a Dublino quasi quarant’anni dopo il viaggio trionfale di Giovanni Paolo II, per una delle trasferte più difficili del suo pontificato. Il motivo della visita è l’Incontro mondiale delle Famiglie, il primo dopo la pubblicazione dell’esortazione “Amoris laetitia”. Ma a pesare sarà soprattutto il tema degli abusi sui minori, uno scandalo che ha piegato la Chiesa irlandese facendole perdere credibilità ma che è stato affrontato con determinazione e con protocolli efficaci.
Nel 2006, dopo l’emergere del primo rapporto statale sugli abusi, la Chiesa cattolica del Paese ha istituito il “National Board for safeguarding children”, con un capo esecutivo credibile e autonomo, Ian Elliot. Nel 2011 è iniziato l’esame di tutte le misure di protezione per in bambini messe in atto nelle diocesi irlandesi e il lavoro è continuato dal 2013 con la nuova responsabile del Board, Teresa Devlin. Dal gennaio 1975 si sono registrate in Irlanda 1.259 denunce di abusi rivolte contro 489 sacerdoti o religiosi in 26 diocesi, e di questi accusati, 36 sono stati portati di fronte ai tribunali penali. Ma il dato significativo è quello più recente a disposizione: nel 2017 sono state raccolte 135 denunce nei confronti di 98 preti, ma soltanto una di queste era relativa ad abusi accaduti dopo l’anno 2000. Ci sono dunque ragioni di speranza e di ottimismo perché le linee guida per la protezione dei minori si sono rivelate efficaci.
Certo l’Irlanda che accoglie Francesco è molto diversa da quella che ricevette la visita di Papa Wojtyla. Sono state introdotte con decisione popolare leggi che autorizzano l’aborto e le nozze gay, la società appare sempre più secolarizzata, nonostante l’identità cattolica conservi ancora una sua forza culturale quale elemento distintivo rispetto all’appartenenza britannica.
La visita di Papa Francesco «è un’opportunità per noi come Repubblica e per noi come Stato irlandese di iniziare un nuovo capitolo nella nostra relazione con la Chiesa - ha detto il Taoseach (Primo ministro) Leo Varadkar - Penso che in passato la Chiesa cattolica ha avuto un posto troppo dominante nella nostra società. Penso che ha ancora un posto nella nostra società ma non determina le politiche o le leggi».
Nel primo giorno, sabato 25 agosto 2018, si parlerà in modo significativo degli abusi, perché ci si aspetta che Francesco ne parli nel discorso di fronte alle autorità politiche e diplomatiche del Paese, come pure sarà significativa la preghiera silenziosa per le vittime che il Pontefice farà nel pomeriggio nella concattedrale di Dublino.
Il cuore della visita sarà rappresentato dalla veglia con le famiglie di sabato sera e la grande messa di domenica pomeriggio. L’incontro internazionale delle famiglie è già iniziato: sono intervenuti circa 200 relatori di tutti i continenti (91 sono donne laiche, 65 sono uomini laici e 44 sono sacerdoti, religiosi e religiose). “Amoris laetitia” è il tema principale del congresso. Si è svolta una tavola rotonda, sul «salvaguardare i bambini e gli adulti vulnerabili», alla quale ha preso parte tra gli altri, Marie Collins, la donna irlandese vittima da bambina di un prete pedofilo e in passato membro della stessa commissione pontificia, prima delle dimissioni. È la prima volta che un incontro mondiale delle famiglie ospita una tavola rotonda su questo tema.

Corriere 25.8.18
Ferns Report

È la prima di quattro indagini governative che, a partire dal 2005, hanno rivelato decenni di violenze e abusi su migliaia di minori nelle istituzioni cattoliche irlandesi. Al «Ferns Report» seguirono nel 2009 il «Ryan Report», cinquant’anni di crimini dal 1930, e il «Murphy Report» sulla diocesi di Dublino dal 1974 al 2004. Da ultimo, nel 2011, il «Cloyne Report» sulla diocesi omonima tra il 1996 e il 2009

Quando questa mattina Francesco arriverà a Dublino per la seconda visita di un Papa in quasi 40 anni, troverà ad accoglierlo un’altra Irlanda, che nel frattempo ha legalizzato divorzio, aborto e unioni gay e dove l’età media dei 3.900 sacerdoti (erano 6.200 nel 1979) è di 70 anni. A stringergli la mano ci sarà anche il premier Leo Varadkar, che tutti gli irlandesi sanno essere apertamente gay.

Il Fatto 25.8.18
Il filosofo vuole cambiare partito
di Gianfranco Pasquino


Cambiare il Partito Democratico? Si può, sostiene Roberto Esposito su Repubblica (24 agosto). È facile. Però, bisogna che gli intellettuali che criticano il Pd si iscrivano al partito. Lo cambieranno da dentro. Come mai non ci (mi metto, non abusivamente, fra gli intellettuali critici) abbiamo pensato prima?
Per fortuna che, adesso, grazie a Esposito, i filosofi non si limitano più a studiare il mondo, ma cercano di cambiarlo. Non so quanto mondo conosca il filosofo Esposito. Sono, invece, sicuro che non conosce i partiti politici e, meno che mai, il Pd (come partito, non come dirigenti). Lascio da parte che, anche se, nel peggiore dei casi, il Pd avesse circa 300 mila iscritti, sarebbe difficile per gli intellettuali di sinistra vincere numericamente qualsiasi battaglia interna a qualsivoglia organismo di partito. Riuscirebbero mai a ottenere la maggioranza in un circolo del Pd? A Bologna certamente no. Lì hanno vinto coloro che volevano candidare Pierferdinando Casini al Senato e poi l’hanno anche fatto votare (e votato davvero!). Altrove, bisognerebbe fare un’analisi circolo per circolo, ma ho regolarmente assistito a votazioni nelle quali facevano la loro comparsa truppe cammellate di iscritti tempestivamente invitate per l’ora nella quale si sarebbe tenuta la votazione. Grazie a interventi “sapientemente” misurati, la votazione aveva luogo quando gli oppositori si erano stancati e i cammellati erano arrivati.
Peraltro, il problema per l’iscrizione di massa degli intellettuali comincerebbe proprio dalla richiesta della fatidica tessera. Infatti, qualsiasi domanda di iscrizione può essere respinta dal direttivo di qualsiasi circolo. Le motivazioni del respingimento sarebbero tutte molto plausibili. Come si fa a dare la tessera a quello lì che ci critica da anni oppure a quello lì che si è opposto alle riforme costituzionali oppure a quell’altro che ha votato LeU, l’ha detto pubblicamente, se n’è vantato? Non siamo affatto convinti che l’aspirante condivida, minimo, il programma del partito, e così via. Iscrizione a rischio, spesse volte lasciata ad libitum dei dirigenti del partito locale i quali, ovviamente, hanno i voti e sono in grado di respingere persino gli eventuali simpatizzanti di un altro leader locale in minoranza. No, il filosofo Esposito non conosce il Pd e le sue dinamiche. Sembra che non conosca neanche il funzionamento dei partiti in generale. Avrebbe, forse, potuto (dovuto) rafforzare il suo bizzarro invito all’iscrizione di massa degli intellettuali con qualche esempio di successo tratto da sistemi politici nei quali la trasformazione di uno o più partiti è avvenuta con la procedura da lui suggerita.
La un tempo famosissima Bad Godesberg (1959) grazie alla quale la Spd riuscì ad accreditarsi come partito non a vocazione maggioritaria, ma governativa, avvenne in seguito all’iscrizione di massa degli intellettuali tedeschi a quel partito? La creazione del Parti Socialiste in Francia nel 1971 fu il prodotto di spostamenti di masse di intellettuali al seguito di François Mitterrand oppure di una lunga elaborazione culturale e politica in club nei quali si trovavano settori della società civile, borghesia progressista, imprenditori, alti funzionari statali, laureati della Grandi Scuole d’Amministrazione (non ricordo la presenza di filosofi), ma soprattutto della leadership politica? La trasformazione del Labour Party in New Labour all’inizio degli anni novanta del secolo fu il seguito di un boom di iscrizioni di intellettuali oppure di un cambio generazionale e di una consapevole lotta politica condotta da Tony Blair, Gordon Brown e alcuni esperti di comunicazione politica? Qualcuno potrebbe anche voler chiedere a Esposito in quale conto i fondatori del Partito democratico hanno dato prova di tenere gli intellettuali nel 2007 e poi, ad esempio, nel 2018 per le candidature al Parlamento.
Nessuna iscrizione di massa al Pd è possibile a meno che i non meglio definiti intellettuali critici del partito si organizzino come falange compatta (non proprio la modalità organizzativa preferita e praticata dagli intellettuali chiunque siano) prima di qualsiasi azione nei confronti del Pd. Altrimenti, quasi sicuramente sarebbero risucchiati nelle logiche di funzionamento interno di un partito organizzato in piccole, settarie oligarchie. Soprattutto, una volta ufficialmente iscritti, troveranno molti ostacoli all’espressione del loro dissenso. Forse, però, è questo l’obiettivo di Esposito: fare risucchiare gli intellettuali critici e, mentre lui continuerà a scrivere su Repubblica, sostanzialmente silenziarli.

