lunedì 20 agosto 2018

Il Fatto 20.8.18
Riace ricorda Franco Nisticò, Spartaco del Sud che non s’arrende
di Enrico Fierro


Caro Coen, ferragosto di rabbia e di lotta giù in Calabria. Almeno per me. Un giro a Riace, da Mimmo Lucano. I lettori sanno chi è. È il sindaco dell’accoglienza. Il governo, quello di oggi, sulla scia di quello che c’era prima, vuole strozzare lui e la sua esperienza. Niente fondi né quelli che gli toccano per i programmi degli anni passati né quelli che gli spetterebbero per il futuro. “Riace può vivere anche senza migranti”, ha sentenziato il ministro dell’odio Matteo Salvini. Come al solito lo ha fatto senza conoscere la realtà, si è solo appellato a una inchiesta della magistratura e alle relazioni della Prefettura di Reggio (molte e tutte in contraddizione l’una con l’altra) per dire che “i rendiconti delle spese devono essere fatti bene”.
La burocrazia, la forma, il timbro contro l’umanità. Riace senza soldi muore, ma con la solidarietà può vivere. Lo dimostra la raccolta di fondi promossa dalla rete dei comuni solidali: 34mila euro in pochi giorni. Un salto a Badolato, teatro comunale, a vedere Spartacu strit viù, lo spettacolo messo in scena da Luca Maria Michienzi e Francesco Gallelli. Un mucchio di copertoni rossi di sangue sul palcoscenico, Francesco che recita con un casco in testa (quello di Spartaco), per raccontare la storia della statale 106, 501 km di morte (283 vittime negli ultimi dieci anni) che partono da Taranto e arrivano a Villa San Giovanni. Lo spettacolo è ispirato alla vita di Franco Nisticò, una figura mitologica della sinistra calabrese, che per anni si è battuto per migliorare quella strada emblema di un Sud abbandonato. Franco morì come muoiono i veri eroi civili. Era il 2009 ed era a Cannitello, sul palco del comizio finale di una manifestazione contro il Ponte sullo Stretto. Con la sua voce dalla forza del tuono, parlò di Sud, strade e paesi abbandonati e chiamò i giovani a unirsi ai vecchi per cambiare l’Italia. Con le lacrime agli occhi salutò tutti e si accasciò al suolo. Ultimo Spartaco di un Sud che non vuole morire.

Corriere 19.8.18
Religione
Paradossi del monoteismo, gli idolatri sono sempre gli altri
Nel corso della storia ebrei, cristiani e musulmani si sono rivolti reciprocamente la stessa accusa. Una ricostruzione di Alessandro Vanoli (Salerno)
Demistificazione. Gli illuministi spezzarono l’assurdo gioco di specchi delle invettive che si annullavano a vicenda
di Andrea Nicolotti


I grandi monoteismi (ebraismo, cristianesimo e islam) sono accomunati dalla fede in un unico Dio. Ricorda Alessandro Vanoli nel libro Idolatria (Salerno) che — diversamente dai «pagani», che veneravano molti esseri afferenti alla sfera del divino — il Dio di Israele si era progressivamente imposto come unico e geloso, insofferente verso il culto di altre divinità e intollerante verso qualsiasi forma di rappresentazione figurativa della trascendenza. Anche i cristiani da subito si opposero alla fabbricazione e venerazione degli «idoli», sia perché lo consideravano, in ultima istanza, un atto di adorazione dei demòni, sia perché credevano che tali idoli potessero divenirne i ricettacoli; e per estirpare l’idolatria ricorsero alla distruzione delle statue e dei templi che le ospitavano. Maometto, da parte sua, si scagliò contro il politeismo e l’idolatria dei suoi conterranei, colpevoli di associare falsi dèi all’unico Allah.
Può dunque sembrare strano che tutte e tre queste religioni anti-idolatriche siano state vittime dell’accusa di praticare l’idolatria. Gli ebrei e gli islamici accusarono i cristiani di aver attentato, con la loro Trinità, al monoteismo; i cristiani fantasticarono che gli islamici venerassero idoli d’oro o simulacri di Maometto; per non parlare dei riti giudaici, che Tommaso d’Aquino associò all’idolatria dei pagani.
Ben presto «idolatra» divenne colui che professava una dottrina differente. La crisi iconoclasta, che nell’VIII secolo costò la distruzione di innumerevoli immagini sacre, altro non fu che una lotta intestina fra cristiani che dell’idolatria ebbero opinioni differenti. Non fu lo stesso papa Bonifacio VIII colpito dall’accusa di idolatria? Sarà stato un caso se, quando si volle screditare l’Ordine dei Templari, si cercò di far credere che essi adorassero idoli islamici (il famoso Bafometto)? Certe devozioni popolari cattoliche non sono forse simili, diceva Erasmo da Rotterdam, alle idolatrie dei pagani? I riformati non persero tempo, e le abolirono.
Risulta chiaro che ogni confessione monoteista era coinvolta in questo gioco di specchi. E con l’apertura delle vie verso l’estremo Oriente e la scoperta del Nuovo mondo si aprì un panorama di sconosciute credenze idolatriche che fu facile usare come pretesto per giustificare il soggiogamento dei popoli che le praticavano.
Gli illuministi spezzarono l’incanto. Rivelarono che il politeismo non è, come si credeva, la degenerazione di un presunto monoteismo originario; che le accuse reciproche di idolatria, viste con occhio imparziale, finiscono per annullarsi a vicenda. Oggi, nella società moderna, lo scenario è molto cambiato: lo spauracchio dei vecchi idoli sopravvive in forma simbolica, talora rievocato metaforicamente per condannare le idolatrie del denaro, della droga e del potere. Ma ancora si annidano, fra le pieghe dei radicalismi, i distruttori di idoli: chi non ricorda l’abbattimento delle millenarie statue di Budda da parte dei Talebani?

Repubblica 20.8.18
Il cardinale Tagle
"Chi resiste alla sfida del Papa teme il suo stile non il suo insegnamento"
di Paolo Rodari


Il protagonista
Il cardinale Luis Antonio Tagle, filippino, 61 anni, arcivescovo di Manila e presidente di Caritas Internazionale, interviene oggi al Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini in un incontro dal titolo "La Chiesa in un cambiamento d’epoca" Il libro

RIMINI «L’invito di Francesco alla Chiesa ad incontrare gli esseri umani nei loro contesti non è una "novità". La chiamata del Vaticano II per il rinnovamento includeva una presenza missionaria nel mondo moderno. Non vedo una "invenzione" nell’invito di Francesco contro l’auto-referenzialità. Non possiamo negare che egli porti un proprio stile e linguaggio nell’esercizio del ministero petrino. Ma ogni Papa prima di lui l’ha fatto. Voglio credere che coloro che "resistono" alla sua sfida siano a disagio con il suo stile e linguaggio piuttosto che con il nucleo del messaggio che è focalizzato sull’evangelizzazione, non sull’autoconservazione. Un calmo ascolto e una lettura del corpo dell’insegnamento e dei gesti di Francesco placherà la loro paura».
Il cardinale Luis Antonio Tagle, filippino, 61 anni, arcivescovo di Manila (una delle più grandi diocesi del pianeta) e presidente della Caritas Internationalis, parla con Repubblica, nelle ore che precedono il suo arrivo al Meeting di Rimini, delle sfide della Chiesa al tempo di Francesco.
Eminenza, un passaggio del suo ultimo libro - "Dio crede in noi" (Emi) - riguarda la presenza delle donne nella Chiesa. Come superare una certa mentalità patriarcale?
«È vero che le mentalità patriarcali hanno penetrato le culture e le hanno modellate.
Queste culture hanno influenzato le religioni e le tradizioni, incluso il cristianesimo. Siamo felici che l’umanità delle donne, le loro prospettive e saggezze uniche abbiano ricevuto il dovuto riconoscimento e importanza negli ultimi decenni. Noto con gioia i progressi del ruolo delle donne nella cultura e nella leadership, sebbene ci sia ancora molto da fare per trasformare mentalità, comportamenti, atteggiamenti e relazioni con le donne, anche all’interno della Chiesa. Nella Chiesa promuovere la crescita delle donne non significa creare un’atmosfera di "lotta per il potere". Credo che difendere la dignità delle donne significhi difendere l’umanità di tutte le persone: donne, uomini, bambini e soprattutto le persone vulnerabili. Abbiamo bisogno di elevare la discussione dal "potere" a quella della comunione e delle relazioni umane autentiche».
Nella Chiesa si parla dell’ordinazione dei "viri probati", uomini sposati di una certa età e di provata fede.
Ritiene sia una soluzione per il futuro?
«L’idea di ordinare viri probati sposati non solo per il diaconato permanente, ma per il presbiterio emerse in America Latina pochi anni dopo il Vaticano II, con la diminuzione del numero di vocazioni al celibato sacerdotale in tutto il mondo. La stessa proposta è emersa in alcune parti dell’Africa. Ammetto di non aver dato a questo problema l’ampio studio e la riflessione che merita.
Ma voglio condividere alcune domande: è vero che il celibato è la causa principale del declino delle vocazioni sacerdotali nella Chiesa dove la disciplina del sacerdozio celibe è la norma?
Sollevare la prescrizione del celibato garantirà un aumento del numero di candidati? Qual è l’esperienza delle Chiese di rito orientale con il clero sposato?
Quali sono i punti di forza e di debolezza? Se i presbiteri sposati si limitano a celebrare l’eucaristia e altri sacramenti, ma non gli si permette di assumere altri compiti pastorali o ruoli di leadership, non creiamo due "classi" di presbiteri che potrebbero causare conflitti di " classe o potere" tra loro e le comunità che servono?».
Una corrente di pensiero ritiene che, anche per i casi di abusi sessuali, occorra abolire la legge sul celibato. Cosa pensa?
«Alcune persone attribuiscono l’abuso sessuale al celibato. Penso che questa sia una posizione ingenua e persino sbagliata.
Recenti studi di esperti in scienze umane e sociali rivelano che gli abusatori sessuali patologici soffrono di disturbi mentali e psicologici. Il celibato di per sé non causa un comportamento così orribile. Abbiamo casi di persone sposate che praticano l’abuso su minori attraverso l’incesto, la pornografia e lo sfruttamento sessuale on-line.
Dovremmo stare attenti, tuttavia, con le persone che potrebbero usare lo stato di celibe come scudo per nascondere tendenze patologiche nei confronti dell’abuso sessuale».
In Europa la Chiesa fatica in un contesto di secolarizzazione. Cosa dice da pastore di una Chiesa locale che ancora mantiene una forte matrice cattolica?
«Esiste una sana "secolarità". Il Vaticano II ha riconosciuto il valore del "saeculum". Il Concilio ha affermato la relativa autonomia dell’ordine secolare di operare secondo le sue norme interne, purché rispetti moralità e valori. La laicità sana è diversa dal "secolarismo" che nega l’esistenza e il ruolo del Trascendente, della fede, delle religioni e della morale ispirata religiosamente. Credo sia necessario studiare bene se ciò che vediamo in Europa e in altre parti del mondo sia laicità o secolarismo».

