sabato 18 agosto 2018

il manifesto 15.8.18
Mary Shelley, il dono di dare e togliere la vita
Scaffale. Nel bicentenario della scrittrice che creò Frankenstein esce, per la prima volta in traduzione italiana, l'ultimo suo romanzo, «Il segreto di Falkner» (Edizioni della Sera). Insieme a una nuova biografia di Fiona Sampson, uscita per Utet
di Andrea Colombo

Due uomini, non privi di somiglianze tra loro, sono all’origine della non ancora del tutto superata sottovalutazione che incombe da sempre, ovunque ma in Italia più che altrove, su Mary Godwin, figlia del filosofo William Godwin e della pioniera del femminismo Mary Wollstonecraf: uno, reale, è il marito, il poeta romantico Percy Shelley, l’altro, partorito dalla fantasia di Mary, è l’altrettanto romantico scienziato Victor Frankenstein. Il personaggio più noto, creato dalla scrittrice inglese, quando aveva appena 19 anni, conosciuto da tutti soprattutto grazie alle infinite trasposizioni sullo schermo, tra le quali solo quella di Kenneth Branagh rende giustizia allo spessore del romanzo, ha finito, in tandem con l’altisonante matrimonio, per cancellare o quasi tutta la produzione successiva di una delle più moderne e complesse autrici inglesi del XIX secolo.
IL BICENTENARIO della nascita (30 agosto 1797) ha cambiato qualcosa anche da noi. Una nuova biografia della scrittrice, per opera della poetessa inglese e studiosa di Shelley Fiona Sampson, uscita nel 2017, è stata tradotta anche in italiano da Utet: La ragazza che scrisse Frankenstein. Vita di Mary Shelley (pp. 320, euro 22, traduzione di Eleonora Gallitelli). È stato finalmente pubblicato da Edizioni della Sera, per la prima volta in traduzione italiana, l’ultimo grande romanzo dell’autrice, Il segreto di Falkner (pp. 529, euro 19.50), tradotto, curato e introdotto dalla giovane e brillante Elena Tregnaghi, con una postfazione di Elisabetta Marino che non è un orpello ma si rivela invece utilissima per inquadrare il libro nell’opera complessiva e nella biografia della scrittrice. Peccato che per il bicentenario non sia tornata in libreria la biografia, a suo modo definitiva, di Mary Shelley firmata dalla scrittrice Muriel Spark, tradotta in italiano negli anni ’80 ma oggi introvabile.
La scrittrice considerava Falkner il suo libro migliore e conclusivo. Infatti lo pubblicò nel 1837 e nei 14 anni successivi, prima di morire a 54 anni nel 1851, non scrisse più narrativa. I fili che collegano quest’ultimo romanzo con quello famosissimo d’esordio, pur se non sempre espliciti, sono moltissimi, a partire dal nome della protagonista, Elizabeth.
Mary Shelley
IN FRANKENSTEIN Mary aveva nascosto dietro il velo gotico e «fantascientifico» temi più laceranti: la responsabilità nel dare e togliere la vita e quella del prendersene cura, la colpa, riflessi della situazione della stessa giovanissima autrice. Dopo vent’anni tumultosi e tragici, Mary torna sugli stessi temi. Falkner, personaggio al quale hanno prestato tratti sia il padre della scrittrice che l’amico Lord Byron, che con la sorellastra di Mary aveva avuto un figlio, ha adottato Elizabeth ed è a tutti gli effetti più di un padre. Il conflitto tra lui e il ragazzo di cui Elizabeth è innamorata, Gerard, rinvia a quello reale tra Godwin e Shelley, prima che la scrittrice, allora diciassettenne, fuggisse con lui e con la sorellastra Claire per girare l’Europa senza un soldo. Il senso di colpa di Falkner per aver provocato la morte della donna amata riecheggia a sua volta quelli della stessa Mary, non solo per la morte di parto della madre ma anche per il suicidio di Harriet Grove, la moglie che Shelley aveva lasciato per lei, e della sorellastra Fanny Inlay, che Mary Wollstonecraft aveva avuto da una relazione extramatrimonale.
Come Victor Frankenstein né Falkner né Gerard Neville sono capaci di riportare ordine e serenità nella tempesta emotiva che minaccia di distruggerli. Ma a differenza di Elizabeth Lavenza, fidanzata e poi moglie sfortunata di Frankenstein, che non era in grado di salvare lo scienziato, questa nuova Elizabeth lo è.
È LEI A RISOLVERE la situazione, potenzialmente non meno tragica di quella del romanzo più famoso, e a ricostituire intorno ai due maschi, ai due uomini della sua vita, il padre e il fidanzato, un’armonia certamente convenzionale ma reale. Lo fa mettendo in campo la dote che secondo la stessa autrice è la vera chiave del romanzo: la fedeltà, intesa come dote complessiva, fedeltà agli amati senza doverne scegliere uno, fedeltà a se stessa, fedeltà alla propria idea di felicità, tanto solida da aver ragione delle difficoltà e delle fragilità dei maschi.