La Stampa 25.8.18
Craxi-Proudhon, quel colpo di cannone nello psicodramma della sinistra italiana
di Fabio Martini


In nessun Paese dell’Occidente la suggestione del comunismo fu così duratura ed estesa come in Italia: nel secondo dopoguerra la condivisero dirigenti di partito, elettori, fior di intellettuali, fiumi di ragazzi in corteo, sino a quando quella rendita di posizione fu improvvisamente attaccata. Era il 27 agosto del 1978 e la pubblicazione sull’Espresso del saggio «Il vangelo socialista», firmato da Bettino Craxi, si sarebbe trasformato, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in «un colpo di fucile, o piuttosto di cannone» nella vicenda politico-culturale della sinistra italiana, fino ad allora rintanata nelle sue dottrine e nel culto dei suoi profeti.
Il segretario socialista, leader divisivo per sua scelta, in quella occasione prese di mira il bastione più resistente del comunismo interno e internazionale, il mito di Lenin. Divampò la polemica, che durò mesi: il Pci e i suoi intellettuali provarono a delegittimare il saggio, prendendo di mira uno dei pensatori citati nel testo, Pierre-Joseph Proudhon, socialista utopista e come tale liquidato come sognatore.
Berlinguer: nessuna abiura
Enrico Berlinguer alla festa dell’Unità disse che il Pci non avrebbe mai fatto «abiura di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre». Ma il colpo era andato a segno: 48 ore dopo la pubblicazione del saggio, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma aveva trasmesso riservatamente un lungo rapporto al Dipartimento di Stato, sottolineandone il carattere strategico, e qualche anno più tardi un intellettuale comunista come Biagio De Giovanni ammise che in quel passaggio «il Pci aveva subito una sconfitta culturale e teorica». E d’altra parte sarebbe stata la storia a dimostrare quanto anacronistica fosse la trincea del Pci: soltanto 11 anni dopo i regimi dell’Est comunista sarebbero caduti uno dopo l’altro, nel giro di poche settimane.
L’articolo di Craxi sarebbe passato alla storia come il saggio su Proudhon, anche se lo storico Giovanni Scirocco, autore di un recente libro sul tema (Il vangelo socialista, ed. Aragno) dimostra come si sia trattato di una definizione «impropria», figlia della polemica di quei mesi. Proudhon era un contemporaneo (assai critico) di Marx e invece nel saggio si puntava sul leninismo, messo sotto accusa per le sue «mire palingenetiche» e per la sua natura di «religione travestita da scienza», mentre il socialismo riconosce che «il diritto più prezioso dell’uomo è il diritto all’errore».
Il testo, firmato da Craxi, era stato preparato da Luciano Pellicani, uno dei tanti uomini di cultura che in quella fase si muovevano attorno al nuovo corso socialista: negli anni tra il 1976 e il 1979 tra intellettuali e Psi si sviluppò un rapporto originale e non subalterno, secondo modalità mai viste prima e mai più replicate. Sia pure con modalità diverse, contribuirono all’elaborazione socialista personalità come Norberto Bobbio, Massimo Salvadori, Paolo Sylos Labini, Valerio Castronovo, Giuliano Amato, Stefano Rodotà, Roberto Guiducci, Gino Giugni e tanti altri.
Apertura alla modernità
Intellettuali strutturati, che si posero davanti al nuovo corso socialista con la postura descritta da Norberto Bobbio: gli uomini di cultura possono impegnarsi nella politica «mantenendo un distacco critico», partecipando cioè alle battaglie, ma con quella distanza «che gli impedisca di identificarsi completamente con una parte».
L’offensiva socialista non si limitò al totem-Lenin. Contribuirono a modernizzare la sinistra (non solo italiana), il Progetto per il 41° Congresso Psi di Torino del 1978, la Biennale del dissenso nei Paesi dell’Est del 1977, il convegno internazionale su «Marxismo, leninismo, socialismo», l’azione della rivista Mondoperaio diretta da Federico Coen.
Dal punto di vista culturale gli effetti di lunga durata di quella stagione li ha spiegati 20 anni più tardi Giampiero Mughini: «La furia barbarica di Craxi, socialista anticomunista, diede diritto di cittadinanza a parole e giudizi che erano inconsueti a sinistra». Ci furono effetti anche politici (una sinistra più aperta alla modernità e meno orientata al consociativismo), che però furono presto divorati dalla questione morale, con la quale l’autonomismo socialista perse l’anima. Ma con un paradosso in più. Lo ha scritto Luciano Cafagna nel suo saggio La strana disfatta: Craxi, dopo l’iniziale idillio, divenne ostile all’intellighenzia e a quegli intermediari di opinione (magistratura, burocrazia, insegnamento, mass media), che gliela fecero pagar cara. E dall’altra ridusse l’autonomismo - e il socialismo stesso - a semplice anticomunismo, una parola che col crollo del muro di Berlino era stata «portata via in un giorno» e «dove era rimasta solo quella, almeno a sinistra, per forza di cose doveva portarsi via tutto». Così fu: nel giro di cinque anni i due partiti storici della sinistra italiana, Psi e Pci, non esistevano più.