Corriere 20.8.18
1968-2018 Cecoslovacchia cinquant’anni dopo
La Primavera soffocata dai cingoli Ma a Praga l’Urss perse la faccia
di Antonio Carioti


Il «socialismo dal volto umano» minacciava di contagiare i Paesi satelliti
L’intervento militare dimostrò che il modello sovietico era irriformabile
Per il fallimento del comunismo in Cecoslovacchia non ci sono alibi. Perché si tratta di uno scacco del marxismo rivoluzionario in quanto tale, prima ancora che del modello sovietico. In teoria, sotto ogni profilo, nell’immediato dopoguerra le condizioni di partenza erano straordinariamente favorevoli.
Non si trattava di un Paese arretrato e povero come la Russia del 1917, ma di ex province tra le più ricche e progredite dell’Impero asburgico, per efficienza dell’apparato industriale e per livello d’istruzione. Esisteva una tradizione democratica piuttosto solida. E il popolo non aveva motivi di risentimento nazionale verso l’Urss: semmai provava un giustificato rancore verso le potenze occidentali, che nel 1938 avevano consentito ai nazisti di smembrare la Cecoslovacchia. La Chiesa cattolica non era influente come in Polonia. Il Partito comunista non era una ridotta minoranza, come in altri Paesi dell’Est, ma una forza di massa che alle elezioni del 1946, svolte senza brogli, aveva ottenuto un’ampia maggioranza relativa del 38 per cento e poi nel febbraio 1948 aveva preso il potere da solo, con il «colpo di Praga», senza che i sovietici intervenissero in modo significativo.
C’erano tutte le premesse per una «via nazionale al socialismo» diversa da quella seguita dai bolscevichi. E se davvero l’abolizione della proprietà privata fosse stata la ricetta per un sano ed equilibrato sviluppo produttivo, con tanto di giustizia sociale, in Cecoslovacchia si sarebbe visto. Invece no: l’economia collettivizzata manifestò presto i suoi guasti e la repressione contro ogni dissenso divenne sempre più brutale, fino alla purga nello stesso apparato di potere, con evidenti risvolti antisemiti, che sfociò nel processo a Rudolf Slansky, ex segretario del partito, e ad altri imputati, in gran parte condannati a morte, nel 1952. Un vero obbrobrio che François Fejtö, lo storico più autorevole dei Paesi satelliti dell’Urss, definì «esempio di totale stalinizzazione».
Il trauma fu così violento che anche dopo la morte di Stalin nel 1953 e la denuncia dei suoi crimini nel 1956, Praga restò immobile sotto la guida del grigio e ottuso Antonin Novotny. La brace però covava sotto la cenere, non solo nella società, ma anche nel partito. Quando nel gennaio 1968 giunse al potere Alexander Dubcek, riformatore cauto ma persuaso della necessità di voltare pagina, le energie tanto a lungo compresse trovarono spazio per esprimersi. E si capì che il modello sovietico alla Cecoslovacchia stava tremendamente stretto.
Si giocò allora una partita decisiva per le sorti del socialismo in Europa, che le più qualificate firme del «Corriere» (Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Piero Ottone) seguirono in presa diretta con gli articoli raccolti nel libro Praga 1968, in edicola da domani per un mese con il quotidiano.
Dubcek non metteva in discussione il potere del partito, di cui peraltro era il leader, né l’appartenenza del suo Paese al blocco sovietico e non intendeva affatto restaurare il capitalismo: pensava a un sistema in cui il controllo pubblico dei mezzi di produzione si accompagnasse alle libertà individuali e collettive. Ma il suo esperimento poteva anche essere letto come un’inaspettata rivincita dei riformisti spazzati via vent’anni prima, come la dimostrazione che, in un Paese moderno e dal retroterra storico meno autoritario di quello russo o cinese, la socialdemocrazia risultava l’unica via praticabile per attuare gli ideali marxisti. Tanto che anche gli stalinisti, quali Dubcek e i suoi sostenitori erano stati, finivano per ravvedersi e percorrerla.
Comunque fosse, per il Cremlino si trattava di una minaccia tanto più insidiosa perché si presentava con un aspetto amichevole e mite. A Praga non era in corso una rivolta armata dalla forte connotazione nazionalista, come a Budapest nel 1956, né Dubcek mostrava le ambizioni d’indipendenza dal Cremlino che avevano portato alla rottura tra Mosca e la Jugoslavia di Tito nel 1948. Eppure in Cecoslovacchia si sperimentava un modello di socialismo alternativo che delegittimava alla radice il sistema totalitario imposto dall’Urss in Europa orientale. Il rischio del contagio era reale. Non a caso, come sottolinea Marcello Flores nella prefazione al volume del «Corriere», proprio i dirigenti comunisti dei Paesi satelliti (eccezion fatta per la Romania) insistettero molto perché il Cremlino non rimanesse inerte.
L’esperienza storica successiva ci dice che i veterocomunisti, dal loro punto di vista, non avevano torto. Quando una politica simile a quella di Dubcek venne perseguita a Mosca da Mikhail Gorbaciov, il risultato fu non soltanto il crollo del blocco sovietico, ma il collasso della stessa Urss. Intervenire con i carri armati per soffocare la Primavera di Praga era dunque per gli oligarchi del Cremlino, in prospettiva, questione di vita o di morte. Difficile pensare che l’aggressione dell’agosto 1968 potesse essere evitata, a meno che Dubcek non si fosse prestato lui stesso a stroncare il cambiamento che aveva promosso. Ma la normalizzazione venne pagata dal gruppo dirigente sovietico, capeggiato allora da Leonid Brežnev, a un prezzo politico altissimo.
La resistenza passiva della popolazione, il congresso tenuto alla macchia dal Partito comunista cecoslovacco, la difficoltà a trovare collaborazionisti credibili, il rogo suicida di Jan Palach e altri giovani, su cui si sofferma Flores, inflissero al prestigio dell’Urss un colpo micidiale. Basti pensare che i partiti comunisti europei dell’Ovest si dissociarono in massa dall’invasione, anche se poi quasi solo quello italiano, grazie soprattutto al coraggio di Enrico Berlinguer, mantenne ben fermo il dissenso negli anni successivi.
Oggi la Cecoslovacchia non esiste più, Praga e Bratislava hanno divorziato di comune accordo il 1° gennaio 1993. Siamo in una fase storica del tutto diversa e il «socialismo del volto umano» di Dubcek appare distante anni luce dai pensieri attuali dei cechi, come testimonia nella postfazione del libro lo scrittore francese Olivier Guez. Del 1968 non si ricorda tanto la fase delle speranze quanto l’evento traumatico che le stroncò. In fondo è logico, perché ne seguirono anni di repressione, conformismo e menzogna, a cui solo pochi audaci seppero opporsi.
Jiri Pelikan, esponente della Primavera di Praga esule a Roma, dove incontrò l’imbarazzo del Pci e la forte solidarietà del Psi di Bettino Craxi, a volte manifestava il dubbio che sarebbe stato meglio bloccare il processo riformatore pur di evitare i danni enormi prodotti dalla successiva normalizzazione. Lui — precisava — nel 1968 si sarebbe opposto a una scelta del genere, ma molti anni dopo non era più tanto sicuro che la sua posizione di allora fosse saggia. D’altronde la storia non si può cambiare. Bisogna però fare tutto il possibile per ricordarla e comprenderla.

Repubblica 20.8.18
Anniversari
Praga, 1968
Fu la nostra Primavera fragile
di Guido Crainz


Forse morì allora, il 21 agosto di cinquant’anni fa, la speranza di una sinistra europea. Morì con i carri armati di cinque Paesi del Patto di Varsavia che invasero la Cecoslovacchia stroncando la "Primavera di Praga". Che confermarono in via definitiva che il comunismo non era riformabile e che nessun "socialismo dal volto umano" era possibile (l’avallo all’invasione venne anche da Fidel Castro e dal Vietnam del nord, incrinandone il mito). Morì con la cecità dei grandi partiti comunisti dell’Occidente, pronti ad attenuare il "grave dissenso" delle prime ore per una fedeltà all’Urss che subito ribadivano: e che li portò poi ad avallare la cupa "normalizzazione" sovietica. Morì, anche, nella sostanziale insensibilità dei movimenti che in quell’anno avevano scosso le Università dell’Occidente alimentando l’illusione di una "nuova sinistra".
Era iniziato a gennaio, il "Nuovo corso" cecoslovacco, con l’elezione a segretario del partito di Alexander Dub?ek e la destituzione di Antonín Novotný, al potere sin dalla stagione staliniana. Aveva avuto il suo manifesto nel Programma di azione approvato ad aprile: con misure di liberalizzazione economica in parte già avviate, rese necessarie dal fallimento del modello sovietico; e con una liberalizzazione politica che non poneva fine al "ruolo guida" del partito ma ne avviava la democratizzazione, dava spazio ad altre realtà e si impegnava a garantire le libertà costituzionali.
Contemporaneamente veniva alzato realmente il velo sui crimini dell’età staliniana, sulla perdurante impunità dei responsabili e sul proseguire degli abusi, innescando dimissioni e fughe all’estero di alti esponenti compromessi. E l’abolizione della censura stimolava una straordinaria effervescenza, alimentata dai giornali e dalla televisione diretta da Ji?í Peljkán (si videro anche a confronto prigionieri politici e carcerieri dell’era staliniana). «Chiunque giunga a Praga», annotava Giuseppe Boffa sull’Unità, «è colpito da un radicale cambiamento di atmosfera. Alle dieci del mattino nelle edicole non c’è più nessun quotidiano (…) quasi improvvisamente l’intera Cecoslovacchia è stata presa da un’autentica febbre politica». E Heda Margolius Kovály, un’ebrea scampata allo sterminio nazista e perseguitata poi dal comunismo, con il marito mandato a morte nei processi staliniani: «La primavera del 1968 ebbe l’intensità, l’ansia e l’irrealtà di un sogno avverato».
Nell’incubazione della Primavera i fermenti culturali erano stati centrali: vi avevano contribuito scrittori e drammaturghi (da Milan Kundera a Václav Havel o a Bohumil Hrabal), registi (da Milos Forman a Ji?í Menzel, che quell’anno vinse l’Oscar), storici e filosofi (da Karel Kosíc a Karel Bartošek) o letterati come Edward Goldstücker, che aveva infranto il silenzio di regime sull’opera di Kafka. Inoltre molti promotori del rinnovamento avevano partecipato vent’anni prima all’instaurazione del comunismo e avevano visto poi il sogno trasformarsi in incubo: nella Primavera, ha scritto Kundera, «una generazione si è rivoltata contro la propria giovinezza». Assieme alle generazioni successive: gli studenti hanno svolto un ruolo decisivo, annotava Angelo Maria Ripellino sull’Espresso, e il 21 agosto i giovani sono in prima fila nella straordinaria opposizione di popolo all’invasione. Ce la riconsegnano le emozionanti foto di Josef Koudelka e di altri, o descrizioni in presa diretta: con l’"indomita folla di Praga" nelle strade e nelle piazze (Igor Man su La Stampa); con quei giovani che portano una bandiera cecoslovacca insanguinata o salgono a sventolarla sin su un carro armato; con la "straordinaria resistenza politica della nazione" sostenuta da una rete radiofonica che sfugge agli occupanti (Enzo Bettiza sul Corriere della Sera). Con il congresso del Partito comunista che si riunisce in una fabbrica di Praga e ribadisce fedeltà alla Primavera mentre Dub?ek e altri dirigenti sono arrestati e portati a Mosca. Con i nomi delle vie cancellati per disorientare l’invasore e con le scritte che riempiono muri e strade (capaci sin d’ironia: "Lenin, svegliati! Breznev è impazzito"): una «rara sintesi di intelligenza e di coraggio», ha scritto Bernardo Valli. Sull’Espresso Umberto Eco raccontava «gli autocarri carichi di capelloni, brulicanti di bandiere cecoslovacche, che inneggiano a Dub?ek». O i giovani che discutono con i soldati smentendo le menzogne sovietiche e invitandoli con forza a tornare a casa: «Li ho visti danzare attorno ai carri armati».
Nei mesi successivi si prolungherà un’opposizione sempre più difficile, anche con scioperi studenteschi che evocano sin dalla data la Resistenza all’occupazione nazista. E fino al tragico gesto di Jan Palach, che nel gennaio del 1969 si dà fuoco in piazza San Venceslao per chiamare il suo popolo alla lotta. La repressione sarà durissima: 150-200 mila esuli e 500mila comunisti espulsi dal partito, con lo stesso Dub?ek estromesso, umiliato e ridotto a lavorare in una azienda forestale.
Eppure un esile e straordinario filo di continuità sopravviverà, più forte delle persecuzioni e del carcere, ed avrà una prima espressione in "Charta 77", fondata da Vaclav Hável e altri. Hável sarà arrestato per l’ultima volta nel gennaio del 1989: aveva deposto fiori in piazza San Venceslao a vent’anni dal gesto di Palach. A dicembre sarà Presidente della Repubblica, e Dub?ek Presidente del Parlamento: la Primavera era stata più forte di un lungo e inclemente inverno.