MARY SHELLEY, come i suoi genitori, era stata una radicale, nelle idee e nei comportamenti, nelle scelte e nello stile di vita. I passi citati da Elisabetta Marino nella postfazione, pieni di disprezzo e delusione per gli attivisti politici del suo tempo, dimostrano che la Mary adulta era cambiata. Non era impermeabile ai valori della nascente età vittoriana e probabilmente, dopo un’esistenza tanto anticonvenzionale e travagliata, aveva bisogno di un maggior ordine. Ma senza abdicare a se stessa.
Come le vere eroine vittoriane, Elizabeth intervenire sul mondo che la circonda, guidando, indirizzando, ricomponendo. La sua radicalità non era affatto scomparsa. Si era solo affinata.

il manifesto 14.8.18
Tunisia, l’eredità delle donne e il Corano
Tunisia. Il presidente della Repubblica Béji Caid Essebsi accoglie sull'eredità delle donne le raccomandazioni della Commissione delle libertà individuali e dell’eguaglianza (Colibe) lasciando però libertà di scelta alle famiglie, la proposta spiazza gli islamisti di Ennadha, le femministe tunisine festeggiano ma sarà battaglia in Parlamento
di Giuliana Sgrena

La legge sulla parità nell’eredità sarà discussa dal parlamento tunisino. L’annuncio è stato dato ieri, 13 agosto, dal presidente della repubblica Béji Caid Essebsi in occasione del 62.mo anniversario della promulgazione del Codice dello statuto personale di Bourghiba.
«Annuncio la revisione del Codice di statuto personale poiché il nostro riferimento resta la Costituzione e non il testo coranico…. Questo nuovo progetto di legge lascia la libertà a coloro che vogliono applicare la parità nell’eredità ma anche a quelli che vi si oppongono e vogliono applicare il testo religioso», ha spiegato il presidente.
A un anno dalla nomina della Commissione delle libertà individuali e dell’eguaglianza (Colibe), il presidente accoglie, per ora, i suggerimenti in merito al tema dell’eredità, questione centrale, del rapporto della Colibe presentato il 12 giugno.
Il rapporto ha suscitato una reazione dura da parte dei religiosi e di tutti i conservatori che basano la loro ostilità sull’undicesimo versetto della Sura delle Donne del Corano che recita: «Ecco quello che Allah vi ingiunge a proposito dei vostri figli: al figlio una parte equivalente a quello di due figlie». Infatti in tutti i paesi musulmani le donne ereditano la metà del maschio perché nessuno osa toccare un precetto coranico. Lo stesso Bourghiba quando varò nel 1956 un codice della famiglia progressista (che aboliva la poligamia, garantiva il divorzio a maschi e femmine e ammetteva l’aborto), aveva rinunciato alla parità nell’eredità per il veto opposto dagli ulema.
Tuttavia, su un tema così controverso, il presidente ha accettato il compromesso suggerito dalla Colibe che prevede per chi lo stabilisce in anticipo di poter fare riferimento ai dettami della Sharia.
Il 13 agosto in Tunisia è anche la festa della donna. Le donne tunisine, che da anni si battono per la parità nell’eredità, ieri sono scese in piazza, anzi nella centrale Avenue Bourghiba per ribadire il loro sostegno e chiedere la realizzazione delle raccomandazioni contenute nel rapporto della Colibe, che oltre all’eredità riguardano l’abolizione della pena di morte, del crimine di blasfemia, la depenalizzazione dell’omosessualità, l’uguaglianza dei genitori nella tutela e custodia dei figli, la libertà di coscienza e di opinione. «Questo rapporto è un atto di civilizzazione, una rivoluzione», ha dichiarato a Jeune Afrique Monia Ben Jemia, già presidente dell’Associazione tunisina delle donne democratiche (Atfd).
Con le magliette rosse con la scritta «Donna tunisina = Donna di valore» le tunisine hanno sfidato gli oppositori della legge che nella stessa Avenue Bourghiba si sono dati appuntamento il 3 agosto per una preghiera. Il Coordinamento nazionale di difesa del Corano, della Costituzione e dello sviluppo equo aveva invece organizzato sabato scorso una marcia che si era conclusa in piazza del Bardo davanti al parlamento e che aveva avuto l’adesione anche di diversi esponenti del partito islamista di Ennahdha. Il presidente del Coordinamento nazionale di difesa del Corano, Noureddine Khadmi, ex ministro degli affari religiosi del governo islamista – che chiede anche una fatwa – ha lanciato gli slogan con l’hashtag #non à la fitna (no alla guerra civile, che lascia intendere la portata dello scontro): «No alla distruzione della famiglia, no all’attentato alla religione e no all’infrazione della Costituzione».