Il Fatto 25.8.18
“Il Pd sta coi potenti? Di sicuro ha perso la base”
Enrico Mentana - Per il giornalista non c’è sudditanza verso gli industriali: “Ma i Dem dimenticano gli ultimi”
intervista di Lorenzo Giarelli


“Le critiche dei delusi di sinistra sono legittime, ma non direi che il Partito democratico abbia una sudditanza nei confronti degli industriali”. Le critiche di Gad Lerner – che nei giorni scorsi aveva accusato sul Fatto il “suo” centrosinistra di avere un’ansia da legittimazione verso i gruppi imprenditoriali – non convince per niente Enrico Mentana. Non perché i Dem, dice il direttore del TgLa7, non abbiano diffusi rapporti con quelli che un tempo si chiamavano “poteri forti”, ma perché di lì a confondere “l’assemblea del Pd con quella di Confindustria ce ne passa”.
Direttore Mentana, esagerazioni a parte, non ci sono storture nel rapporto tra sinistra e industriali?
Io non credo che il problema sia il Pd che diventa il Partito degli affari. Il problema è se la sinistra mantiene i rapporti con gli imprenditori ma nel frattempo perde per strada operai, insegnanti e il ceto medio.
Ma questa non è stata una scelta precisa da parte della classe dirigente?
È ovvio che l’idea di modernità di Matteo Renzi si sposasse più con Confindustria che con Susanna Camusso, però non dimentichiamo che Renzi alle Europee del 2014 ha portato il Pd al 40 per cento: non mi sembra si possa dire che gli italiani volevano un Partito degli affari. Eppure il centrosinistra era lo stesso.
Qualcosa però da allora è cambiato: c’entra il fatto che il Pd sia stato percepito più vicino ai potenti che agli ultimi?
Se governi, o fai la Rivoluzione d’ottobre o devi avere rapporti con gli imprenditori. Oltretutto per vent’anni tutti i grandi gruppi che non amavano Berlusconi si sono rivolti al centrosinistra e si è cercata una legittimazione reciproca. Ma quando Alessandro Profumo e Corrado Passera sostenevano Romano Prodi alle primarie il tema non si poneva. Il problema, semmai, è che c’è stato un divorzio sentimentale tra il Pd e la sua base.
Cioè?
L’emblema di questa rottura è la riforma sulla Buona Scuola. Da sempre gli insegnanti erano il cuore dell’elettorato di centrosinistra, ma con la Buona Scuola Renzi è riuscito nel capolavoro di fare 150mila assunzioni scontentando allo stesso tempo i nuovi assunti –che venivano mandati lontano da casa – e tutti quelli che erano rimasti fuori dal programma. Se non dai loro una prospettiva, queste persone si rivolgono altrove. Ma perché li hai dimenticati, non certo perché hai rapporti con gli industriali.
Neppure nel caso delle privatizzazioni autostradali, realizzate dai governi di centrosinistra, vede quella sudditanza di cui parla Gad Lerner?
Ma no, non è un discorso di sudditanza. All’epoca delle privatizzazioni era esploso il nostro debito pubblico e ci trovammo a vendere i gioielli di casa anche su forti pressioni dell’Europa. A parte alcuni casi, come quello di Telecom, in cui si permise di comandare a imprenditori che avevano il 5 per cento della società, è col senno di poi che sappiamo che le privatizzazioni furono fatte male.
Compresa quella delle autostrade? Nei giorni dopo il crollo lei ha chiesto di evitare processi sommari ai Benetton.
Oggi nessuno, neanche con tutta la benevolenza del mondo, direbbe alla famiglia Benetton che può tenersi tranquillamente le concessioni come nulla fosse successo, ma all’epoca la privatizzazione delle autostrade non fu uno scandalo.

La Stampa 25.8.18
Se il confronto fosse prevalso sulla polemica
di Maurizio Assalto


La storia non si fa con i se, ma a volte i se aiutano a comprenderla. Se 40 anni fa il saggio di Craxi-Pellicani passato (impropriamente) alla storia sotto l’etichetta di Proudhon non fosse stato liquidato come una bizzarria provocatoria dall’implicito interlocutore comunista, e non fosse stato conseguentemente travolto dalla polemica politica ma assunto come spunto di riflessione per un ripensamento-rinnovamento della sinistra, superando fratture che le tragedie del ’900 avevano reso abissali e sulle quali la storia più recente è passata come un rullo compressore, forse non sarebbero dovuti trascorrere altri tre anni perché Berlinguer riconoscesse esaurita la «spinta propulsiva» dell’Ottobre e la democrazia quale valore fondante di una società socialista, il Pci non avrebbe dovuto aspettare il crollo dell’Urss per cambiare il proprio nome, il Psi e il suo leader non avrebbero abbandonato la prospettiva dell’alternativa socialista per sprofondare, sedotti dal potere, nell’ignominia di Tangentopoli, e in definitiva l’Italia non sarebbe oggi priva di una credibile forza di sinistra in grado di provare a contrastare il populismo sovranista.
Certo Proudhon, l’utopista francese che aveva sdoganato l’idea di anarchia conferendole un senso positivo, l’avversario di Marx noto soprattutto per la sua proposizione «la proprietà è un furto», non poteva realisticamente fornire l’armamentario ideologico per l’operazione che allora sarebbe stata opportuna, e che oggi è troppo tardi per riproporre. Ma alcune sue suggestioni, e in particolare il rifiuto di ogni dogma aprioristico, conservano un valore ideale sul quale si sarebbe potuto e dovuto discutere. E forse la storia, almeno un po’, sarebbe andata diversamente.