Il Fatto 20.8.18
Esserci e scomparire con la Milena di Kafka
di Furio Colombo


Qui non può trovarmi nessuno (editore Giometti&Antonello) è la trovata geniale nel contenuto e molto bella nel disegno della forma libro con cui un giovane editore marchigiano esordisce e si fa conoscere. Se fosse una occasione mondana si potrebbe dire: “Molto lieto”. Poiché è una inaugurazione, bisogna osservare subito che si tratta di una buona idea.
La voce è quella di Milena Jesenská, la Milena di Frank Kafka. Chi ha curato con estrema attenzione i dettagli grafici e quelli di sequenza del materiale del volume ha voluto contrapporre alla voce di Kafka che scrive a Milena, la voce di una Milena giovane e colta, che scrive con un timbro preciso a un suo pubblico per parlare di eventi, di personaggi, di cultura, di idee in discussione, efficace cronista di un mondo borghese che sa molte cose e vuole discuterle in pubblico e confrontarle con altre voci.
A volte c’è in questi testi la sfida deliberata del corsivista che vuole provocare opinioni e confrontarsi con visioni diverse. Oppure l’impegno a passare in rassegna cose appena accadute per collocarle in un suo posto giusto con una sicurezza simpatica, perché sempre ricca di citazioni e argomenti. Belle le pagine in cui affronta il tema del kitsch in tempo reale (quando l’identificazione del kitsch diventava argomento di discussione colta) e offre in anteprima tutte le motivazioni e le prove che diventeranno subito materiale d’obbligo della conversazione letteraria e di costume.
Le pagine formano un quadro che a momenti è salotto, in un tempo in cui i salotti erano luoghi veri e non argomento di diffamazione, e in momenti diversi è strada, conversazione in pubblico con toni di arringa o, nel modo cordiale e un disinvolto di questa Milena, la cadenza di una lezione.
Il risultato è un breve romanzo o diario che svela molto del tempo ma anche della vita di Kafka e intorno a Kafka (una cultura moderna e d’avanguardia ben conscia del passato e della storia) e ricorda certi quadri di interni borghesi di Gustav Klimt e di Egon Schiele. Insomma cose belle e di valore, non ancora riconosciute (non tutte) e per cui una nuova redattrice di cultura come Milena Jesenská, sentiva che valeva la pena battersi.

Corriere 19.8.18
La crisi di rigetto per la vecchia politica
I fischi ai funerali per gli esponenti dem e gli applausi per i rappresentanti del governo
di Antonio Polito


Gli applausi di Genova a Di Maio e Salvini ci dicono che la tragedia ha unito il Paese intorno al governo. È una reazione comprensibile: nelle emergenze si sente di più il bisogno di una guida. E positiva: vuol dire che il filo che lega il popolo alle istituzioni, anche in un momento di rabbia e sconforto, resta saldo. Non è stato sempre così: la storia nazionale è purtroppo piena di funerali in cui lo Stato è stato fischiato. Ancor più confortante è perciò l’accoglienza commossa riservata da questa nobile e sfortunata città al presidente Mattarella e ai Vigili del fuoco, entrambi a modo loro simboli dell’Italia di cui ci si può fidare. Ma quegli applausi hanno anche un innegabile significato politico: in grande maggioranza gli italiani considerano il recente risultato elettorale un cambio di regime.
Dopo due mesi di governo gli elettori sono ancora più convinti di aver fatto la scelta giusta. Caricano sui «nuovi» politici grandi aspettative, riconoscendo loro, se non ancora competenza e buon governo, certamente dirittura morale e schiena dritta. Attribuiscono invece ai «vecchi» tutte le colpe di un lungo ed evidente declino del Paese, anche quelle che magari non hanno (le contestazioni di ieri a Martina e a Pinotti, entrambi ministri nei governi del Pd, lo dimostrano).
Di Maio e Salvini hanno dunque vinto la battaglia dell’opinione pubblica in queste ore tragiche. E ci sono riusciti perché hanno continuato a fare l’opposizione. Hanno additato come colpevole un sistema di rapporti costruito nel passato tra lo Stato e il concessionario Autostrade, in cui il primo vigilava poco e il secondo guadagnava troppo. La sinistra che ha governato negli ultimi cinque anni, ma anche la destra che c’era prima, ha troppo spesso scambiato il liberalismo per debolezza del regolatore pubblico, e contraddetto la concorrenza con la nascita di nuovi monopoli privati. Per difendere se stesso, il Pd si è così trovato nella singolare condizione di dover difendere Autostrade (anzi i Benetton, secondo la personalizzazione maramalda del populismo, cui non basta accertare responsabilità, ma ha sempre bisogno di una gogna). Questo ha acuito il discredito che circonda oggi quel partito dopo cinque anni di renzismo, ormai visto come amico e protettore dei potenti. È stata misurata ieri a Genova la gravità di una crisi di rigetto dell’opinione pubblica che ha pochi precedenti nella storia della Repubblica, e che merita di essere affrontata al più presto, perché un Paese democratico non può stare a lungo senza un’opposizione credibile e autorevole.
Quanto a Di Maio e Salvini, dovrebbero ricordare che anche Silvio Berlusconi, all’inizio del suo governo nel 2008, fu accolto come un salvatore all’Aquila, sconvolta da un terribile terremoto. Dopo l’emergenza e i proclami, arriva però sempre il momento delle scelte concrete, quando bisogna sporcarsi le mani con la realtà. Per mantenere vivo il risentimento della gente, e conservarne così il consenso, il governo Conte ha usato la minaccia di revoca della convenzione con Autostrade. Ma ha calcolato quanto costerebbe ai contribuenti? E, soprattutto, ha pensato chi altri potrebbe ricostruire in pochi mesi il ponte, come Autostrade promette di fare? Oggi la gente di Genova chiede, giustamente e innanzitutto, giustizia. Domani chiederà anche una strada che renda possibile passare da Levante a Ponente, un’arteria che porti in Francia e in Europa le merci che arrivano al suo porto, e una via alternativa che non passi dentro e sopra il centro della città, su case e palazzi. La forza delle cose ha già spinto Di Maio a riconoscere che la Gronda, così a lungo avversata dai Cinque Stelle, è un’opera che s’ha da fare. Forse convincerà presto il governo che la revoca della convenzione ha troppi costi e scarsi benefici. Ma gli oppositori farebbero bene a non credere che basti aspettare che il nuovo potere fallisca per riprendersi. In primo luogo perché se chi è al governo fallisce, ne paga il prezzo l’Italia tutta. E in secondo luogo perché il funerale di Genova ha dato ieri una prova di quanto profonda sia la frattura tra vecchio e nuovo, rendendo poco credibile che gli italiani, se pure il nuovo fallisse, accetterebbero di tornare al vecchio.

Corriere 19.8.18
Un episodio decisivo sul fronte russo ricostruito dallo studioso americano Robert Forczyk (Leg)
A Kursk l’estate si rivoltò contro Hitler
di Antonio Carioti


Fino ad allora la Seconda guerra mondiale sul fronte russo aveva seguito più o meno uno schema fisso dal giugno 1941, quando il Terzo Reich aveva aggredito l’Urss. D’estate avanzavano i tedeschi, grazie alla loro superiorità in fatto di organizzazione e addestramento, ma con la stagione fredda l’abitudine alle condizioni climatiche estreme consentiva ai sovietici di prendere il sopravvento: davanti a Mosca nell’inverno 1941-42, a Stalingrado in quello 1942-43.
Poi, 75 anni fa, si verificò una svolta importante, ben ricostruita dallo storico americano Robert Forczyk nel libro Kursk 1943 (traduzione di Vincenzo Valentini, Libreria Editrice Goriziana), ricco di cartine, disegni e fotografie dell’epoca nella migliore tradizione della storiografia anglosassone.
Nonostante il disastro subito con l’annientamento della 6ª armata a Stalingrado, in primavera le forze del Terzo Reich si erano ricompattate e cercarono di assumere l’iniziativa con un attacco massiccio. Ma l’Armata rossa era ormai nettamente superiore come mezzi, soprattutto in fatto di artiglieria e carri armati, anche grazie al notevole sostegno ricevuto da Washington e Londra.
Nel luglio 1943 si giocò una partita decisiva: il tentativo tedesco di manovra a tenaglia sulla regione della città di Kursk incontrò una resistenza accanitissima e si esaurì in una decina di giorni. Poi passarono al contrattacco i sovietici con ben maggiore successo, sia pure a costo di perdite spaventose. Secondo le stime riportate da Forczyk, forse un po’ esagerate, in circa un mese e mezzo di combattimenti la Wehrmacht perse 110 mila uomini e 300 panzer; l’Armata rossa oltre 450 mila militari e addirittura 2.800 mezzi corazzati. Una sproporzione eloquente.
Per la prima volta però i tedeschi furono costretti a ritirarsi in estate sul fronte orientale e da quel momento non avrebbero fatto altro che perdere terreno giorno per giorno, difendendosi disperatamente, fino alla caduta di Berlino.

Corriere 19.8.18
In un saggio di Ahron Bregman (Einaudi) la storia dell’egiziano Ashraf Marwan, che divenne una spia
Il genero «farfallone» di Nasser fu l’agente più prezioso d’Israele
di Paolo Salom


Il 5 ottobre 1973 cinque palestinesi vengono arrestati dalla polizia in un appartamento di Ostia. Da un armadio saltano fuori due missili Sa-7 di fabbricazione sovietica, avvolti nei tappeti che erano serviti per trasportarli in treno da Roma: i terroristi intendevano usarli per abbattere un aereo della El Al in decollo da Fiumicino, nell’imminenza dello scoppio della guerra del Kippur. Come avevano fatto gli agenti italiani a sapere dell’attentato in preparazione e a sventare una strage? Risposta facile: furono informati dal Mossad.
Quel che però è rimasto nell’ombra per decenni è l’origine della «soffiata»: una spia al servizio degli israeliani capace di rivelare i segreti del regime egiziano, allora il nemico più temibile dello Stato ebraico. Ashraf Marwan — questo il suo nome — non è stato un informatore qualsiasi. Il Mossad — con il governo di Gerusalemme — lo ha considerato «l’agente più prezioso della storia», l’uomo cui si deve (probabilmente) la sopravvivenza di Israele. A raccontare la sua incredibile vicenda è, in un agile saggio pubblicato da Einaudi (La spia che cadde sulla terra), lo storico Ahron Bregman, docente al King’s College di Londra, diventato casualmente suo amico tanto da entrare lui stesso negli eventi che portarono alla sua morte nel 2007.
Nato nel 1944 in una famiglia della media borghesia cairota, Ashraf Marwan salì rapidamente — ma non senza inciampi — i gradini del potere sposando Mona, la figlia più bella e prediletta di Gamal Abdel Nasser che, peraltro, non ebbe mai simpatia per quel genero «farfallone e inaffidabile». Ma dopo la morte del raìs, e l’ascesa del suo vice, Anwar Sadat, le cose cambiano rapidamente. Chiamato al fianco del nuovo presidente in «quota» della famiglia Nasser, Marwan nel 1970 contatta l’ambasciata israeliana a Londra, offrendo i suoi servigi.
Se nei film le spie sono uomini (e donne) freddi, spietati, calcolatori, nella realtà — almeno quella raccontata da Bregman — emergono caratteri ben diversi. Intanto, da principio l’agente del Mossad che risponde per primo al telefono non riconosce il suo interlocutore e se lo lascia scappare. Marwan deve chiamare più volte prima di essere preso sul serio per la casuale presenza a Londra di due importanti funzionari del Mossad che ben sapevano chi fosse il «genero di Nasser». Cominciò così, nella diffidenza reciproca, il rapporto tra l’alto esponente del governo del Cairo e la struttura spionistica considerata la più efficiente al mondo. La spia che cadde sulla terra, per quasi trent’anni, rivelò piani e segreti capaci di spiegare e prevenire le mosse egiziane. Come l’attentato di Roma: voluto da Gheddafi in rappresaglia per l’abbattimento di un jet libico finito per errore sullo spazio aereo israeliano, fu prima organizzato dallo stesso Ashraf Marwan (fu lui a consegnare i missili ai palestinesi) e poi sventato grazie alle sue tempestive soffiate. Ma la spia fu in grado di avvertire il governo di Golda Meir dell’imminenza dell’attacco congiunto di Egitto e Siria (6 ottobre 1973) e, soprattutto, riuscì a fornire i piani di battaglia dell’esercito del Cairo così da consentire il contrattacco del generale Sharon e la sconfitta finale degli eserciti arabi.
Resta da capire perché lo fece e come gli accadde di cadere dalla finestra del suo appartamento nel centro di Londra, il 27 giugno 2007, quando era ormai soltanto un ricco uomo d’affari che trafficava con immobili e armi. Alla prima domanda prova a rispondere Bregman, riportando la sua versione («dopo la Guerra dei sei giorni, del 1967, voleva essere dalla parte dei più forti») e immaginando che le ragioni fossero più semplici: bisogno di denaro, semplicioneria, desiderio di rivalsa. Alla seconda è ancora oggi difficile dare un senso: un’inchiesta ufficiale britannica si concluse senza una chiara versione dei fatti, omicidio e suicidio erano entrambi opzioni possibili. Certo, la «caccia» di cui era stato oggetto da parte dello storico israeliano non lo aveva aiutato: con il suo nome reso pubblico, era diventato inevitabilmente un «morto che cammina».

