domenica 19 agosto 2018

Il Fatto 19.8.18
Nessuna operazione di polizia fermerà milioni di migranti
Miraggi autarchici - Da Berlusconi e Renzi ai nuovi governanti, l’illusione di “aiutarli a casa loro” e di respingere gli stranieri
di Salvatore Settis


Nell’arduo tentativo di sorpassare in vaniloquio il suo collega di governo Salvini, il vicepresidente Di Maio ci ha spiegato dove hanno sbagliato i 136 emigranti italiani morti nella miniera belga di Marcinelle nel 1956: “Questa vicenda insegna che non bisogna partire dall’Italia, che non bisogna emigrare”. Venendo dal ministro del Lavoro, questo alto monito sarà certo rivolto non solo (retrospettivamente) ai trenta milioni di emigranti italiani in America, Australia, Europa dal 1860 al 1990, ma anche ai 5 milioni di italiani che oggi lavorano all’estero, nonché ai circa 170.000 italiani che si ostinano a emigrare ogni anno, facendo dell’Italia l’ottavo Paese dell’Ocse per tasso di emigrazione (2,4%), non poi troppo lontano dal Messico col suo 2,7% (dati Comuniverso). Non sapevano che era meglio starsene a casa, i nostri emigranti i cui discendenti sono oggi metà della popolazione argentina e quasi il 10% di quella statunitense. E se per caso i cinque milioni di lavoratori italiani iscritti all’Aire (anagrafe dei residenti all’estero), convinti dall’argomentare del ministro, rientrassero domani in Italia, troverebbero lavoro (o reddito di cittadinanza) per tutti?
La migrazione di esseri umani è un fenomeno globale di enorme portata e complessa interpretazione, e non è con facili boutade o con fandonie improvvisate che lo si può affrontare. Ma le parole di Di Maio vanno prese sul serio anche se estemporanee. Messe insieme con le invettive di Salvini contro i migranti, sono il sintomo di una concezione del mondo che sarà forse popolare (visto che i due vicepremier gareggiano per suscitare vampate di consenso), ma è soprattutto lontanissima dalla realtà. Dà per scontate due cose che, viceversa, non sono mai accadute negli ultimi centomila anni: primo, che le comunità degli umani possano (anzi debbano) restar ferme dove sono, senza mai muoversi, senza mescolarsi fra loro, senza cercare altrove condizioni di vita migliori. Secondo, che quando si verificano flussi migratori sia non solo giusto e necessario, ma possibile e fattibile arrestarli ricacciandoli indietro con operazioni di polizia. Perciò la dichiarazione di Di Maio è il rovescio e l’identico di quella che Renzi ci regalò un anno fa : “Aiutiamo i migranti a casa loro”. Ognuno a casa propria, di qua gli italiani che non emigrano, di là i migranti che l’Italia respinge. Tutti “padroni in casa propria”, secondo lo slogan di Berlusconi che Renzi ripeteva senza pudore. La cultura al cloroformio di chi ci governa è a quel che pare ancora e sempre nutrita di miraggi autarchici.
Due pilastri megalitici di un tempio di Tarxien (Malta), del 1500 a.C. circa, hanno in merito qualcosa da dirci. Sono coperti di graffiti che rappresentano almeno 38 battelli in navigazione fra la Sicilia, le isole maltesi e l’Africa. Allora come oggi. I primi abitanti di Malta vennero dalla Sicilia intorno al 5000 a.C., e nell’arcipelago maltese svilupparono una civiltà particolarissima, caratterizzata da sorprendenti e gigantesche costruzioni templari. I graffiti di Tarxien, opera di migranti scampati al naufragio (Woolner), raccontano una storia molto semplice: ci dicono che il Mediterraneo non è una barriera da fortificare, ma una strada da percorrere. E che da migliaia di anni il flusso, in tutte le direzioni, è inarrestabile.
È vero, i migranti di Tarxien erano pochi, mentre l’enorme incremento della popolazione mondiale ha moltiplicato i movimenti di popolo fino a proporzioni quasi apocalittiche. Ma chi emigra con enormi rischi e sacrifici non lo fa perché non aveva capito che era meglio starsene a casa né perché è un criminale (meno che mai perché migrare è “una pacchia”). Le cause immediate della migrazione che preme alle porte dell’Europa sono conflitti militari, carestie, guerre civili, talvolta pulizia etnica: tutte eliminabili in linea di principio, anche se per eliminarle l’Ue fa ben poco, e molto ha fatto per rinfocolarle (come in Libia). Ma c’è una causa di fondo che non si elimina con interventi di breve periodo: l’enorme squilibrio economico fra le varie parti del mondo. A un tale squilibrio c’è un rimedio vecchio di migliaia di anni: l’emigrazione. Nulla può arrestare le folle latino-americane che premono ai confini sud degli Stati Uniti, nulla può arrestare la marea di popolo che da oltre il Mediterraneo guarda verso l’Europa. Anzi, i drammatici cambiamenti climatici innescheranno nuove ondate migratorie, a cui siamo ciecamente impreparati.
Perciò i placebo escogitati da Salvini e Di Maio sono patetici tentativi di rimozione (dall’attenzione pubblica, ma anche dalla loro responsabilità politica) di un problema che non sanno come affrontare. Eliminare gli squilibri che causano i movimenti migratori è necessario, ma richiede un progetto di lungo periodo di cui non s’intravvede nemmeno l’abbozzo. Ma i migranti, le donne e uomini e bambini e vecchi che salgono oggi sui barconi, non possono aspettare decenni per salvarsi la vita. Una strategia di lungo periodo è urgente, e dovrebbe includere la possibilità (non l’obbligo) di trovare lavoro “a casa propria”. Ma altrettanto necessaria e urgente è una strategia di accoglienza sui tempi brevi, rivolta ai nostri fratelli che migrano proprio come i nostri nonni cent’anni fa. Una minima informazione e consapevolezza storica servirebbe anche ai nostri ministri, corrivi inventori di slogan senza coraggio e senza futuro. Come diceva uno dei grandi storici del Novecento, Eric Hobsbawm, abbiamo l’obbligo di protestare contro chi vuol spingerci a dimenticare.

Il Fatto 19.8.18
Contro terrorismo e mafie la violenza non è una soluzione. Ce lo spiega Clint Eastwood
di Otello Lupacchini


Nella decisione 6 settembre 1999 della Corte suprema d’Israele, con cui si è proibito l’uso di “pressioni fisiche” volte a procurarsi informazioni ritenute necessarie alla prevenzione di futuri atti terroristici, il presidente dell’organo di giustizia Aharon Barak ebbe ad osservare che “nonostante debba combattere con una mano legata dietro la schiena, la democrazia ha comunque il coltello dalla parte del manico”. Nutrire qualche perplessità sull’ottimismo di Aharon Barak è certamente legittimo, ma non per questo ci si è ancora spinti ad auspicare l’adozione di iniziative tanto drastiche contro il terrorismo internazionale da configurarsi come vere e proprie rotture dei vincoli legali, morali e umanitari che imbrigliano le opzioni securitarie nello Stato di diritto: pur auspicando si faccia di più per ridurre efficacemente la frequenza e la gravità degli attentati, nessuno ha suggerito ancora apertamente di rinunciare al giusto equilibrio tra sicurezza e libertà.
Analogo discorso dovrebbe valere quanto al contrasto alle organizzazioni criminali, siano esse le mafie o i cartelli della droga, che pure impiegano i meccanismi del terrore, tanto più che l’uso della violenza, nel loro caso, è strettamente inteso a intimidire rivali e polizia. Sennonché qualcuno, alle cui strutture mentali paiono alieni i meccanismi dello Stato di diritto e a cui sembra manchi addirittura la sia pur minima consapevolezza che spesso politiche deboli e ambigue tendono la mano slegata ai mafiosi in segno d’incoraggiamento, pretende di mostrare come per difendersi dalle mafie si dovrebbe poter usare tutte e due le mani, le unghie e i denti e anche entrambi i piedi, senza attenersi alle regole del marchese di Queensberry.
Ad animare simili pulsioni è quella che Nietzsche definisce “Volontà di Potenza”, cioè la cieca tendenza a espandersi a detrimento del circostante, nonché necessità di dominare, occupare, sottomettere; e questo neanche, poi, per un supposto “piacere” che ciò conferirebbe, ma per la pura tensione espansionistica in sé; nell’inarrestabile forza della Volontà di Potenza non c’è infatti alcun “istinto di conservazione” né finalità edonistica di sorta, dato che un organismo non fa altro che cercare di essere ed essere di più. Non sembri irriguardoso (sempre parafrasando Nietzsche) sottolineare come chi si fa portatore dell’ideologia dell’amministrazione violenta dalla giustizia, lungi dall’essere annoverabile tra gli “spiriti superiori ed estrosi”, votati piuttosto all’estinzione, sia invece da ricondurre alla species di quegli “spiriti deboli”, i quali riescono sempre a emergere sia perché hanno l’enorme vantaggio della numerosità sia anche grazie a risentite e vendicative tecniche fraudolente.
Aggirandosi nell’universo della cinematografia western capita d’imbattersi in personaggi inguaribilmente violenti che – sebbene apparentemente votati a un’esistenza calma e tranquilla, piena di pace, amore e lavoro – quel che fanno, in realtà, è ridistribuire la propria violenza in un altro modo, come ad esempio lo sceriffo Little Bill Dagget, del film Gli Spietati di Clint Eastwood, calzante metafora di chi nutre l’aspirazione a un’amministrazione della giustizia, dove all’accusatore siano consegnati poteri amplissimi e il percorso delle indagini e del processo sia disseminato il meno possibile di garanzie per l’accusato, così da inchiodare irrimediabilmente i colpevoli, permettendo che si sviluppi nei giusti termini la lotta alla criminalità.
Costui rappresenta e difende la calma vita familiare, anche se paradossalmente attraverso le armi e la violenza più sadica; è impegnato oltre tutto nella costruzione di una casa, simbolo della stabilità e negazione dell’eroismo nomade, dalla cui veranda spera, a quanto dice, di “poter prendere il caffè o fumare la pipa vedendo tramontare il sole”: grandioso esempio d’eterna mediocrità, come direbbe Nietzsche. Il modo in cui amministra la “giustizia”, ignorando qualsiasi valore della persona e somministrandola mediante accordi e considerazioni d’ordine burocratico e materiale, sensibile com’è all’ideologia della “pace e sicurezza”, è a dir poco singolare: in occasione dell’incidente occorso alla prostituta Delilah Fitzgerald, sfregiata da due cow boy, anziché arrestare i responsabili si limita a multarli in natura, obbligandoli solamente a consegnare cinque cavalli al proprietario del bordello come risarcimento.
Assuntosi, peraltro, il compito di disarmare completamente il paese in modo da renderlo un posto tranquillo, dove le famiglie possano “vivere in pace”, mentre fa apporre, all’entrata di Big Whiskey, un’insegna che ordina di lasciare alla porta della città armi e bevande e riprenderle al ritorno, impiega, allo stesso tempo, procedimenti così brutali da indurre il sospetto che egli voglia disarmare tutti per rendere sempre più incontrastato il proprio potere. Si circonda, del resto, di numerosi aiutanti – un po’ tonti, che non sparano bene, anche piuttosto vigliacchi, molto insicuri – che si fanno scudo dell’autorità del padrone e, nel momento di agire, caricano dubbiosi le loro pistole.
L’impressione è che tutto questo spiegamento di uomini rappresenti solo una forza presa a prestito, quella cioè dei deboli, direbbe ancora Nietzsche, i quali messi difronte a un uomo tutto d’un pezzo, nulla potrebbero fare e verrebbero uccisi tutti assai facilmente. Come infatti accade alla fine del film, quando Will Munny – ex pistolero con all’attivo un invidiabile record di omicidi e furti temerari, ma che vive ormai nel ricordo della donna che lo ha redento e lasciato con due figli da mantenere, l’epidemia che attacca i suoi maiali e la miseria, già vecchio e affaticato, con la vista debole, incapace di sparare con la dovuta precisione e rapidità – risorge dalle ceneri e riesce ad eliminare lo sceriffo, uccidendo così l’ipocrita denunciato da Nietzsche, che ha cercato di trasformare la propria “Volontà di Potenza” in una campagna di moralizzazione del selvaggio West, e a liquidarne in pochi secondi la temibile guardia personale, allo stesso modo di chi fa crollare un castello di carte e ne mette in evidenza la latente fragilità.
Ma un altro personaggio s’incontra ne Gli Spietati, la cui figura moralmente ripugnante suona perfetta metafora della collaborazione degli intellettuali alla costituzione del clima di violenza: il signor W.W. Beauchamp, grassoccio scrittore di biografie, codardo e conciliante. Arrivato a Big Whiskey assieme al “duca” Bob, un ammazzasette inglese tutto fumo e niente arrosto, del quale sta appunto redigendo la biografia, una volta che il suo “padrone” ne viene ignominiosamente scacciato, Beauchamp passa repentinamente alla fazione opposta, accettando subito la versione dei fatti così come viene raccontata dal suo nuovo padrone, Little Bill Dagget. E fosse solo questo! Mentre lo sceriffo “interroga” Ned Logan, usando la frusta, le sue sobrie e scientifiche annotazioni gli saranno utilissime per scoprire le contraddizioni nella confessione del prigioniero: l’intellettuale è integrato nella macchina della tortura, a sua volta integrata nell’ordine esistente.

il manifesto 19.8.18
La solitudine di Praga 50 anni fa, ci ha lasciato i mostri di oggi
1968-2018. Se allora la sinistra avesse reagito subito diversamente, forse oggi non avremmo a che fare con una Visegrad
Praga, agosto 1968
di Luciana Castellina