Repubblica 25.8.18
Il Pd e il barone di Münchhausen
di Antonio Floridia


Roberto Esposito chiude il suo articolo di ieri, lanciando una proposta: oltre che criticare, gli intellettuali ( ma non solo) facciano qualcosa di positivo, ad esempio si iscrivano al Pd. Chiedo semplicemente a Esposito: iscriversi, sì, ma per fare cosa? Ci si è chiesto come funziona oggi, concretamente, il Pd? Credo che nei discorsi correnti sul Pd si sottovaluti drammaticamente quello che un tempo si diceva “ lo stato del partito”. Lo stesso segretario Martina, con ammirevole schiettezza, nel suo discorso all’Assemblea nazionale ha detto che l’organizzazione del partito è “ collassata”. Ma non è solo una questione organizzativa: è l’intero impianto del partito che dovrebbe oggi essere rimesso radicalmente in discussione e, in primo luogo, il modello di democrazia a cui il partito ha ispirato le sue regole interne. Un modello plebiscitario, che ruota tutto attorno all’investitura diretta del segretario. La “ democrazia interna” è vista solo come mera “ autorizzazione al comando” di un leader, da parte — oltre tutto — di un indefinito “ popolo delle primarie”: dove sono le sedi e le occasioni in cui si possa anche discutere, formare un orientamento comune, valorizzare le competenze intellettuali, le esperienze e il sapere dei militanti o anche di coloro che vorrebbero dare una mano? E perché mai ci si dovrebbe iscrivere a un partito in cui l’unico momento che conta è quello elettorale delle cosiddette “ primarie aperte”, e in cui le prerogative di un iscritto sono del tutto simili a quelle di un qualsiasi elettore che si trovi a passare per caso dinanzi a un gazebo? Nei mesi scorsi, dopo le elezioni, si è levata qualche voce per chiedere un “ congresso vero”, che non fosse una semplice conta. Bene: ma non mi pare si stia facendo qualcosa. Qualcuno ha delle idee in proposito? Personalmente, non ci credo molto. Il Pd è imprigionato in un dilemma: per rinnovare il partito, occorre cambiare, anzi azzerare, le attuali regole; ma, per cambiare le regole, dovrebbero essere gli attuali organismi dirigenti a prendere qualche iniziativa, organismi però che a loro volta sono tuttora controllati da chi è stato, e sarebbe, beneficiario delle attuali regole.
Temo che non se ne esca: ci vorrebbe un novello barone di Münchhausen, capace di tirarsi su dal pantano aggrappandosi al codino dei propri stessi capelli.

Il Fatto 25.8.18
“Altro che solo”: tanti col Fico anti-Salvini
Muro - Nel M5S cresce il peso del presidente. E i vertici temono per la tenuta del gruppo
di Luca De Carolis


“Non credo proprio che Fico sia un problema per il Movimento, queste sono state sempre le idee di Roberto sull’immigrazione”. Pompiere per necessità, Luigi Di Maio ad Agorà derubrica l’intervento del presidente della Camera sulla nave Diciotti al solito discorso del solito Fico: ossia quello di sinistra, che per carità, “ha tutto il diritto di esprimersi da presidente”, ma non parla certo per tutto il M5S.
Però le proteste pubbliche e ufficiose e gli umori che filtrano dal Movimento raccontano anche un’altra verità. Ovvero che il Fico strapazzato da Matteo Salvini perché reo di invocare lo sbarco dei sequestrati della Diciotti ha goduto di una solidarietà larga dentro i 5Stelle, che in parte ha sorpreso lo stesso presidente della Camera. Tutt’altro che solo nel Movimento. Anzi, forte come forse non lo era da tempo. Perché nel M5S dove tanti parlamentari e anche alcuni ministri, in gran parte del Sud, sono stufi del Salvini in trincea. E sono stufi di subirlo. Da qui, la scelta di stringersi attorno a Fico, al movimentista della prima ora. Un modo anche per invocare un riequilibrio dentro il governo, da quel Di Maio che a Genova aveva rubato la scena al leghista dichiarando guerra alla società Autostrade. Ma che ora è tornato in linea con l’altro vicepremier, perché non vede altra scelta. Per il fastidio diffuso nel M5S. Al punto che ieri un dimaiano di rango ammetteva: “Se continua così faremo fatica a tenere il gruppo”.
Nervoso, anche per altri fattori: dalla marginalizzazione dei parlamentari, fino alle nuove regole sulle restituzioni. E allora il muro a difesa di Fico va osservato con attenzione. Ripartendo dai nomi di chi lo ha eretto, visto che questa volta si è andati ben oltre la consueta pattuglia dei fichiani di stretta osservanza, dalla senatrice Paola Nugnes al presidente della commissione Cultura della Camera Luigi Gallo, fino a quello della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, che su Avvenire ha rivendicato: “Fico non è isolato, in tanti la pensiamo come lui”.
E ad occhio non mente, visto che con il presidente di Montecitorio si è schierato anche il ministro del Sud, Barbara Lezzi, big autonoma: “Nessuno dia lezioni alla terza carica dello Stato”. Sillabe che hanno fatto irritare Di Maio, raccontano. Ma contro Salvini hanno parlato anche veterani ascoltati nel gruppo. Come il deputato pescarese Andrea Colletti, durissimo: “Invece di blaterare e farsi selfie, il ministro pensi a far lavorare le commissioni territoriali”. Mentre la lucana Mirella Liuzzi, membro della Vigilanza Rai, ha rilanciato il tweet con cui Fico ha replicato al leghista. E ieri si è esposto anche Gregorio De Falco, senatore ed ex capitano di fregata: “Non è degno di un Paese civile e di uno Stato di diritto il lasciar permanere la situazione della Diciotti”. E siamo solo alle posizioni ufficiali. “Roberto è stato chiamato da altri ministri e parlamentari oltre Lezzi” assicurano ambienti vicino a Fico. A cui sono arrivate telefonate anche da altri partiti.
Però il tema è il clima nel M5S. Con Di Maio che dopo l’attacco di Salvini non ha chiamato Fico. Ma l’ex presidente della Vigilanza Rai, giurano, non si attendeva alcuna difesa da parte del capo politico. Mentre ieri a Omnibus il dimaiano Stefano Buffagni lo ha punto: “Nei panni di Fico forse avrei fatto una telefonata prima di fare l’uscita pubblica”. Ma il telefono non ha suonato. E la distanza tra Di Maio e Fico torna a dilatarsi.

La Stampa 25.8.18
Per il pugno di ferro il 40% degli elettori
“Ma gli italiani non sono xenofobi”
di Andrea Carugati