Ma il presidente Beji Caied Essebsi ieri, nel suo discorso, ha voluto ribadire che lo stato non è garante dei precetti dell’islam. «Il secondo capitolo della Costituzione è chiaro e stabilisce che la Tunisia è uno stato di diritto basato sulla cittadinanza, la volontà del popolo e la supremazia della legge», ha affermato Essebsi.
Lo scontro tra sostenitori e oppositori della legge sulla parità dell’eredità si farà più duro in vista del dibattito parlamentare, quando i partiti dovranno uscire allo scoperto. La portavoce del presidente Saida Garrach ha rivelato che Ennandha ha inviato una lettera a Beji Caied Essebsi in cui respinge la proposta di legge sulla parità nell’eredità. Posizione facilmente comprensibile ma non facilmente gestibile.
Ennahdha, primo partito in parlamento con 68 deputati contro i 56 dell’alleato Nidaa Tounes (il partito del Presidente, che ne ha persi diversi a causa di varie scissioni), l’unico a sostenere a spada tratta il premier Youssef Chahed, cerca di accreditarsi nel passaggio da movimento religioso a partito politico, percorso riconosciuto ieri anche dal presidente tunisino. Il modello di Rachid Ghannouchi, leader del partito islamista, è il presidente turco Erdogan che tuttavia in questi momenti si trova in ben note difficoltà.
La proposta fatta ieri da Beji Caid Essebsi, sebbene prevedibile, imbarazza Ennahdha che per poter vantare una sua evoluzione dovrebbe mostrarsi più disponibile rispetto alle raccomandazioni della Colibe, ma questo scontenterebbe la base del partito e, viste le perdite già subite nelle ultime elezioni, non è una soluzione praticabile. Dunque lo scontro appare inevitabile.

Il Fatto 15.8.18
l caso Brizzi e le montature: ora nessuna donna sarà più creduta
“Archiviate” - Il risultato della campagna lanciata “Le Iene” è che il regista passa per martire e sarà più difficile denunciare molestie
di Selvaggia Lucarelli

L’ultima immagine televisiva di Fausto Brizzi risale ad aprile: un’inviata de Le Iene che lo insegue per strada, nel centro di Roma, e gli chiede “Perché non denuncia le attrici per diffamazione se quello che dicono è falso? Eh, perché? Perché? Perché?”. Il pitbull non è più Dino Giarrusso, perché Dino Giarrusso, quello che “l’archiviazione del caso Brizzi è una sconfitta per tutte le donne”, era così legato a questa inchiesta che ha mollato Le Iene e l’inchiesta per candidarsi con i Cinque Stelle e riuscire a diventare uno dei pochi grillini trombati, per poi riciclarsi come responsabile della comunicazione della Lombardi, per poi tentare l’ingresso nel Cda della Rai, per poi entrare nello staff del ministero dello Sviluppo.
Il fatto che chi ha “creato” il caso, lo abbia anche mollato lì per cambiare addirittura mestiere, può sembrare un’inezia in questa intricata vicenda, ma non lo è. Perché racconta come questa vicenda sia stata un raffazzonato, caotico intruglio di scoop, accuse, titoloni, toto-nomi e mostro in prima pagina, in cui alla fine nessuno era quello che sembrava. Giarrusso non era un giornalista, Brizzi (fino prova contraria) non era uno stupratore, le tre denuncianti non erano state molestate, le poche attrici italiane note che si sono esposte non erano Rose McGowan: hanno difeso Brizzi. O, proprio per non fare la parte di quelle che “i reggiseni sporchi si lavano in famiglia”, hanno scritto una letterina dicendo che anche loro dicono basta alle molestie. Che, come intensità del messaggio, è un po come “basta al tartaro sui denti!”.
Fin qui il sunto del “prima”. Ma veniamo al dopo-archiviazione (anzi, richiesta di archiviazione ancora), perché si sono dette molte cose, quasi tutte inesatte. Intanto sarà anche vero che sei mesi per denunciare sono pochi, ma è vero che sono il doppio che per una buona parte dei reati. Non è vero invece che, come dichiarato dal curatore de Le Iene Davide Parenti e dallo stesso Giarrusso “delle tre denunce presentate da altrettante ragazze solo una è stata presa in considerazione perché la legge italiana prevede che la vittima di reati sessuali o presunta tale abbia sei mesi di tempo per sporgere denuncia”. O meglio, è vero, ma chi ha chiesto l’archiviazione si è espresso anche sulle due denunce presentate fuori tempo massimo. E ha escluso la sussistenza di molestia anche per quelle. Che è come dire: anche se presentate entro sei mesi, non sarebbero arrivate a un processo.