No, non è uguale agli altri che l’hanno preceduto questo cinquantesimo anniversario dell’agosto praghese, quando i carri armati di Mosca marciarono sulla città per mettere fine al tentativo di rendere il socialismo migliore e diverso da quello che fino ad allora era stato. Perché oggi ci impone una riflessione ulteriore, sia pure retrospettiva.
A scadenze regolari, ogni volta l’abbiamo ricordato con sentimenti diversi; la prima, quando non ricordavamo ma commentavamo l’evento che ci arrivò come una cannonata, ci fu stupore ed orrore, un dramma per noi comunisti che avevamo sperato nell’esperimento di Dubcek, e però non avremmo mai immaginato che Mosca potesse arrivare a tanto. Con malcelata soddisfazione – al contrario – fu vissuto da tutte le varietà dell’anticomunismo che dipinsero quell’attacco sovietico come se fosse stato perpetrato contro un governo gestito dai liberali anziché, come era, contro un governo di comunisti, che infatti si rifugiarono in una fabbrica – la Ckd – per tenere, difesi da picchetti operai, il loro clandestino congresso straordinario. Al primo anniversario, nell’agosto ’69, toccò al manifesto appena uscito (mentre la nostra radiazione dal Pci era ancora pendente e quell’articolo accelerò la decisione) constatare che Praga era sola.
Lasciata sola sia dai partiti comunisti che pure avevano criticato l’invasione ma non ne parlavano più, sia da quelli che avevano gridato contro tutti i comunismi, anche contro quello che veniva aggredito, ma ora avevano smesso di occuparsi della vicenda. Aveva vinto la normalizzazione, e nessuno intendeva mettere in discussione la tranquillità che forniva una coesistenza fra le due grandi potenze fondata sulla conservazione dello status quo ovunque nel globo, anche laddove ribolliva la sacrosante rivolta del terzo mondo. Ricominciarono tutti, come se niente fosse, a riallacciare rapporti con il nuovo regime di Praga, quello di Husak ( il primo viaggio nella capitale ceka, ricordo, fu di un noto dirigente del Psi).
RESTAMMO IN POCHI a ricordare la natura della«primaverapraghese» e le vere vittime dell’aggressione sovietica: i comunisti cecoslovacchi. Perché meravigliarsi che negli anni successivi quella memoria si sia via via affievolita nella stessa Cecoslovacchia, che il nome stesso di Dubcek sia stato dimenticato e la protesta abbia assunto sempre più i connotati di una spasmodica rivendicazione liberal-borghese? La solitudine di Praga, che ebbe il sostegno solo di una piccola parte della sinistra (nemmeno di tutta la nuova, quella sessantottina, che si sentì per lo più poco coinvolta, quasi la vicenda riguardasse solo i vecchi comunisti ) ebbe riflessi pesanti sui praghesi stessi. Dopo l’ultimo coraggioso ruolo di Carta 77, finì per produrre scoraggiamento e infine rimozione. Anche della migliore tradizione comunista di cui pure la Cecoslovacchia era stata ricca. Quando, poco prima dell’89, si arrivò alla «rivoluzione di velluto», la speranza di un comunismo buono era già morta, il significato della protesta era già assunto altra natura. E infatti, in poco tempo, diventò condiviso impegno per rendere al più presto il proprio paese sempre più somigliante all’agognato occidente.
GIÀ ALLA FINE del successivo decennio l’obiettivo era stato raggiunto: ricordo di aver rivisto Praga allora, dopo molti decenni. Col cuore stretto: la città già straniata, senza più né anima né mistero, la storica piazza San Venceslao non più agorà politica, stuprata da insegne di coca cola, griffes di Prada e Bennetton, una fila di «casino non stop». Sparita la magia, gli arcani, le cabale di rabbi Loev e del suo ghetto leggendario, ormai affumicato dai gas di scarico della ininterrotta fila di pulman carichi di visitatori stranieri.
MI RESI CONTO che pur essendo stata tante volte in quella città prima del ’68 non avevo più amici cui telefonare: quasi tutti quelli che si erano battuti con Dubcek, e poi con Carta 77, avevano già da decenni dovuto, o scelto, di abbandonare il paese. Dove erano finiti i comunisti? I nuovi governi, negli anni successivi, tentarono persino di rendere illegali – grazie all’ignobile equiparazione del comunismo con il fascismo – le formazioni che tornarono ad adottare quel nome. Mentre non pochi che erano stati parte dell’establishment rimasto al potere dopo la primavera si travestirono, alcuni diventarono ricchi, entrando a far parte del ceto «compradore» che l’Ue aveva cooptato in ognuno dei paesi dell’est che via via erano stati annessi, a condizione che accettassero senza fiatare quanto Bruxelles aveva già deciso nei suoi precedenti 40 anni. Babis,l’attuale primo ministro della Cechia – ormai separata della Slovacchia cui un tempo era unita – è, anche lui, uno di questi ex comunisti.
MILIARDARIO E POPULISTA. Appoggiato da chi si definisce socialdemocratico e, sia pure a malincuore, da chi oggi continua a portare il nome di partito comunista (tre suoi deputati siedono al parlamento europeo nel gruppo della Sinistra Europea).Ma il governo di Praga è oggi uno dei principali paladini del famigerato gruppo di Visegrad. Ecco perché dico che questo anniversario è diverso dagli altri: perché di fronte a un simile approdo non possiamo non ripensare a quanto quella solitudine del ’68 sia responsabile di questi mostri di oggi. La storia, lo sappiamo, no si fa con i se, ma non possiamo non dire che se allora a quell’evento la sinistra tutta avesse reagito subito diversamente, forse non ci saremmo trovati a che fare con una Visegrad. Non sarebbe stato un bene solo per l’est europeo, ma anche per la nostra sinistra.

il manifesto 19.8.18
Da Venceslao al Gruppo di Visegrad, l’anno degli anniversari
Praga 68. Dalla normalizzazione «socialista» a quella di mercato. Lo Stato comune non c’è più: la Repubblica Ceca ricorda il ’68 con favore, la Slovacchia è a dir poco «disattenta». Resta forte il consenso per Dubcek
Praga, agosto ’68. «I comunisti siamo noi, voi chi siete?» gridavano i ragazzi di Praga ai giovani soldati sovietici occupanti
di Jakub Hornacek


Come ogni anno, l’appuntamento è il 21 agosto di mattina nell’inizio della via Vinohradská, a pochi passi dalla piazza Venceslao a Praga. Parte la banda militare, i fiori e i discorsi tutto sommato prudenti e dozzinali. Ad assistere, come ogni anno, qualche centinaio di persone, per lo più con i capelli bianchi. E come ogni anno mancano le autorità massime del Paese.
Cinquant’anni fa, il palazzo davanti, ancora oggi sede della radio pubblica, è stato il palcoscenico di uno dei più ricordati atti di resistenza della società cecoslovacca all’invasione delle truppe del Patto di Varsavia, che nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 invasero la Cecoslovacchia. La facciata del Museo Nazionale, restaurata solo di recente, conserva ancora i fori dei proiettili sparati dai carri armati sovietici in quelle ore concitate. È uno dei pochi ricordi materiali del 1968 che rimangono in città.
I cinquant’anni dall’avvio delle riforme, che dovevano costituire un socialismo dal volto umano, e la seguente invasione dei Paesi socialisti «fratelli» è forse tra le ricorrenze meno ricordate in questo 2018 di grandi anniversari. La Repubblica Ceca ha festeggiato non soltanto i 25 anni della sua esistenza ma il 28 ottobre si appresta a ricordare i grande centenario della nascita della Cecoslovacchia.
Per l’occasione è stata organizzata una grande mostra bi-nazionale con la Slovacchia, i monumenti nazionali saranno tirati a lucido e sulla Evropská, il lungo viale che va all’aeroporto, si terrà una parata militare. Ma a essere più attivi sugli eventi del ’68 cecoslovacco sono le istituzioni estere nel Paese, come gli istituti di cultura.
La disattenzione istituzionale è forse il segno che per la società ceca il 1968 sia solo un lontano ricordo? «Il tema della Primavera di Praga divide la società in due campi – scrive l’Istituto di Sociologia dell’Accademia delle Scienze in una recente indagine sul rapporto della società ceca nei confronti di quel periodo – Il primo campo ritiene che si tratti di un evento ancora vivo della storia ceca e cecoslovacca, che non dovrebbe essere lasciato ai soli manuali di storia ma il cui messaggio va ricordato e sviluppato nel presente. Il secondo gruppo dei cechi è più scettico e ritiene che si tratti solo di storia, verso cui non ha un gran senso rivolgere lo sguardo e tanto meno trarre ispirazione».
Se la società è divisa su come approcciarsi oggi al movimento di riforma del 1968, la valutazione di quel periodo è invece abbastanza omogenea. «L’opinione pubblica sostiene che la Primavera di Praga sia stato un autentico periodo di democratizzazione della società, a cui ha per giunta partecipato la maggioranza del Paese», sostengono i ricercatori.
Minore è invece il ricordo della Primavera di Praga in Slovacchia: tra gli eventi storici valutati con maggior favore della popolazione, il 1968 cecoslovacco finisce solo settimo sorpassato addirittura dall’entrata della Slovacchia nell’Unione Europea e nella Nato. Unica eccezione è la figura di Aexander Dubček, di fatto il primo slovacco arrivato alla testa dell’allora Stato ancora unitario, che continua a riscuotere grandi consensi.
Nonostante l’etos della Primavera di Praga continui a godere di una considerazione relativamente alta, sul piano politico invece l’influenza del 1968 non si sente quasi. E ciò accade non solo perché il vecchio stato comune non c’è più. «La società ceca ha voltato presto le spalle al socialismo democratico per orientarsi, dopo un breve afflato per i diritti umani, verso un ’consumerismo’ con un’impronta ideologica modificata», così indica la parabola post 1989 del Paese lo storico Pavel Kolář.
Paradossalmente, oggi – in quel che si dice di sinistra e nel populismo del premier Andrej Babiš – prevale un approccio che si richiama più alla sconfitta del 1968: la normalizzazione. Nel maggior partito di sinistra, i socialdemocratici della Čssd, i vecchi sessantottini sono stati da tempo messi a tacere, prima negli anni Novanta dalla gestione personalistica di Miloš Zeman e oggi da tendenze sempre più nazionalistiche.
Niente da fare neppure per il Partito comunista, il Ksm, i cui dirigenti sono cresciuti con il bagaglio «culturale» della normalizzazione. Ex dirigente dell’Istituto del Commercio Estero negli anni Ottanta, anche Babiš è stato un quadro del partito normalizzato e, probabilmente, anche un collaboratore della polizia segreta, per poi costruire il suo impero economico con privatizzazioni e rapporti opachi.
Il successo della normalizzazione sulla Primavera di Praga non è però esclusivamente una questione generazionale. La Primavera di Praga è stata soffocata non soltanto dai carri armati ma da un’inversione ideologica della società.
Come sottolineato da diversi storici, la normalizzazione si reggeva sulla promessa di una società di consumi, sebbene di tipo socialista, in cambio del disinteresse verso la politica dei cittadini, che venivano coinvolti solo per manifestazioni di regime o elezioni scontate. Il ’consumerismo’ di tipo capitalista, per cui l’emancipazione e la libertà si conquistano sul mercato e tramite la proprietà, si è collegato con molta naturalezza al precedente consumismo di scambio del socialismo realizzato.
Di questa società dei consumi è parte organica anche la paura che venga qualcuno da fuori a rovinare il benessere raggiunto. Prima dell’89 erano gli «agenti delle forze imperialiste», oggi sono i migranti e i rifugiati. Così Praga oggi non è più «sola»: da Piazza Venceslao ’68 è ormai in prima fila tra i Paesi del Gruppo di Visegrad che alza nuove frontiere e fili spinati.

il manifesto 19.8.18
Dall’Archivio de il manifesto, inserto «Praga 68-98» del 21 agosto 1998
Pci e Praga, incertezza e viltà
La stagione infranta. Non fu una pagina gloriosa per i comunisti italiani quella del «nuovo corso» socialista in Cecoslovacchia. I più avvertiti della crisi a Est erano stati Togliatti e Longo. Poi, caduto il Muro di Berlino, senza «elaborare il lutto», fu buttato a mare anche l’Ottobre
Il nuovo Comitato centrale del Pcc sfila per le vie di Praga foto Ctk foto Reuters-Josef Koudelka-Magnum Photos
di Rossana Rossanda