Sul no agli sbarchi la maggioranza degli italiani sta con Salvini, come sostiene il leader della Lega? Tecnicamente no. Anche se il numero di cittadini che approva la linea dura è molto elevato, «tra il 40 e il 45%», sostengono due sondaggisti di peso come Antonio Noto e Roberto Weber di Ixè. «Ma la maggioranza, seppur di poco, è contraria all’azione del ministro dell’Interno», dice Noto. Nella sostanza, al netto di una quota che non si pronuncia, «il Paese è diviso a metà», spiega Weber. «Ci sono due blocchi tra il 40 e il 45%, che fotografano posizioni presenti da almeno vent’anni. Salvini ha catalizzato umori presenti da tempo nell’area del centrodestra, mentre sull’altro fronte non c’è una figura che incarna una politica più favorevole all’immigrazione». Secondo Weber «è sbagliato sostenere che gli italiani siano diventati xenofobi. È cambiata la congiuntura, il tema immigrazione si è sedimentato, ma non c’è stato un boom di razzismo».
Certo è che la quota di favorevoli allo stop va ben oltre quella indicata dai sondaggi per la Lega. «La sfida all’immobilismo europeo attrae anche una parte di elettori del M5S che vengono dalla sinistra, la prova di forza con Bruxelles ottiene un consenso che non è solo di destra», dice Weber. E tuttavia, secondo Noto, a beneficiare di vicende come quella della nave Diciotti è soprattutto la Lega, «a scapito dei Cinque stelle». Perché? «Salvini è già arrivato al 30% nelle intenzioni di voto, e si consolida. Mentre il M5S rischia di pagare un prezzo, come dimostra la frattura che si è creata tra Fico e Di Maio. Per la prima volta dalla nascita del governo esponenti del Movimento hanno criticato apertamente Salvini e questo perché rispondono a una parte di elettorato che non condivide la lina dura». Difficile ipotizzare quanto costerà al M5S essersi allineato con la Lega sul tema immigrazione: «La nascita del governo gialloverde - dice Noto - ha provocato un piccolo calo dal 32 al 28% per i grillini. E si può ipotizzare che ci sia una ulteriore emorragia sul fronte sinistro, che rappresenta un terzo dei votanti del M5S». In ogni caso, «con la sfida sui migranti, Salvini, che era entrato nel governo da partner minore, rischia di diventare il primo partito della maggioranza».
E non è poco. «Salvini va avanti perché sa di avere una parte consistente della popolazione che è d’accordo con lui», sottolinea Nicola Piepoli. «Ed è la parte che in questo momento è più attiva e visibile sulla scena pubblica». Gli altri? «Io conto un 25% di cattolici praticanti che mette avanti le ragioni umanitarie, più una quota consistente di cosiddetti “altruisti”. In numeri il fronte ha dimensioni simili a quelli di chi vorrebbe respingere tutti gli immigrati, ma non incide, non fa opinione», dice Piepoli.
Il mix di no all’immigrazione e di sfida a Bruxelles funziona dunque come benzina per i gialloverdi. «Ma davanti a noi c’è un bivio», osserva Weber. «Se la sfida all’Europa va troppo oltre e mette a rischio la permanenza nell’euro, gli italiani potrebbero scaricare Salvini. Il sì alla moneta unica è oltre il 70% e i timori per lo spread molto diffusi. Sui dossier legati al portafoglio dei cittadini, Salvini e il M5S rischiano molto in termini di consensi, potenziali e reali».

Repubblica 25.8.18
Il caso della Diciotti
Tutti gli abusi di Salvini
Migranti come ostaggi ecco le norme violate per ordine di Salvini
Dal “porto sicuro” negato all’assenza di disposizioni scritte: la catena di illegittimità su cui indaga la procura di Agrigento. Oggi interrogati due funzionari del Viminale
di Carlo Bonini e Salvo Palazzolo


Arrivata al suo nono giorno di infamia, la vicenda della nave “ Diciotti” - per come ricostruita dalle evidenze sin qui acquisite dalla Procura di Agrigento e dalle testimonianze di tre diverse fonti qualificate del Viminale interpellate da Repubblica - appare di assoluta chiarezza. Quantomeno se ci si libera dalla pavidità che impedisce di chiamare le cose con il loro nome. Al molo di Levante del porto di Catania, a bordo della unità della nostra Guardia Costiera, dunque sul territorio della Repubblica italiana, è in corso un “ sequestro di persona aggravato” di 150 migranti eritrei (articolo 605 del codice penale, pena da 6 mesi a 8 anni di reclusione) che potrebbe persino trasformarsi, nella sua qualificazione giuridica, nell’ancor più grave “ sequestro di persona a scopo di coazione” ( articolo 289 ter del codice penale. “Chiunque sequestra una persona minacciando di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica o una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, è punito con la reclusione da 25 a 30 anni”).
Non solo. Su quello stesso molo, con pieno abuso di potere, si sta consumando la violazione macroscopica, palese e giuridicamente immotivata, delle norme del testo unico di legge sull’immigrazione e dei diritti fondamentali dell’uomo che impongono a ciascuno Stato, prima ancora di assumere qualsiasi decisione relativa al loro destino, che i migranti vengano compiutamente identificati e messi nelle condizioni di chiedere asilo o protezione umanitaria.
Ecco perché, nelle prossime ore, il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, magistrato prudente ma consapevole del passaggio che ha di fronte, così come la polizia giudiziaria che a lui risponde dovranno necessariamente interrompere, come vuole la legge, il sequestro e gli abusi, ancor prima e persino a prescindere dall’identificazione delle loro responsabilità. A meno di non volerne diventare complici e dunque a loro volta risponderne.
È questo il motivo per cui, questa mattina, il procuratore siciliano sarà a Roma per ascoltare ( al momento nella veste di testimoni) il capo del Dipartimento delle Libertà civili, il prefetto Gerarda Pantalone, e il vicecapo del Dipartimento Bruno Corda, ex prefetto di Como, arrivato al Viminale nel luglio scorso nel primo movimento di prefetti battezzato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. Sono loro, infatti, i due dirigenti dell’ufficio da cui ha preso le mosse la macroscopica catena di abusi cominciata nove giorni fa nel basso Mediterraneo. Anche questi documentali, come la Procura ha sin qui potuto accertare.
I due prefetti dovranno dare infatti conto delle tre circostanze chiave di questa vicenda.
La prima. Per quale motivo il Dipartimento delle libertà civili, in violazione della legge e delle convenzioni internazionali, non abbia indicato al Comando generale della Guardia Costiera, e attraverso di lui alla centrale operativa di Roma delle operazioni Sar nel basso Mediterraneo il “ place of safety”, il porto sicuro dove la “Diciotti” avrebbe dovuto sbarcare i migranti soccorsi nella notte del 15 agosto.
La seconda. Per quale motivo il Dipartimento abbia negato ai migranti soccorsi l’esercizio del diritto riconosciuto dalle nostre leggi oltre che dalle Convenzioni internazionali di poter chiedere asilo.
La terza. Per quali motivo i due prefetti abbiano dato corso a disposizioni palesemente illegittime, venendo meno, prima ancora che alle norme del codice penale, al regolamento di disciplina dello stesso ministero che impone a funzionari e dirigenti di sottrarsi a ordini contrari alla legge.
In questa storia, infatti, una cosa è certa. L’abuso di potere consumato dal Viminale e il sequestro a bordo della Diciotti dei 150 migranti sono avvenuti senza che il ministro, in vacanza a Pinzolo, ma in servizio permanente su Twitter e Facebook, abbia impartito una sola indicazione per iscritto. Si è mosso infatti il suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi ( cercato ieri da Repubblica, il prefetto non era reperibile, così come del resto si è resa irreperibile - «È in ferie, ne ha diritto anche lei » - il prefetto di Catania) per trovare la gabola con cui giustificare la presa in ostaggio dei migranti. Una “ norma pattizia” che regola il coordinamento delle operazioni in mare tra ministero dell’Interno e Guardia Costiera (la cosiddetta Sop 009/2015) e che, per ragioni di semplice efficienza, attribuisce al Viminale il potere di indicare alle Capitanerie nelle operazioni Sar il “ porto sicuro di approdo”. Una disposizione di valore giuridico assolutamente residuale, perché subordinata alla legge penale e alle norme amministrative oltre che, va da sé, alle Convenzioni internazionali e alla Costituzione, e in questo caso, usata per aggirarle. Alla Diciotti è stato infatti indicato un approdo “di transito”, il molo di Levante di Catania, appunto, per simulare, giuridicamente, una condizione non di arrivo in porto (con conseguente obbligo di sbarco) ma di “ operazione ancora in corso”. Una mossa da azzeccagarbugli che, nelle intenzioni di chi l’ha partorita, avrebbe dovuto mettere al riparo il ministero da contestazioni penali e dare tempo ai suoi complici a Palazzo Chigi, il vicepremier Luigi Di Maio e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, di agitare un’estorsione ai danni dell’Unione europea.
Una mossa che non ha portato da nessuna parte. Né al tavolo di Bruxelles. Né, soprattutto, nell’ufficio del procuratore di Agrigento, che ha ritenuto la nota di giustificazione ricevuta dal Viminale priva di qualunque valenza rispetto alla violazione delle norme penali e di quelle del testo unico sull’immigrazione. Tanto da fargli decidere per un’immediata trasferta a Roma nella giornata di oggi. Non fosse altro che per un motivo. Che invocare quella norma pattizia sarebbe stato già complicato se i migranti eritrei fossero stati a bordo di una imbarcazione civile battente bandiera estera. Figurarsi a bordo di un’unità della marina italiana, di diritto territorio nazionale a prescindere dal molo cui sia attraccata.
È per questo che, in uno spettacolo non nuovo ma non per questo meno desolante, mentre il governo si abbandonava a un’altra giornata di tweet, dichiarazioni, mascelle in fuori, nei felpati corridoi del Viminale è cominciata la corsa febbrile a immaginare come mettere una pezza o trovare un capro espiatorio per una storia in cui – per dirla con le parole di un navigato dirigente del Palazzo - « si faranno male in parecchi » . A cominciare dai prefetti che hanno battuto i tacchi e chinato il capo di fronte alla prima telefonata arrivata dal Gabinetto di un ministro fuori controllo e fuori dalla legge.