Corriere 20.8.18
Oscar Wilde amò una donna: «Hattie la tigre» Il segreto svelato da una lettera
di Michele Farina


«Hattie adorata, mi rendo conto di essere assolutamente innamorato di te, e lo sarò per sempre…». Oscar Wilde scrisse questa lettera nel 1882, dopo aver lasciato San Francisco dove il giornale The Wasp l’aveva salutato come «il moderno messia». L’identità della misteriosa Hattie non è mai stata svelata. Fino a oggi: Matthew Sturgis, in una nuova biografia in uscita il prossimo ottobre, dà un cognome alla ragazza ventitreenne che rubò il cuore di Wilde forse al Palace Hotel di San Francisco, allora l’albergo più grande del mondo dove lui fu ospite. Dall’America la madre di Oscar sperava che il figlio sarebbe tornato a Londra con una moglie. Il suo sogno quasi si avverò.
Fine di marzo del 1882. Un amore breve ma intenso. Per dieci mesi l’autore del Ritratto di Dorian Gray girò gli States con un tour in cui fece clamore anche per l’abbigliamento, pantaloncini corti, lunghe calze di seta e capelli alle spalle. Aveva 28 anni, il dandy che di ritorno a Londra avrebbe combinato un matrimonio di facciata con una ricca irlandese soltanto per nascondere la sua appassionata relazione con Lord Alfred «Bosie» Douglas ed essere poi condannato per sodomia e atti osceni in un processo che fece epoca.
In nessun’altra lettera Wilde si rivolge a una donna in questi termini: «Dell’America porto con me soltanto il ricordo di una persona le cui labbra sono come petali di rose d’estate, che ha il fascino di una pantera, il coraggio di una tigre e la grazia di un uccello».
Lunghi capelli rossi, «lineamenti mascolini» come scrive l’Observer che per primo ha raccontato la storia. Ma chi era Hattie la tigre? Sturgis è sicuro di averla rintracciata. Setacciando i documenti anagrafici della San Francisco del 1880, ha trovato unicamente una ragazza che portava quel nome. E i dettagli tornano. Hattie Crocker era figlia di un magnate delle ferrovie, uno degli uomini più ricchi della città. Lo zio di Hattie aveva una galleria d’arte a Sacramento, che Wilde visitò certamente. In una delle due conferenze che Wilde tenne alla Platt’s Hall per quello che fu l’evento mondano dell’anno, ci sono le prove della presenza dei Crocker. Oscar tenne banco parlando dell’«Estetica applicata alla vita casalinga di tutti i giorni». Le cronache raccontarono di uomini perplessi e donne rapite. Tra loro anche la ragazzina dai capelli rossi poi raffigurata in un quadro di Giovanni Boldini? Ebbero modo di incontrarsi da soli?
C’è da immaginarselo. Dopo aver visitato Oakland e Chinatown, San José e il Bohemian Club, Wilde ripartì in treno, che era il lusso del tempo. Per il tour l’impresario Charles E. Locke gli scucì la bellezza di 5 mila dollari. Una delle prime «celebrity» della mondanità non incontrò più la sua «tigre». Sulla carta descrisse i suoi occhi bruni, mentre Hattie Crocker nel quadro ce li ha azzurri. Una dimenticanza da poeta, dice il biografo. Hattie finì per sposare un finanziere e trasferirsi a New York. Viaggiò in Europa, dove morì nel 1935. A Parigi. Nella città dove, a inizio secolo, si era spento Oscar.


Corriere 19.8.18
Il primo volume della serie sulla rivoluzionaria pedagogista italiana
La sfida vinta di Maria Montessori Liberare la creatività dei bambini
di Giancarlo Dimaggio


Una donna in campo per battere i pregiudizi dell’educazione autoritaria
Ricerche americane recenti dimostrano che il suo metodo ha successo
Mia figlia aveva tre anni. Mia moglie e io parlavamo con la maestra Renata. Una donna magra, alta, dagli occhi azzurri che ti entravano dentro, uno scrutare implacabile e gentile. Di quelle donne verso le quali sviluppi una gratitudine che non morirà mai. Diceva: «Vostra figlia è una bambina» e faceva una pausa «impegnativa». Sorrideva, non poneva alcun accento negativo sul termine. «Non puoi semplicemente dirle le cose, ci devi ragionare». Mia figlia ora ha sedici anni e non è cambiata. Renata teneva un piccolo asilo Montessori. Nell’educazione dei miei figli è stato un pilastro. Non solo dei miei.
Maria Montessori era un genio. Una donna che, nata in un Paese poco incline al metodo scientifico, fonda una pedagogia scientifica e inventa un metodo educativo che ancora oggi ha pochi eguali. Partiva da un’idea semplice, chiara, «che i bambini possano liberamente esprimersi e così rivelarci bisogni e attitudini che rimangono nascosti o repressi quando non esista un ambiente adatto a permettere la loro attività spontanea». A questa accompagnava un corollario: realizzazione personale e progresso vengono dalla vocazione, dalla fiamma interna, quel piccolo fuoco sacro dal potere di rendere ogni individuo speciale. La stessa idea, più di un secolo dopo, guida il mio operato di psicoterapeuta: portare gli adulti sofferenti a contatto con quella scintilla interiore e farle prendere vento.
Lei sosteneva che la pedagogia dovesse rispettare la libertà del bambino. Oggi so che si riferiva ad altro, a concetti che oggi chiamiamo autonomia, autoregolazione, agency. Forgiare nel piccolo il senso di competenza, così che padroneggi il piccolo mondo che lo circonda. Era una visionaria, immaginò una pedagogia basata sulla creatività e non sulla disciplina. L’aveva sviluppata sui bambini all’epoca chiamati «idioti», scoprendo che poteva portarli al livello dei bimbi «normali». E allora si disse: perché non estenderla? Si industriò e, in un ambiente non favorevole alle donne, ci riuscì.
Arriva l’obiezione: libertà? E che ne è del dovuto rigore necessario a temperare i naturali impulsi vandali dei bambini? Ho una testimonianza diretta: per tutti gli anni che ho accompagnato, visitato, ripreso i miei figli da Renata, non ho mai sentito urlare. L’effetto magico del metodo Montessori: un’educazione individualizzata che insegna a vivere meglio in gruppo.
Sono scienziato anche io, tendo a formulare domande logiche. Premessa, ragionamento, conclusioni. Mi chiedo: abbiamo avuto una delle più grandi pedagoghe di sempre, quindi l’educazione primaria in Italia sarà basata in prevalenza sul metodo Montessori? Mi rispondo: sì. La risposta vera è: no. La domanda che segue è: perché? Mi paralizzo.
Quando sono perplesso reagisco sempre nella stessa maniera, studio. Voglio risposte sensate. Magari il metodo Montessori è superato, obsoleto. Mi imbatto negli studi di Angeline Lillard, Università della Virginia (è negli Stati Uniti, non in Italia), una psicologa che ha dedicato la sua ricerca al mondo dell’immaginazione. Con sana vocazione empirica anglosassone, si è chiesta: il metodo Montessori funziona? E ha fatto, guarda un po’, delle ricerche.
I risultati sono impressionanti. I bambini che hanno frequentato asili Montessori, purché vi si applicasse il metodo con fedeltà, acquisivano più abilità che in altre scuole. Aumentava la loro capacità di regolare gli impulsi e di risolvere problemi sociali. Sono entrambe doti che predispongono ad una vita scolastica e di relazione di successo. Non è quello che speriamo per i nostri figli? Per inciso, migliore capacità di regolare gli impulsi da bambini significa minor rischio di diventare criminali da adulti. Ancora: negli asili Montessori imparavano a leggere prima e avevano un vocabolario più ampio. Sviluppavano una migliore teoria della mente e in parallelo avevano maggiore senso di giustizia e tenevano in considerazione il punto di vista dell’altro. Altro risultato straordinario, avevano più fiducia nell’affrontare problemi difficili: ci provo perché credo di potercela fare. Ed erano più creativi.
C’è di più: notoriamente i bambini che vengono da famiglie più povere hanno risultati peggiori a scuola. Negli asili Montessori il gap si riduce. Coerentemente con lo spirito che nel 1907 portò a fondare nel quartiere San Lorenzo a Roma la prima Casa dei bambini, è possibile fare crescere le abilità anche di chi parte svantaggiato.
Forse ho visto troppi episodi della serie tv Black Mirror, a volte vivo in una realtà parallela. Mi convinco che le ricerche che ho descritto sono state effettuate in Veneto, Sicilia, Lazio. Ci sto comodo per un po’, poi mi risveglio. Erano in Connecticut.
Pubblicare l’opera di Maria Montessori, come ha deciso di fare il «Corriere»? È un’ottima iniziativa, sperando che le prossime ricerche siano svolte in Italia. Io intanto mi tengo stretti i ricordi di quando parlavo con la maestra Renata dei miei figli e con la coda dell’occhio scorgevo bambini attivi, vitali, curiosi.

Il Fatto 20.8.18
La sezione “rossa”: “I fischi? Non si sa più chi siamo”
Il dibattito “nì” - Il day after la contestazione dei dem alle esequie. “Prima avevamo 8mila iscritti, ora 170”
La sezione “rossa”: “I fischi? Non si sa più chi siamo”
di F.Sa.


Saracinesche abbassate. “È agosto, siamo in ferie”, è chiuso il circolo Pd Boido Longhi, in un vicolo di Sestri Ponente, a una manciata di chilometri dal ponte Morandi. In queste strade di Genova dove il Pci prendeva il 90% dei voti e sabato per qualcuno è stato celebrato l’addio al partito: la folla ha fischiato Maurizio Martina e Roberta Pinotti ai funerali delle vittime. I dirigenti del partito – pochi – camminavano rasente al muro. Tanti pezzi grossi alle esequie nemmeno si sono visti.
Tutto era cominciato qui. E, forse, finisce qui. Proprio davanti alla saracinesca della sezione – pardon, oggi circolo – che una volta era il centro della vita del Ponente di Genova: “A Sestri c’erano 8 sezioni: 6 in città e 2 nelle fabbriche. Avevamo 8mila iscritti, il doppio di quelli che oggi il Pd raccoglie in tutta la Liguria”, racconta Aleandro Longhi – nipote dell’omonimo partigiano cui è dedicato il circolo – che di quella sezione fu il segretario negli anni ’70. Oggi le tessere sono 170.
Una volta, dopo una tragedia così, davanti al portone di via Vigna avresti trovato centinaia di persone. Perché la sezione era casa, chiesa, perfino istituzione. Come diceva Togliatti: dove c’è una chiesa c’è una sezione della Dc, quindi il Pci doveva presidiare il territorio. Perfino nell’arredamento c’era una ‘simmetria’: crocifissi e immagini da una parte, foto di Lenin e Berlinguer dall’altra. “Ogni volta che succedeva qualcosa di importante ci si ritrovava e si discuteva… ricordo quando l’Urss invase l’Afghanistan”, racconta Longhi. Kabul è in Asia. Il Morandi invece è a due passi. Ma non c’è nessuno. “Oggi i circoli sono diventati luoghi dove ci si riunisce per decidere i candidati e litigare”, è amaro Longhi che ha chiuso con il Pd.
Addio al territorio, proprio mentre in queste strade la disoccupazione arrivava al 15% e decine di negozi chiudevano i battenti. Fino al ‘sacrilegio’ finale: il segretario nazionale e un’ex ministra fischiati a un funerale. Che effetto fa, visto dalla trincea dell’ultimo circolo? “L’ho visto solo in tv, non sono a Genova. Non mi sono fatto un’idea”, glissa l’attuale segretario Marco Pinna. È crollato il vostro ponte, cosa farete adesso? “Abbiamo sentito i vertici dei municipi. A settembre organizzeremo incontri con esperti”. Ma una volta questa porta era più aperta di una chiesa, tutti i giorni, fino a notte.
Ancora Longhi: “Arrivava chi voleva parlare di politica, chi era rimasto senza lavoro, ma anche chi aveva problemi familiari”. Oggi non si riesce più: “Con i volontari siamo presenti quattro giorni la settimana”, assicura Pinna. Parla di una scuola di politica per formare i dirigenti di domani (ma ci sarà un domani?), di corsi di pittura, di assistenza a chi chiede il reddito di inclusione. Poi però ci sono i conti e qualcuno storce il naso: “Dobbiamo pagare l’affitto alla fondazione Ds. E pensare che questa sede era nostra e gliel’abbiamo data noi”. Già, Roma. Ma è cominciato anche da qui, dalle porte dei circoli. Dal Partito che qui è diventato potere. Tutti ricordano gli anni in cui governava la sinistra e la Liguria è stata ricoperta di cemento, fino alle sponde dei torrenti che poi esplodevano con le alluvioni. Ricordano i consigli di amministrazione delle controllate pubbliche infarciti di fedelissimi. Poi il silenzio negli anni in cui Giovanni Berneschi governava la banca Carige e l’allora governatore Claudio Burlando offriva un posto in fondazione alla Curia di Angelo Bagnasco. Fino all’inchiesta rimborsopoli con metà del consiglio regionale indagato (anche nella Lega che oggi fa la ‘nuova’) e assessori finiti in manette.
Arrivano da lontano i fischi di sabato. Ma ora? “Organizzeremo – conclude Pinna – incontri per capire chi siamo come partito”.