Non fu una pagina gloriosa per il Pci quella della Cecoslovacchia. Il «nuovo corso» era l’estremo tentativo di uscita dalla rigidità del sistema condotto da un partito comunista ancora forte, sostenuto da una intellighentia impegnata e da una fiducia popolare esente dalle spinte anticomuniste che si erano infiammate nel 1956 nella rivolta ungherese. Il Pci lo capì e lo sostenne fino all’invasione: allora parlò di «tragico errore», ma non decise quello «stacco» che avrebbe compiuto a freddo molto più tardi. Né appoggiò l’opposizione a Gustav Husak; anzi gli esiti di Praga parvero suggerirgli somma prudenza sui fatti polacchi, dove nello stesso inverno del 1968 gli studenti avevano occupato le università – fu il solo grande movimento studentesco all’Est – e furono duramente repressi, cacciati i docenti più illustri, i Kolakovs- ki, i Baczko, i Brus, e arrestati i giovani di Kuron, Modzelevski, Michnik con i primi gruppi di difesa operaia.
Non capì, l’anno seguente, la prima rivolta dei cantieri che fece cadere Gomulka e avrebbe dato il segno di lotte operaie per tutto un decennio, non destinate in partenza a finire in braccio alla Chiesa. Ancora nel 1978, quando il manifesto convocò una discussione di due giorni degli esponenti di sinistra del dissenso, il Pci interdisse ai suoi quadri di partecipare al convegno, affidando un unico intervento, prudente, allo storico Rosario Villari. Lo strappo di Berlinguer sarebbe intervenuto dopo gli anni settanta, in presenza di dirigenze ormai irrecuperabili e opposizioni di segno politico opposto.
A distanza i più lucidi sull’evoluzione dell’Est sembrano essere stati Togliatti e Longo, i soli due vecchi dell’Internazionale che ebbero nel Pci un ruolo determinante. Quattro anni prima, nel 1964, Togliatti aveva steso a Yalta, in attesa di incontrare Krusciov, un memoriale nel quale indicava l’aggravarsi dello stato di quelle società. Il documento – interessante anche per alcune correzioni visibili portate alla prima stesura – pareva scritto per argomentare l’opposizione del Pci alla conferenza internazionale di tutti i partiti comunisti che il Pcus voleva indire per condannare la Cina, e alla quale già Togliatti aveva esposto il parere negativo dei comunisti italiani.
I tank del Patto di Varsavia occupano le vie della città foto Reuters-Josef Koudelka-Magnum Photos
Il sugo del memoriale era: piaccia o non piaccia la linea cinese, ogni partito sceglie la sua «via al socialismo», non si può che discuterne l’uno con l’altro in modo ravvicinato e senza scomunica, e non sarebbe più urgente che vedeste i guasti nel campo dell’Est in Europa?
Togliatti morì d’improvviso prima di incontrare Krusciov e Luigi Longo decise di pubblicare il memoriale. In Francia uscì su Le Monde. Il Pcus e il Pcf ne furono grandemente irritati, mentre chi all’Est scalpitava e ne ebbe conoscenza, vide con speranza quel passo degli italiani. Nel febbraio del 1965 ero a Praga (negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti bombardavano Hanoi e la Tass preferiva non darne notizia) e si percepiva l’insofferenza verso la leadership di Antonin Novotny. A gennaio del 1968 egli veniva sostituito senza furia né sangue, e la segreteria passava a un oscuro dirigente slovacco, Aleksander Dubcek.
Cominciava il nuovo corso, e il Pci lo intese. Ma lo intesero anche Breznev, Gomulka e Ulbricht e ne temettero il dilagare. Solo due mesi dopo, a marzo, convocavano a Dresda un vertice del Patto di Varsavia, apparentemente su un diverso odg, che in realtà chiedeva a Dubcek di rendere conto della linea Pcc. Dubcek si difese e pensò di averli persuasi. Luigi Longo non si ingannava e ad aprile andò a Praga per una pubblica testimonianza di amicizia, gesto insolito, un avviso al Pcus. Il quale il 4 maggio riconvocava a Mosca Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Romania (che non venne), per affrontare esplicitamente la questione cecoslovacca.
Si allarmò anche il Pcf, allora diretto da Waldeck Rochet, che corse a Mosca con Pajetta per sconsigliare qualsiasi intervento. Furono appena ascoltati. Il 14-15 luglio Urss, Polonia, Bulgaria, Rdt, Ungheria stendevano una requisitoria contro il Pcc in forma di lettera che rendevano pubblica: consegnate il paese alla controrivoluzione. E con il pretesto di normali manovre nel campo, truppe russe si mossero in Cecoslovacchia. Quindici giorni dopo, il 29 luglio, i dirigenti cecoslovacchi erano riconvocati a un incontro su un treno, alla frontiera, a Cierna Nad Tisu: era un ultimatum.
Ma a Cierna Dubcek non cedette. Si sentiva, o credeva, appoggiato sul serio da diversi partiti comunisti, la Romania era reticente, l’Ungheria non entusiasta. Luigi Longo scrisse una lettera personale alla segreteria del Pcus, anch’essa insolita, non c’era tempo di convocare la direzione ma faceva sapere che, quale che fosse il parere degli altri, lui, Luigi Longo avrebbe condannato pubblicamente ogni atto militare. Forse gli archivi del Pci testimoniano di chi non era d’accordo con lui: ovviamente i filosovietici, di altri non so. Ma Amendola ebbe a dirmi, con l’abituale rudezza, che l’Urss era per il Pci quel che gli Stati Uniti erano per la Democrazia Cristiana, una carta importante nei rapporti di forza.
Sta di fatto che l’Urss sembrò fermarsi. Il 3 agosto i cinque tornarono a riunirsi con Dubcek a Bratislava rinunciando alle minacce. Il giorno dopo le truppe russe lasciavano la Cecoslovacchia. Fu su una Praga tranquilla e stupefatta, che non sparò un colpo di fucile, che la notte tra il 20 e il 21 agosto piombarono i tanks sovietici. Il gruppo dirigente del nuovo corso veniva arrestato e portato a Mosca con il presidente Svoboda, Dubcek in manette. Del Pci, che aveva accolto Bratislava con sollievo, quella notte in segreteria a Roma era presente soltanto Alfredo Reichlin, che dovette tenere botta. Luigi Longo in vacanza di salute nell’Urss, lo seppe il mattino dopo da un comunicato che gli fu portato assieme alla colazione e al Pcus non lo perdonò mai.
E che avrebbero detto Vietnam e Cuba, che parevano allora un terzo polo? La notte del 21 attendemmo con Karol fino alle tre la notizia dall’ambasciata cubana, che sperava in una condanna dell’intervento. La mattina dopo Reichlin mi chiamava alle sette: «Il tuo Fidel ha approvato con la formula: avanti non solo a Praga, ma anche ad Hanoi».
Più di un compagno nient’affatto burocrate – ricordo Luigi Nono – si sentì rappresentato da quella che considerava una posizione di sinistra. Il nuovo corso aveva, sì, i consigli operai ma anche ideologi come Ota Sikh e Radovan Richta, aveva sì ottime intenzioni ma accennava a interloquire con Willy Brandt, e chissà come sarebbe andata a finire.
La maggioranza della base del Pci, come il Psiup di Vecchietti, Valori, Foa, pensò che il socialismo era quello del campo sovietico, brutto ma meglio che niente, e che qualsiasi contestazione al Pcus avrebbe indebolito le forze al movimento operaio e comunista in Occidente. Lo stesso quel tanto del movimento studentesco – era l’estate nel 1968 – che se ne accorse.
Nel Pci il modo con il quale era stato liquidato il 1956 e il silenzio che seguì al passo di Togliatti nel 1964, sempre nella speranza che l’Urss evolvesse in un più di democrazia senza troppi scossoni, giocò anche contro quella parte della dirigenza che di dubbi sulla natura del sistema sovietico non ne aveva più da un pezzo.
A fine agosto il Comitato centrale condannava il «tragico errore». Non un tragico errore, intervenne Luigi Pintor, ma una coerente conseguenza della politica sovietica. Era la prima uscita secca di quello che sarebbe diventato il gruppo del manifesto. Non ricordo se si votasse, non mi pare, certo Pintor fu bacchettato. Fuori dalla porta Pajetta chiedeva uno per uno a coloro che entravano: ma Dubcek e Svoboda non hanno fatto bene ad affermare il compromesso? Che cosa pensi?
Un anno dopo, nel settembre 1969, il manifesto mensile usciva con l’editoriale «Praga è sola» e cominciava il processo che avrebbe portato alla nostra radiazione a novembre.
Berlinguer aveva cercato di evitarla, ma dopo quell’articolo ci si disse – il Pcus gli aveva chiesto di «onorare la cambiale». Non so quale; al XII Congresso, pochi mesi prima, mentre parlavo dell’invasione di Praga, la delegazione sovietica, diretta da Boris Ponomariov, s’era alzata ed uscita. Ma tre del manifesto, Pintor, Natoli ed io, fummo riammessi nel Comitato centrale: forse Berlinguer garantì a qualcuno che non avremmo fatto danni. Non approvò che uscisse la rivista ma non minacciò misure disciplinari; non nascose però il timore che qualsiasi presa di distanza da Mosca potesse dare spazio a una forte frazione filosovietica, come negli anni settanta fu quella di Lister in Spagna. Ma davanti a «Praga è sola» i Secchia, i Cossutta, e anche gli Amendola e i Terracini, trovarono che non eravamo tollerabili.
Tanto più che il nostro tentativo di ripercorrere i sentieri del marxismo eretico – da Marx a Rosa Luxemburg a Korsch al primo Lukacs, che il 1968 non frequentò – si univa, spenta la prima ondata degli studenti, alla spinta che veniva dall’autunno caldo. Libertari e di sinistra, il Pci ci liquidò. Ma il danno maggiore lo faceva a se stesso. Non solo i vecchi ma gli allora quarantenni accettarono di partecipare alla conferenza internazionale alla quale avevano a lungo riluttato, Longo stava ormai male – e, ripetuta la critica al «tragico errore», nelle crescenti crisi dell’Est non misero più bocca.
Le opposizioni di quei paesi non ebbero più nel Pci un riferimento. E il Pci stesso arrivava nel 1989 senza avere svincolato la propria storia da quella dell’Urss. Quando cadde il muro di Berlino, mancata ogni elaborazione del lutto, buttò a mare anche l’Ottobre e infilava una strada che neppure può dirsi socialdemocratica, lasciando aperti tutti gli interrogativi a una rifondazione, che neanch’essa s’è mai decisa ad affrontarli.
* Dall’Archivio de il manifesto, inserto «Praga 68-98» del 21 agosto 1998

il manifesto 19.8.18
Con i Consigli la parola agli operai
Praga 68. Il programma comunista della svolta chiedeva che nei collettivi nascessero organismi di democrazia diretta per la gestione del lavoro e della produzione. Ne nacquero 120, anche nelle mega-fabbriche e furono attivi fino alla fine del 1969, quando furono aboliti perché ponevano il «nodo del potere»
Praga, 21 agosto 1968, Piazza Venceslao, i giovani sfidano gli occupanti protestando con le bandiere nazionali
di Jiri Pelikan

Tratto dall’Archivio de il manifesto «Praga 68-98» del 21 agosto 1998

Tra i temi meno trattati nelle rievocazioni e nei commenti per il trentesimo anniversario del ’68 cecoslovacco vi è quello dell’autogestione operaia. Eppure nell’ampio movimento politico avviato il 5 gennaio di quell’anno assume notevole importanza il risveglio di attività dei lavoratori nel loro complesso, delle categorie che nella prima fase avevano mostrato un atteggiamento piuttosto riservato verso i mutamenti nella direzione del partito e dello stato.
L’attendismo era dovuto tra l’altro all’azione delle forze conservatrici, le quali per frenare le riforme disegnavano scenari catastrofici, soprattutto di chiusura di imprese e di pericolo della disoccupazione.
QUELL’ATTEGGIAMENTO divenne gradualmente appoggio sincero alle riforme, quando gli operai si resero conto che finalmente potevano avere il diritto di affermare i propri interessi, prima non difesi dai sindacati trasformati in «cinghie di trasmissione», che potevano diventare i veri padroni dei mezzi di produzione, proprio come voleva la teoria di Marx.
Nel dialogo con il nuovo governo i sindacati presero a sostenere le rivendicazioni sollevate dai lavoratori, quali l’aumento dei salari, migliori condizioni di lavoro e della rete di attrezzature sociali, riduzione e redistribuzione dell’orario di lavoro.
A dispetto delle preoccupazioni che l’autonomia sindacale e l’idea dei consigli aziendali avrebbero comportato un peso insostenibile per il bilancio statale e per l’economia, e che potessero significare solamente soddisfazione degli interessi parziali di alcune categorie, i lavoratori dimostrarono prudenza e coscienza che le loro rivendicazioni avrebbero potuto essere accolte con gradualità e che nell’interesse dello sviluppo generale avrebbero comportato anche sacrifici.
In breve, operai e lavoratori in genere si rivelarono gestori responsabili, sapendo di lavorare per se stessi e per la società tutta.
Sotto la direzione di Dubcek il partito sosteneva la tendenza all’autogestione sebbene nelle sue file non mancassero tecnocrati e conservatori che vi opponevano.
NEL PROGRAMMA d’azione del Partito comunista di Cecoslovacchia, approvato e pubblicato nell’aprile 1968, si legge: «Lari- forma economica dovrà sempre di più tendere a mettere i collettivi di lavoro delle imprese socialiste nella condizione di avvertire direttamente gli effetti della gestione, buona o cattiva, delle aziende. Per questo il partito considera indispensabile che ogni collettivo di lavoro abbia influenza sulla gestione, della quale sopporta le conseguenze.
Ne deriva la necessità di organismi democratici nelle imprese con precisi poteri sulle direzioni aziendali. Direttori e dirigenti, scelti da tali organismi, dovrebbero rispondere agli stessi dei risultati complessivi della propria attività (…).
Questi organismi dovrebbero essere formati da rappresentanti eletti dai collettivi di lavoro e da rappresentanze extra-aziendali per garantire gli interessi più generali e un livello decisionale specialistico e qualificato (…). Bisognerà progettare lo statuto di tali organismi, utilizzando alcune tradizioni dei nostri consigli aziendali anni 1945-48 e le esperienze dell’imprenditoria moderna».
Non meraviglia il fatto che i primi difensori dell’idea dell’autogestione e gli autori di proposte concrete siano stati tecnici, giornalisti, intellettuali progressisti, che articoli e risoluzioni per dare vita ai consigli operai abbiano trovato spazio nel settimanale degli scrittori Literarni listy («I fogli letterari»). Nel giugno 1968 i consigli furono costituiti in due grandi imprese dell’industria pesante: la Ckd di Praga e la Skoda di Plzen e, paradossalmente, proprio l’aggressione del 21 agosto, perpetrata per soffocare la riforma e isuoi momenti socialisti, provocò una rapida diffusione dell’idea dell’autogestione, la crescita impetuosa del numero dei consigli. In ciò i lavoratori vedevano la forma migliore e più efficace di opposizione all’occupazione e contro il ritorno al al sistema staliniano.
Nell’ottobre risultavano costituiti 170 consigli aziendali in imprese con un totale di 600mila dipendenti. Nel mese successivo vi fu lo sciopero degli studenti dell’università Carlo di Praga, cui si unirono gli operai di molte fabbriche, contro le pressioni dei conservatori e le concessioni agli occupanti sovietici. Il 19 dicembre l’Unione degli studenti universitari stipulò un accordo con l’Unione dei metalmeccanici (900mila iscritti), con il quale si esprimeva sostegno ai consigli operai e se ne chiedeva l’istituzione in tutte le imprese del paese.
NEL TRAGICO gennaio 1969, mentre s’intensificava la pressione degli occupanti e dei conservatori dentro il Partito comunista cecoslovacco (Pcc) e l’opinione pubblica era scossa dall’autodafé dello studente Jan Palach, il quale con il suo gesto estremo di darsi fuoco aveva voluto protestare contro l’occupazione e la passività governativa, a Plzen si tenne la prima e ultima riunione dei delegati dei consigli operai (121 già funzionanti e 70 comitati preparatori, rappresentanti un totale di 800mila lavoratori).
In alcune imprese i direttori erano stati eletti dai nuovi organismi, in altri erano stati scelti per concorso. Tra gli oratori di quell’incontro ritroviamo l’ingegnere Rudolf Slansky – figlio del segretario generale comunista impiccato nel 1952 al termine di un processo- farsa – che era stato tra gli iniziatori del movimento dei consigli, il quale difese le competenze degli stessi contro i tentativi del governo e dei tecnocrati di limitarli e di trasformarli in semplici organi consultivi della direzione dell’impresa, senza poteri di nomina dei direttori e di controllo sulla gestione. Altri consigli si costituirono in seguito, tanto che nella primavera 1969 esistevano in 500 aziende con un totale di 1.200.000 dipendenti.
Insieme ai sindacati i nuovi organismi rappresentavano una forza considerevole schierata a difesa della politica avviata nel gennaio 1968 e di opposizione ai conservatori in crescita sotto l’ala degli occupanti. In questa fase della battaglia per i diritti dei consigli operai, tornò a formarsi un fronte comune tra lavoratori e intellettuali. Non a caso, per esempio, il 20 febbraio 1969, il settimanale degli scrittori cechi uscì con un articolo di apertura del teorico dell’arte Va- clav Chalupecky intitolato a piena pagina: Tutto il potere ai consigli operai.
Fu necessaria la sollevazione di Alexander Dubcek, grazie alla minaccia agitata dai marescialli sovietici di un nuovo intervento militare e il contributo del presidente Svoboda al putsc in seno al Pcc nell’aprile 1969, per avviare la liquidazione di quell’originale iniziativa operaia.Nel primo discorso pronunciato appena eletto il normalizzatore Gustav Husak attaccò duramente i sindacati, accusati di «volersi emancipare dal ruolo guida del partito». E non difettò il sollecito aiuto della stampa sovietica, che definì il movimento dei consigli «anarcosindacalismo».
Più sincero il premier Oldrich Cernik, il quale tradendo Dubcek per conservare l’incarico sotto la nuova direzione, affermò davanti ai lavoratori della Ckd Praga che l’idea dei consigli andava rifiutata, perché «riaprirebbe la questione del potere» e lasciò intendere che il partito comunista «epurato» non intendeva dividere il suo potere con gli operai. Nell’ottobre di quell’anno fu Husak a respingere definitivamente l’idea dell’autogestione in un discorso alla Skoda di Plzen, dove i dipendenti continuavano con ostinazione a difendere il proprio consiglio e annunciò il loro scioglimento.
LA PAROLA fine venne così apposta a uno dei più bei tentativi della storia operaia cecoslovacca e della «Primavera». La breve riflessione sul destino di un’esperienza di autogestione operaia, nata nel ’68 cecoslovacco, dovrebbe suonare come un rimprovero per la sinistra europea (e italiana) (…),
*Jiri Pelikan è nato il 7 febbraio 1923 a Olomouc, in Moravia dove partecipò alla resistenza contro il nazismo e diventò comunista. Segretario dell’Unione internazionale degli studenti, fu in odore di «titoismo» negli anni ’50. Presidente della Commissione esteri del parlamento cecoslovacco, nel ’68 fu nominato direttore generale della televisione. Inviso ai sovietici, per proteggerlo Dubcek lo inviò a Roma come addetto culturale. Qui restò in esilio, espulso dal partito e privato della cittadinanza, e fondò la rivista dell’opposizione socialista cecoslovacca «Listy». Fu deputato europeo eletto nelle liste del Psi. E’ morto a Roma il 26 giugno 1999.

il manifesto 19.8.18
Dal Tav alla Gronda, le inutili Grandi opere
Territorio. L’unica vera modernità possibile è la cura e la manutenzione, che è anche difesa di tutto il paese e dell’intero pianeta
di Guido Viale