Il Fatto 25.8.18
“Regeni, altro che verità, Londra pensa agli affari”
di Andrea Valdambrini


Con una lettera aperta al Guardian, oltre 200 accademici del Regno Unito hanno chiesto al governo di Londra di non intensificare la collaborazione universitaria con l’Egitto. Impossibile, scrivono i docenti, ignorare la crescente brutalità del regime di al-Sisi nel reprimere ogni forma di dissenso e soprattutto dimenticare la tragica morte di Giulio Regeni, ucciso al Cairo tra gennaio e febbraio 2016 mentre svolgeva attività di ricerca per l’università di Cambridge. Fabio Petito, docente di Relazioni Internazionali all’Università del Sussex è uno dei firmatari dell’appello.
Cosa rimproverate al governo nella vostra lettera?
Anche nel campo degli accordi universitari, Londra segue le priorità dettate dalla Brexit: tutto ciò che è utile per aumentare i guadagni, va bene, i diritti umani passano in secondo piano rispetto al business.
Venendo al caso Regeni,, com’è possibile che Cambridge non abbia saputo proteggere un suo studente?
All’epoca ne rimasi sorpreso. Il sistema britannico è molto severo nei controlli: ogni supervisore deve firmare una serie di carte in cui dichiara di non mette a rischio la sicurezza dello studente. Da parte mia, non avrei mai inviato qualcuno a fare ricerca in un contesto così delicato.
Quale contesto?
Quello del primo anno di governo di al-Sisi, in cui il presidente vuole legittimarsi agli occhi del mondo. Nessuna ingerenza dall’esterno è gradita, fosse pure quella di un ricercatore straniero, che si occupava comunque di una materia molto sensibile.
Sta dicendo che la sua collega a Cambridge ( la tutor di Giulio era Maha Abdelraham) ha sbagliato valutazione?
Non sono un esperto di Egitto come lo è lei, ma certamente il suo comportamento è stato superficiale.
Dopo la tragedia, Cambridge ha fatto tutto il possibile per scoprire la verità?
Hanno pensato di affrontare il caso mettendo tutto in mano ai legali, il cui unico scopo è tutelare l’istituzione universitaria sotto il profilo giuridico. Eppure nessuno della famiglia Regeni ha cercato ricompense. Per questo l’approccio di Cambridge è disdicevole dal punto di vista morale. E anche poco rispettoso della sensibilità dell’opinione pubblica italiana. D’altronde sia la politica che i media britannici hanno finora dato sempre poco risalto al caso, almeno fino alla pubblicazione della nostra lettera da parte del Guardian.

Il Fatto 25.8.18
Austerità senza fine: Tsipras sarà l’ultima vittima
di Filippomaria Pontani