La Stampa 20.8.18
Se per il pd il nome è un peso
di Federico Geremicca

Sì, è vero: Genova (la città di Beppe Grillo, governata dal centrodestra, come anche la Regione Liguria) non può esser considerata, politicamente parlando, una riduzione in scala dell’Italia. Né vi somiglia in tutto la folla rabbiosa e dolente presente ai funerali di Stato, se solo si considera che oltre la metà delle famiglie delle vittime ha scelto di disertare quella cerimonia. Ciò nonostante, il Partito democratico sbaglierebbe a giudicare i fischi ricevuti dal suo segretario (e dalla genovese Pinotti) un episodio irrilevante o addirittura frutto di una perfida, seppur possibile, regia.  
Quella contestazione, infatti, dà la misura esatta del punto in cui è precipitata la credibilità del Pd (al governo del Paese fino a qualche mese fa) e dell’enorme difficoltà che incontrerà a risalire la corrente. La drammaticità della sua crisi, peraltro, è di una tale profondità da annullare e rendere inesistente - caso più unico che raro - perfino quel piccolo favore di cui sono solite godere le forze d’opposizione: la naturale rendita di posizione insita nel dire che tutto va male e non se ne può più.
Oggi come oggi, insomma, il Partito democratico è nella peggiore delle posizioni immaginabili: né forza di governo (perché punita dagli elettori) né possibile forza d’opposizione (per il discredito, giusto o sbagliato che sia, che ancora lo circonda). È quasi un inedito: che naturalmente rende opportuno - e addirittura tardivo - un dibattito che rimetta in discussione non solo la storia, il profilo e la natura del partito, ma perfino il suo nome.
Poiché il passato insegna sempre qualcosa, quel che resta dello stato maggiore del Pd farebbe bene a guardare alla storia per rintracciare le qualità - politiche ed etiche - indispensabili per un tale cambio di pelle: il coraggio e la pazienza. Fu certamente un’operazione coraggiosa (seppur imposta dalla storia) quella con la quale Achille Occhetto relegò in soffitta nome e simboli del Pci; e ci volle tempo - e appunto pazienza - perché i leader del Pds e del Ppi (originato dallo scioglimento della vecchia Dc) cominciassero ad incassare gli utili della trasformazione compiuta.
Intendiamoci, oggi l’operazione è perfino più rischiosa, e tutt’altro che semplice. Rischiosa perché il pericolo sta nel buttar via comunque un’identità in cambio del nulla, o giù di lì; e non semplice perché i tempi sono quelli che sono: tempi in cui Matteo Salvini, per dire, può chiedere la sospensione del campionato di calcio in rispetto delle vittime genovesi e poi scattare disinvolti selfie a qualche metro dalle bare. Ma per ora è così che va, e non tenerne conto sarebbe un tragico errore.
Cambiare nome, dunque. O addirittura sciogliere il Partito democratico in un inedito «fronte repubblicano», come proposto subito dopo la disfatta del 4 marzo dall’ex ministro Carlo Calenda. Le due operazioni, inizialmente, potrebbero perfino coesistere: ed esser addirittura testate, anzi, nelle elezioni europee della prossima primavera, in vista delle quali il Pd sembra ragionare su una lista senza i suoi simboli e che metta assieme le opposizioni di centrosinistra. Europeisti contro sovranisti, insomma. O democratici contro populisti: una sfida che, a lanciarla nell’Italia gialloverde, può somigliare a Frosinone-Real Madrid. Senza offesa per alcuno.
Ma come si diceva all’inizio, la fase e l’operazione sono tali da reclamare un coraggio che arrivi fino al limite della temerarietà: lo stesso coraggio (seppur obbligato dalla storia e dalla cronaca) che Dc e Pci mostrarono in avvio degli Anni 90. Anche allora, all’inizio non andò come speravano: e arrivò il ciclone-Berlusconi. Ma anche allora - tra lanci di monetine e contestazioni quasi strada per strada - l’agibilità politica dei vecchi partiti finiti all’opposizione era ridotta al lumicino. Come oggi, in fondo, quando Maurizio Martina e Roberta Pinotti sono fischiati per delle morti con le quali non c’entrano nulla. Ma la spiegazione (e la speranza futura) è forse nel fatto che l’elettorato italiano è sì diventato mobile, ma ancora non ha perso la memoria...

La Stampa 20.8.18
Il Pd ai minimi adesso pensa di cambiare anche il nome
di Carlo Bertini


«La casa brucia, bisogna accelerare sul congresso e magari pensare a un cambio di nome». È uno dei dirigenti del Nazareno a metterla giù così e sono in molti fuori e dentro la sede del Pd a considerare il logo nato nel 2007 e quel progetto di partito un’esperienza per tante ragioni forse esaurita. Dopo Carlo Calenda, uno dei primi a uscire allo scoperto sul rinnovo dalle fondamenta è stato Matteo Richetti: in luglio, dalle colonne di questo giornale caldeggiava di «superare il Pd con una nuova forza aperta»: proponendo una rigenerazione totale, con cambio di nome e simbolo al partito.
Crollo del consenso
Tema già caldo dunque prima dei fischi di Genova ai big del Pd, ma che a maggior ragione ora si porrà come estremo tentativo di uscire dall’angolo per un partito in crollo verticale di popolarità. Il Tempo addirittura cita sondaggi riservati che circolerebbero nelle chat dei parlamentari con un Pd crollato dal 18 al 12-15%. Un nuovo brand - Movimento Democratico europeo è una delle idee che va per la maggiore - potrebbe dunque essere testato magari come lista alle elezioni per il rinnovo del parlamento di Bruxelles. Certo, non tutti sono disposti ad archiviare dopo il logo («Il Pd deve cambiare tutto tranne il nome», sentenzia Gianni Cuperlo) ma il bisogno di un radicale ripensamento è sul tavolo: la renziana Alessia Morani ha lanciato in luglio un sondaggio su Facebook, «Cosa ne pensate di un “Movimento Democratico Europeo”?», su una forza che coinvolga liberali e socialisti e garantisce che questo Mde raccoglie un discreto successo.
E fa effetto sentir dire che «bisogna uscire dall’edificio e costruirne un altro» da un esponente molto vicino a Walter Veltroni, che del Pd fu il fondatore e il primo leader dopo la celebre convention del Lingotto nel 2007. «Serve un atto rivoluzionario di rifondazione - ha scritto il parlamentare Roberto Morassut su Democratica.com - una costituente larga che faccia entrare pezzi di società civile, si trasformi in un movimento vasto e di grande respiro». Il nome? Movimento Democratico, propone Morassut. Ma saranno esperti di comunicazione a dire la loro su un eventuale nome e simbolo che abbia un minimo di appeal.
Una svolta come la Bolognina
Giorni fa si è pronunciata anche la politologa bolognese Elisabetta Gualmini, vicepresidente del consiglio regionale dell’Emilia Romagna. Proponendo una sorta di «nuova Bolognina», quella «svolta» che vide il cambio di nome del Pci ad opera di Achille Occhetto. «Il Pd deve cambiare pelle e volto al più presto», ha spiegato a Luca Telese su La Verità. Sostenendo che si dovrebbe collaudare questo cambiamento profondo alle regionali 2019 in Emilia Romagna. Con una postilla interessante: forse nel nuovo nome ci dovrebbe essere «un moderno riferimento all’idea del socialismo». Ragionamenti che in parte, confida la professoressa, sarebbero condivisi dal governatore della regione Stefano Bonaccini.
Quindi anche sul cambio di nome il Pd è pronto a dividersi, come sempre. Oltre Calenda che ha proposto un «Fronte repubblicano» contro «il sovranismo anarcoide», ci sono gli europeisti, come Sandro Gozi, che propugnano un’alleanza con Macron alle Europee. E poi c’è il neo-segretario Martina, che certo non gradisce qualunque progetto per cambiare nome al partito proprio alla vigilia del congresso e di nuove tornate elettorali.
Dalle parti di Renzi negano che la Leopolda di ottobre “Ritorno al futuro” servirà a lanciare una nuova formazione di stampo macroniano. «Tutti però sono consapevoli che il marchio Pd ora non tira - ammettono gli uomini dell’ex leader - e c’è un’esigenza largamente avvertita di dare nuova fisionomia al partito in vista delle Europee e del congresso. Smontando magari nome al Pd e pensando a un’altra forma».

Repubblica 20.8.18
Che cosa deve espiare la sinistra
di Ilvo Diamanti


Sono giorni di dolore. E disperazione. Per le vittime, italiane e straniere, sepolte dal crollo del ponte Morandi. Per le loro famiglie e per i loro amici. Per Genova. Ma anche per " noi, che abbiamo visto Genova", (impossibile non fare eco alle parole di Paolo Conte), sono giorni di pena e di emozione. Per il Paese intero, che si è stretto intorno a Genova. Tuttavia, colpisce come, anche in questi giorni, in queste ore, in mezzo a questa tragedia, si ripetano e si riproducano le divisioni politiche interne, che attraversano — e spezzano — la società e il Paese. Le reazioni delle persone, che hanno affollato i funerali delle vittime, sabato scorso, sono sicuramente comprensibili. Eppure riflettono, oltre alle responsabilità del passato, anche le distanze politiche del presente. Gli applausi a Salvini e Di Maio. I fischi a Martina e ai "sinistri", in un momento tanto triste. Evocano il clima d’opinione di un Paese, non tanto di una città, che non dimentica le miserie della politica. Neppure per un momento. Neppure in un momento come questo. Neppure per un attimo. Neppure in tempi (così) tristi.
E ciò fa riflettere. Sulla nostra difficoltà di riunirci, di camminare insieme, almeno di fronte, in mezzo: alle tragedie. Ogni volta, dunque, partiamo alla ricerca dei colpevoli. Dei responsabili. Meglio evocare e inseguire i "ri-sentimenti", prima ancora dei "sentimenti". Così la Sinistra è colpevole. Perché ha governato in passato. E perché, nel presente, è sconfitta. Costretta ai margini del campo politico. Non solo in Italia. Ma soprattutto in Italia. La Sinistra, il Centro- Sinistra, è colpevole di avere abbandonato le piazze, la società e il territorio. Soprattutto dove ha governato a lungo. Praticamente, fino a ieri. Come a Genova. Appunto. E oggi, di fronte a tragedie come questa, fra i cittadini, il dolore si mischia al risentimento. Politico. E la sfiducia investe coloro che stavano al governo. Che hanno governato. Fino a ieri. Non solo a Genova, ma in Liguria. E in Italia. Tanto più e a maggior ragione perché, fino a ieri, quella stessa gente, quegli stessi cittadini, avevano sostenuto gli amministratori e i leader di (Centro)Sinistra. Li avevano votati. Così oggi cresce la voglia di espiare e dimenticare. Ciò che siamo stati. Mentre si diffonde la tentazione di cancellare o, almeno, inibire: la memoria. Anche nei momenti più difficili. Quando, invece, sarebbe importante " ricordare". Per restare uniti. Per camminare insieme. Quando il dolore dovrebbe accendere e alimentare il senso di solidarietà. Quando ci sarebbe bisogno di costruire nuovi "ponti", per comunicare con gli altri. Lontani e diversi da noi. Anche allora, anche ora, però, prevale la ricerca del colpevole. Politico, prima ancora che tecnico e imprenditoriale. Così, si rovesciano fischi e insulti contro Martina. Il " capo" del Pd. D’altronde, anche lui ha " una faccia un po’ così, un’espressione un po’ così". Triste e rassegnata. Si presta a recitare la parte del colpevole retrospettivo. A dare volto a un partito e a una parte che ora appaiono davvero "fuorigioco". Finiti anch’essi " sotto le macerie", come ha osservato Mauro Calise. Meglio che la Sinistra e il Centro-Sinistra ci pensino. A quel che è successo sabato. Perché riflette il ri- sentimento del tempo. Che ha spinto il Pd e il Centro- Sinistra ai margini. Al di là delle colpe specifiche, nel caso specifico. Perché la loro colpa è di avere perduto. E di essersi perduti. Senza spiegare e far capire dove intendano andare. In che modo.
Così appaiono "colpevoli" dei problemi del presente e del passato. Colpevoli di essere rimasti attaccati al passato. Il Pd. Un partito del passato. Passato anch’esso. Però, le colpe retrospettive del Pd e della Sinistra a Genova non possono giustificare la rimozione dello Stato — di diritto. Né la ricerca e l’inseguimento dei colpevoli, a prescindere da ogni verifica. E non possono spingere a separare. Buoni e cattivi. Sempre e comunque. A dividere i cittadini. La società. Ad amplificare il dolore seguendo l’istinto che induce a trovare, comunque, il colpevole nell’Altro. E a trasformare la tragedia immensa di questo ponte che crolla, nel crollo di ogni ponte. Di ogni comunicazione. Di ogni relazione. L’Italia, si è scritto, è una Società senza Stato. Ma oggi anche la Società appare spezzata. E rischia di farci diventare un Paese dis-sociato. Senza fiducia. Nelle istituzioni e negli altri.
Genova è una grande città. Un porto che proietta l’Italia verso il mondo. Da secoli. Genova: deve rimanere, anzi diventare, un Ponte. Il "nostro" Ponte.