Ai sostenitori senza se e senza ma delle Grandi opere, che nel crollo del ponte Morandi vedono solo l’occasione per recriminare la mancata realizzazione della Gronda, passaggio complementare e non alternativo al ponte crollato, va ricordato che anche quel ponte è (era) una «Grande opera»: dannosa per l’ambiente e per le comunità tra cui sorge e pericolosa per la vita e la salute di tutti. L’idea di piantare dei pilastri di 90 metri in mezzo a edifici abitati da centinaia di persone e di farvi passare sopra milioni di veicoli era e resta demenziale; come lo era e resta la sopraelevata che ha cancellato e devastato uno dei fronte-mare più belli e pregiati (forse il più bello e pregiato) del mondo: non a vantaggio di Genova, ma per fluidificare il traffico del turismo automobilistico delle Riviera di Levante, così come il ponte Morandi serviva a quello della Riviera di Ponente, negli anni “gloriosi” (?) della moltiplicazione delle automobili. Con la conseguenza che quei nastri di asfalto sono stati presi in ostaggio dal trasporto merci su gomma, per il quale non erano stati pensati, lasciando languire la ferrovia, tanto che la linea Genova-Ventimiglia (principale collegamento tra Italia e Francia e, se vogliamo, con Spagna e Portogallo; altro che Torino-Lione!) è ancor oggi a binario unico.
Un’invasione di campo, quella dei Tir, moltiplicata dalla successiva produzione just-in-time che li ha trasformati in magazzini semoventi, cosa impossibile se le autostrade non fossero state messe a loro completa disposizione e la ferrovia avesse mantenuto il primato che le spetta.
Da almeno 30 anni si sa che il cemento armato, specie se sottoposto a forti sollecitazioni come il passaggio di milioni di Tir ed esposto alla pioggia, al gelo, ai veleni delle emissioni, al sale antigelo, non dura più di cinquant’anni o poco più; e forse anche meno; ma nessuno, e meno che mai i fautori della Gronda, avevano programmato una data certa per la demolizione di quel ponte che oggi richiede anche la demolizione delle case sottostanti. E oggi si scopre che i ponti autostradali nelle stesse condizioni pre-crollo sono almeno 10mila in Italia; e altrettanti in Francia, Germania e in qualsiasi altro paese. Perché la grande “esplosione” automobilistica del miracolo economico, che doveva aprire le porte al futuro, al futuro proprio non guardava: né in Italia, paese orograficamente disadatto a quel mezzo, né in paesi ad esso più consoni.
Chiunque abbia anche solo ristrutturato il bagno di casa sa che costruire è (relativamente) facile; demolire è più complicato, rimuovere (le macerie) è difficilissimo; anche se forse non sa che smaltirle è devastante, soprattutto in Italia dove scarseggiano gli impianti di recupero e mancano le leggi per promuovere l’utilizzo dei materiali di risulta. Così, del futuro di tutti quei manufatti stradali non ci si è mai occupati, nonostante che oggi, “cadendo dalle nuvole”, si scopra che la loro demolizione e sostituzione rientra nell’ordinaria, perché necessaria, manutenzione.
No. Il futuro del ponte Morandi non era la sua demolizione; era la Gronda: 70 e più chilometri di gallerie e viadotti (in cemento armato) lungo le alture di Genova: un’opera devastante in uno dei territori più fragili della penisola, come dimostrano gli smottamenti e le alluvioni sempre più gravi che ormai colpiscono la città quasi ogni anno. E cinque miliardi, ma probabilmente molti di più, regalati ai Benetton con l’aumento delle tariffe autostradali in tutta Italia invece di destinare quelle e altre risorse al risanamento di un territorio ormai vicino al tracollo; il tutto per liberare il ponte, se fosse rimasto in piedi, da non più del 20 per cento del suo traffico… Non c’è esempio che spieghi meglio quanto le risorse destinate alle Grandi opere inutili e dannose siano sottratte al riassetto idrogeologico del territorio e alla manutenzione di ciò che già c’è, abbandonandolo a un degrado incontrollato: lo stesso vale per il Tav (Torino Lione, ma anche Genova-Tortona),
il Mose; la Brebemi (che vuol dire Brescia-Bergamo-Milano, ma che stranamente non passa per Bergamo) le autostrade in costruzione in Lombardia e Veneto; il ponte sullo stretto (altro che ponte Morandi!) che ha già divorato più di 500 milioni; un gasdotto che attraversa territori in preda a eventi sismici quasi permanenti invece di ricostruire quei paesi crollati per incuria e puntare all’abbandono dei fossili. E così via. Con altrettante opportunità di creare lavoro finalmente utile.
E giù a dare del “troglodita”, del nemico del progresso, dell’oscurantista medioevale a chi, in nome della salvaguardia del territorio, della convivenza sociale, della necessità di mettere in sicurezza, e possibilmente di valorizzare, l’esistente, si oppone alle tante Grandi opere inutili e devastanti promuovendo l’unica vera modernità possibile, che è la cura e la manutenzione del proprio territorio, che è anche difesa di tutto il paese e dell’intero pianeta: da restituire alla cura di chi vi abita, vi lavora e lo conosce a fondo. Si discute di queste cose prigionieri di un eterno presente, senza passato né futuro, come se tutto dovesse continuare allo stesso modo; mentre si sa – o si dovrebbe sapere – che tra non più di due o tre decenni, se vorremo sopravvivere ai cambiamenti climatici che incombono, saremo costretti, volenti o nolenti, a cambiare radicalmente stili di vita, modi di coltivare la terra e di nutrirci, uso dei suoli, modalità di trasporto. Con tanti saluti sia al ponte Morandi, da non ricostruire, che alla Gronda, da non realizzare.

il manifesto 19.8.18
Protezione per i palestinesi, Israele boccia la proposta Onu
Territori occupati. Il segretario generale Guterres ha presentato una serie di soluzioni per proteggere i civili sotto occupazione israeliana, tra cui una forza militare di interposizione.
Il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres a colloqui con il premier israeliano Netanyahu
di Michele Giorgio


Secco no di Israele alle proposte del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ‎volte a proteggere i civili palestinesi nei Territori occupati, tra cui il dispiegamento ‎di una forza militare o di polizia. ‎«L’unica protezione di cui necessita il popolo ‎palestinese è dalla sua leadership‎», ha ironizzato ieri l’ambasciatore israeliano al ‎Palazzo di Vetro Danny Danon che ha accusato l’Autorità nazionale di Abu Mazen ‎e Hamas di incitare i civili palestinesi a demonizzare e ad attaccare Israele e gli ‎ebrei. Venerdì notte Guterres aveva presentato in un rapporto di 14 pagine una ‎serie di proposte per proteggere i palestinesi in risposta alla risoluzione ‎dell’Assemblea generale dell’Onu, sostenuta dai palestinesi e adottata a giugno, in ‎cui si accusava Israele per le uccisioni a Gaza e per l’uso eccessivo della forza ‎contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno. La risoluzione chiedeva al ‎Segretario generale di predisporre un meccanismo di protezione internazionale. ‎Guterres ha invitato i 193 Stati membri dell’Assemblea generale a esplorare le ‎misure pratiche che possano migliorare la protezione dei palestinesi e la sicurezza ‎dei civili israeliani‎

il manifesto 19.8.18
Canzoni in lotta contro il nazismo
Musica. «Yiddish Glory. The Lost Songs of the World War II», un’antologia di brani ritrovati scritti dagli ebrei nel corso della seconda guerra mondiale. Raccolti durante il conflitto da ricercatori sovietici, i testi furono a lungo creduti perduti per poi riapparire a Kiev negli anni ’90
di Marcello Lorrai


«La Germania è nei guai, Hitler è kaput!»: è il baldanzoso verso finale di una canzone scritta da un ebreo di Odessa nel 1944, una delle centinaia di testimonianze della cultura ebraica degli anni della guerra raccolte praticamente in presa diretta – durante il conflitto o nell’immediato dopoguerra – da un gruppo di etnomusicologi ebrei sovietici che faceva capo al dipartimento di cultura ebraica di Kiev. Guidati da Moisei Beregovsky, riuscirono a documentare centinaia di nuove canzoni in yiddish, in qualche caso testi accompagnati da musiche originali, a volte invece basati su musiche popolari o brani preesistenti, e spesso testi senza musica.
Nessuno degli autori era un poeta o un musicista professionista, erano solo uomini e donne che avevano sentito il bisogno di dare espressione ai propri stati d’animo o di raccontare le atrocità naziste: erano soldati dell’Armata Rossa – quasi mezzo milione di ebrei combatté nell’esercito sovietico – o abitanti delle zone invase, o persone, soprattutto donne, che lavoravano a sostegno dello sforzo bellico nel fronte interno, negli Urali e in Siberia e in altre regioni dell’Asia sovietica dove furono trasferiti quasi un milione e mezzo di ebrei delle aree occupate dai tedeschi.
L’idea alla base di questa vasta ricerca sul campo era quella di ricavarne un’antologia, che non vide però la luce perché Beregovsky fu arrestato nel corso delle purghe staliniane del dopoguerra. Mancato poi nel ’61, morì, così come gli altri etnomusicologi, convinto che il materiale fosse irrimediabilmente perduto.
Ma negli anni novanta nella biblioteca nazionale dell’Ucraina a Kiev furono rinvenute alcune scatole non classificate, contenenti materiale che si cominciò a catalogare. Poi nei primi anni duemila trovandosi a Kiev la professoressa Anna Shternshis, specialista di yiddish, si rese conto che si trattava di uno straordinario patrimonio di canzoni risalenti all’epoca della guerra e rimaste poi sconosciute.
Dalla sua collaborazione con il poeta e cantante Psoy Korolenko è nato Yiddish Glory. The Lost Songs of the World War II, un album pubblicato dalla Six Degrees Records che mette a disposizione un florilegio di queste canzoni: Korolenko ha elaborato le musiche a cui i testi erano originariamente connessi oppure ha immaginato delle soluzioni confacenti per i testi che ne erano privi, e Sergei Erdenko, grande violinista rom russo, ha curato gli arrangiamenti.
Senza cercare nell’interpretazione dei brani, né nella musica né nel canto, un registro artificiosamente folk, anzi proponendosi con notevole eleganza, Yiddish Glory non lascia indifferenti: gli strumentisti, a partire da Erdenko, sono di alto livello (clarinetto, tromba, pianoforte, fisarmonica, chitarra, oltre al violino), come voci si alternano Korolenko, Erdenko, Sophie Milman, russa e canadese di adozione, vocalist di successo nel campo del jazz, e il dodicenne Isaac Rosenberg, che interviene in maniera commovente in alcuni brani, in particolare in una canzone scritta nel ’45 da un ragazzino ucraino, il cui protagonista è un bambino rimasto orfano della madre.
Ma essenziale per immedesimarsi fino in fondo in questo lavoro è il libriccino di oltre 40 pagine che correda il cd: per ciascuna canzone – di cui è riprodotto il foglio che era stato archiviato dai ricercatori, con le parole a volte battute a macchina, a volte scritte a mano – è fornito il testo tradotto in inglese e russo, accompagnato da dettagliate note sulle circostanze in cui la canzone è stata creata (e dove possibile sull’autore) e sul suo significato.
Il protagonista di Yoshke di Odessa – resa magnificamente dal canto e dal violino di Sergei Erdenko – è un soldato eccezionalmente coraggioso, che fa a pezzi i nemici. Basata sull’Allodola, un brano di Glinka, compositore russo della prima metà dell’Ottocento, che era nel repertorio di molti tenori, fra i quali anche tenori yiddish, la canzone composta nel ’43 è emblematica di una esaltazione non solo del valore dei soldati ebrei, ma anche della loro spietatezza, della loro determinazione a schiacciare con la violenza il fascismo tedesco.
Un motivo che percorre molti di questi testi, in cui al patriottismo sovietico si mescola l’orgogliosa reazione degli ebrei alla propaganda antisemita che li dipingeva come deboli e inadatti a combattere, e il desiderio di vendicare i massacri e le atrocità di cui gli erano rimasti vittime nelle zone occupate (due canzoni sono eccezionali testimonianze sulla sorte degli ebrei di Babi Yar e di Tulchin).
Direttamente o indirettamente, riecheggia lo scritto del ’42 di Ilya Ehrenburg, intitolato Uccidi il tedesco, in cui Ehrenburg sosteneva che i tedeschi non erano umani e dovevano essere uccisi senza pietà: diventato molto popolare, fu tradotto in moltissime lingue dell’Unione Sovietica, compreso lo yiddish.
Le note segnalano diversi riferimenti rinvenibili nei testi, che meritano però di essere letti attentamente e che riservano molti gioielli.
Hitler è nominato in quasi tutte le canzoni. In una è associato ad altri nemici del popolo ebraico, fra cui Torquemada. In una canzone/lettera al marito, che combatte al fronte, l’autrice – sarta ventottenne di Minsk, una delle donne impegnate nella produzione per la guerra – lo incita a uccidere tutti i tedeschi fino all’ultimo e dice genialmente: «Sono alla mia macchina da cucire, e sto confezionando un sudario per Hitler».
In un brano intitolato Kazakhstan, raccolto ad Alma Ata nel ’45, l’autore, probabilmente un rifugiato polacco, manifesta la sua gratitudine alla repubblica sovietica che ha permesso a tanti ebrei come lui di sopravvivere. Il brano è stato musicato da Erdenko ispirandosi sia alla musica yiddish che a quella rom per ricordare anche lo stermino degli zingari, ed è cantato da Sophie Milman, la cui nonna era una ebrea rifugiata durante la guerra in Kazakistan. Il protagonista della canzone si rivolge alle montagne e chiede: «Anche voi mi odiate (come i tedeschi)?». E le montagne rispondono con un riferimento biblico: «Non avere paura Giacobbe, servo mio» (Geremia 30:10). Geniale poi il verso successivo: «Siamo montagne sovietiche e conosciamo la Torah di Lenin».

Il Fatto 19.8.18
Srebrenica non fu genocidio: alla faccia di 8.000 vittime
ll massacro - L’assemblea nazionale della Repubblica Serba rinnega la scelta del 2004 e rifiuta i contenuti finali dell’indagine della Commissione speciale
Srebrenica non fu genocidio: alla faccia di 8.000 vittime
di Roberta Zunini


Quando lo scorso luglio è stato ricordato il 23° anniversario del massacro di Srebrenica, nella ex Jugoslavia, Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue, e Johannes Hahn, commissario europeo all’allargamento, sottolinearono che “il genocidio di Srebrenica è una ferita aperta nel cuore dell’Europa”.
A poco più di un mese, il loro monito torna tristemente alla ribalta e alla loro preoccupazione si aggiunge quella delle Nazioni Unite. I vertici dell’Onu sono rimasti contrariati dalla decisione presa dall’Assemblea nazionale della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina, di annullare l’approvazione data, nel 2004, al rapporto della Commissione speciale sul massacro che ha stabilito si sia trattato di genocidio. Successivamente una sentenza del 2007 della Corte penale di Giustizia dell’Aja, seguite da altre spiccate dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY), stabilì che il massacro, essendo stato commesso con lo specifico intento di distruggere il gruppo etnico dei bosgnacchi, costituisce un “genocidio”.
I condannati principali sono in particolare Ratko Mladic e Radovan Karadžic (all’epoca presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) giudicati in due momenti diversi dall’ICTY: al primo è stato comminato l’ergastolo e al secondo 40 anni di reclusione. “Rigettare le conclusioni della Commissione – ha affermato Adama Dieng, Consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio – è un grave passo indietro. Ciò mina lo stato di diritto e gli sforzi nazionali e internazionali volti a rendere giustizia alle vittime dei crimini commessi contro persone di tutte le etnie durante la guerra 1992-1995 in Bosnia”. La Commissione, voluta dal Governo della Repubblica Serba nel 2003, ha stabilito che tra il 1992 e il 1995 circa 8 mila musulmani bosniaci sono scomparsi a Srebrenica.
Dieng ha ricordato inoltre che, durante la sua visita nei Balcani sette mesi fa, aveva avuto la prova sul campo di quanto gli avvenimenti del passato siano ancora “manifestatamente utilizzati a fini politici”. Il rigetto dei verdetti giudiziari su Srebrenica, “la glorificazione di criminali di guerra cui addirittura si sono date funzioni pubbliche” non aiuta, secondo il rappresentante Onu, la riconciliazione nel Paese diviso tra la Repubblica Serba di Bosnia e la Federazione di Bosnia Erzegovina.
La decisione di disconoscere le conclusioni della Commissione sul massacro di Srebrenica, secondo Dieng, rischia di aggravare le tensioni in previsione delle elezioni del 7 ottobre nel Paese. In una nota congiunta diffusa al termine della infausta ricorrenza, Mogherini e Hahn conclusero con queste parole: “23 anni fa è stata scritta una delle pagine più buie della nostra storia. È obbligo dell’Europa e della comunità internazionale ricordare e fare in modo che una tale tragedia, vergogna per l’umanità, non possa mai più ripetersi”.
A guidare il genocidio fu Mladic, generale dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina in combinazione con le unità del gruppo militare degli Scorpioni. In quegli anni la zona era stata dichiarata protetta dell’Onu, ma nonostante ciò Srebrenica e il territorio circostante furono attaccati. Tre anni fa vennero riesumate dalle fosse comuni 6.930 salme, identificate grazie agli oggetti personali rinvenuti oppure attraverso il Dna confrontato con quello dei consanguinei che riuscirono a sfuggire alla violenza dei soldati di Mladic. Per i fatti di Srebrenica sono state condannate 21 persone.
Nel 2015 fu proposta all’Onu una bozza per condannare i fatti di Srebrenica come genodicio, ma non venne approvata a causa del veto russo.