Parenti ha la stessa difficoltà ad ammettere un errore che Fonzie davanti al suo jukebox (“Su stamina noi abbiamo solo raccontato”, si giustificò), ma un po’ di onestà intellettuale non guasterebbe. Quelle tre denunce, con gli sms teneri di alcune ragazze dopo le presunte molestie, non reggevano. Questo non vuol dire che l’inchiesta fosse una farsa. Non credo ci sia stato un complotto ai danni di un unico regista. Non credo che Brizzi sia in coda per la beatificazione dopo Paolo VI. Credo però che l’affannata e mediatica ricerca del mostro abbia fatto commettere errori nella modalità con cui si è condotta l’inchiesta e nella verifica delle fonti.
Il risultato è disastroso: ora le donne sono inaffidabili e Fausto Brizzi è un martire. Le Iene volevano un altro Harvey Weinstein e hanno ottenuto un Gesù sulla croce. A inquinare ulteriormente le acque, è di pochi giorni fa un lungo messaggio della regista finlandese Anne Riitta Ciccone (ex assistente di Nanni Loy) apparso su Facebook in cui la donna si rivolge direttamente a Dino Giarrusso con parole piuttosto dure: “Noi ragazze dell’associazione 100autori eravamo spesso infastidite dai tuoi racconti di prodezze diciamo così sentimentali, a me ha irritato molto una sera in pizzeria dopo una riunione (lo ricorderai, forse, e se non lo ricorderai temo sia peggio), tu eri seduto accanto a me e alle due Claudie e mi hai detto di avermi sognata, facevamo sesso e io ce l’avevo tutta depilata, mi hai chiesto se fossi davvero così (…). La cosa mi ha messo a disagio, l’ho gestita con le due Claudie che possono testimoniare. Come sempre dobbiamo fare noi donne con gli uomini che si sentono liberi di fare queste battute abbiamo fatto muro, ma a me ha dato fastidio perché mi ha ricordato il disagio della prima molestia a 13 anni, un tizio che mi ha chiesto ‘se fossi bionda pure sotto’ e quella sera te l’ho anche detto. Tu però non mi sei parso sofferente e colpito. Mi accusi di essere bugiarda perché donna? O sono io e quelle due ragazze che magari ti abbiamo provocato? (…)”.
C’è poi un particolare inquietante, che non è stato ancora approfondito. Secondo fonti vicine a Fausto Brizzi, oltre ai fatti narrati, esiste un verbale di sommarie informazioni con la testimonianza di una ragazza spagnola che, tra un servizio e l’altro de Le Iene, ha riferito cose sconcertanti: una delle ragazze italiane andata a volto scoperto a Le Iene per denunciare di aver subito molestie da Brizzi, l’ aveva contattata al telefono per dirle che se avesse voluto un po’ di fama in Italia, sarebbe stato sufficiente andare in tv a dichiarare di aver subito molestie dal regista Fausto Brizzi nel corso di un provino (le due si erano conosciute a Ibiza l’estate precedente ed erano rimaste amiche). Ha aggiunto che questa proposta era stata fatta anche ad altre ragazze che avevano però accettato. La ragazza italiana fu molto insistente, quando si rese conto che la spagnola non avrebbe accettato le intimò di non rivelare a nessuno la proposta fattale.
Nei giorni successivi la spagnola ricevette telefonate anche da un interlocutore maschile che si raccomandò di non farne parola con nessuno. C’era uno scouting per trovare ragazze che supportassero la denuncia mediatica di poche coraggiose così da rendere più solida l’inchiesta? Questa ragazza spagnola è una mitomane? Non lo sappiamo, fatto sta che non è una ragazza incappucciata di spalle, ma una ragazza che in un verbale, con nome e cognome, ha raccontato una sua verità. C’è poi un’altra vicenda, ancora più strana: una delle tre ragazze che ha denunciato Brizzi, denunciò in passato un altro presunto tentativo di violenza sessuale che però non arrivò mai in tribunale. Arrivò invece in tv, perché la madre – indovinate un po’? – ne andò a parlare in alcuni noti programmi nazional popolari, a volto coperto e con la voce modificata.
Più si scava e più si trova un’unica verità: l’unica alternativa al tribunale, in questa vicenda così confusa, doveva essere il silenzio. E non per imbavagliare le donne, ma per consentire alla prossime che parleranno di essere credute, senza pessimi precedenti.

Il Fatto 15.8.18
Centri commerciali aperti a Ferragosto: si sciopera
I sindacati chiedono al ministro di mantenere la promessa e cancellare la liberalizzazione
Centri commerciali aperti a Ferragosto: si sciopera
di Roberto Rotunno

Lo sciopero di Ferragosto contro le aperture selvagge di outlet e centri commerciali è una costante da sei anni. Quello di oggi, però, è il primo da quando al governo c’è una forza politica che aveva promesso di regolamentare il lavoro festivo, liberalizzato nel 2012 da Mario Monti.