Repubblica 20.8.18
I segreti delle fondazioni politiche Solo il 3% rivela i finanziatori
Non ci sono regole che impongano di rendere trasparente il rapporto con lobby e imprese La maggior parte dei think tank e delle associazioni non pubblica sul web nemmeno il bilancio
di Antonio Fraschilla


Chi finanzia i partiti in Italia, oggi? Quali sono le aziende e gli imprenditori che sostengono Lega, Pd, 5 stelle, Forza Italia e gli altri? Lo scontro sui soldi dati alla politica dai Benetton tra il ministro Luigi Di Maio, che accusa il Pd di averli ricevuti in cambio di favori alla società Autostrade, e l’ex segretario dei dem Matteo Renzi che replica indignato, rimette al centro del dibattito queste semplici domande. Alle quali dare una risposta oggi è di fatto impossibile perché nessun partito, M5S compreso, rende noti gli elenchi dei finanziatori.
Tutti invocano il rispetto della privacy di chi vuole sostenere una causa politica.
Così, nei bilanci dei partiti, non ve n’è traccia e nella giungla delle fondazioni che fanno riferimento al politico di turno men che meno: secondo un dossier di Openpolis, su 102 fondazioni politiche, solo sei pubblicano nei loro siti un elenco di finanziatori, ovvero il 2,97%.
Tra queste la Open di Matteo Renzi. Ma tutto avviene su base volontaria e senza alcun obbligo.
Chi vuole sapere se i Benetton o altre grandi aziende o imprenditori abbiano finanziato un partito, rimarrà nella maggior parte dei casi senza risposta.
La verità è che è stato abolito il finanziamento pubblico, prevedendo solo la possibilità di ottenere contribuzioni dal 2 per mille delle dichiarazioni dei redditi, ma non sono state previste regole per definire in maniera chiara e trasparente il rapporto tra imprese e lobby da un lato e partiti e politici dall’altro. Il risultato è un Far West.
I bilanci dei partiti svuotati
Spulciando gli ultimi magri bilanci ufficiali di Lega, Pd, Forza Italia e dell’associazione Rousseau per i 5 stelle, non si trova nulla. I dem mettono alla voce "contribuzioni da persone giuridiche" 185 mila euro nel 2017 e 545 mila euro nel 2016. Ma chi sono i finanziatori non si sa. La Lega iscrive a bilancio appena mille euro di "contributi da persone giuridiche" e un milione di euro da "persone fisiche" mettendo in elenco, di fatto, tutti i parlamentari che versano il contributo al partito. Forza Italia nell’ultimo bilancio approvato mette in entrata 320 mila euro di contributi ricevuti da imprenditori e società. E nella nota integrativa compare un piccolo elenco di aziende: tra queste, con un contributo che varia dai 10 ai 20 mila euro, la Italcanditi spa di Pedrengo, la L3sas di Arezzo, che si occupa di assicurazioni, la Sanambiente service di Roma e la Ecofast sistema srl, azienda di pulizie e disinfestazioni. Per il resto nulla: anzi, compaiono una decina di donazioni da 50 mila euro ma i nomi sono omissati.
Anche chi si fa portatore dello slogan della trasparenza, il M5S, in realtà non pubblica un solo nome in virtù del rispetto della privacy che prevede, senza il consenso esplicito dell’interessato, il divieto di rendere noto il nome del finanziatore. Lo scorso giugno sul blog dei 5 stelle è stato annunciato che, attraverso l’associazione Rousseau, il movimento ha ricevuto donazioni per circa 350 mila euro: «Ed ecco l’elenco dei finanziatori – si legge nel spot non c’è nessuna norma che obbliga l’associazione Rousseau a farlo, noi lo facciamo perché non abbiamo nulla da nascondere e perché la trasparenza per noi viene prima di tutto». Ma l’elenco è composto solo dalle iniziali dei donatori.
Insomma, chi finanzia i 5 stelle?
Nessuno, se non loro, può saperlo.
La giungla delle fondazioni
Abolito il finanziamento pubblico, da tempo ormai i capicorrente hanno deciso di finanziarsi in proprio attraverso la creazione di fondazioni.
Semplici associazioni che non hanno alcun obbligo di pubblicazione dei bilanci.
Secondo un approfondito studio di Openpolis, oggi in Italia sono attive 101 fondazioni riconducibili ad esponenti politici (fino al 1999 ne esistevano solo 22): la gran parte del centrosinistra e del centrodestra, ma c’è anche il Movimento 5 stelle con l’associazione Gianroberto Casaleggio e il Think thank group. Secondo Openpolis solo sei di queste associazioni pubblicano, con uno stringato bilancio, anche un elenco dei soci e dei finanziatori: si tratta dell’Aspen, della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, della Fondazione sviluppo sostenibile, dell’Italia decide di Luciano Violante, della Symbola di Ermete Realacci e della Open di Renzi, che pubblica un lungo elenco di finanziatori dal 2014 al 2018 nel quale compare il re della chimica scomparso nel 2015, Guido Ghisolfi, il finanziere Davide Serra, ma anche l’Aiop, la potente lobby delle cliniche private. Ma tutto è lasciato alla libera iniziativa del presidente della fondazione di turno e senza alcun controllo esterno.
I finanziamenti ai parlamentari
Non va meglio per il singolo politico. Gli eletti alla Camera o al Senato devono dichiarare nello stato patrimoniale anche quanto hanno speso in campagna elettorale e chi li ha finanziati.
Nessuno sostiene di aver ricevuto contributi elettorali elevati: Di Maio nel 2013 dichiarava appena 2.700 euro, Maria Elena Boschi zero. Tutti gli eletti in Parlamento e nei consigli regionali devono inoltre consegnare in Corte d’appello una dichiarazione sui finanziamenti ricevuti e sulle spese sostenute in campagna elettorale. In Sicilia nemmeno questo: lì da oltre dieci anni l’Assemblea regionale non recepisce la norma nazionale, e i magistrati della Corte d’appello hanno le mani legate. In realtà, comunque, da Milano a Palermo, oggi i finanziamenti alla politica sono a dir poco oscuri.

Il Fatto 20.8.18
Il vero nuovo zar di Cuba, sognando il libero mercato
Scelto dal neo presidente Díaz-Canel come ministro dell’Economia è lui oggi l’uomo più potente dell’isola caraibica, pronto a “riformare” il socialismo. Partito permettendo
di Diego López

A vederlo e a sentirlo parlare sembra distante dal burocrate di regime. Per questa ragione, probabilmente, più volte a lui si è ricorso nella popolare tramissione tv Mesa redonda per parlare in difesa dell’economia socialista. “Da più di 55 anni – afferma – viviamo sotto il blocco economico, commerciale e finanziario degli Usa. Eppure ancora abbiamo indicatori sociali, come la Salute e l’Educazione, comparabili agli standard del primo mondo”. Oltre che un buon comunicatore, viene anche considerato un tecnico affidabile: la sua è la “faccia” (del governo) nei video che sono circolati nei mesi scorsi per spiegare a funzionari e specialisti – del Partito comunista e dell’amministrazione di Stato, cariche che spesso si confondono – sui problemi e vantaggi della futura unificazione delle due monete circolanti in Cuba (nacional e convertibile). Per questa ragione Alejandro Gil Fernández è stato scelto alla fine di luglio dal presidente Miguel Díaz-Canel come nuovo ministro dell’Economia e della Pianificazione. Il successore di Raúl Castro ha dovuto aspettare alcuni mesi dopo la sua nomina, ad aprile, al vertice dello Stato e del governo prima di poter contare su una sua squadra.
La precedenza è stata data alla nuova Costituzione, varata in velocità (un mese) e approvata in luglio dopo un paio di giorni di dibattito dall’Assemblea nazionale del Poder popular –Parlamento unicamerale – che ha sancito le nuove linee guida: riconoscimento della proprietà privata e grande apertura agli investimenti esteri; eliminazione del comunismo come “faro” politico – sostituito dal “socialismo prospero e sostenibile” lanciato cinque anni fa da Raúl – e matrimonio egualitario (ovvero anche tra persone dello stesso sesso). Il tutto, però, sempre sotto l’egida e il controllo del Partito (unico) comunista. Lunedì 13 è iniziata la grande consultazione popolare per discutere la nuova Magna Carta a livello di base: 800.000 copie sono state messe in vendita – al costo di circa due centesimi di euro – per essere utilizzate in decine di migliaia di assemblee e riunioni di base fino al 15 novembre. In seguito, tenendo conto di eventuali modifiche suggerite dalla base, verrà indetto un referendum di approvazione della nuova Costituzione. Nessuno dubita però che le nuove linee guida saranno approvate a larghissima maggioranza. Per cui il presidente ha dato il via al “suo” governo: inserendo qualche riformatore, bilanciato da figure più ortodosse (ministero della Cultura) e mantenendo gli intoccabili del vertice militare (ministero della Difesa).
Nell’equilibrio del nuovo governo, però, Díaz-Canel ha tenuto conto di quello che di gran lunga interessa il cubano de a pie, la gente comune: misure che permettano un miglior livello di vita. Questo sarà il compito del nuovo ministro che sostituisce due cargas pesadas , due pezzi da novanta: il vetereano (81 anni) ex ministro Ricardo Cabrisas e il più giovane Marino Murillo, ex responsabile delle riforme economiche scelto da Raúl Castro. In pratica dovrà essere il “nuovo zar” delle riforme economiche. Gil Fernández, 58 anni, è un dirigente nato dopo la Rivoluzione: stessa età e stessa generazione del presidente. E per molti versi una carriera simile a quella di Díaz-Canel: una traiettoria visibile – ma non di primo piano – nel Ministero delle Finanze e Prezzi dove ha iniziato come funzionario per arrivare, due anni fa, alla carica di viceministro proprio sull’onda delle riforme economiche volute dall’ex presidente Raúl Castro. Ancora non è stata diffusa una biografia ufficiale del nuovo ministro e poco si conosce sulla sua vita privata. Fatto non inusuale nell’isola dove tradizionalmente i dirigenti mantengono visibile solo il loro profilo pubblico.
Ex subordinati e colleghi hanno, però, concordato nel giudicarlo “un dirigente benvoluto e disponibile” ma anche “un leader capace” che si è guadagnato il rispetto dei più per le sue conoscenze tecniche e per l’esperienza nel settore economico. E ne avrà bisogno perché deve affrontare una situazione assai difficile: Cuba uscita dalla recessione sofferta nel 2016 deve assolutamente incrementare i suoi indicatori economici nonostante che il suo alleato e miglior partner, il Venezuela di Maduro, in drammatica crisi, abbia ridotto a quasi metà sia il rifornimento di greggio all’isola sia il pagamento dei servizi professionali (medici e paramedici, professori e consiglieri militari) forniti da Cuba.
Come conseguenza il governo de L’Avana non ha i fondi per pagare il pesante conto delle importazioni alimentari – quasi due miliardi di dollari – e i supermercati dell’isola presentano il desolante panorama di scaffali vuoti o riempiti ad arte con un solo prodotto. Il malumore della popolazione cresce proprio mentre il vertice politico fa un grande appello alla base per partecipare alla riforma della Costituzione.
Secondo un’inchiesta “indipendente” pubblicata all’estero, il 53 per cento dei cubani interpellati ha dichiarato di essere insoddisfatto della sua vita quotidiana e un 58 per cento pensa che Cuba sia in recessione. Più del 60 per cento poi si lamenta anche dei pilastri dell’economia socialista cubana: scuola e salute. “Connettere la nostra economia (di Stato) con il mercato” è la ricetta proposta dal nuovo ministro. Le trasformazioni delle imprese statali, in gran parte inefficienti, previste dalle riforme – maggiore autonomia dal centro anche nello stabilire i prezzi – dovrebbero contribuire a stabilizzare anche il settore non statale: più di mezzo milione di cuentapropistas, lavoratori per conto proprio con le riforme tributarie e legislative in vigore dal prossimo dicembre acquisteranno lo status di piccoli e (pochi) medi imprenditori privati.
Il socialismo cubano potrà essere “prospero” solo con una buona iniezione di mercato e di imprenditori privati, quindi, ammette ora il regime. Un discorso che, però, è indigesto ai “talebani” del Partito comunista. Questa è la sfida del “nuovo zar” Gil Fernández.