“La nostra terra è chiusa. Chiusa / dalle nere Simplegadi”: questi i versi del poeta Giorgio Seferis (da Leggenda, 1935) scelti da Alexis Tsipras nel suo discorso di tre giorni fa a Itaca, per proclamare che l’uscita dal tunnel dei memorandum ha mostrato la capacità del Paese di superare, al pari della leggendaria nave degli Argonauti, le rocce che nessuno oltrepassava indenne.
Tsipras vede oggi nel ritorno della Grecia sui mercati la fine di quella “nuova Odissea” annunciata nell’aprile 2010 all’altro capo dell’Egeo, a Kastellòrizo dall’allora premier Yorgos Papandreu, figlio dello storico politico socialista Andreas ed esponente di quella “seconda generazione” (i giovani Karamanlìs, Mitsotakis, Samaràs) la cui allegra incompetenza dette il colpo di grazia a uno Stato marcio e inefficiente, pronto per essere prostrato dalla speculazione internazionale e dall’austerità di un’Unione europea complice, ipocrita, imbelle.
Questa élite corrotta, ancora presente sulla scena pubblica è pronta, sulle ali di una stampa che non l’ha mollata, a pretendere il governo del Paese nelle elezioni del 2019: è contro di essa che Tsipras scaglia oggi le sue frecce, denunciando il cinismo di un’oligarchia che si riteneva intoccabile, condannando i ministri banchieri e i banchieri ministri (come l’ex premier Lukas Papadimos), ma anche chi si è lasciato abbindolare dalle Sirene del “tutto è inutile”, i fascisti riemersi e i gufi tifavano contro il proprio Paese per dimostrare l’inadeguatezza del governo a lottare contro i Lestrigoni e i Ciclopi. Non è chiaro se i greci serberanno memoria delle colpe di “quelli di prima”, di certo non dimenticheranno il cumulo delle misure dei tre memorandum d’intesa con la troika, l’ultimo firmato dallo stesso Tsipras nell’estate 2015 al termine di un tentativo, fallito, di forzare la mano con la politica di Yanis Varoufakis e un controverso referendum.
Per fare punto: abolizione di tredicesima e quattordicesima; abbassamento del salario minimo (per i giovani da 751 a 490 euro); abbattimento delle esenzioni e delle agevolazioni fiscali; aumento dell’anticipo fiscale per l’anno successivo (100 per cento); abbassamento della soglia di esenzione fiscale (da 8000 a 5000 euro); tre contribuzioni una tantum per i redditi sopra i 12.000 euro; aumenti ripetuti e strutturali di benzina, sigarette, alcol, giochi d’azzardo, bevande, telefonia mobile, autostrade, assicurazioni; tassa sugli immobili; tagli alle pensioni, con aumento dell’età pensionabile; aumento dell’Iva al 23 per cento, e applicazione di questa tariffa a un maggior numero di beni; graduale abolizione dell’Iva calmierata per le isole; tagli draconiani a investimenti pubblici, spese farmaceutiche e di difesa; migliaia di licenziamenti e cospicui tagli salariali nel settore pubblico. Per non parlare della totale alienazione in mani straniere di porti, aeroporti, ferrovie, enti pubblici e risorse strategiche.
Ulisse si presenta dunque a Itaca ai minimi termini, come nella recente vignetta dello Spiegel dove un grasso dottore insignito di coccarda europea accoglie uno scheletro greco esclamando “Dopo 8 anni di dieta Lei ha un aspetto molto più sano!”. E i segnali di ripresa sono ben più fragili di quanto si millanti: il debito non è stato tagliato ma solo dilazionato, e continua a viaggiare oltre il 180 per cento del Pil; il Pil aumenta per il quinto trimestre consecutivo, ma rimane molto al di sotto del 2008, e ballano miliardi di prestiti in mano ai creditori esteri, che non appena l’avanzo primario diminuirà potrebbero riprecipitare il Paese nel baratro; la disoccupazione è scesa sotto il 20 per cento, ma in termini assoluti gli occupati sono calati rispetto al 2008 di 858mila unità, i disoccupati di lungo termine sono aumentati di 565mila, e si è ridotta in modo sostanziale la forza-lavoro (circa 450mila persone sono emigrate all’estero, per lo più giovani ben qualificati).
A tutto questo si aggiungono i rapporti sempre tesi con la Macedonia del Nord (difficile che in autunno vada in porto l’accordo che assegna questo nome al Paese con capitale Skopje, un accordo che l’alleato destrorso di Tsipras, Panos Kammenos, ha già detto di voler rifiutare a costo di una crisi) e quelli con la Turchia, perché nessuno crede che la recente liberazione dei due soldati greci detenuti da mesi dall’esercito di Erdogan con l’accusa di aver sconfinato in armi sull’Ebro, sia il preludio a una vera normalizzazione. E soprattutto rimane la spada di Damocle della questione migratoria, che è lungi dall’essere risolta: i fondi dei programmi di assistenza europei sono ormai agli sgoccioli, il rubinetto turco continua a perdere, e serpeggia in vari luoghi la xenofobia (soprattutto nelle isole delle vacanze come Chio, Samo, Lesbo, dove sono allocati molti centri di detenzione).
Sul piano interno, la debolezza di Syriza – depauperata da anni dell’ala sinistra che non ha mai accettato il cedimento alla troika – è così evidente che in vista delle elezioni del 2019 sono state avviate goffe manovre di avvicinamento al “Movimento per il Cambiamento” (Kìnima Allaghìs) di centro-sinistra, il quale però pare intenzionato a proseguire la sua opposizione, e forse perfino a fornicare con i conservatori di Nea Dimokratía. Il sigillo su questo fallimento l’hanno messo gli incendi di luglio in Attica, i cui 93 morti sono stati il frutto dell’imbottigliamento prodotto da una speculazione selvaggia di almeno vent’anni, alla quale questo governo non ha saputo porre un freno. Inutili dunque, prima, le missioni di sensibilizzazione dei vigili del fuoco, inutili i richiami alla legalità contro l’abusivismo, lettera morta l’intenzione di creare un nuovo catasto del territorio; e ora tardive le lacrime di coccodrillo sui rimboschimenti sbagliati con pini marittimi (gli alberi più infiammabili), tardiva la costituzione di una commissione d’indagine indipendente e tardiva anche la riorganizzazione della Protezione Civile sul modello italiano, ritenuto il più efficace.
Gli incendi hanno mostrato una Grecia attenta al particulare, dimentica del bene pubblico e della legalità, un governo debole e a tratti corrivo, una cittadinanza pronta a sacrificare i beni comuni per una palazzina vista mare o un accesso alla spiaggia. Era forse impossibile imprimere una svolta di ethos in così poco tempo, era certo impossibile farlo sotto la pelosa ipocrisia dell’Europa.
Per ora, le speranze si concentrano sulla Fiera Internazionale di Salonicco, dove tra l’8 e il 9 settembre Tsipras annuncerà le misure del suo governo per la ripresa (ma Fmi e Commissione Ue, la cui prima “visita” di controllo è prevista proprio per il 10, hanno già dichiarato che non tollereranno deviazioni dagli impegni assunti): dilazione degli ultimi tagli pensionistici, abbattimento della patrimoniale, aumento del salario minimo, lotta all’evasione e al lavoro nero, reintroduzione dei contratti collettivi. Sono in larga parte le promesse con cui l’attuale premier si era presentato agli elettori 4 anni fa, e l’idea di mettervi mano ora, ridotto a mal partito da tutte queste peripezie, sembra velleitaria perfino per il giovane Ulisse che vuole risistemare Itaca e uccidere i proci, convinto di avere ormai passato le Simplegadi. Già, le Simplegadi. La poesia di Seferis citata da Tsipras, cupa professione d’impotenza, si chiude così: “Nei porti, la domenica, / quando scendiamo a prendere un po’ d’aria, / vediamo rischiarirsi nel crepuscolo / legni rotti da viaggi interminati, / corpi che più non sanno come amare”.