I sindacati speravano fosse arrivata la volta buona. Invece almeno in questi primi due mesi e mezzo il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio non ha considerato prioritario l’intervento sulle aperture. Da Nord a Sud, quindi, oggi sarà ancora un 15 agosto di lavoro nella grande distribuzione. Le catene con le serrande alzate da mattina a sera (anche se non in tutti i punti vendita) saranno quasi tutte: Esselunga, Carrefour, Auchan, Lidl, Ikea, Rinascente e diversi outlet. Una scelta che ormai è dettata più che altro da ragioni di concorrenza. Gli scioperi sono stati proclamati in tre Regioni: Lazio, Toscana e Puglia. In altre quattro – Veneto, Emilia Romagna, Abuzzo e Molise – le sigle del commercio hanno solo invitato i lavoratori ad astenersi dal servizio, invocando il diritto alla volontarietà del turno nel giorno festivo. C’è anche una sentenza del Tribunale di Milano che ha riconosciuto questo principio: tutti hanno diritto a onorare le festività, perciò nessuno può essere obbligato a lavorare nei giorni rossi del calendario. La pratica, però, come al solito è un po’ diversa. Innanzitutto, ci sono molte aziende che in questi ultimi anni – dopo le liberalizzazioni – hanno inserito nelle lettere di assunzione l’obbligo di prestare lavoro anche la domenica e nei giorni festivi. I lavoratori, in quanto contraenti deboli, hanno accettato la clausola e ora difficilmente possono far valere il diritto al riposo. Poi c’è la solita questione del boom di contratti precari o part time: “Chi ha un contratto da poche ore – sostiene il segretario Fisascat Cisl David Guarini – o che scade tra qualche mese preferisce eseguire l’ordine per sperare di ottenere il rinnovo e migliori condizioni”.
Secondo i sindacati, quindi, la questione deve essere risolta dalla politica. Fabrizio Russo della Filcams Cgil ricorda che Di Maio si è più volte espresso in favore delle chiusure nei festivi. “Quando il ministro ha fatto quelle dichiarazioni – osserva – è stato abbastanza temerario. Sulla base di quello che ha detto noi abbiamo inviato all’inizio del mese scorso una richiesta di incontro, ma ancora non ci ha risposto”. Comunque, tra i sindacati resta un certo ottimismo sulle intenzioni di questo governo. Ancora non è chiaro quando arriverà il provvedimento sulle aperture, ma sembrano già delineati i contorni.
La liberalizzazione resterà per le zone turistiche, mentre per le altre sarà prevista una turnazione. In pratica, in ogni giorno festivo potrà essere aperto il 25% dei negozi di ogni settore. Ogni anno ci sarà un massimo di 12 giorni festivi di apertura. Anche alcune associazioni di imprese, come la Confcommercio, sono d’accordo sul reintrodurre vincoli perché a quanto pare la deregolamentazione non ha dato i risultati sperati in termini di fatturato.

Il Fatto 15.8.18
La nuova versione di Vanni: “Ce l’ha ordinato il medico”
Anche Lotti, il terzo “compagno di merende”, rivela che un dottore pagava Pacciani per procurarsi i lembi di seno e di vagina delle vittime È Narducci, ripescato nel lago
di Davide Vecchi

“Io andavo a fa’ delle merende, si faceva delle merende”. Lotti, Pacciani e Vanni apparivano credibili come autori dei delitti del mostro? Gli identikit e i giornali raccontavano di un medico dotato di un’intelligenza non comune, capace di sfuggire agli inquirenti per oltre due decenni. Quei tre personaggi improbabili al massimo potevano essere semplici guardoni o la manovalanza guidata da altre menti. Seconde file. Comparse.
I panni perfetti da indossare anche per l’opinione pubblica li confeziona involontariamente Vanni. Durante il processo nei confronti di Pacciani come responsabile dei delitti, l’ex postino viene interrogato come suo amico. Quando il pubblico ministero gli chiede quale fosse la sua occupazione, Vanni risponde: “Io sono stato a fa’ delle merende co’ Pacciani, no?”. Da allora i tre diventano i compagni di merende. Durante i successivi numerosi interrogatori l’ex postino non dirà molto altro. E sarà condannato insieme a Lotti come complici di Pacciani nei delitti al mostro. I compagni di merende, appunto. Ma dov’è il chirurgo? E perché sui conti correnti postali del contadino di Mercatale erano stati compiuti versamenti consistenti sempre pochi giorni dopo i duplici delitti? Da chi arrivavano quei soldi?
Nonostante le condanne a carico dei tre, seppur poi Pacciani otterrà la revisione del processo e morirà prima che sia nuovamente celebrato, la loro responsabilità come unici autori ha sempre lasciato dubbi. In primis negli stessi inquirenti che non hanno mai interrotto le indagini ipotizzando un livello superiore. Nel 1997 è una testimonianza sempre di uno dei compagni di merende a fornire indicazioni. Giancarlo Lotti nel corso di un’udienza, dopo aver ammesso tra mille reticenze e contraddizioni di aver partecipato a 4 degli 8 duplici omicidi, scandisce: un dottore pagava Pacciani per procurarsi i lembi di seno e vagina strappati alle vittime. Non aggiunge molto. Dice di aver visto questo dottore soltanto una volta in piazza a San Casciano e da lontano mentre parlava con Vanni e che fu proprio Vanni a dirgli che quello era “il dottore che pagava Pacciani” quando decidevano di “fare un lavoretto”.