Il Fatto 20.8.18
“L’altra mia estate del 1938 L’orrore delle leggi razziali”
“Non potrai tornare a scuola, sei stata espulsa”. Così a 8 anni la senatrice a vita scoprì di essere ebrea e che la sua vita, da lì a pochi mesi, sarebbe stata sconvolta dalle proibizioni imposte dal regime fascista
di Gianni Barbacetto


“Era un giorno di fine estate del 1938. Io ero a tavola con il mio papà e i miei nonni paterni, che poi finirono tutti ad Auschwitz”, racconta Liliana Segre. “Ricordo le loro facce. Serie. Tirate. Preoccupate. Mai visti così. ‘Liliana, ti dobbiamo dire una cosa’, mi disse papà. Eravamo a Premeno, alto Lago Maggiore, sopra Verbania. Io avevo 8 anni. Avevo avuto un’estate normale. Mio papà, molto attento alla nostra salute, ci portava ogni anno al mare, a Celle Ligure; poi in montagna, e ogni anno gli piaceva cambiare posto: Macugnaga, San Martino di Castrozza, Bormio… A fine estate, concludevamo le vacanze al lago, a Premeno, luogo per me noiosissimo, in attesa che iniziasse la scuola, che allora apriva il 12 ottobre, giorno della scoperta dell’America da parte – ci insegnava la maestra – dell’italiano Cristoforo Colombo. Era stata per me – bambina che non veniva informata di quello che succedeva nella politica, degli annunci e delle tensioni che agitavano da mesi l’Italia – un’estate normale di una normale famiglia italiana, borghese e agiata. Ma quel giorno le facce di mio padre e dei miei nonni non erano normali, erano diverse dal solito. ‘Ti dobbiamo dire una cosa’, ripetè papà. ‘Non potrai tornare a scuola, a ottobre. Sei stata espulsa’”.
“Non andrai più a scuola. Sei stata espulsa”
Il racconto, oggi, esattamente 80 anni dopo, ancora increspa la voce di Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio e a gennaio 2018 nominata senatrice a vita dal presidente Sergio Mattarella. “Io non capivo. Sapevo che ‘espulsa’ era una parola pesante. Per essere ‘espulsi’ bisognava aver fatto qualcosa di grave. Di molto grave. Chiesi a mio padre che cosa avevo fatto, che cosa era successo. Mi rispose che c’erano delle nuove leggi, che le cose erano cambiate, che noi eravamo ebrei e che dunque non sarei potuta tornare alla mia scuola, la Ruffini di Milano, dove avrei dovuto iniziare la terza elementare. Non sarei più stata in classe con le mie compagne e con la mia maestra Bertani”.
Il racconto continua. “Quel giorno scoprii di essere ebrea. La mia era una famiglia laica, anzi di più, assolutamente non religiosa, direi proprio atea. Non avevo mai pensato di essere diversa dalle mie compagne di classe, dalle mie amiche di giochi. Invece quel giorno scoprii di essere ‘diversa’, che tutta la mia famiglia era ‘diversa’ e che questa ‘diversità’, non un mio comportamento, aveva provocato la mia espulsione da scuola. Il mio ricordo è legato alle facce di papà e dei nonni: volti segnati dalla preoccupazione come non li avevo mai visti prima”.
“Dopo quel giorno, a casa non si parlò più di questa faccenda. L’estate finì e ricominciò la scuola. Non rividi più né la mia classe né la mia maestra e le mie compagne non fecero a gara a mantenere rapporti con me. Io iniziai la terza elementare in una scuola privata. Mio padre, per difendermi, non volle mandarmi alla scuola ebraica di Milano, che sorse per permettere ai bambini ebrei di continuare gli studi e che era animata da insegnati di grande valore. Di quell’estate del 1938 il ricordo più vivo che mi è restato è quello dei volti preoccupati di papà e dei nonni”.
Lo scoprì più tardi, l’orrore che nel ’38 era stato scolpito dal fascismo fin dentro la legge. “Cinque anni dopo, nel 1943, mio padre decise – troppo tardi, purtroppo – di fuggire dall’Italia. Ci presentammo al confine svizzero: io, papà e due cugini. Fummo respinti: siamo stati richiedenti asilo respinti dalla Svizzera. Poco dopo fummo arrestati. Avevo 13 anni quando fummo rinchiusi nel carcere di Varese, poi di Como, infine di San Vittore a Milano”.
L’indifferenza, l’odio Fino ad oggi
Una mattina del 1944 Liliana fu caricata su un treno, viaggio di sola andata, verso il campo di Auschwitz. Partenza dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano: sotto i binari che conosciamo, ce n’erano altri sotterranei da cui partivano le merci e gli animali. “Da lì – dove ora è stato realizzato il Memoriale della Shoah – partimmo in centinaia, mentre attorno la città era silente, assente, indifferente”.
Per un anno ad Auschwitz fece lavoro schiavo in una fabbrica di munizioni della Siemens. Aveva 14 anni. “Sono stata liberata nel maggio del 1945, unica sopravvissuta della mia famiglia. Ho compiuto 15 anni pochi giorni dopo il mio ritorno a Milano. Poi ho taciuto per molti anni: nessuno aveva voglia di ascoltarci, tutti avevano vissuto storie dolorose, chi mai aveva voglia di sentirne di ancor più dolorose? Ho ripreso la parola a 60 anni, quando sono diventata nonna. È stata la mia vittoria, senza odio, sulla morte, su Hitler e su Mussolini che avevano voluto le leggi razziali e lo sterminio: io ero viva, ero diventata mamma e perfino nonna. Aveva vinto la vita. Per questo ho deciso, dopo 45 anni di silenzio, di non restare più chiusa in casa, ma di testimoniare ciò che avevo vissuto affinché resti memoria”.
A settembre compirà 88 anni, Liliana Segre. È entrata in Senato – dice – “in punta di piedi” ed è uno dei cinque senatori a vita della Repubblica. “Oggi bisognerebbe avere la pazienza di leggere tutti gli articoli delle leggi razziali del 1938. Non solo quelli più noti, che ai cittadini italiani di religione ebraica proibivano di andare a scuola, di far parte dell’esercito, di lavorare nell’amministrazione pubblica… Ci sono imposizioni minori, ma non per questo meno gravi. Agli italiani di religione ebraica era proibito tenere cavalli e perfino pezze di lana (così da impedire il lavoro agli stracciai di Roma). Le proibizioni minori volevano raggiungere l’effetto di farti sentire diverso, inferiore, sottomesso”. È l’essenza di ogni razzismo, di ieri e di oggi, che non è mai una “goliardata”.

Il Fatto 20.8.18
Circolari e decreti: così partì la caccia contro i non ariani
di Massimo Filipponi


All’inizio fu il Manifesto. Quello sottoscritto da numerosi scienziati e docenti universitari che – sotto l’egida del Ministero della Cultura – fissa i punti fondamentali del fascismo sulla razza. È il 14 luglio del 1938 e su Il Giornale d’Italia appare il documento “Il fascismo e i problemi della razza”. Al punto 6 si stabilisce che “esiste ormai una pura ‘razza italiana’” e, al punto 9, che “gli ebrei non appartengono alla razza italiana”. Perciò – è il dispositivo del punto 10 – “i caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo”. Sarà il punto del non ritorno. Da “Mai Indifferenti”, la mostra della Sezione Anpi ‘Adele Bei’ della Cgil nazionale, promossa da Cgil nazionale e Spi nazionale (a Lecce alla V edizione delle Giornate del Lavoro dal 13 al 16 settembre), è tratto il materiale che riportiamo e che testimonia come la legislazione fascista tra la fine degli anni 30 e l’inizio degli anni 40 avesse come obiettivo la cancellazione della comunità ebraica dall’Italia. La circolare che stabilisce l’esclusione degli ebrei dalle accademie militari è datata 21 luglio 1938. Il 6 agosto è la volta dei docenti di razza ebraica che non possono più essere chiamati per supplenze e incarichi di insegnamento.
Il 17 agosto Galeazzo Ciano, ministro degli Affari esteri, dispone il licenziamento di tutti gli ebrei “impiegati locali all’estero e avventizi all’interno” del suo dicastero. Poi, con un regio decreto-legge, il 5 settembre si trasforma l’‘Ufficio centrale demografico’ in ‘Direzione generale per la demografia e la razza’, risponde a un prefetto che a sua volte dipende direttamente dal Ministero dell’Interno, ossia a Mussolini che ricopriva l’incarico ad interim dal 1926. Il 5 settembre segna la fine di ogni attività didattico-scientifica per gli appartenenti alla razza ebrea. Sempre attraverso un r.d.l. si stabilisce che entro la fine di ottobre insegnanti, assistenti, liberi docenti, professori ebrei dovranno essere allontanati da scuole statali e parastatali, dalle università, dalle accademie, dagli istituti e dalle associazioni di scienze, lettere e arti. Mentre il 13 settembre le “attenzioni” vengono rivolte agli studenti: non ci possono essere più alunni ebrei nelle scuole di qualsiasi ordine e grado; possono proseguire negli studi universitari solo gli ebrei già iscritti. Due circolari, una datata 1° e l’altra 30 settembre, chiudono il cerchio: i libri di testo di 114 autori ebrei vengono banditi da elementari e medie. Il 15 ottobre viene disposto il divieto per i quotidiani di pubblicare necrologi di ebrei, quattro giorni più tardi viene messa al bando la macellazione degli animali secondo l’uso ebraico.
Il 17 novembre vengono unificati in un solo corpo normativo (29 articoli) i principi presenti nella Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo del 6 ottobre. Questi i provvedimenti principali: gli ebrei non possono più essere cittadini italiani di “razza ariana”; gli ebrei non possono più prestare servizio militare né in pace né in guerra; gli ebrei non possono più possedere terreni con un estimo superiore a lire 5mila e fabbricati urbani con un imponibile superiore a 20mila lire; gli ebrei non possono più avere alle proprie dipendenze domestici italiani di razza ariana; gli ebrei non possono più lavorare nelle amministrazioni civili e militari dello Stato né al servizio del partito nazionale fascista né alle amministrazioni di Province e Comuni.