Il Fatto 19.8.18
Il richiamo della protesta: Bucarest e la “peste rossa”
Romania - Il timore che Dragnea e il suo governo introducano norme salva-corrotti provoca una mobilitazione continua

di Antonio Massari

 “Il tramonto scende su Calea Victoriei alle 8 della sera. Due chilometri e 700 metri di storia, monumenti e vetrine che sfociano su Plata Victoriei e sul palazzo del governo.
Pochi giorni fa da queste parti c’era l’inferno: 120mila persone raccolte in piazza per protestare, centinaia di feriti, ambulanze e intossicati ovunque, tra nuvole di gas lacrimogeno. E la Gendarmerie – la polizia militare – che picchiava e picchiava. Colpa degli hooligans che hanno iniziato a lanciare pietre, dicono gli uomini in divisa, ma a quanto pare gli ultrà erano solo poche decine. E a farne le spese sono stati invece centinaia di padri di famiglia e studenti. Era il 10 agosto. Ma a Ferragosto tutto sembra già lontano. Saranno i ventisette gradi e questo meraviglioso vento leggero leggero. Poche auto che viaggiano veloci, tra le chiese del ‘700, i teatri, la sede monumentale della Cec Bank e il retrogusto parigino di questo boulevard.
Da Plata Victoriei e dall’inferno che fu spunta Calin in bicicletta, dall’altro lato del marciapiedi, per manifestare anche stasera. Come ogni sera, dall’inizio del 2017. Saranno duecento persone e Calin non riesce a farsene una ragione: “Siamo troppo pochi, se pensi che ci hanno aggrediti e gasati solo 5 giorni fa”. Pochi minuti ed è già scesa la sera. Accendono le luci dei telefonini, cantano l’inno rumeno, urlano contro il Psd, il partito di maggioranza al governo, che definiscono all’unisono: “peste rossa”. Mentre tutt’intorno Bucarest s’indolenzisce, terminando la sua giornata di festa, qui cercano di darle una scossa. La parola chiave è “corruzione”. È un bisbiglio che senti ovunque: nei bar e nei dibattiti in tv. La Romania si sta ribellando da anni. Il governo di Victor Ponta – indagato per corruzione ed evasione fiscale – s’è dimesso in poche ore in seguito all’incendio di una discoteca. Era il novembre del 2015. Nell’incendio del Colective morirono decine di persone. Si scoprì che il club di Bucarest non aveva le misure di sicurezza a norma. Eccolo, il frutto della corruzione. Scesero in piazza a migliaia. E in poche ore mandarono a casa Ponta e il suo governo. Fu allora che Liviu Dragnea – qui tutti lo considerano il vero primo ministro – divenne il presidente del Psd. Piccolo dettaglio.
Nel 2015 Dragnea era stato condannato per frode elettorale. E così, pur portando il suo partito alla vittoria nel 2016 – il Psd vince con il 40 per cento e va al governo alleandosi con Alde – non può diventare premier: impossibile rivestire la carica, in Romania, se sei condannato. Poco male: Dragnea estrae dal suo partito ben tre capi di governo (più o meno) fedeli nel corso di un anno e mezzo. E nel frattempo il governo progetta di mettere mano al codice penale. Circolano idee del tipo: l’abuso d’ufficio viene punito, sì, ma soltanto se l’indagato ottiene indebiti benefici materiali per se stesso, il coniuge o parenti e affini entro il secondo grado. E si abbassa pure la pena: da 7 a 5 anni.
Ai rumeni non è sfuggito che la mazzetta potrebbe finire nelle mani di un amante o di un amico. E si sono parecchio incazzati. Non gli è neanche sfuggito che, a giugno scorso, Dragnea è stato condannato proprio per abuso d’ufficio dalla corte suprema: avrebbe fatto assumere – e quindi pagare – dal Servizio di protezione sociale dei bambini, durante il biennio 2009/10, due membri del suo partito. Pur sapendo che non si erano mai presentati al lavoro. La norma è stata ritirata. Si attende il vaglio della Corte Costituzionale. Ma in piazza – e non solo – sono ormai certi che il Psd e Dragnea – che lo tiene in pugno – punterà a modificare il codice penale pur di salvarsi. “Per salvare se stesso dai guai giudiziari – sostiene Irina Andreis, del movimento Resist – Dragnea sta salvando tutti i corrotti del paese”.
Il partito Usr, appoggiato dal movimento Resist, sta raccogliendo firme per varare una legge che impedisca ai condannati di assumere qualsiasi carica pubblica. Tra qualche settimana, invece, Dragnea – che ha fatto ricorso – avrà dalla magistratura la risposta definitiva al suo guaio giudiziario. E sarà un momento decisivo. “Se viene condannato, lascia la vita politica, e il governo si dimette – ci spiega Victor – non ci sarà alcun problema. Se sarà assolto, invece, in molti penseranno che la magistratura sarà stata corrotta: s’innescherà la miccia delle proteste. E qui in Romania sappiamo come si fa la rivoluzione”. A scatenare altre proteste c’è stata la rimozione del capo della procura anticorruzione, Laura Codruta Kovesi, che l’ha guidata per quasi 5 anni: migliaia di fascicoli aperti e la condanna di circa 70 politici (inclusi alcuni ministri e deputati). Nei mesi scorsi è stata accusata di aver gestito la procura in modo irregolare: “Assistiamo a un attacco contro la giustizia”, ha replicato Kovesi rifiutando di dimettersi, “per mettere in ginocchio lo stato romeno e umiliare i suoi cittadini: qui non ‘fabbrichiamo’ prove né dossier politici”. Il presidente della Repubblica Klaus Iohannis nei mesi scorsi s’è rifiutato più d’una volta di sostituirla. A quel punto Dragnea ha chiesto la sospensione di Iohannis, che ha dovuto cedere quando la richiesta di sospendere Kovesi è giunta dalla Corte Costituzionale.
Siamo in piena crisi istituzionale. Ma dal febbraio 2017 – quando per la prima volta i rumeni sono scesi in piazza contro questo governo – non c’era stato un solo incidente. Il 10 agosto si contano invece 450 feriti, alcune decine tra la Gendarmerie, e lo stesso Iohannis che accusa militari e governo di aver usato una violenza sproporzionata e insensata. Il 10 agosto però c’è stato un ingrediente nuovo. Con un tam tam partito su Facebook molti rumeni che vivono all’estero si sono dati appuntamento in questa piazza: è la cosiddetta diaspora. Risultato: circa 120mila persone in piazza. “Una composizione eterogenea, che non è legata in modo specifico ad alcun partito”, afferma Alina Pop, docente universitaria di psicologia sociale, militante e membro del partito Usr, “ed è il segno della maturità di questa parte della società che, sia in Romania sia all’estero, sta chiedendo legalità e meritocrazia. Dragnea finora, in un anno e mezzo, ha di fatto nominato tre suoi ‘burattini’ come capi del governo. I primi due – Sorin Grindeanu e Dudoseve Florin – sono caduti perché non gli erano sufficientemente obbedienti. La terza, Viorica Dancila, è talmente impreparata che è riuscita, in una visita ufficiale in Montenegro, a chiamare Pristina la capitale Podgorica, una gaffe tanto più imperdonabile, se consideriamo che Pristina è nel Kosovo, Stato non riconosciuto né dal Montenegro né dalla Romania. È in queste mani che sono i rumeni”.
L’Usr – unione per salvare la Romania – è un partito nato circa due anni fa. È piuttosto trasversale dal punto di vista ideologico. Condivide la campagna avviata dai manifestanti per varare una legge che impedisca ai condannati di svolgere funzioni pubbliche e sedere in Parlamento.
“È un’iniziativa che stiamo appoggiando – dice il deputato di Usr, Tudor Pop – e che ha già raggiunto 700 mila firme. Il minimo necessario per avviare l’iniziativa è 500 mila: puntiamo a raggiungerne un milione. Il nostro partito è composto in gran parte da gente che non aveva mai fatto politica prima, siamo nati nell’ottobre 2016 e nel 2020, se il governo attuale non cade prima, contiamo di poter governare con gli altri partiti dell’opposizione”.
Il punto è che gli scontri di piazza, secondo Tudor Pop, rappresentano la linea rossa varcata dal governo: “Ci sono numerose prove – conclude – dell’uso brutale della forza contro famiglie inermi. Spero che la magistratura faccia luce su quello che è accaduto. Vogliono usare la repressione per impedire alla gente di tornare in piazza. Ma si sbagliano”. E in effetti, in questa sera di ferragosto, anche se sono appena tre o quattrocento, la piazza di fronte al palazzo del governo non è rimasta sguarnita.
Irina e Carina di Resist non saltano un giorno da anni. C’è chi invece arriva quando può. Ioana Ariadna Ciulei, 38 anni, viene da Bletchley, in Inghilterra. È una delle manifestanti della diaspora: “Sono qui da due settimane. Protesto contro i rischi di una forte privatizzazione, della corruzione dilagante, della riforma del codice penale che regalerà ai corrotti l’immunità”.
Ioana ci tiene a far sapere che è una fan di Matteo Salvini e della chiusura delle frontiere. Ovidio che viene da Roma, dove lavora in un’impresa di traslochi, è del parere contrario: “Salvini non mi piace: sta mettendo gli italiani contro gli immigrati. Sono qui perché bisogna essere uniti se vogliamo che la Romania cambi e la corruzione finisca”. Aida vive in Olanda, viene a protestare “4 o 5 volte l’anno”, accanto a lei un omone dallo sguardo simpatico: “Torneremo finché il governo non cade”.
Cristian Dide vive a Bucarest e nel 2016 ha fondato un’organizzazione non governativa – si chiama Evolutie in institutie – per difendere i cittadini dagli abusi del governo o delle forze di polizia: “Sono stato multato già 60 volte per aver manifestato qui – racconta – dicono che senza autorizzazione non possiamo protestare. Ma sono manifestazioni spontanee: non hanno bisogno di autorizzazione. Secondo loro, dovrei pagare 10mila euro. Non pagherò mai. Oggi siamo pochi. Speravo in una reazione diversa, dopo le violenze del 10 agosto, ma forse i rumeni non hanno capito il rischio economico e democratico che stiamo correndo. Il Psd ha occupato ogni posizione degli uffici pubblici. Controllano tutto. È ancora vestita da democrazia, sì, ma per me questa è già dittatura”.

Il Fatto 17.8.18
Il corteo della diaspora: come ai tempi di Ceausescu


È stata chiamata la “manifestazione della diaspora” quella tenuta una settimana fa a Bucarest e in altre città rumene, per sottolineare la partecipazione anche di chi negli anni scorsi era andato via per trovare un lavoro. Sono circa 5 milioni i rumeni che vivono all’estero, la maggior parte è partita fra il 1990 e il 2000. Sfruttando le ferie estive gli oppositori del governo hanno lanciato la mobilitazione contro la corruzione. Il corteo era stato pacifico, ma proprio nella fase finale sono scoppiate le violenze: oltre 450 i feriti. Il presidente della Repubblica Klaus Iohannis ha condannato l’azione violenta della gendarmeria, più cauto il premier Viorica Dancila
La protesta è considerata una delle più imponenti dalla caduta del regime comunista di Nicolae Ceausescu, nel 1989. Il dittatore aveva preso il potere nel 1965; la Romania viveva un relativo benessere, ma alla fine del regime imposto dalla famiglia Ceausescu – la moglie Elena fu vice primo ministro e considerata “eminenza grigia” del sistema – il Paese rimase in ginocchio. La coppia fu fucilata durante la rivoluzione. Oggi, a fare le spese di questa mobilitazione è il governo del Psd, e il leader del partito, Liviu Dragnea, condannato due volte per corruzione; Dragnea vorrebbe una riforma del codice penale che lo metterebbe al riparo – con altri membri del suo partito – dalla condanna definitiva

Repubblica Robinson 19.8.18
Angelo Scola, Cardinale
Il padre camionista lo voleva ingegnere, ma lui abbandonò il Politecnico per la Cattolica. Poi don Giussani, ma anche Lacan: Chiesa & filosofia. E oggi? "Io quasi Papa? Quando mai"
di Antonio Gnoli