Il pm fiorentino Paolo Canessa e gli uomini della squadra mobile hanno ritenuto sin da subito fondata l’ipotesi, sulla base, dissero già allora, di numerosi riscontri. Ma sarà il pm di Perugia Giuliano Mignini a individuare il nome di un dottore e di altri suoi complici ritenendoli il “secondo livello”. Si chiama Francesco Narducci, è un medico annegato nel Lago Trasimeno l’8 ottobre 1985, un mese dopo il duplice omicidio degli Scopeti: l’ultimo del mostro.
Nel 2002, nel corso di un’indagine della squadra mobile di Perugia sul mondo dell’usura, gli inquirenti ascoltano una intercettazione strana. Gli strozzini cercano di convincere una donna a versare quanto deve. Se non paghi, le dicono, “ti facciamo fare la fine del dottore del lago”. Mignini svolge alcune indagini e ritiene fondato il collegamento con i delitti del mostro: Narducci viene riconosciuto da molti a San Casciano. Alcuni raccontano di una sua familiarità con il farmacista del paese, Francesco Calamandrei. Il pm di Perugia si confronta con il collega fiorentino da sempre impegnato sui delitti delle coppiette, Paolo Canessa. E a dare man forte alle nuove indagini c’è un nuovo superpoliziotto, Michele Giuttari, a capo di un’altra squadra speciale dedicata ai delitti: il Gides che si insedia all’hotel il Magnifico alle porte di Firenze, una mega opera iniziata per i mondiali di Italia 90 ma, come spesso accade, non terminata in tempo e lasciata inutilizzata. Diventa il quartier generale delle ennesime indagini sul mostro. Che hanno continui nuovi impulsi, soprattutto dal fronte perugino. Perché la vicenda di Narducci sembra un romanzo.
Il medico l’8 ottobre 1985 si allontana con la sua barca nel lago Trasimeno senza mai fare ritorno. Sarà ritrovato cadavere cinque giorni dopo. Ma dalle testimonianze rese all’epoca e da altre nuove si scopre che la ricostruzione in base alla quale la morte è stata liquidata come suicidio è decisamente lacunosa. Non è stata fatta alcuna autopsia, il cadavere non è stato portato in obitorio ma a casa, è stato immediatamente tumulato e dalle foto fatte il giorno del ritrovamento sul pontile di San Feliciano, dove viene riportato, c’è una ressa di autorità che neanche alla festa della Repubblica: questore e prefetto di Perugia, generali, comandanti. Il medico legale dice di aver subìto pressioni affinché non disponesse l’autopsia. Mignini decide di riesumare Narducci e ritiene che ci sia stato uno scambio di corpi: quello ripescato non è del medico. Così indaga per occultamento e sostituzione di cadavere tutti quelli che erano sul pontile e i familiari di Narducci. Nel frattempo la procura di Firenze, dopo accertamenti svolti da Giuttari, ricostruisce il presunto secondo livello e indaga Francesco Calamandrei, il farmacista di San Casciano, come mandante.
Pochi mesi dopo, nel giugno 2005, anche la procura di Perugia invia un avviso di garanzia a Calamandrei: è accusato di aver ordinato l’omicidio di Narducci. Il farmacista, secondo gli inquirenti, insieme al medico, “guidava” i compagni di merende, ma dopo l’ultimo duplice omicidio, Narducci non voleva fermarsi come le altre volte, stava diventando un pericolo. Per questo lo ha fatto eliminare fingendone l’annegamento nel Lago. Una ricostruzione suggestiva. Ma con pochi riscontri. Infatti finisce in nulla. A Perugia vengono tutti assolti. Anche a Firenze le accuse cadono. Calamandrei viene assolto nel maggio 2008 perché “il fatto non sussiste”.
(6. continua)

Corriere 15.8.18
Il mestiere di scrivereRileggendo le bozze dell’autobiografia, un pensiero: nulla pare corrispondere alla vita
L’invenzione più vera della verità che può mettere ordine nel Caos
di Raffaele La Capria

Correggendo le bozze di un mio libro autobiografico non avrei mai creduto di entrare in un giro di pensieri come questo che cercherò di descrivere. Mentre vedevo scorrere sulle pagine eventi e momenti della mia vita sentivo che nulla era veramente corrispondente a quel che la mia vita era stata.