Repubblica 20.8.18
Quando l’Italia capì di essere razzista
di Natalia Aspesi


1938, Diversi da un’idea di Roberto Levi e Giorgio Treves (regista), andrà in onda su Sky Arte a ottobre, ma sarà presentato il 4 settembre fuori concorso alla Mostra di Venezia

Prima fuori concorso alla Mostra, poi su Sky Arte, " 1938. Diversi" il film di Levi e Treves per non dimenticare la vergogna di quei tragici eventi
Quell’anno, il 1938, segnò il tempo del massimo consenso per il Duce: chi si aspettava da lui il riscatto, il predominio, la felicità, riempiva le piazze, persino più dei salviniani di oggi. La minoranza altra si occultava, spaventata, colpevolizzata, ridicolizzata ancor più di adesso, e allora in pericolo di vita. In un clima di tale asservimento entusiasta, bastarono cinque mesi, da luglio a novembre, per dividere gli italiani di serie A di "razza ariana" (in realtà molto miscelata), da quelli di serie B, perché di "razza ebraica". «Sono impressionanti le immagini di Benito Mussolini che nella Trieste del 18 settembre (in agosto era stato pubblicato il "manifesto della razza", ndr) raggiunge il palco da cui instaura l’antisemitismo come un fondamento dell’ideologia di regime». Lo dice Sergio Luzzatto, storico e saggista, nel documentario di Sky Arte 1938- Diversi (il 4 settembre in anteprima fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia).
«Per ricordare, per sapere, per capire, per risvegliare l’interesse dei giovani con un linguaggio diretto», dice il regista Giorgio Treves. «Anche io ne sapevo poco. I miei genitori avevano lasciato l’Italia nel 1940 con l’ultima nave diretta negli Stati Uniti, io sono nato a New York nel 1945. Della vita familiare a Torino mio padre non parlava mai». Il produttore Roberto Levi c’era, nel 1938 aveva 4 anni, ma la sua famiglia riuscì a fuggire in Svizzera prima dell’invasione nazista e l’inizio delle deportazione nel novembre del 1943. La velocissima campagna antiebraica si conclude il 14 novembre ’38 in parlamento dove, ricorda la storica Liliana Picciotto, «l’approvazione di questi decreti-legge avviene in un’atmosfera di consenso furibondo a Mussolini. In pochi minuti si decise la sorte degli ebrei d’Italia». 80 anni fa, uno dei nostri tanti, tragici, vergognosi anniversari. Da un diario, letto dall’attore Roberto Herlitzka: «La maestra chiamò il mio nome, e disse, "Bassi esci dalla classe". Mi ritrovai nel grande cortile assolato della Diaz. Solo, e scoppiai a piangere». Liliana Segre, senatrice e sopravvissuta ad Auschwitz: «Molto spesso venivano in casa i poliziotti, ci trattavano da nemici della patria, con un atteggiamento di disprezzo, rude, di sospetto, che mi dava vergogna e paura, soprattutto paura». Aldo Zargani, scrittore: «Mi accorsi di essere ebreo, che stava cominciando qualcosa di terribile, il giorno in cui mio padre fu licenziato dall’orchestra dell’Eiar e diventammo una famiglia miserabile».
Poco a poco, studenti e insegnanti ebrei vengono allontanati da ogni ordine scolastico: vietati i testi di autori ebrei, via dagli impieghi pubblici, via dall’esercito, via dal partito fascista (anche quelli fascistissimi che avevano partecipato alla marcia su Roma e si erano iscritti ancora prima), proibiti i matrimoni misti, allevare piccioni, avere una cameriera cattolica, affittare le stanze ai non ebrei, poi anche andare al mare. Su certi negozi c’era il cartello "vietato agli ebrei" ricordano senza stupore Luciana Castellina, Picciotto e altri. La minoranza ebraica italiana (uno su mille) era molto integrata soprattutto da quando, nel 1848 lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia — lo racconta lo storico Alberto Cavaglion — aveva concesso ogni diritto, compresa la fine dei ghetti, agli ebrei. Allora, si chiede il film, in che modo Mussolini, il fascismo, sono riusciti a "inoculare" negli italiani l’antisemitismo? Con l’incessante propaganda al cinema, alla radio, coi manifesti, con le parate, con le canzonette, con i giornali, con le esibizioni a torso nudo del Capo, persino con la moda e il lusso per i ricchi e la battaglia del grano per i contadini; tutti in divisa, adulti e bambini, libro e moschetto (adesso forse il moschetto, ma non il libro), con il martellamento sulla superiorità fisica e intellettuale degli italiani, anche se allora in parte analfabeti e stroncati dai lavori faticosi. Una festa continua, una festa nel 1935 con la guerra d’Etiopia, spiega lo storico Mario Avagliano, e il razzismo rancoroso contro i "negri", gli africani (che del resto è rimasto una bella eredità). Poi con la guerra di Spagna contro i comunisti, oggi molto dormienti, e Mussolini che dichiara: «Quando finirà la Spagna, inventerò qualcosa d’altro. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento». E inventa gli ebrei.
Il documentario rappresenta la nostra pericolosa acquiescenza e fiducia al capo decisionista, in un tempo in cui non esistevano né tweet né selfie. Sfatata per l’ennesima volta l’idea degli italiani brava gente, perché se ci fu chi nascose e aiutò gli amici ebrei, tanti approfittarono della loro persecuzione o stettero zitti, come molti intellettuali. Non Toscanini, però e neppure papa Pio XI: morì prima che la sua enciclica antirazzista potesse uscire, ma disse «L’antisemitismo è un movimento odioso con cui noi cristiani non dobbiamo aver nulla a che fare. Spiritualmente siamo tutti semiti».
Hanno ragione gli autori a definire il film necessario perché «quegli eventi sia pure in modo diverso tornano a minacciare il nostro futuro. Abbiamo il dovere di mobilitarci e impedirlo». Con l’ultima immagine confusa di un carro bestiame verso il nulla, il doc si ferma sull’abisso del Dopo, per raccontare le responsabilità del Prima.

Il Fatto 20.8.18
Dentro il Paese delle frontiere
Il meticciato dei “discriminati” e la celebrazione dei confini inviolabili

di Furio Colombo

Torino, rione Crocetta, palazzina con cortile e giardino, i bambini giocano mal volentieri, tenendo d’occhio gli adulti. Gli adulti si agganciano a due a due, in lunghe e insolite conversazioni (qualunque incontro casuale dura troppo a lungo, oppure c’era un accordo, ma i bambini non lo sanno).
E poi ci sono le riunioni di adulti, dove la parola che gira è “discriminazione” che significa (come sempre accade nei Paesi sovranisti o fascisti) il contrario di quello che dice il dizionario.
Significa che sei discriminato dall’espulsione che colpisce i discriminati, perchè non sei abbastanza una cosa o l’altra.
Il punto di riferimento per i bambini della casa era una signora che abitava al secondo piano, una maestra in pensione che era già molto anziana, bravissima narratrice di fiabe, con voci e interpretazioni.
Il figlio era maggiore della milizia, lei era una convinta antifascista, che prima delle leggi razziali, fino all’ultimo giorno, aveva detto a tutti: state tranquilli, il re non lo permette.
Il re lo aveva permesso, aveva firmato e celebrato la persecuzione di una parte dei suoi cittadini.
Dentro il Paese delle frontiere (ogni canzone fascista a scuola celebrava i nostri confini inviolabili e quelli del nemico, che tra poco spezzeremo) era stata tracciata una frontiera tra vicini di casa, di scuola, di lavoro, di vita.
Ma aveva anche creato il meticciato dei “discriminati,” forse da cacciare, forse no, o forse a giudizio delle “autorità locali”, “viste le circostanze”, caso per caso.
Le famiglie che forse sarebbero state “discriminate”, e forse no, erano quelle attraverso cui passavano fili di ebraismo, di questo matrimonio, o di un matrimonio della precedente generazione, o più avanti ancora.
Oppure perchè un familiare acquisito si era inserito in un ramo o nell’altro della famiglia, intaccando la presunta purezza ariana raccontata dal “manifesto della razza”.
L’offesa dell’essere coinvolti nel gioco (positivo o negativo, come una malattia) della “discriminazione” era sentita in pieno. Ma in quel caso di percorso cieco, che cosa fai, vai a consultarti con i fascisti esperti di razza?
Il responso le “autorità” lo avrebbero dato a scuola, di lì a due mesi, direttamente ai bambini di coloro che non sapevano o avevano cercato di non sapere, e a cui era impossibile cercare chiarimento o consiglio.
Quell’estate ha fatto diventare i bambini più adulti (specialmente coloro che hanno visto in faccia l’evento della espulsione dalla scuola dei bambini contagiati, scoperti dalle “autorità” all’ultimo istante) e ha reso gli adulti più dispersi e incerti, salvo coloro che erano già coinvolti nell’antifascismo, e che rischiavano comunque ogni giorno in un altro modo, due percorsi che si sono congiunti pochi anni dopo alle Fosse Ardeatine.
Quell’estate (come dimostra il bel libro di Lia Levi “Questa sera è già domani”) è rimasta impressa per sempre nel conscio e nell’inconscio di coloro che c’erano e capivano ed erano dentro o a un passo da ciò che accadeva, qualcosa che era allo stesso tempo, spaventoso e impossibile al punto da fronteggiarlo con tentativi di ottimismo e con la persuasione che “in questo Paese, certe cose non succedono”.
Ma “certe cose” sono successe tutte. E questo spiega la voglia di non sapere di chi si sente, negandolo, vicino al fascismo, e vuole credere che si tratti di una idea, non di un delitto.

Repubblica Roma 20.8.18
Carceri polveriere sovraffollamento a livelli da record
di Flaminia Savelli


È allarme sicurezza nelle carceri del Lazio per il sovraffollamento. Una bomba a orologeria pronta a esplodere. E prima dei numeri che raccontano una situazione drammatica, ci sono i gravi episodi - con tre agenti feriti e una fuga sventata - che ad agosto hanno fatto scattare l’allerta.
L’ultimo è di sabato mattina quando a Mammagialla, penitenziario di Viterbo, durante i controlli gli agenti hanno trovato nascosti in una cella due cellulari con tanto di scheda sim e carica batterie.
La notte prima, a Cassino, due poliziotti penitenziari sono finiti intossicati al pronto soccorso con 5 giorni di prognosi perché un detenuto aveva dato fuoco a una cella. Ancora: il 16 agosto un altro detenuto a Rieti ha tentato di evadere dall’ospedale San Camillo De Lellis dove era stato ricoverato dopo essersi procurato delle lesioni mentre era in carcere. A fermare la fuga sono stati i poliziotti che lo piantonavano insieme all’aiuto dei vigilantes. Infine a Roma, a Casal del Marmo, il giorno di Ferragosto è scoppiata una rissa tra due stranieri, un ragazzo di origini arabe e un giovane di etnia rom. Una delle guardie intervenuta per separarli è stato spinto a terra e si è lussato una spalla.
Dopo la lite, i disordini si sono trascinati all’interno delle celle dove sono stati appiccati degli incendi. Gli agenti penitenziari, con gli estintori d’emergenza, hanno provveduto a spegnere le fiamme e a riportare la calma.
Ma le carceri sono una polveriera con una situazione arrivata ormai al limite della sicurezza, denuncia la Fns Cisl Lazio che conta – solo nel mese di agosto un sovraffollamento di 1.044 detenuti nelle prigioni regionali.
Risultano infatti 6.314 detenuti reclusi nei 14 istituti del Lazio rispetto a una capienza regolamentare prevista di 5.270. Nello specifico: a Regina Coeli, ce ne sono registrati 337 in più. A Rebibbia addirittura 380. La situazione non migliora a Velletri che conta un sovraffollamento di 144 unità. Neanche a Viterbo dove nell’ultimo mese, i detenuti in più sono 117 rispetto alla capienza regolare.
« Il numero crescente del sovraffollamento comporta gli innumerevoli eventi critici nei confronti del personale - spiega Massimo Costantino, segretario regionale aggiunto Cisl - Nelle ultime due settimane, abbiamo registrato risse e diversi episodi violenti. É paradossale – sottolinea che lo stato che deve garantire la sicurezza non riesca ad assicurarla neanche ai poliziotti nelle carceri. Occorrono più organici, più formazione, una diversa organizzazione del lavoro ed un sistema rieducativo che preveda benefici e anche sanzioni».
Un primato regionale negativo che già ad aprile era stato segnalato. Questa volta dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Stefano Anastasia: «Il Lazio ha un tasso di sovraffollamento pari al 121% che è superiore a quello nazionale pari al 115%», aveva sottolineato presentando la propria relazione. .
Un problema, quello del sovraffollamento, che riguarda però l’intero Paese: dopo la condanna del 2013 della Corte di Strasburgo, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa a marzo dello scorso anno, annotava che « le carceri italiane sono ancora troppo affollate » . Le autorità italiane avevano subito ribattuto che stavano prendendo le adeguate contromisure. Come permettere ai detenuti stranieri di scontare la pena nei loro paesi e di ricorrere con maggiore frequenza alle misure alternative alla detenzione. Un percorso a ostacoli che incontra continui stop e che mantiene ben oltre il limite tollerabile il numero di brande occupate nelle carceri.