È tornato alle sue umili origini il cardinale emerito Angelo Scola. Come dopo un lungo percorso che si chiude, così uno degli uomini più potenti della Chiesa ha reso omaggio al detto evangelico che occorre spogliarsi delle ricchezze terrene per poter bussare alle porte regali. Oggi Scola, dopo essere stato Arcivescovo di Milano e a un passo dal soglio pontificio (circostanza che con molta determinazione nega sia mai avvenuta) vive nella canonica di Imberido, frazione di Oggiano, non distante da dove è nato 77 anni fa: « Il mio paese è Malgrate, vicino a Lecco. Con mio fratello e i miei genitori abitavamo in un piccolissimo appartamento, annesso a una grande villa patrizia. Erano minuscole case di ringhiera dove vivevano una decina di famiglie. Il contrasto tra i fasti della villa e le nostre abitazioni era evidente » . I ricordi di Angelo Scola sono diventati un libro molto franco, un’autobiografia scritta con l’eccellente collaborazione di Luigi Geninazzi: Ho scommesso sulla libertà (pubblicata da Solferino).
Si può davvero scommettere sulla libertà o non sarebbe più giusto lottare per essa?
«La libertà è la sostanza della persona. Essa si accompagna al rischio per sé e per gli altri e quindi esige sempre una scommessa. È ovvio quindi che si debba lottare per la libertà».
Ci si sente liberi soprattutto nella stagione dell’infanzia. Come è stata la sua?
« Una vita povera di cose ma ricchissima di affetti e di amici. Con i miei abitavo in meno di 35 metri quadrati. Ma la vera casa era tutto il paese, dal molo con i pescatori alle scorribande nei frutteti, al cortile dell’oratorio, alla piazza. La mia infanzia è stata una grande scuola di realismo».
Immagino che le sia servita nella sua lunga carriera spirituale. Quando ha sentito la prima volta il desiderio di abbracciare la Chiesa?
«Ricevetti una proposta in quarta elementare di entrare in un ordine missionario. Ero molto giovane e perfino stupito da quella offerta. Ma suonò quasi immediatamente l’impeto di allargare l’orizzonte della mia esistenza. Avevo quotidianamente davanti agli occhi la fede di mia madre: solida e semplice. Così intimamente vicina da farmi intuire che la vita è un compito».
Tanta serietà in un bambino di cosa l’ha privata?
« Di nulla, avevo l’essenziale che per me era tutto. A volte, soprattutto a scuola, sentivo una certa emarginazione. Le medie che feci a Lecco erano frequentate soprattutto da figli della borghesia ».
La disparità di censo era un problema?
« Mi diede la forza di reagire. Fu come una sfida all’esistente che incanalò positivamente le mie energie. Se oggi mi guardo indietro vedo la compresenza del gusto della sfida e di una certa timidezza, con un pizzico di ansietà».
Suo padre camionista desiderava un figlio ingegnere. Lei si iscrive al Politecnico di Milano. Ma poi abbandona. Come ha vissuto questa disubbidienza verso il padre?
« Non ci fu niente di traumatico, perché si era reso evidente quale fosse il mio vero volto, cioè la mia vocazione. Fu dunque semplicemente il maturare della libertà rispetto al progetto di
mio padre. E lui lo ha capito».
Si iscrive alla Cattolica. Alla scienza e alla tecnica preferisce la riflessione sul divino. Non ritiene che nell’età della secolarizzazione Dio sia stato sostituito dall’algoritmo?
« È ovvio per me che l’algoritmo si porrà sempre su un piano totalmente diverso rispetto a Dio. Ai miei occhi Dio in persona custodisce il destino di ogni uomo e di tutta la famiglia umana. L’algoritmo è un fattore statistico di straordinaria utilità, non privo di gravi rischi. Ma non potrà mai raggiungere il livello ultimo del vero di cui ognuno di noi ha sete».
Si può avere sete di tante cose e tante possono essere le verità, almeno in un mondo come il nostro. Se non avesse fatto il prete cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Forse avrei fatto il politico, come mio fratello. Ma è solo una labile immagine. Per grazia di Dio sono contento della scelta compiuta ».
Nella sua scelta quanto ha contato la presenza di un maestro come don Giussani?
«Se non l’avessi incontrato non sarei probabilmente quello che sono. È stato come un padre con un figlio».
Si dice che fosse brusco e irascibile.
« Un carattere che non gli ha impedito di essere disponibile a dialogare con tutti».
Per certi versi una figura accostabile alla sua fu quella di don Milani. Quasi che nel loro impegno abbiano rappresentato due volti simili ma opposti della Chiesa.
«Don Milani fu un acuto e coraggioso educatore con un notevole seguito. Don Giussani, che il cardinal Biffi chiamava il don Bosco del ventesimo secolo, ha generato un popolo».
Lei ha studiato a Friburgo con Hans Urs von Balthasar, uno tra gli uomini più dotti del Novecento. Cosa le ha insegnato la sua teologia?
«La decisività della bellezza e della santità, anche per far teologia. Fu indubbiamente uno spirito libero che ha sempre scelto di stare fuori dall’ufficialità degli onori e del potere».
La sua teologia fu la risposta cattolica a quella prospettata da Karl Barth. Che giudizio dà di quest’ultimo?
« Entrambi abitavano a Basilea. Barth, soprattutto con la sua dogmatica ecclesiale, rappresenta un punto di non ritorno per tutto il pensiero cristiano. A lui si deve il netto superamento del razionalismo biblico e della teologia positivistica».
Cosa pensa del suo commento alla "Lettera ai Romani"?
« Ha dentro alcune cose straordinarie. Formidabile, ad esempio, l’affermazione che tutti gli uomini compresi i santi altro non sono che "un grido verso Dio"; o quella che "tutto è grazia". Ma la sottovalutazione della storia e della religione fu un suo limite».
Nei suoi anni all’università di Friburgo, risuonava ancora il nome di Heidegger?
«Ero nella Friburgo svizzera, ma il nome di Heidegger risuonava ampiamente anche lì».
Davvero come dice Heidegger solo un Dio potrà salvarci?
«Questa sua affermazione resta sempre drammaticamente valida. Il problema è chi fosse Dio per lui».
Cosa pensa di Romano Guardini che fu, se non allievo, lettore
acuto di Heidegger?
«È uno dei grandi pensatori cristiani di tutti i tempi. Lo mostra la sua profetica attualità. La concentrazione del cristianesimo in Gesù Cristo, il Signore; la sua tesi sull’opposizione polare; il giudizio sul moderno; la concezione del potere; l’urgenza che la Chiesa " rinasca dalle anime": sono elementi decisivi che ci possono aiutare per attraversare il travaglio in cui versa il nostro tempo».
Nei suoi anni universitari si ammala gravemente, al punto da dover interrompere gli studi per circa un anno. La malattia è anche un modo per mettere la fede alla prova?
«Lo è con tutta evidenza. Non sopporto la facile mistica del dolore. Nel tempo in cui fui malato mi colpì il passaggio dell’Imitazione di Cristo: "La malattia può far perdere la fede"».
Che cosa sono debolezza e obbedienza?
«La debolezza è espressione dell’umana finitudine, di cui Gesù volle fare esperienza salendo sulla croce. E in questo modo la trasfigurò rendendola gloriosa. L’obbedienza, quando uno ne scopre la convenienza, è una compagna insostituibile sulla strada della vita».
Sulla strada della vita lei ha incontrato a un certo punto la psicanalisi. Le fu suggerito da Giacomo Contri, uno dei massimi conoscitori di Lacan, di rivolgersi a un’analista lacaniano perché potesse curare il suo deperimento fisico.
«Accolsi il suggerimento e decisi di andare in analisi da un lacaniano della prima ora, Louis Beirnaert, un gesuita alsaziano; al tempo stesso frequentai alcune sedute del seminario di Lacan a Parigi».
Che impressione le fece? Voglio dire su Lacan, sulla proverbiale oscurità delle sue opere, ci si è divisi tra chi lo considera un genio e chi un ciarlatano.
«Chi definisce Lacan un ciarlatano è uno che non vuole affrontare la fatica di leggerlo e, in fondo, ha paura di conoscere un po’ più se stesso».
Cosa pensa del suo cattolicesimo, del suo amore per una Chiesa che aveva saputo esprimere l’estetica del barocco?
«Il rapporto di Lacan con la religione, in particolare con il cattolicesimo, non può prescindere dalla sua famiglia e dall’intensa relazione con il suo fratello minore benedettino. Mi colpì che nel suo libretto Il trionfo della religione giunse ad affermare che la religione avrebbe vinto sulla psicanalisi e sulla scienza perché la religione è inaffondabile, soprattutto quella vera, per Lacan quella romana».
Questo ipotetico trionfo della religione contrasta con il diffondersi della sofferenza e del male. Non crede che invece di trionfo occorrerebbe prendere in considerazione l’idea che Dio abbia voltato le spalle? Non a caso c’è una teologia che parla del "Dio che arretra".
« Non è Dio che arretra, siamo noi uomini che gli voltiamo le spalle. Il dolore e la morte possono essere solo condivisi, non spiegati. I familiari, gli amici, gli uomini della cura sono chiamati ad accompagnare il moribondo che scivola tra le braccia di Dio».
Dicendo che il dolore è inspiegabile cosa intende?
«Penso al Vangelo dove non si trova una teoria del dolore, ma solo la sconvolgente affermazione che troviamo nel discorso della montagna: "Beati quelli che soffrono…". Gesù non ci ha offerto spiegazioni o giustificazioni. Ha affrontato la sofferenza prendendola su di sé. Per questo l’unica possibile risposta al mistero del dolore è una presenza».
Ha avuto l’opportunità di conoscere bene gli ultimi pontificati: da quello di Paolo VI fino a Francesco. E più che a un’evoluzione abbiamo assistito a delle rotture tra un papa e l’altro. Ritiene che oggi sia proibitiva l’azione della Chiesa su un mondo che sembra deciso ad andare da tutt’altra parte?
«Preferisco la parola "discontinuità" a "rottura". Non si equivalgono. La discontinuità ha in sé la parola "continuità". La riforma della Chiesa e il suo cammino nella Storia domandano sempre discontinuità nella continuità. I diversi stili, in particolare di chi guida la Chiesa, sono lo spazio di cui lo Spirito si serve per agire».
Le ha pesato, o ritiene che sia stato comunque un limite, essere identificato come un’espressione fondamentale e organica di Comunione e Liberazione?
«No di certo. Anche perché mi sono sempre attenuto a quanto mi disse don Giussani in un dialogo subito dopo la nomina a vescovo di Grosseto: "Adesso tu fai il tuo e noi facciamo il nostro"».
Nel Conclave da cui è uscito Bergoglio era data per certa la sua elezione a papa. Ritiene infondata o falsa quella notizia che i giornali diffusero? Inoltre: che papa sarebbe stato e con quali differenze di stile rispetto a Francesco?
«Mi permette di dire che quest’ultima domanda è improvvida? Le concedo tuttavia che qualche indizio si potrebbe cogliere dal cammino descritto nel libro».
Più che un indizio c’è una sua affermazione: "Non ho mai creduto alla possibilità di diventare papa… Devo ammettere però che, sulla base di quel che hanno scritto i giornali, io ho subito una certa emarginazione. Dopo il Conclave sono stato considerato l’avversario che ha perso la sfida con Bergoglio, il cardinale nostalgico dei papi precedenti, l’uomo del passato".
«E tutto questo ovviamente non mi ha fatto piacere».
Quell’emarginazione cui allude si è trasformata in qualcos’altro. Oggi Angelo Scola, personaggio di grande incisività pubblica, è tornato al proprio mondo privato. Alla canonica di Imberido, alle sue radici. Cosa vuol dire riscoprire una meditazione più appartata?
«Sono contento di non vivere più sotto i riflettori ma di fare il prete. Alla mia età vivere in una dimensione appartata significa chiedere la grazia che il desiderio di vedere il volto di Dio la vinca sull’uggiosa preoccupazione della morte».
Il volto di Dio è anche quello di Cristo, che lei affronta come esperienza della contemporaneità. Ma non ritiene che proprio il presente stia soffocando la contemporaneità?
«Se oggi il cristianesimo è meno incidente è perché ha perso il suo pungolo. E il suo pungolo, come diceva Kierkegaard, è la contemporaneità. Cristo mi può salvare solo se mi è presente. Un giudizio sul presente mi fa dire che per quanto travagliato possa essere non fermerà l’offerta eucaristica di Gesù alla libertà di ogni uomo ».

Il Sole Domenica 19.8.18
Storia della scienza. Ricostruita per la prima volta la fortuna editoriale delle opere di colui che è considerato il padre della cultura filosofico-scientifica della prima età moderna
I best seller di Telesio
di Franco Giudice


Nei Sonnambuli, il suo best-seller sulla storia dell’astronomia dall’antichità a Newton, Arthur Koestler sosteneva che il De revolutionibus (1543) di Copernico «fu e rimane un magnifico fallimento editoriale». Insomma, per citare la sua frase a effetto, «un libro che non ha letto nessuno», essendo talmente tecnico e noioso da aver sempre scoraggiato i suoi potenziali lettori, compreso un copernicano convinto come Galileo. L’opera di Koestler, pubblicata nel 1959 e tradotta in italiano da Jaka Book nel 1982, suscitò fin da subito accese discussioni, anche se ha avuto e continua ad avere parecchi estimatori. All’epoca, tuttavia, era impossibile stabilire la verità o la falsità della sua perentoria affermazione sul libro di Copernico, poiché nessuno si era mai preoccupato di studiarne l’effettiva diffusione. Agli inizi degli anni Settanta però Owen Gingerich, astronomo e storico della scienza all’università di Harvard, raccolse la sfida e dopo più di trent’anni di appassionate indagini e di peregrinazioni nelle biblioteche e nelle collezioni private di mezzo mondo è riuscito a sfatare la tesi di Koestler, documentando con rigore l’estesa rete di lettori che si erano cimentati con il De revolutionibus e che andavano ben oltre la stretta cerchia degli astronomi di professione. I risultati delle lunghe e pazienti ricerche di Gingerich sono confluiti nel suo An Annotated Census of Copernicus' De revolutionibus (Brill, 2002), dove si trovano esaminati in ogni minimo dettaglio circa seicento esemplari del libro di Copernico, sia della prima sia della seconda edizione (1566).
Il censimento di Gingerich è unanimemente considerato un esempio magistrale di bibliografia descrittiva e di storia degli esemplari. Un giudizio che possiamo ora tranquillamente estendere allo straordinario lavoro di scavo che Giliola Barbero e Adriana Paolini hanno dedicato alle vicende editoriali delle opere di Bernardino Telesio (1509-1588) pubblicate nel XVI secolo, quelle cioè con cui è stata tramandata la filosofia di uno dei più significativi esponenti del naturalismo rinascimentale. Un’impresa tutt’altro che semplice, ma che ha dato i suoi frutti, visto che in soli quattro anni di intense ricerche le due studiose hanno individuato ben 718 esemplari, di cui 543 «oggetto di analisi autoptica».
Di questi esemplari viene indicata non solo l’attuale collocazione nelle molteplici biblioteche del mondo, ma anche la redazione di ognuno di essi, le varianti editoriali, le lacune, le diverse emissioni di una medesima edizione e la legatura. Tutti elementi che evidenziano sia come si sono conservate le varie edizioni, sia i meccanismi di riproduzione a stampa dei singoli testi.
Per quanto indispensabile, questa ricognizione tuttavia non è stata che il punto di partenza, una fotografia per così dire di ciò che è materialmente sopravvissuto. Il vero pregio del lavoro di Barbero e Paolini sta infatti altrove: nell’essere riuscite a ricostruire per la prima volta la fortuna editoriale delle opere di Telesio, a raccontarne cioè la circolazione e il tipo di impatto. Così, attraverso un minuzioso setaccio, hanno ripercorso la storia di ogni singolo testo, rivelandone i segni di possesso, la presenza di note marginali e di censura, di commenti, di rilievi critici e anche di piccole tracce di lettura. Informazioni preziose, che sono servite alle due studiose per inseguire il destino dei libri di Telesio dopo l’uscita dalla tipografia, per identificarne in moltissimi casi i nomi dei lettori e dei possessori, illustri e meno illustri, e per disegnare una mappa della loro diffusione, che meritava forse una rappresentazione grafica in grado di farne apprezzare anche visivamente la prospettiva spaziale.
Per avere un’idea dei notevoli risultati ottenuti da Barbero e Paolini, è sufficiente prendere in considerazione il De rerum natura iuxta propria principia, l’opera più importante per la conoscenza del pensiero di Telesio, dove l’autore proponeva una nuova immagine della natura in aperta polemica con la fisica di Aristotele. Si viene così a sapere che l’editio princeps, pubblicata a Roma nel 1565 sotto l’attenta supervisione di Telesio, ebbe una circolazione piuttosto limitata, tanto da risultare «assente dalla maggior parte delle grandi biblioteche Sei e Settecentesche europee». E che fu con le due edizioni napoletane del 1570 e del 1586 che «il pensiero di Telesio quasi dilagò in Europa», soprattutto con quest’ultima, che può essere considerata «la vera princeps della fortuna filosofica telesiana». A decretarne il successo, anche sul piano commerciale, contribuì senz’altro la scelta lungimirante del suo stampatore Orazio Salviani, che nella primavera del 1587 – come hanno scoperto Barbero e Paolini – riuscì a presentarla e a venderla alla Fiera di Francoforte, il più grande mercato librario dell’epoca.
A partire dal 1586 dunque il De rerum natura di Telesio si diffuse a macchia d’olio, non solo in Italia, ma in tutta Europa: dalla Francia all’Inghilterra, dalla Germania all’Ungheria. E un ruolo decisivo lo svolse Gian Vincenzo Pinelli da Padova, dalla capitale cioè dell’aristotelismo. Mecenate e raffinato umanista, egli possedeva la più imponente e rinomata biblioteca dell’epoca, che era anche diventata un vivace luogo di incontro per studiosi italiani e stranieri. Ammiratore di Telesio, Pinelli aveva fatto apprezzare il De rerum natura ai numerosi visitatori che frequentavano la sua casa, come il celebre matematico inglese Henry Savile, che a sua volta lo aveva segnalato a Francis Bacon. Proprio quel Francis Bacon che avrebbe definito Telesio «il primo dei moderni».
Il libro è molto di più di un mero censimento delle edizioni antiche delle opere di Telesio: è un documentato e rigoroso affresco del loro impatto sulla cultura filosofico-scientifica della prima età moderna, che ci fa capire quanto ricchi e a volte inaspettati siano i modi in cui i lettori si appropriano dei testi.
Le edizioni antichedi Bernardino Telesio: censimento e storia
Giliola Barbero e Adriana Paolini, Les Belles Lettres, Parigi, pagg. 736, € 65