Ciò che era accaduto era confuso e disordinato e, a ripensarlo, immerso in una specie di caos, forse perché mentre la si vive la vita corre, ti trascina e non ti dà il tempo di guardarla e nemmeno di giudicarla. Invece ciò che avevo scritto mi sembrava avere un senso e un significato, ed essere più vero del veramente accaduto.
Mi domandai come mai, e la ragione era che la mia narrazione io l’avevo inventata, ricostruendo tutto e dando a tutto un ordine, un senso che non aveva nella realtà, e così quell’invenzione era diventata più vera della verità, più vera degli sparsi elementi estratti dal caos da cui era nata. Insomma avevo scritto una favola cui ora credevo. Ma, azzardai, non era anche una favola l’inizio del Libro dei Libri?
«In principio Dio creò il cielo e la terra», così comincia il libro scritto dall’Ispirato. Prima, prima del principio, «la terra era una cosa deserta e vacua, e tenebre erano sopra la faccia dell’abisso». In principio c’era il Nulla, poi arriva Dio e dal Nulla crea il mondo. Il Nulla è qualcosa che nessuno riesce a concepire, così come Dio, così come il Principio. Ma con queste tre entità inconcepibili comincia la favola, la narrazione.
Questa favola, questa narrazione, è un’invenzione, perché cosa poteva sapere l’Ispirato che l’ha scritta, del Nulla del Principio e di Dio? Dunque è un’invenzione, un’ispirazione, che però mette ordine nel Caos originario.
«E Iddio separò la luce dalle tenebre... Così fu sera, poi fu mattina, che fu il primo giorno», come si legge nella Bibbia del Diodati, bellissima e poetica. Che prosegue con la separazione delle acque che son sopra e quelle che son sotto, e Iddio nominò quelle che son sopra cielo. Insomma Dio mette ordine, ed è quest’ordine che fa esistere il mondo che conosciamo, la natura e tutte le cose. A questo punto una voce entra in campo e mi dice: «Di che parli? Vuoi mettere in dubbio la parola del Signore, la Bibbia in cui crediamo, dicendo che chi l’ha scritta non poteva saper nulla di quello che scriveva?»
Ma no, non parlo della Bibbia, parlo della Narrazione, parlo della Favola, parlo di quella narrazione e di quella favola che ogni religione racconta, di quella invenzione che è il racconto, che rende vero quel che dice per il modo in cui lo dice. Parlo dei miti e delle saghe in cui i popoli si riconoscono e dove trovano la propria identità.
Cosa sarebbe un cristiano senza la narrazione del Vangelo, quale sarebbe il suo concetto del bene e del male se non fosse confortato dall’esempio di Gesù che la narrazione degli evangelisti ci ha lasciato?
Io rispetto i credenti di ogni religione e il racconto in cui si riconoscono, e penso che il racconto, se ben inventato e ben congegnato può fare a meno della ragione. Senza un racconto cui possiamo aggrapparci l’umanità sarebbe smarrita e forse in preda a sogni devastanti.
Non è il sonno della ragione che crea i mostri ma l’esercizio della ragione in una sfera che non le appartiene. Credo anche che la letteratura abbia questa funzione di creare invenzioni che rendono più vera la realtà, che a dir la verità è cosa inconoscibile anche quando sembra a noi vicina e a portata di mano.

Repubblica 15.8.18
Renzo Piano
“Genova è fragile ma nessuno la cura”
Intervista di Francesco Merlo

Renzo Piano era a Ginevra, a lavorare a un progetto per il Cern, quando hanno interrotto la riunione e gli hanno detto che a Genova era crollato il ponte Morandi: «Al di là del legame sentimentale con Genova ho provato una grande sofferenza, di quelle che arrivano all’improvviso e ti sconvolgono. A me prendono allo stomaco. Ho pensato subito alle vittime, e solo dopo alla mia città ferita, a Genova e alle sue catastrofi. Ho immaginato quella gente che passava di là a metà agosto, i camion e i furgoncini per lavoro, gli altri per vacanza, le famiglie allegre e innocenti, ho pensato agli occhi che, quando si passa su un ponte, sono ancora più aperti, perché c’è l’alto e c’è il basso, c’è la sospensione nel mezzo cielo».
E invece proprio il ponte, che accorcia le distanze, dà ordine e bellezza al paesaggio e mette allegria, è crollato di botto.
Pioveva quando la linea retta si è spezzata e dunque niente polvere: macerie senza sassi e mattoni perché il cemento non rovina a terra come in una frana, ma collassa. Sembra una catastrofe chirurgica.
«Non esagero, ma è una morte ingiusta e orribile. E di che cosa sono vittime? Non è certo colpa della casualità né della topografia della fragile Genova. Io non so cos’è accaduto, non voglio sembrare arrogante, non ho elementi e non faccio certo polemiche. Posso dire però che non credo al fatalismo che considera incontrollabile l’anarchia della natura, dei fulmini e della pioggia. I ponti non crollano per fatalità. Nessuno dunque venga a dirci che è stata la fatalità».