La Stampa 25.8.18
I servizi palestinesi sventano attacco contro Israele
di Giordano Stabile


I servizi palestinesi sventano un potenziale, devastante attacco contro i militari israeliani, e bloccano il tentativo da parte di gruppi jihadisti di sabotare l’accordo fra lo Stato ebraico e Hamas, ormai molto vicino, per una tregua permanente a Gaza. L’intesa, oltre a porre fine a cinque mesi di scontri, è destinata ad alleviare le condizioni umanitarie difficilissime nella Striscia e potrebbe essere il preludio di un passo molto più importante, la presentazione del piano di pace americano promesso da Donald Trump.
Anche la leadership di Hamas, messa all’angolo dal blocco israeliano ed egiziano, sembra ormai convinta che l’unica strada è il negoziato. La tregua potrebbe anche favorire la nascita di un governo di unità nazionale con Al-Fatah del presidente Abu Mazen. È un percorso stretto e gli estremisti vogliono bloccarlo. E proprio i servizi dell’Autorità nazionale palestinese guidata da Abu Mazen hanno scoperto nei giorni scorsi una bomba molto potente sulla superstrada 443, destinata a far saltare in aria un convoglio dell’esercito israeliano. Lo sventato attacco è stato rivelato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth e da quello panarabo Al-Quds al-Arabi, che hanno citato fonti dei servizi palestinesi.
Le fonti hanno sottolineato che la caratteristiche della bomba sono compatibili con il modus operandi sia della Jihad islamica palestinese che dell’Hezbollah libanese». La seconda ipotesi appare alquanto improbabile ma la Jihad islamica si è resa protagonista di attacchi anche in Cisgiordania negli ultimi tre anni. È un gruppo più radicale rispetto ad Hamas, che punta soltanto sulla lotta armata in tutti i Territori. La bomba è stata trovata tra i villaggi palestinesi di Beit Liqya e Beit Anan, nell’Area C della Cisgiordania, sotto pieno controllo israeliano. L’ordigno consisteva in due bombole di gas con materiale esplosivo e un gran numero di chiodi.
La cooperazione prosegue
L’operazione di disinnesco «è avvenuta in coordinamento con l’esercito di Israele». Nonostante le tensioni molto forti fra l’Autorità palestinese e il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, a partire dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, la cooperazione tra forze di sicurezza palestinesi e israeliane è continuata. In Cisgiordania le manifestazioni sono rimaste contenute, rispetto alle “marce del ritorno” a Gaza, dove ieri ci sono stati altri 20 feriti.

Il Fatto 25.8.18
Le colpe dei padri Lisa Brennon Jobs, figlia di Steve Jobs
“Perdonatelo, io l’ho fatto. Papà Jobs era un computer”
In uscita il 4 settembre la versione di Lisa “Apple”
di Alessia Grossi


“Mi vergognavo di essere la parte peggiore di una grande storia”. Parola di Lisa Jobs. Soggetto di innumerevoli biografie – in vita e in morte –, dell’esistenza di Steve Jobs i suoi fan così come i suoi detrattori conoscevano già ogni dettaglio. Compreso quello del complesso rapporto con sua figlia, nata Brennon perché da lui riconosciuta solo tardivamente e da allora cresciuta schiacciata da suo padre, l’illustre “buonuomo” che ha rivoluzionato il rapporto tra uomo e tecnologia. Peccato che non abbia saputo fare lo stesso con le relazioni padre-figlia. Oppure sì. Visto che lei, Lisa, a pochi giorni dall’uscita della biografia, Small Fry – che ha in primo piano proprio papà Steve – confessa di averlo perdonato. “Vorrei che anche i lettori lo facessero – spiega in un’intervista al New York Times – vorrei che restassero impresse a chi legge le immagini di noi due contenti in pattini a rotelle, quanto il suo annuncio che non mi lascerà l’eredità”.
Esperimento difficile. Basta leggere le anticipazioni del libro, infatti, per immaginare lo sforzo che deve aver significato per lei, riconosciuta solo da adolescente, venire a patti con “la parte peggiore” di suo padre. E che padre. Eppure è Lisa stessa a confessare di essere riuscita a darsi una spiegazione per ogni singola freddura che Steve Jobs le ha riservato. Come quella volta che ci tenne a spiegarle che “Apple Lisa”, il computer da lui creato non era in suo nome. “Voleva insegnarmi a non cavalcare l’onda della sua fama”, spiega la donna al Nyt. O quando le negò l’aria condizionata in camera. “Non è che fosse insensibile – chiarisce – voleva insegnarmi un sistema di valori”. O quel giorno in cui lei decise di spruzzarsi un profumo per lui che la gelò con “odori come un gabinetto”. “Mi stava soltanto mostrando la sua onestà”. Small Fry dunque, sarebbe un modo per la scrittrice di “fare pace” con suo padre, anche se lei stessa non ne sembra molto convinta e si augura “di riuscire a passare un buon Ringraziamento”. Nonostante tutto. Perché ce n’è per tutti nel suo racconto. Sullo sfondo c’è la Silicon Valley degli anni 80: un mix di artisti, hippy e tecnologi. Ed è in questo clima che sua madre Chrissann Brennan, artista, e suo padre, il futuro rivoluzionario dell’informatica si conoscono, si amano, concepiscono Lisa e poi si lasciano. Sarà proprio sua madre – costretta ai lavori più umili – a crescerla nonostante i milioni di dollari che nel frattempo seppelliscono il suo padre biologico. E non basterà neanche la prova del Dna a darle ragione. Servirà una sentenza del tribunale che obbligherà Jobs a sostenere gli studi di sua figlia, per veder riconosciuta a Lisa la paternità. Lei che solo allora decide di confessare ai suoi compagni del liceo di Paolo Alto di essere la figlia dell’inventore del Mac. Small Fryracconta anche questo. Come Jobs sia diventato l’eroe locale.
Eppure sempre freddo nei confronti di sua figlia. Tanto da “costringere” i vicini a farsi carico dell’adolescente spaesata e ad accoglierla in casa loro. A proposito di casa, Lisa ricorda quando su richiesta di sua madre, Steve le accorda l’acquisto di un’abitazione “purché sia bella”. Chrisann Brennan ne trova una all’altezza. Al punto che l’ex decide di andarci a vivere con sua moglie, Laurene Powell. La donna che – durante una sessione di terapia con Lisa piangente perché si sente sola – risponde al terapeuta: “Siamo solo persone fredde”. Altroché fredde, Lisa racconta di come suo padre “scherzasse” simulando un amplesso con la signora Powell davanti ai suoi occhi.
E la madre della ragazza si spinge a rievocare la scelta di mettere tra Steve e sua figlia piccola un accompagnatore “per via degli atteggiamenti inappropriati” del manager con la bambina. “A nove anni lo sorpresi a ridere di lei su ipotetici rapporti con un fidanzatino”.
Ma Lisa “giustifica” anche questo: “Era così inopportuno perché non sapeva fare di meglio. Era sempre in bilico tra l’umano e il disumano”. Ma come in tutte le fiabe mentre Jobs era malato terminale arriva il “lieto fine”. “Lui si scusa e nella sua biografia ammette di essere pentito di non aver trascorso più tempo con lei e di non aver risposto alle sue chiamate né di averla richiamata”. Salvo spiegarle di non averlo fatto non perché fosse occupato, bensì “perché offeso per non essere stato invitato ai week end di Harvard”. Oggi Lisa avrà perdonato suo padre, forte anche dei milioni ricevuti in eredità, pari a quella degli altri figli, eccetto per la parte finanziaria. “Se avessi quella la donerei alla Gates Foundation”, confessa fiera. “Sarebbe troppo perverso, si domanda?”. Almeno quanto dire di aver perdonato suo padre e poi dare alle stampe queste memorie, avendo promesso a lui di non farlo.

Domani me ne vado alla Festa dell’Unità. Ho bisogno di starmene un po’ da solo.

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