Il Sole Domenica 19.8.18
Neuroscienze. Viaggio nelle basibiologiche della funzione genitoriale
Stimoli infantili e cervello «da genitore»
di Vittorio Lingiardi


In tempi in cui madri e padri, anzi mamme e papà, come qualcuno ama ripetere al popolo, sono chiamati in causa sempre più spesso, ma con poca cognizione di causa, un libro che ci informa sulle Basi biologiche della funzione genitoriale, questo il titolo, è benvenuto. Nell’epoca in cui il concetto esclusivo di famiglia si apre al concetto inclusivo di famiglie, è importante che addetti ai lavori e non abbiano a disposizione documentazioni scientifiche sulle invarianti della genitorialità. Cosa è la funzione genitoriale? Cosa promuove e sostiene lo sviluppo psicofisico del bambino? Con prosa non solo accessibile, ma anche piacevole, ed evitando inutili tecnicismi, ce lo spiegano tre docenti di psicologia dinamica: Paola Venuti, dell’Università di Trento-Rovereto, Alessandra Simonelli e Paola Rigo dell’Università di Padova. Quella genitoriale è una funzione ampia, processuale (si sviluppa nel tempo), ancorata alla biologia ma non necessariamente connessa alla generatività biologica. Riguarda le cure offerte, ma affonda le radici in quelle ricevute: essere genitori è un’esperienza intergenerazionale che prende le mosse dall’essere stati figli. Se il caregiving è la capacità psicobiologica di accudire chi è bisognoso di protezione e riconoscimento, compresa, per esempio, una persona anziana o malata, massima espressione di tale funzione, dunque più propriamente parenting, è l’accudimento di una figlia o di un figlio. Intrecciando la neurobiologia con i temi cari all’infant research e alla teoria dell’attaccamento, le autrici integrano lo studio delle rappresentazioni (cioè l'insieme di emozioni, pensieri, schemi mentali, più o meno consapevoli, presenti nella mente dell’adulto e alla base della visione di sé e del bambino, dei comportamenti messi in atto nei suoi confronti, dei significati attribuiti a tale processo) e delle interazioni (cioè la gamma di comportamenti attuati nel qui e ora della relazione tra adulto e bambino, nonché le capacità nascenti nel piccolo di creare aspettative, prefigurazioni e, in definitiva, modelli di significato sulla qualità della relazione con l’adulto). Ma il focus centrale del testo è il dialogo tra questi due livelli (rappresentazioni e interazioni) e quello del funzionamento cerebrale. In un importante lavoro di revisione della letteratura sulle basi biologiche della funzione genitoriale, Swain e collaboratori hanno delineato un potenziale modello di parental brain che include le aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione di stimoli infantili, visivi (immagini o video) o uditivi (pianto o vocalizzazioni neutre e positive). La risposta genitoriale è dunque stimolata dall’elaborazione sensoriale e dalla valutazione emotiva del segnale infantile che attiva, per esempio, sistemi corticolimbici sottostanti a meccanismi sottocorticali che guidano in automatico l’attenzione e lo stato di allerta del genitore, processi cognitivi (prendere decisioni, mentalizzare) e affettivi (emozionarsi, spaventarsi, preoccuparsi), della memoria. Siamo di fronte a una vera e propria danza interattiva e circolare tra genitore, bambino e ambiente. Inevitabilmente interattiva è anche la danza delle strutture cerebrali e dei neurotrasmettitori coinvolti, dall’ossitocina alla dopamina fino agli oppioidi endogeni (implicati negli stati di soddisfazione e piacere condiviso una volta cessato l'allarme). E fondamentale è il ruolo del bambino nell’aiutare l'adulto a capire i suoi segnali, comprenderne il significato e rispondere adeguatamente.
Alla base del rapporto che i neonati stabiliscono con i caregiver vi è la capacità di questi ultimi di comprendere le disposizioni temperamentali (per esempio il livello di attività, la tendenza alla distrazione, la perseveranza, la reazione alle novità, l’adattabilità, la soglia di responsività sensoriale, l’umore, ecc.) e in base ad esse regolare le interazioni. Se esistono, come dimostrato dalle ricerche trentennali di Chess e Thomas, tre tipologie, ovviamente schematiche, di temperamento infantile – bambini “facili”, “difficili” e “lenti a scaldarsi” – non è detto che le caratteristiche, per esempio “difficili”, di un bambino, costituiscano a priori un aspetto problematico: sarà piuttosto l’interazione con l’ambiente, e con le caratteristiche dei caregivers, a determinare il livello di problematicità di tali tratti.
Dai comportamenti alle rappresentazioni ai substrati neurali. Sembrerebbe quasi un passo indietro. Nei fatti, specificano le autrici, si tratta di un salto in avanti che ci consente di iniziare a interrogarci su come funziona il nostro cervello quando è esposto a stimoli infantili che sollecitano l’esercizio della funzione genitoriale. Quali aree si attivano? Quali connessioni? Ma, soprattutto, quali possono essere le condizioni, anche biologicamente determinate, che impediscono a un adulto di organizzare una risposta di cura e protezione ai livelli cerebrale, affettivo-relazionale e cognitivo-comportamentale? Obiettivo di questo manuale è insomma esplorare e documentare le strutture cerebrali e i circuiti neurali che promuovono o inibiscono la funzione genitoriale, in condizioni tipiche e atipiche. Molteplici, dunque, le implicazioni per la valutazione e l'intervento clinico: «L’ambizione è che dalla ricerca, anche di base, si possa arrivare a conoscenze importanti per la clinica, consapevoli del fatto che l’intervento precoce sulla funzione genitoriale può costituire una forma elettiva, protettiva, evolutiva di cura nei confronti del bambino prima della manifestazione psicopatologica, prima della compromissione delle traiettorie evolutive e del benessere nelle età successive».
Basi biologiche della funzione genitoriale. Condizioni tipiche
e atipiche. Paola Venuti, Alessandra Simonelli, Paola Rigo Raffaello Cortina, Milano, pagg. 200, € 20

Il Sole Domenica 19.8.18
Egoismo etico. Sullo sfondo del problema dell’emancipazione umana, ritorno di interesseper il filosofo tedesco in un’epoca in cui la questione dell’individuo è ridiventata centrale
Quell’asociale di Stirner
di Michele Ciliberto


Alla morte di Hegel, come si sa, la sua scuola si spezzò in due tronconi : da un lato, la destra; dall’altro la sinistra, della quale fecero parte, con autonomia e originalità di pensiero, personalità di primissimo piano come Bruno Bauer, Carlo Marx, Max Stirner, autori di opere che hanno lasciato un solco profondo nella storia del pensiero del XIX secolo. Escono, in generale, tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, ed hanno in genere al centro la critica della religione , come principio di una riflessione generale sulla condizione umana.
L’Unico di Stirner viene pubblicato nel 1844 (sul frontespizio si legge però 1845); la Tromba dell’ultimo giudizio contro Hegel ateo e anticristo. Un ultimatum, di Bauer, nel 1841, mentre al 1843 risale un’altra sua opera fondamentale, La questione ebraica che, a sua volta, è oggetto di una immediata , e dura, discussione da parte di Marx, il quale pur riconoscendo il valore dell’avversario, ne critica a fondo le tesi, alla luce delle posizioni messe a fuoco in un’altra opera essenziale di questo periodo, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Qui Marx utilizza, e sviluppa sul piano politico, la critica che Feuerbach aveva rivolto alla filosofia hegeliana mettendo al centro della sua analisi il rovesciamento tra soggetto e predicato operato, a suo giudizio, da Hegel .
L ’essenza del cristianesimo, come si intitola il libro di Feuerbach, esce nel 1841 - lo stesso anno del testo di Bauer - ed ebbe uno straordinario successo. Come dice Federico Engels, molti anni dopo, leggendolo diventammo tutti “feuerbachiani”, rievocando il senso di liberazione che il testo di Feuerbach aveva generato in lui come in tutta la sua generazione.
Del resto, basterebbe leggere la Critica della filosofia del diritto hegeliano o le pagine finali della Questione ebraica di Marx per comprendere in presa diretta quanto Feuerbach abbia inciso a fondo sui principali esponenti della sinistra hegeliana , a cominciare proprio da Marx: la critica della politica e della concezione della figura del legislatore di Rousseau che chiude la Questione ebraica e la critica della filosofia hegeliana attuata nella Critica hanno come riferimento principale da un lato la concezione dell’uomo come “ente generico”; dall’altro, la critica del rovesciamento tra soggetto e predicato- entrambi architravi del pensiero di Feuerbach. Come a suo tempo dimostrò Cesare Luporini in un saggio memorabile, è Feuerbach l’interlocutore principale di Marx in questi testi.
In tutti questi pensatori - da Bauer a Marx a Stirner - il problema centrale è quello della emancipazione umana, con un conseguente spostamento della critica dal piano della religione a quello della politica. E questo sia per motivi sia teorici che di ordine storico: nel 1840 era asceso al trono di Prussia Federico Guglielmo IV, figura complessa e contraddittoria, che attutì, non valutandone le conseguenze, la censura sulla stampa, come conferma la nascita , in questo periodo, di riviste importanti ma nettamente critiche dell’esistente, quale la Reinische Zeitung, pubblicata a Colonia dal gennaio 1842 al marzo 1843, alla quale collaborano sia Marx che Stirner. Sono, questi, anni di straordinarie battaglie in Germania per l’emancipazione religiosa,politica e sociale .
Se il problema è quello della emancipazione si tratta però di comprendere di quale emancipazione abbia bisogno l’uomo, ed è qui che le strade divergono in modo radicale : per Bauer, nella Questione ebraica, l’emancipazione non deve essere dell’ebreo in quanto ebreo, ma dell’uomo in quanto uomo, e deve essere essenzialmente di tipo politico; per Marx l’emancipazione deve essere di ordine sociale: è solo agendo su questo piano che l’uomo può effettivamente emanciparsi, oltrepassando la separazione moderna tra stato e società civile, tra borghese e cittadino; per Stirner occorre andare al di là sia della politica e dello stato che della società, dello stesso concetto dei “diritti umani”- tutti fantasmi, spettri,astrattezze di cui liberarsi - assumendo come principio della liberazione il concetto dell’Unico, quale archetipo di una nuova concezione dell’uomo e del suo destino. A Stirner non interessano né la comunità, né la società: gli altri sono mezzi e strumenti da adoperare come proprietà del singolo.
Rispetto a interlocutori del calibro di Marx e Bauer, Stirner, stravolgendo in chiave individualistica “egoistica” e nihililistica il concetto moderno di potere , e connettendolo a quello di proprietà, si situa in un punto di vista totalmente altro, suscitando per la radicalità delle sue posizioni l’interesse di pensatori come Nietzsche, che ne riprende il concetto di volontà di potenza. Anche se - come ha scritto Roberto Calasso- è quella di Stirner «la vera “filosofia del martello” , che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare , perché troppo irrimediabilmente educato...».
«Si dice di Dio:”Nessun nome ti nomina”. Ciò vale anche per me: nessun concetto mi esprime, niente di ciò che di indica come mia essenza mi esaurisce: sono soltanto nomi..» . L’Unico di Stirner agisce solo per sè, situandosi al di fuori di qualunque apparato costruttivo: l’ Unico, se lo ritiene opportuno, può associarsi , ma il concetto di associazione è del tutto diverso da quello di stato, il quale non ha alcuna legittimità e al quale Stirner è totalmente avverso . Come è avverso al nazionalismo, al liberalismo, allo statalismo, al comunismo, ed anche all’umanismo....In Stirner il nihilismo si realizza in maniera compiuta :«Io - scrive, riprendendo un verso di Goethe - ho fondato la mia causa sul nulla..».
Si capisce che Marx nella Ideologia tedesca abbia sottoposto a una critica radicale il pensiero di San Max, come lo chiama : sono posizioni polari. Non è concepibile per Marx l’opposizione tra individuo e società, l’uomo si determina nei rapporti sociali . E si capisce anche perché Stirner abbia avuto fortuna presso posizioni di tipo anarco- individualistiche, ed anche perché il suo pensiero susciti particolare interesse in un tempo come il nostro nel quale sono in crisi tutti i principi “ moderni “ contro cui Stirner conduce una lotta senza quartiere, e quella dell’individuo è ridiventata una questione centrale.
In questo senso, le sue pagine sono singolarmente attuali e possono essere rilette in modo nuovo, al di fuori di vecchi e nuovi pregiudizi . È stato perciò assai opportuno ripubblicare, con testo tedesco a fronte, questo grande libro nella “bella” e “fedele” traduzione di Sossio Giametta, che vi ha premesso anche una originale e limpidissima Introduzione. Stirner ha messo a fuoco aspetti della condizione umana che oggi, mentre un intero mondo si dissolve, appaiono in piena luce. Molto più di quanto sia apparso in passato. Come diceva il vecchio Hegel, è la fine che illumina il principio e il suo sviluppo.
L’Unico e la sua proprietà Max Stirner A cura di Sossio Giametta, testo
tedesco a fronte, Bompiani, Milano, pagg. 992, € 40

Il Sole Domenica 19.8.18
David Hume e Adam Smith
La grande amicizia tra il miscredente e il professore
di Alberto Mingardi