Cattiva manutenzione?
«L’ho sempre visto sotto controllo, quel ponte, che ha una lunga storia di manutenzione e di stretta sorveglianza».
Però ha ceduto. E non è il primo in Italia.
«I ponti sono anche simboli. È orribile che crollino e che il crollo uccida. Ma un ponte che crolla, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, è come se crollasse due volte».
Già, si alzano i muri e crollano i ponti. Una volta stabilito che non è fatalità, perché è crollato?
«All’opposto della fatalità c’è la scienza. L’Italia è un paese di grandi costruttori, progettisti geniali, scienziati umanisti. E però non applicano quella scienza che viene prima della manutenzione e si chiama diagnostica. In medicina nessuno fa niente senza una diagnosi. Che manutenzione puoi fare del tuo corpo se non sai di che cosa soffri? Come si stabilisce se hai bisogno di una cura di farmaci oppure di un’operazione chirurgica o magari di un po’ di riposo? Solo la precisione della diagnosi garantisce l’efficacia dell’intervento. E i ponti, le case e tutte le costruzioni vanno trattati come corpi viventi. In Italia produciamo apparecchiature diagnostiche sofisticatissime e strumentazioni d’avanguardia che esportiamo in tutto il mondo. Ma non li usiamo sulle nostre costruzioni. Perché? E non è un discorso di tecnica e basta. Solo con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche».
La scienza non se la passa tanto bene, e forse vale per i ponti quel che vale per i vaccini.
La catastrofe può insegnarci qualcosa?
«Io spero che il maledetto crollo di questo ponte ci faccia riflettere e ci faccia uscire dall’oscurantismo culturale del “secondo me si fa così”. Per esempio con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come avviene con il corpo umano: si comincia col misurare le temperature delle sue varie parti».
Quel ponte vivente era un corpo affaticato.
«Io credo che la manutenzione non sia mai mancata. Ma Genova è una città fragile, divisa in due, ed è lunga 20 chilometri. Quel ponte è stato sollecitato all’inverosimile».
Adesso che è crollato forse la città di Genova ha bisogno di una diagnosi. Che succederà?
«Genova è una città portuale che deve trasferire il suo traffico pesante in tutte le direzioni. Non si può caricare la viabilità a dismisura sulla gomma. Non so cosa succederà. Per tenere assieme Levante e Ponente forse dovrebbero pensare a un incremento del trasporto sul ferro e sull’acqua. Ma questo è il momento del cordoglio e del lutto».
Ancora una volta per ragionare Genova ha bisogno del lutto?
«Difficile e straordinariamente bella, è una città molto fragile, stretta com’è tra il mare e le montagne subito alte. Ho già raccontato che i rivali veneziani nel Medioevo dicevano che Genova era una città sfortunata: montagna senza alberi e mare senza pesci. È verticale, ripida, rocciosa, con il fondale profondo e il mare agitato. Ma la topografia, come il cattivo tempo, non può diventare il capro espiatorio di ogni cosa».
Genova sa reagire?
«Ha già dimostrato di saper tenere la testa alta. Una città che passa attraverso le catastrofi ha bisogno di ritrovare subito competenze e amore. Altrimenti, come sta avvenendo in qualche parte d’Italia, si degrada e va in malora lo stare insieme: diventano peggiori gli uomini e anche gli animali. Le alluvioni, per esempio, hanno avviato un lungo lavoro di rinascita idrogeologica. Anche ieri, quando è crollato il ponte, pioveva, ed è normale che piova. Genova è una città dove l’acqua, dolce e salata, arriva da tutte le parti. Come sai, da bambino con la sabbia di Pegli costruivo castelli. Non è facile: bisogna scavare una buca, portarci l’acqua per impastare e rendere malleabile la sabbia e poi fare il castello in modo che l’onda, quando arriva, lo circondi ma non lo invada, lo bagni ma non lo inzuppi. Ci vuole molta intelligenza per governare l’acqua.
Genova ha l’intelligenza per governare tutta se stessa e anche il proprio dolore. Sa usare le catastrofi per cambiare. Ha l’orgoglio di essere superba».
La superbia non era un peccato?
«Genova è superba non nel senso del gran peccato cattolico.
Addossata sulla collina alpestre, Petrarca la battezzò Superba dal latino “super”: stare sopra. Dunque è fisicamente, prima che in metafora, che Genova ha l’orgoglio di essere superba».
Anche dopo il crollo del ponte?
«Purtroppo Genova, che sa reagire, non sa ancora prevenire. Ma spero che ora cominci la revisione del suo sistema dei trasporti. E mi auguro che parta dal crollo di questo ponte una seria riflessione sulla cultura diagnostica del patrimonio italiano. Solo conoscendo con esattezza lo stato di salute di tutte le nostre costruzioni possiamo proteggere e salvare, con i ponti, la nostra stessa civiltà».