I grandi duelli sono più avvincenti delle grandi amicizie, non solo nel caso delle rivalità sportive. Edmund Burke e Thomas Paine, Karl Popper e Ludwig Wittgenstein, David Hume e Jean-Jacques Rousseau: tutti scontri appassionanti, anche perché è facile ritrarre i protagonisti come fossero Bartali e Coppi o meglio Disraeli e Gladstone, campioni di filosofie l’una contro l’altra armate. Come nel caso di Hume e Rousseau, forse il maggiore difensore e il critico più devastante della società aperta.
Col suo The Infidel and the Professor, Dennis C. Rasmussen sceglie di raccontare invece la storia di una grande amicizia: quella fra Hume e Adam Smith. Il miscredente è Hume, il professore è Smith.
Lo sforzo dell’autore è di sottrarre «citazioni implicite e esplicite» a ogni funambolismo filosofico per inserirle in una trama di lettere, inviti a cena (più da parte di Hume, per la verità), incroci fortuiti e amici comuni. L’uno e l’altro non volevano «che i loro scritti in forma di bozza e le loro lettere private fossero resi pubblici»: il lettore non si aspetti da Rasmussen documenti inediti o carte scovate in qualche archivio. Ma un sodalizio intellettuale così profondo, sapientemente coltivato per quindici anni (dal 1750 alla morte di Hume), non poteva che risultare in una serie di rimandi, di critiche più o meno esplicite, che Rasmussen mette pazientemente a fuoco.
Sia Smith che Hume erano orfani di padre. Il babbo di Hume morì prima del suo secondo compleanno, quello di Smith quando la madre era ancora incinta. Dei due, è nota la differenza di temperamento: brillante «le bon David», introverso e svagatissimo Smith.
A Hume la nomea di ateo e l’ostilità della chiesa scozzese preclusero la carriera accademica. Mentre stava costruendo la sua nuova casa, durante le visite quotidiane per ispezionare i lavori aveva l’abitudine di prendere una scorciatoia che passava in mezzo a una palude. Una volta «scivolò, cadde e si piantò in un pantano». Riuscì a un certo punto a richiamare l’attenzione di un gruppo di pescivendole. Le donne, tuttavia, lo riconobbero «come quel perfido miscredente di David Hume e si rifiutarono di aiutarlo a meno che non recitasse solennemente il Padre Nostro». Lui lo fece e da allora «continuò a raccontare (questo aneddoto) con gran divertimento, affermando che le pescivendole di Edimburgo erano i teologi più acuti che avesse mai incontrato». Del resto, ricorda Emilio Mazza nel suo La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume (2012), lo scettico è sempre il primo a unirsi alla risata che lo riguarda.
Smith era molto più accorto ed ebbe cattedra all’Università di Glasgow. Entrambi temevano il bigottismo e l’«entusiasmo religioso» ma prescrivevano cure diverse. L’infedele Hume, sottolinea Rasmussen, nella Storia d’Inghilterra parteggiava per una Chiesa di Stato, ritenuta tutto sommato un argine, proprio grazie alla coincidenza con gli interessi del sovrano, al possibile divampare del fanatismo. Al contrario, Smith prende partito per il pluralismo confessionale.
L’uno e l’altro pensavano la storia come una trama di conseguenze inintenzionali. Per Rasmussen, Hume «rivestì un ruolo nello sviluppo delle idee di Smith in tema di economia politica». Il suo nome è inseparabile dal «paragrafo più importante» della Ricchezza delle nazioni: cioè là dove Smith asserisce che «commercio e manifatture introdussero gradualmente l’ordine e il buon governo e con essi la libertà e la sicurezza individuale» e Hume «è il solo autore che l’abbia rilevato».
L’argomento è cruciale. I re avevano cercato per secoli di limitare il potere dei signori feudali, ciascuno dei quali era una sorta di piccolo principe, senza successo, ma «ciò che tutta la violenza delle istituzioni feudali non poteva mai compiere fu realizzato gradualmente dalla silenziosa e impercettibile azione del commercio estero e delle manifatture». I signori cominciarono a spendere i loro quattrini per altro che per mantenere i loro servi, e più spendevano per i lussi, meno servi potevano mantenere. Essi rinunciarono, così, volontariamente, per amore delle belle cose, ai piccoli “eserciti privati” con cui facevano il bello e il cattivo tempo. Oltre a rinsaldare il potere dei sovrani, ciò portò anche all'arricchimento di una “classe di mezzo”, dotata di risorse personali e indipendente dai capricci del potere.
Hume non era stato l’unico autore a individuare una relazione tra commercio e libertà, ma da lui Smith la prese e avendo in mente i suoi Political Discourses provò a spiegare tale nesso. Con quel lavoro dell’amico condivideva anche l’obiettivo polemico della sua grande opera: il mercantilismo. Come Hume, egli dimostrò che non bisogna confondere la moneta con la ricchezza, e pertanto l’afflusso di metalli preziosi in cambio di esportazioni non coincideva con la “ricchezza della nazione”, il cui progresso invece consisteva con la diffusione dell’operosità e del benessere. Che lo Stato non avrebbe dovuto mettere a repentaglio imponedo a tutti virtù marziali: il sovrano deve accontentarsi dei sudditi come li trova, non plasmarli secondo un modello.
Nel racconto di questa amicizia, Rasmussen disegna un progetto intellettuale comune. Che è poi quell’idea di società libera ancora cara ad alcuni di noi.
The Infidel and the Professor:, David Hume, Adam Smith, and the Friendship That Shaped Modern Thought Dennis C. Rasmussen Princeton 2017, Princeton University Press, pagg. 336, $ 29.95

Il Sole Domenica 19.8.18
Lo Stato. Storici e teorici del diritto internazionale affrontano la questione
Quando, dove e perché è nato il nostro «État»?
di Sabino Cassese


Lo Stato è una delle forme di organizzazione politiche più studiate, eppure più sfuggenti.
Ne è discussa la data di nascita. Alcuni lo fanno risalire agli ultimi secoli del Medio Evo, altri – come il grande storico italiano Federico Chabod – si chiedono se è esistito uno Stato del Rinascimento, altri ritengono che la forma Stato - nazione sia in realtà un prodotto del XVIII-XIX secolo.
Si è sviluppato prevalentemente in Europa, ma solo una parte dell’Europa, quella continentale, ne ha riconosciuto l’esistenza e coltivato la nozione e il concetto. Basti dire che il termine State è rimasto pressoché ignoto per lungo tempo nell’area britannica.
Sue caratteristiche sono ritenute una unità territoriale, una organizzazione dipendente dal centro, il monopolio della forza, la sovranità. Tuttavia, con gli Stati hanno convissuto potenti organizzazioni religiose, autorità locali indipendenti e vassalli poco rispettosi della sovranità statale.
A tali problemi è dedicato questo volume francese, dove sono raccolti ventuno brevi ma densi saggi di storici e di teorici del diritto francesi, italiani e inglesi, ordinati in tre parti, dedicate a Stato e diritto, Stato e sistemi giuridici e al futuro dello Stato.
Questa non è un’opera di ricerca, ma piuttosto di riflessione su molti aspetti dello Stato, visto anche dal punto di vista del cittadino (il saggio di Olivier Beaud), dal punto di osservazione delle principali eredità concettuali, principale quella di Hans Kelsen (il contributo di Michel Troper), nella prospettiva di un diritto senza Stato (lo scritto di Aldo Schiavone), e da molte altre angolazioni. Per questo aspetto, di particolare interesse è la terza parte, che affronta il tema che i francesi chiamano della mondializzazione, del declino della sovranità, della costruzione di unità sovranazionali, come l’Unione europea, con scritti, tra gli altri, Di Agostino Carrino, di Antonio Padoa Schioppa e di François Saint – Bonnet.
Sulle questioni indicate all’inizio gli scritti danno risposte chiare. Così Jacques Krynen sposa la tesi della nascita dello Stato negli ultimi secoli del Medio Evo. Michael Lobban spiega perché nell’area anglosassone i punti di riferimento sono stati Parlamento, Corona, sistema giudiziario piuttosto che lo Stato. Frédéris F. Martin indica nel Papato una delle grandi forze che si sono opposte alla sovranità statale. Infine, Emmanuel Dockès contesta la stessa costruzione statale, considerata piuttosto una ideologia che una realtà, una ideologia dietro alla quale sta il sistema giuridico (donde il titolo dello scritto: Il diritto, una alternativa allo Stato).
Ogni nuovo libro sullo Stato pone problemi di metodo e di merito. Il primo riguarda l’impostazione stessa di questo volume, che contiene analisi prevalentemente di storia del pensiero o delle idee. Ci si può chiedere quanto queste, tolte dalle condizioni concrete degli Stati nelle quali le idee, i concetti, le ricostruzioni, sono maturate, siano significative, e cioè quale continuità possa assegnarsi alle riflessioni sullo Stato. Il dialogo attraverso il tempo e lo spazio non corre il rischio di condurre a una visione atemporale dello Stato?
Il secondo interrogativo riguarda i contributi disciplinari raccolti in questo volume, che comprende scritti di storici dell’antichità, del medioevo dell’età contemporanea, teorici del diritto, giuristi, pubblicisti, amministrativisti, ma non altri studiosi, come i penalisti, il cui contributo allo studio della potestà punitiva dello Stato è essenziale.
Il terzo interrogativo riguarda i grandi problemi contemporanei, quello degli Stati falliti o in difficoltà, quello del sostegno esterno agli Stati (ad esempio, da parte dell’ONU), quello della crisi interna dello Stato, ma anche della sua espansione in aree prima ad esso ignote.
Si oppone oggi ingenuamente “sovranismo” statale a globalizzazione, senza rendersi conto che Stato e reti globali non sono entità separate e opposte. In larga misura, la globalizzazione costituisce una espansione del potere statale, che non potrebbe raggiungere campi esterni al territorio e alle funzioni dello Stato. Poi, in tutti gli organismi sovranazionali i governi nazionali giocano un ruolo determinante. Da questo discende che opporre nazionalismo o sovranismo alla globalizzazione è un errore.
Insomma, questo libro contribuisce in modo importante al progresso degli studi sullo Stato, ma questi non si fermeranno qui.
Formes et doctrines de l’État. Dialogue entre histoire du roit et théorie du droit
Pierre Bonin, Perre Brunet, Soazick Kerneis (a cura di) Paris, Editions Pedone, pagg. 344, € 34

Il Sole Domenica 19.8.18
L’autismo sotto il nazismo
Hans Asperger. Il pediatra austriaco, pioniere riconosciuto degli studi sulle patologie autistiche, non prese mai le distanze dalle criminali politiche eugenetiche del regime
di Gianfranco Bangone


Al pediatra austriaco Hans Asperger viene riconosciuto tardivamente il ruolo di pioniere degli studi sull’autismo. Nasce a Vienna nel 1906 e per paradosso la sua infanzia solitaria, e la difficoltà ad avere rapporti sociali con i suoi coetanei, ha spinto molti a credere che soffrisse dello stesso disturbo che avrà modo di studiare molto più tardi. Nel 1938 pubblica un lavoro in cui descrive una «psicopatia autistica» a cui nel 1944 dedica la sua tesi di dottorato. Un suo collaboratore, Georg Frankl, emigra negli Stati Uniti nel 1937 e lavora alla John Hopkins con Leo Kanner che porterà quest’ultimo a definire una forma di autismo infantile precoce.
In tempi recenti c’è stato un vivace dibattito su chi avesse descritto per primo questo disturbo: Kanner era di origine austriaca e quindi aveva avuto modo di leggere le poche pubblicazioni del pediatra viennese in tedesco. Ma perché il quadro clinico descritto da Asperger abbia piena accoglienza in Occidente bisognerà attendere i primi anni ’80, quando la psichiatra inglese Lorna Wing lo definisce con maggiore precisione citando espressamente la tesi di dottorato del 1944: a differenza dell’autismo classico il disturbo descritto da Asperger non presenta particolari ritardi nello sviluppo cognitivo e del linguaggio, anche se risultano compromesse forme di interazione sociale e schemi di comportamento ripetitivi. Ed è così che si fa strada una ricostruzione agiografica dell’opera del pediatra viennese descritto come una sorta di Oskar Schindler. Avrebbe salvato molti adolescenti dalla scure dei programmi nazisti di eugenetica facendo leva sulle qualità che spesso dimostrano di avere (il riferimento è al cosiddetto autismo «ad alto guadagno»). Fra gli estimatori di Asperger c’è anche la psicologa dello sviluppo Uta Frith che nel ’91 pubblica in inglese un libro dove lo si cita lungamente. La diffusa circolazione di queste ricostruzioni determina un uso sempre maggiore di questo termine nella pratica clinica e un continuo aumento del numero di casi descritti. Nel 1994 l’associazione americana di psichiatria include la Sindrome di Asperger nella quarta edizione del manuale statistico e diagnostico (DSM). Ma il fuoco cova sotto la cenere e i pareri non sono affatto unanimi: lo storico austriaco Herwig Czech, ad esempio, sostiene che Asperger è stato coinvolto nelle politiche naziste di “igiene razziale” e accusa la Frith di aver contribuito a diffondere l’idea che avesse difeso i suoi pazienti correndo personalmente grandi rischi. A frenare la diffusione di questo approccio contro corrente sono varie circostanze: intanto il pediatra viennese ha smesso di fare ricerca sull’autismo dopo la caduta del Terzo Reich, c’è la barriera della lingua - pochi leggono il tedesco - e l’ipotesi mai verificata che alla fine del conflitto molti documenti che lo riguardano siano andati persi o distrutti.
Nel 2011 la storica Edith Sheffer di Stanford inizia un monumentale lavoro di ricerca partendo da un caso personale: al figlio Eric è stata diagnosticata all’età di 17 mesi una sindrome autistica. Avrà modo, quasi ossessivamente, di consultare in Austria vari archivi e la pubblicazione del suo libro nel 2018 farà grande scalpore: Asperger era sicuramente un esponente della pediatria dal volto umano (la Heilpädagogik), ma molti documenti dimostrano che non poteva non sapere cosa avveniva nella clinica viennese Am Spiegelgrund dove si praticava l’eutanasia in adolescenti “geneticamente inferiori”. Non si era mai iscritto al partito nazional socialista, ma due direttori del centro viennese, entrambi ferventi nazisti, Franz Hamburgher ed Erwin Jekelius, lo avevano protetto e aiutato a fare carriera. In almeno una trentina di casi Asperger aveva firmato delle cartelle cliniche che avevano portato degli adolescenti al ricovero coatto nel famigerato Padiglione 17 e quindi all’eliminazione di alcuni di loro tramite forti dosi di barbiturici. È abbastanza probabile che dopo la caduta del Terzo Reich in Germania e in Austria sia scattata una gigantesca rimozione collettiva. Asperger si trincera in un profondo silenzio, anche se continuerà a far carriera, ma rilascia una lunga intervista nel 1974 dove prende le distanze dalla folle ideologia nazista.
Una lettura più attenta dei suoi interventi scientifici fra il 1938 e il 1945 sconfessa questa versione assolutoria. A parlare sono una lunga serie di documenti originali che raccontano un’altra storia: dopo l’Anschluss del 1938 le università austriache, e le istituzioni sanitarie, sono preda di un violento antisemitismo e scatta una profonda epurazione del personale di origine ebraica. Asperger aveva ricoperto incarichi di rilievo nell’ente che coordinava la politica sanitaria viennese ed era stato sottoposto a forme di valutazione professionale dal regime nazista – che aveva sempre superato – tramite i rapporti dei suoi diretti superiori, Hamburgher e Jekelius. Non ha mai preso le distanze dalle politiche eugenetiche del regime, i programmi di sterilizzazione forzata e l’eliminazione dei soggetti considerati “irrecuperabili”. Lo dimostrano le cartelle cliniche di Elisabeth ed Herta Schreiber, due bambine di tre e di sei anni, non imparentate fra loro, che moriranno nello Spiegelgrund nel ’41 e nel ’42. Un particolare agghiacciante del documento che riguarda Herta indica che la madre era stata informata della sua sorte: ultima di sei figli, con il padre al fronte, e affetta da encefalite avrebbe rappresentato un peso insostenibile per la sua famiglia.
Ovviamente i dati di Czech e la documentazione raccolta dalla Sheffer circolano in via preliminare fra gli addetti ai lavori. Ce n’è abbastanza perché il board della società internazionale sull’autismo prenda provvedimenti. Lo storico austriaco viene invitato a pubblicare una monumentale rassegna di 43 pagine su Molecular Autism mentre i dati raccolti da Edith Sheffer dilagano sui grandi quotidiani internazionali. A maggio del 2018 Simon Baron-Cohen, uno dei massimi esperti di questo ambito disciplinare, pubblica un intervento su Nature dove invita la comunità di riferimento a fare i conti con questo discusso caso che rischia di macchiare il buon nome della psichiatria infantile. Il suo intervento farà enorme scalpore, ma queste rivelazioni non arrivano come un fulmine a ciel sereno, perché negli ambienti psichiatrici circolano sin dai primi anni ’70. A prendere le difese di Asperger saranno pochi, intanto la sindrome che porta il suo nome è stata già eliminata dall’ultimo manuale statistico diagnostico (il DSM).
Asperger’s Children: The Origins of Autism in Nazi Vienna, Edit Sheffer Norton, New York, pagg. 317, € 19,44